HAKUYOH MARU - ESPLODE A GENOVA, 12.7.1981

HAKUYOH MARU - ESPLODE A GENOVA, 12.7.1981

GENOVA

(Porto Petroli Multedo)

12.7.1981 

INCENDIO  ESPLOSIONE

della super-petroliera giapponese

HAKUYOH MARU

Nave

Bandiera

StazzaL.

Portata

LunxLar

Anno Costr.

Hakuyoh M.

Giap.

59.060

93.425

281 x 46

Ante Banina

Iugosl.

55.875

81.188

244 x 42

1980

I.Prosperity

Liberia

42.605

89.479

254 x 39

1975

S.Ferruzzi

Italiana

29.081

50.482

195 x 32

1981

 

Luogo dell’incidente

All’interno del Porto Petroli di Multedo-Genova.

 

Causa dell’incidente

Un fulmine cade sulla petroliera che, ultimata la discarica di crudeoil sta pompando zavorra in previsione della partenza, già fissata per il tardo pomeriggio.

Testimonianza

Da “I Piloti della Lanterna” di Stefano Galleano, riportiamo:

– Il pilota di guardia Giancarlo Cerutti, così ci ha raccontato l’avvenimento: “Alle 14.50 ho visto un fulmine cadere sulla Hakuyoh Maru e dopo tre secondi la petroliera veniva squarciata da una tremenda esplosione con getto di rottami a grande distanza. Nel contempo si sprigionavano dalla cisterna alte colonne di fiamme e fumo densissimo.”

 

Comandante Giancarlo CERUTTI – Pilota del Porto di Genova

 

Nato ad Alassio il 3 Dicembre 1937, la passione per il mare arriva in modo naturale, la barca a vela e la pesca subacquea lo attraggono subito. Frequenta l’Istituto tecnico nautico Statale “Leon Pancaldo” di Savona, dove nell’anno  1955/56 si diploma Capitano di Lungo Corso. Dopo il diploma frequenta il 51° corso Allievi Ufficiali presso l’Accademia Navale di Livorno e ne esce come Guardiamarina. Inizia la sua carriera da terzo ufficiale, per ricevere 6 anni dopo il suo primo Comando. È l’inizio di una vita da Comandante. Nel 1971 vince il concorso per Piloti nel porto di Genova dove rimarrà fino al 1998. Un grande comandante, ricordato dai “lupi di mare” per essere stato l’eroe della Haven, che affondò tristemente al largo della costa tra Arenzano e Varazze.

Appena fu possibile, Cerutti contattò la Stazione Piloti richiedendo l’invio di altri colleghi per provvedere allo sgombero del porto.

Infatti si trovavano, sotto discarica ai pontili, altre quattro navi mentre una quinta era in allestimento all’Italcantieri.

“Ordinavo al timoniere Ottonello di dirigere a tutta forza verso il pontile Delta ponente dove stava bruciando la Hakuyoh Maru e dove al lato opposto, cioè al pontile Delta levante, era ormeggiata la  Ante Banina ritenendo che detta petroliera, avendo scaricato il prodotto ed essendo lambita dalle fiamme sospinte da una leggera  brezza da ponente, fosse quella con maggior pericolo di esplosione. Durante il tragitto, contattavo via VHF il comandante della Ante Banina e gli suggerivo di cominciare urgentemente a filare per per occhio in mare i cavi d’ormeggio, soprattutto a prora dove nessuna persona sarebbe stata in grado di mollare o tagliare i cavi dalle bitte del pontile, dato il fumo e le fiamme che sempre spinte dalla brezza di ponente, lambivano il pontile e la petroliera stessa”.

 

Operazioni di Salvataggio

Porto Petroli di Multedo

Da sinistra: Molo di Ponente, Pontile Alfa, Pontile Beta, Pontile Gamma, Pontile Delta. Ogni Pontile ha il lato d’ormeggio di Ponente ed il lato di Levante.

“Alle 15.00 sono salito a bordo della Ante Banina tramite una biscaglina di emergenza filata da una lancia di salvataggio. Mi sono reso conto del pericolo gravissimo che correva la nave e, d’accordo con il comandante, decidevo di lasciare l’ormeggio ed eseguire la manovra senza rimorchiatori, in quanto la manovra d’aggancio degli stessi avrebbe fatto perdere parecchio tempo e la nave sarebbe rimasta affiancata al pontile, come minimo, altri quindici o venti minuti esposta al tremendo calore sviluppato dalla petroliera in fiamme.”

12 Luglio 1981. Porto Petroli di Multedo (Ge): la petroliera HAKUYOH MARUa sinistra nella foto, é appena esplosa. Allo stesso pontile GAMMA é ormeggiata la M/c ANTE BANINA che é investita dal fuoco della HAKUYOH MARU. Il Pilota Portuale Giancarlo Cerutti, vista la catastrofica situazione di una possibile esplosione della nave, del Porto Petroli e forse di una parte della città alle spalle, decide di salire a bordo per allontanare la ANTE BANINA in estrema emergenza. Sale a bordo tramite la biscaglina sistemata sul lato sinistro della nave. Il ponte di coperta della nave é già incandescente, ma il pilota ha il coraggio di salire sul ponte di comando e, dopo aver fatto tagliare tutti i cavi d’ormeggio, riesce ad allontanare la nave senza rimorchiatori attaccati al cavo, e portarla in sicurezza in rada.

In questo momento Il fuoco é pericolosamente vicino alla poppa della M/c “INDUSTRIAL PROSPERITY” ormeggiata al pontile BETA Ponente; notare a destra della foto la M/c “ANTE BANINA” dirigere in emergenza fuori del porto con il Pilota G.Cerutti a bordo. 

Mentre Cerutti porta felicemente la Ante Banina in sicurezza fuori dal porto e dall’abitato di Multedo, i colleghi Giuseppe Verney e FrancescoMaggiolo, provenienti da Genova, si dirigono verso le navi Industrial Prosperity e Molara.

Nel frattempo giunge sul posto, il Capo Pilota Giuseppe Longo che unitamente al personale del Porto Petroli e della Capitaneria, contribuisce efficacemente all’organizzazione dei soccorsi.

Sbarcato dalla Ante BaninaCerutti si porta a bordo della Devali ormeggiata al pontile Beta ponente. Una parte dell’equipaggio é in fuga… sulla banchina.

“Visto l’esiguo numero di gente al posto di manovra, lo stesso Comandante, dopo avermi avvisato, si reca di corsa a poppa per aiutare a mollare i cavi. Sul ponte rimango io ed il timoniere. A prora due marinai riescono, dando i cavi di terra mollati dagli Ormeggiatori, ad agganciare due rimorchiatori.”

Poco dopo le 16.00 la nave é libera anch’essa e può procedere verso l’ancoraggio sicuro nella rada.

Infine, verso le 17.00, esce dal Porto Petroli anche la Serafino Ferruzzi disormeggiata dall’Italcantieri con il pilota G. Verney

Dal momento della caduta del fulmine sulla Hakuyoh Maru: 14.50, allo sbarco del pilota dalla Ferruzzi, sono trascorse due ore circa. In quell’arco di tempo cinque  navi in condizioni di grave rischio: sono uscite dal Porto Petroli e messe in sicurezza.

Ante Banina 

– Industrial Prosperity

Molara 

-Devali 1° le quali pur non correndo pericolo immediato avrebbero potuto essere coinvolte nell’incendio, tuttora in corso della sfortunata Hakuyoh Maru.

–Serafino Ferruzzi, ormeggiata all’Italcantieri, avrebbe potuto  correre seri rischi perché si trovava sottovento alla nave incendiata.

Questa operazione fu resa possibile grazie all’azione di tre piloti prontamente intervenuti e all’ausilio, spesso determinante e partecipe del personale dei rimorchiatori, di quello delle pilotine e degli ormeggiatori. Certo, non va taciuto l’intervento del personale di terra (Porto Petroli, Capitaneria, VV.FF.) nell’opera di spegnimento o di contenimento dell’incendio, ma senza la professionalità dei PILOTI nell’evacuazione delle altre navi cariche o in zavorra non inertizzata, i rischi corsi dalle installazioni portuali e, soprattutto dalle abitazioni del vicino centro di Multedo, sarebbero stati ben maggiori.

LE VITTIME

Purtroppo si dovette registrare la morte di quattro membri dell’equipaggio della petroliera giapponese Hakuyoh Maru ma anche di un tecnico della SNAM e di un guardiano di bordo.

I Protagonisti

Ai piloti, protagonisti di quella “calda” giornata vennero concesse le:

Medaglie al Valore di Marina

Giancarlo Cerutti (Argento)

Giuseppe Longo (Argento)

Giuseppe Verney (Argento)

Francesco Maggiolo (Bronzo)

GIANCARLO CERUTTI venne assegnato il premio dall’Istituzione dei Cavalieri di Santo Stefano intitolato:

UNA VITA DEDICATA AL MARE

Questo è solo uno fra i tanti riconoscimenti ottenuti nella sua lunga carriera, a questo se ne aggiungono altri che elenchiamo:

Nel 1981 viene decorato con la Medaglia d’Argento al valore di Marina per il comportamento tenuto in occasione dell’incendio ed esplosione della petroliera Giapponese “Hakuyoh Maru” colpita da un fulmine nel porto di Genova/Multedo.

Nel 1983 gli viene assegnata la  Targa d’argento da parte del Club Capitani di Mare di Milano, dal Collegio Naz. Patentati Cap.L.C.  E  D.M. Di Genova.

Nel 1985 gli viene assegnato il premio Una vita dedicata al mare” da parte del “Sacro Militare Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano” di Pisa.

Nel 1991 gli viene assegnato il “Premio S. Giorgio” da parte dell’Associazione Nazionale  Capitani di Genova.

Nel 1998 gli viene assegnato Il Cuore della Vecchia Alassio” da parte della stessa Associazione.

Nel 2006 gli viene assegnato  “L’Alassino d’oro” da parte del Comune della città di Alassio.

Attualmente, ritiratosi nella sua Alassio, non ha perso il suo interesse per il mare ed è docente presso la “Unitre” di Alassio, Università della Terza Età, per i corsi di “Astronomia e Navigazione”.

Ricordiamo che su questo stesso sito di Mare Notrum Rapallo ho dedicato al collega Giancarlo Cerutti la rievocazione dell’esplosione e successivo affondamento della superpetroliera HAVEN nella rada di Arenzano, avvenuta nel 1991, a dieci anni di distanza dalla esplosione della HAKUYOH MARU.

Ho salvato diciotto marinai ma per favore non chiamatemi eroe”.

«QUEL pezzo di carta per me vale più di ogni medaglia». Ore undici, secondo piano della Torre Piloti di molo Giano. Giancarlo Cerutti, oggi pilota del porto in pensione, quell’11 aprile 1991 era in servizio a Multedo. Fu lui a raccogliere per primo il “may day” della Haven e a partire insieme al timoniere con la pilotina verso il largo. Per aver salvato diciotto marinai lanciatisi fra le fiamme della petroliera Cerutti venne decorato con la medaglia d’oro al Valor di Marina, la più alta onorificenza in tempo di pace.  Ma la cosa che più inorgoglisce quest’uomo che ha lavorato per oltre quarant’anni prima di andare in pensione e ritirarsi ad Alassio, è un pezzo di carta: una lettera scritta a mano dal primo ufficiale della Haven che lo ringrazia, anche a nome di tutte le persone che Cerutti ha salvato.  Quel pezzo di carta termina con queste parole: «…consentendoci di tornare alle nostre famiglie». A Giancarlo Cerutti é stato chiesto: 

– “Comandante, si sente un eroe?” «Per carità, lasciamo perdere. Ho fatto l’unica cosa che dovevo fare, intervenire il più presto possibile. E se sono qui a raccontare quegli episodi è perché sono anche stato fortunato»

– “In che senso?” «La petroliera a fianco della Hakuyoh Maru poteva esplodere, ma siamo riusciti a toglierla in tempo dalla banchina a cui era ormeggiata. E la seconda esplosione, quando già eravamo sottocoperta, fece partire in orizzontale pezzi di ferro che avrebbero potuto distruggerci. Passarono a qualche metro di distanza»

– “Che cosa prova, a vent’ anni da quell’11 aprile 1991?” 

«La stessa intensa emozione e un grosso rammarico, quello di aver visto morire davanti ai miei occhi tre ragazzi, gettatisi in acqua e subito travolti dalle fiamme. Non dimenticherò mai le loro parole, Help pilot, help pilot”. Chiedevano aiuto, non ce l’abbiamo fatta»

– “Diciotto però li avete salvati”. 

«Sì, a ripensarci ora, a distanza di vent’anni, mi vengono addirittura in mente episodi un po’ buffi. Li racconto adesso, anche per stemperare un po’ la tensione. Un marittimo indiano si era gettato in acqua con la valigetta e non se ne voleva assolutamente liberare. Era intriso di petrolio, lo sollevai per i capelli. Un altro invece ebbe un infarto una volta salito sulla pilotina. Ricordo che istintivamente gli diedi la mia giacca, per coprirlo. Quando tornai a terra mi venne in mente che dentro alla giaccia c’erano le chiavi di casa e anche quelle della torretta dei piloti. Non potei far altro che aspettare e dopo un paio d’ore venne la polizia a restituirmi la giacca».

ALBUM FOTOGRAFICO

La foto del primo allarme in porto il 12 luglio 1981 sulla petroliera giapponese Hakuyoh Maru.

Ecco come si é presentata la “coperta” della petroliera Hakuyoh Maru pochi giorni dopo l’esplosione avvenuta il 12 luglio 1981 a Multedo, agli ormeggiatori del porto che si sono recati a bordo in servizio sostitutivo di equipaggio: prima per il ripristino degli ormeggi, giacché la nave era pericolosamente inclinata, poi per il trasferimento dal pontile Delta, al campo boe dell’Italcantieri.

Questa immagine rende l’idea della Terrificante esplosione che ha letteralmente squarciato la coperta della HAKUYOH MARU.

Notare lo sbandamento della nave nelle foto sopra

A sinistra della nave il rimorchiatore PANAMA alla spinta durante il trasferimento del relitto al campo boe dell’Italcantieri.

TERMINAL PETROLI MULTEDO

Il terminale petrolifero di Genova Multedo é uno dei maggiori d’Italia e d’Europa. Insieme a Trieste e Marsiglia occupa una posizione di predominio nella movimentazione e nel traffico di prodotti petroliferi. In Italia é considerato prima dei porti di Augusta, Melilli e Sarroch che pur vantano un considerevole traffico. Il movimento di prodotti di Multedo é valutato nell’ordine di 30 milioni di tonnellate annue. Attraverso Multedo vengono alimentate le raffinerie più importanti del Nord Italia e per mezzo di oleodotti lunghi 2.000 km circa anche quelle della vicina Svizzera e della Germania. Multedo, che si estende per circa 345.000 mq di cui ben 134.000 di aree di terra, é stato realizzato a tappe a partire dagli anni 60. Esso si articola in un porto interno, ove trovano ormeggio fino a 10 navi in simultanea, e due strutture al largo per navi di grande tonnellaggio. Infondo al Porto Petroli vi sono le strutture del Cantiere Navale di Sestri Ponente e i pontili della Lega Navale, riservati alla nautica da diporto I pontili sono difesi dalle mareggiate dall’ampia spianata delle piste dello aeroporto C. Colombo e dalla diga foranea. Essi costituiscono autentici baluardi contro il mare. Il porto interno, oltre ai 4 pontili, ALFA-BETA-DELTA-GAMMA, dispone di ulteriori 4 accosti per navi con prodotti speciali, immediatamente a ridosso del molo Occidentale, sulla sinistra, appena entrati nel bacino petrolifero. Menzione a parte meritano i lavori di ristrutturazione da poco conclusisi, per garantire ulteriore e maggior sicurezza sia per l’ambiente primariamente, sia per le stesse navi, fattore determinante per un terminale cosi’ nevralgico.

INFRASTRUTTURE

Il porto Petroli di Genova é gestito dall’omonima Società per Azioni. 

Il porto petroli si compone di una banchina e 4 pontili: la prima viene utilizzata per il carico/scarico di prodotti chimici. I 4 pontili, denominati alfabetagamma e delta ed il primo dei quali risulta fuori servizio, servono per lo scarico del greggio e per il carico/scarico di prodotti lavorati.

Il pontile delta, presentando un pescaggio maggiore, può ospitare anche le più moderne petroliere. Tale pontile, però, presenta un problema connesso con il previsto spostamento verso mare dell’area occupata da Fincantieri esso dovrebbe passare fuori servizio, poiché le saldatrici non potrebbero stare così vicine ai prodotti trattati. Per colmare questa lacuna si è ipotizzata costruire una paratia tra Fincantieri e porto; il problema appare tuttavia rimandato a causa della crisi subita dal settore della cantieristica.

Un’ulteriore infrastruttura (Piattaforma) è costituita dall’ormeggio offshore, danneggiata nel 2008 da una mareggiata e da allora fuori uso, cui si aggiunge una boa monormeggio, anch’essa fuori servizio.

Una rete di oleodotti collega il porto petroli a diverse raffinerie del nord Italia e quella di Aigle, in Svizzera; tale rete consente di evitare qualsiasi attività di stoccaggio o trattamento dei prodotti petroliferi.

SISTEMI DI SICUREZZA

A causa dell’elevata infiammabilità dei prodotti trattati, il porto attua una severa politica per la sicurezza, che prevede un sistema antincendio con cannoni che gettano acqua di mare mista a schiumogeno, testati una volta al mese.

Alla base di ogni pontile è presente un bunker antincendio, dal quale gli operai, una volta rifugiati, possono eventualmente controllare tutti i cannoni ad acqua e schiumogeno.

In porto le navi hanno la consegna di tenere sempre i motori accesi, per essere pronte a mollare gli ormeggi e allontanarsi in caso di emergenza. Inoltre è prevista una prova mensile antincendio, con la partecipazione di tutto il personale del porto e dei vigili del fuoco interni e statali.

Tutti i pontili sono dotati di un cosiddetto “sentiero freddo”, un corridoio con muri d’acqua che in caso di incendio si attiva e consente la fuga delle persone presenti nell’area. Una norma antiterrorismo impone inoltre che tutto l’equipaggio delle navi venga trasportato in autobus dal pontile fino all’esterno del porto petroli.

Alcuni dati tecnici del  Porto Petroli di Multedo (Genova).

A sinistra il Molo OVEST, operativo per piccole petroliere: Lunghezza =890 mt

W.1 – Lunghezza utile =   70 mt – Pescaggio  4,9 mt

W.2 – Lunghezza utile = 100 mt – Pescaggio 10,7 mt

W.3 – Lunghezza utile = 160 mt – Pescaggio 10,9 mt

W.4 – Lunghezza utile = 107 mt – Pescaggio 4,88 mt

Gli ormeggi W-1.2.3.4 sono destinati a navi con prodotti speciali, in particolare gli ormeggi W-2 e 3 sono dotati di cosiddetti PANTOGRAFI appositamente progettati per prodottiestremamentepericolosi.
Un ulteriore ormeggio e’ previsto fra le zone ALFA e BETA; esso e’ lungo 60 mt con una profondita’ di 5,3 mt.Tale ormeggio e’ riservato per carichi bituminosi e olii combustibili.

Seguono, sempre da sinistra verso destra, i pontili che possono ospitare petroliere sempre più grandi:

Il pontile ALFA (ponente e levante)       Pescaggio = 11,5 mt – Lunghezza Utile= 214 mt (Lev)-242 mt (Pon)

Il pontile BETA (ponente e levante)       Pescaggio =13,5 mt –  Lunghezza Utile= 222 mt (Lev)-242 mt (Pon)

Il pontile GAMMA (ponente e levante) Pescaggio = 15,2 mt – Lunghezza Utile= 276 mt.(Lev)-256 mt (Pon)

Il pontile DELTA (ponente e levante)    Pescaggio = 15,2 mt – Lunghezza Utile=325 mt (Lev)-330 mt (Pon)

 

Il Porto Petroli visto da terra. In alto, si può notare la vicinanza della pista di atterraggio dell’Aeroporto, il Canale di calma, la diga foranea e poi la rada.

 

Notare in questa immagine il “pantografo” che collega le linee di discarica della petroliera al pontile

L’autore di questo saggio ha avuto il grande PRIVILEGIO di essere collega del Pilota Giancarlo Cerutti (nella foto) per 25 anni. Come tutti i veri “uomini di mare”, Giancarlo non ama parlare di sé, ma soltanto del mondo del mare, di nuoto, di pesca subacquea, di navi, di amici di bordo, di Storia Navale mercantile/militare e di materie professionali. Il PILOTAGGIO per lui é sempre stato  sinonimo di “missione” da compiere e, come si é visto, un “dovere” ancora più importante della sua stessa vita. 

Da nessuna parte é scritto che il Pilota debba “rischiare la vita” – ma lui l’ha fatto! Non si é tirato indietro dinanzi al fuoco e alle esplosioni perché su quelle navi ed in mare tra le fiamme c’erano dei padri di famiglia. Giancarlo Cerutti é un fulgido testimone del grande passato marinaro del nostro Paese. Mi AUGURO che questo articolo sia letto e assimilato specialmente dai giovani che si accingono ad andare per  mare affinché lo affrontino con lo spirito giusto, quello che ci ha testimoniato Giancarlo Cerutti: la vita di chiunque é sacra! Ma quella del “marittimo” lo é ancora di più! 

La spiegazione sta nel concetto stesso di solidarietà di cui in terra si parla, ma in mare si applica. Oggi l’uomo di mare é il salvatore, il giorno dopo, lo stesso, potrebbe essere il salvato

Eccovi in breve ciò che accadde alla fine degli anni ’90 del secolo scorso, al pilota genovese Giorgio MORESCHI.

Per un errore di manovra della Pilotina, lo sfortunato  Pilota cadde in mare  mentre saliva sulla biscaglina di un cargo cinese. In pochi attimi il vento ed il mare lo schiacciarono contro la murata della nave abbrivata in avanti e, quando ormai Giorgio era a pochi metri dall’elica in moto, il Comandante cinese fermò  all’ultimo istante  il motore e quindi il propulsore. 

Giorgio Moreschi rimase incastrato nella gabbia dell’elica e dovette seguire le infinite immersioni ed emersioni della poppa del cargo sottoposta a forte beccheggio.  Il salvataggio fu lungo e doloroso, ma alla fine, il Pilota riuscì miracolosamente a salvarsi. In ospedale furono necessari parecchi giorni per liberargli i polmoni dall’acqua di mare ingerita… Ma alla fine poté ritornare alla sua famiglia, proprio come i naufraghi della HAVEN...

Che dire? 

– In terra quasi più nessuno crede ai miracoli…!

– In mare quasi tutti ci credono! Ma non é superstizione!

 

Carlo GATTI

Rapallo, venerdì 13 Ottobre 2017


LA DEA ROMA - UNA STATUA FAMOSA SULLA NAVE PASSEGGERI ROMA

 

LA DEA ROMA

UNA STATUA FAMOSA SULLA NAVE PASSEGGERI

ROMA

Quando le navi viaggiavano anche sui mari della Storia ... 

 La nave Entrò in servizio il 21 settembre 1926. Nel corso della Seconda guerra mondiale la nave venne requisita dalla Regia Marina per essere trasformata in portaerei. Ribattezzata AQUILA,* non entrò mai in servizio e dopo la guerra venne smantellata nel 1952

 

LOCANDINE E CARTELLONISTICA PUBBLICITARIA

All’atto della sua fondazione, il 4 settembre 1881, la Navigazione Generale Italiana (NGI) era una tra le più importanti e blasonate Compagnie di Navigazione al mondo. Nacque con la denominazione:

 

“Navigazione Generale Italiana, Società Riunite Florio e Rubattino”

Come dice la sua stessa “ragione sociale”, fu il frutto della fusione tra due flotte importanti.

Di questi due grandi Imperi Navali ci siamo già occupati. Ne riporto i LINK:

  • La saga dei Florio

https://www.marenostrumrapallo.it/flo/

  Il genovese Raffaele Rubattino non fu solo un armatore illuminato

https://www.marenostrumrapallo.it/ruba/

 

Le navi più celebri della N.G.I furono le seguenti:

Manifesto pubblicitario commissionato dalla N.G.I. nell'estate

del 1926 per celebrare l'entrata in servizio della ROMA.

Con le turbine sotto pressione davanti a Genova.

 

La ROMA in navigazione alla fine degli anni '20.

 

La ROMA a fianco dell'AUGUSTUS e della DUILIO 

ormeggiati in porto a Genova.

 

Una bellissima immagine della ROMA ripresa in navigazione nel Mar Ligure

intorno ai primissimi anni'30.

In crociera nel Mediterraneo nell'estate del 1932.

 

Seguono alcune immagini della ROMA con la nuova ed elegante livrea bianca che fu adottata per renderla più adeguata alla nuova attività di "nave da crociera" per cui era impegnata per buona parte dell'anno. Da questa livrea nacque il mito della "Lido Fleet" italiana: così descritta dalla pubblicità:

l'amatissima flotta delle navi bianche ed immacolate con l'immancabile piscina a farla da padrona, circondata da un ampio "ponte lido" corredato di ogni piacevolezza.”

 

Ormeggiata alla Stazione Marittima di Napoli nel 1936, con la nuova livrea bianca adottata per l'attività crocieristica.

 

In porto a Boston durante una crociera in Labrador, Nuova Scozia e Quebec nell'estate del 1938.

 

 

Una immagine della ROMA con la livrea bianca da crociere ripreso in navigazione nell'estate del 1938.

Si nota, verso l'estremità di poppa, la piscina ed il Lido allestito ad uso della classe Turistica nel 1936.

 

Il 21 settembre 1926 la più grande e veloce nave di linea italiana fino allora costruita lasciava il capoluogo ligure per il suo viaggio inaugurale a New York nel tripudio generale.

 

Interni della ROMA

Cabina di 1a Classe

 

ROMA - Sullo sfondo la statua della Dea ROMA

Ecco il commento riportato dall'Associazione Culturale ITALIAN LINERS:

Una bella immagine d'insieme della Grand Hall Centrale, chiamata "Aula Magna". L'ambiente era molto solenne, forse troppo freddo e formale per una nave, dominato dalla statua della Dea Roma  e scandito dal ritmarsi dei cassettoni del soffitto in legno intagliato e dipinto. A rendere più luminoso e "leggero" il salone contribuivano i sottili pilastri in legno sbiancato e scolpito ad arte. Da notare le plafoniere poliedriche "stellate", tornate di moda in anni recenti come una grande ed esotica "novità". 

La Navigazione Generale Italiana celebrò l’evento con numerosi manifesti pubblicitari dedicate alla nave. La più bella e originale di tutte resta molto probabilmente quella realizzata dalla “Stamperia d’arte Richter” di Napoli, che sfoggia in copertina la testa della DEA ROMA in peltro e che era riservata ai passeggeri della classe di lusso. L’entrata in servizio della nuova ammiraglia, e lo era non solo della compagnia armatrice ma soprattutto della marina mercantile italiana, in un periodo di feroce competizione per dimensioni e prestazioni e di corsa sfrenata al lusso, venne accompagnata da una generosissima campagna pubblicitaria che celebrava in termini altisonanti quella che veniva chiamata “il Monumento del Mare”.

ALBUM FOTOGRAFICO DEL VARO DELLA T/N ROMA

L'attività dei Cantieri Navali Odero di Sestri Ponente-Genova si legò soprattutto a Compagnie come Navigazione Generale Italiana (N.G.I) con la costruzione di navi passeggeri, mentre quella dell'Ansaldo restò legata a commesse militari statali, tanto che nel 1871, proprio alla vigilia dell'estensione della rete ferroviaria, aveva cessato la produzione di locomotive per dedicarsi alle forniture militari. 

Alla fine del 1924, la Società Odero e C. di Genova che gestiva il Cantiere della Foce, fu incorporata dalla Società in Accomandita ODERO fu Alessandro e C. di Genova Sestri e, nel 1926, la nuova Società si trasformò nella Cantieri Navali Odero S.p.A con un capitale di 40 milioni di lire.  

Nel 1933, insieme alla maggior parte della cantieristica navale italiana, il suddetto cantiere entra a far parte nel nascente IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) che lo rilancerà, tanto che alla vigilia della Seconda guerra mondiale  arriverà a contare circa 36.000 dipendenti.

 

 

 

IL VITTORIANO - LA DEA ROMA

Il nome deriva da Vittorio Emanuele II, il primo re d'Italia. Alla sua morte, nel 1878, fu deciso di innalzare un monumento che celebrasse il Padre della Patria e con lui l'intera stagione risorgimentale. Il Vittoriano doveva essere uno spazio aperto ai cittadini. Il complesso monumentale venne inaugurato da Vittorio Emanuele III il 4 giugno 1911. Fu il momento culminante dell'Esposizione Internazionale che celebrava i cinquanta anni dell'Italia unita.

Nel complesso monumentale, sotto la statua della Dea Roma, è stata tumulata, il 4 novembre del 1921, la salma del Milite Ignoto in memoria dei tanti militari caduti in guerra e di cui non si conosce il nome o il luogo di sepoltura.

L'altare della Patria è solo una parte del complesso, nata da un'idea del 1906. Il concorso venne vinto dallo scultore bresciano Angelo Zanelli. L’edicola al centro dell’Altare della Patria con la statua della dea Roma e la Tomba del Milite Ignoto.

 

Il nome della città eterna che portava, e la “romanità” propugnata dal governo fascista erano ben rappresentate dal Salone Centrale della nave ROMA, un ambiente sontuoso che era dominato da una grande statua raffigurante la Dea Roma. opera di Angelo Zanelli ed esatta replica di quella dell’Altare della Patria.

Certamente la ROMA era una nave imponente, la prima nave italiana a piazzarsi nella classifica dei grandi “Liners”: solo la Majestic, la Olympic, la Leviathan, l’Aquitania, la Berengaria e la Paris la superavano in dimensioni (ma fra queste navi solo la Paris fu  varata nel dopoguerra). Imponente ma “vecchia” del design, infatti la ROMA non si libererà dall’essere il prodotto di una progettazione già antiquata e questo si può dire anche relativamente alle sue macchine: quattro gruppi turbo-riduttori a singola demoltiplicazione, ognuno formato da due turbine Parsons, ad alta e bassa pressione.

Apparentemente in continuità con lo SHAPE della DUILIO, in realtà ne rappresenta un po' un ritorno al passato: si abbandona la poppa a incrociatore per quella più tradizionale a clipper, mentre le sovrastrutture ritornano basse, sicuramente meno  pronunciate rispetto a quelle adottate per la DUILIO; tuttavia la linea della ROMA appare comunque molto bella, gradevole all’occhio, slanciata ed elegante al pari di quella di uno yacht di lusso; così venne descritta dagli esperti dell'architettura navale dell'epoca!

Riprendiamo da alcuni manifesti pubblicitari:

“Gli allestimenti interni della nuova ammiraglia furono affidati allo Studio Ducrot (per gli ambienti e gli alloggi di Prima classe) in cui si snodavano una carrellata di stili che correvano dal Rinascimento al Neoclassico, traendo ispirazione dalle correnti decorative veneziane, napoletane, siciliane e piemontesi.

Unitamente allo Studio Ducrot collaborarono alle decorazioni degli interni diversi artisti: Galileo Chini, Giambattista Comencini, Corrado Padovani, Ernesto Basile, Leonardo Bistolfi, Adolfo De Carolis e Angelo Zanelli. Gli ambienti sociali di Prima classe erano organizzati su quattro ponti: “Sport Deck”, Boat Deck”, “Promenade Deck” e “A Deck”.

 

Sul “Sport Deck” si trovava, esteso per quasi un centinaio di metri, un vasto spazio adibito ai giochi di ponte: tennis, volano, tiro al piattello, gioco degli anelli e delle piastrelle, pedana per la boxe e la scherma, ect; a centro ponte era collocata la Palestra. Nell’estate del 1928 venne installata a poppa un’ampia piscina all’aperto (7,2 mt x 5 mt), circondata da un “colonnato” corinzio con ghirlande floreali in ferro battuto, lampioncini ed una fontana a bocca di leone: lo spazio attorno venne attrezzato con sdraio, ombrelloni e tavolini in legno di teak.

 

La Grand Hall centrale, detta “Aula Magna”, si ispirava all’architettura del primo Rinascimento veneziano: soffitto a cassettoni policromi arricchiti da bellissime plafoniere pensili “stellate”, una volta centrale a botte affrescate ed illuminata da dodici vetrate a lunetta, pareti con pilastri e pannelli floreali e corinzi in legno scolpiti e rivestimenti in damasco giallo oro, divani e poltrone in cuoio scuro e damasco cremisi (forse un po’ troppo austeri nella forma), un ampia profusione di tappeti persiani di seta, ed alla parete di prua, dentro una nicchia, una statua in avorio raffigurante la DEA ROMA.

Negli Anni ‘80 la statua della DEA ROMA fu ritrovata intatta in un magazzino portuale (Calata Gadda) del Porto di Genova, dopo cinquant’anni di oblio totale fu restaurata e riportata all’antico splendore dalla Stazione Marittima Porto di Genova con la collaborazione della Rochem Marine s.r.l. -  La statua di ROMA ETERNA, nata per essere esposta sulla nave Passeggeri ROMA nel 1926, oggi tutti possono ammirarla, sul lato sud della Stazione Marittima di Genova. L’Artista che la scolpì in marmo si chiamava Angelo Zanelli 1848-1942, (autore della statuaria dell’Altare della Patria a Roma).

 

Per un’opera salvata tante sono andate perdute… aveva ragione Indro Montanelli quando affermava: ”un popolo che ignora il proprio passato, non saprà mai nulla del proprio presente.”

UN PO’ DI STORIA

Dal sito ROMANO IMPERO: riprendiamo brevemente alcuni temi di Storia Patria ed altrettante significative immagini.

IL CULTO DELLA

DEA ROMA

Nella città di Roma, il più antico culto di Stato alla Dea Roma fu legato al culto di Venere nel Tempio adrianeo di Venere e Roma. Questo fu il più grande tempio della città, probabilmente dedicato alle feste Parilia, in seguito chiamate Romae in onore di Roma.

 

La Dea Roma, fin dal II sec. a.c., fu la divinità che personificava lo stato romano e fu posta proprio in Campidoglio, aveva la corona turrita sul bel capo e la palla in mano, che non è la terra perché a quel tempo la sua sfericità non era ignorata, però come simbolo della sapienza era la luna piena, pomo della sapienza, vedi le Esperidi, la palla di Venere ecc..

Le tradizioni la videro in vari modi. La più antica la individua nella prigioniera troiana che accompagnava Ulisse ed Enea quando approdarono insieme sulle rive del Tevere venendo dal paese dei Molossi, cioè dall'Illiria.

La leggenda narra che l'equipaggio di Ulisse, in cui si trovava Roma insieme alle altre prigioniere di guerra, fu travolto da una tempesta che lo scaraventò sulla coste del Lazio. Le schiave imprigionate, capeggiate da Roma, e stanche delle peregrinazioni, diedero fuoco alle navi.

Ne conseguì che i compagni di Ulisse si stabilirono sul colle Palatino, dove la città che fondarono prese il nome dell'eroina che aveva deciso le sorti di un popolo e dato origine ad una nuova civiltà.

 

ROMA FIGLIA DI TELEMACO

In un'altra leggenda fu figlia di Telemaco e della stessa maga Circe, quindi sorella del Re Latino e nipote di Ulisse.

 

LA DEA ROMA

Statua raffigurante la dea Roma, rappresentata nella fontana di

Piazza del Popolo a Roma

La scultura raffigurante la Dea Roma si trova al centro dell’Altare della Patria, una grande ara votiva dedicata alla nazione italiana progettata dall’architetto Giuseppe Sacconi e decorata dallo scultore bresciano Angelo Zanelli tra 1911 e il 1925.

All’interno di un’edicola con il fondo di mosaico dorato, la Dea si erge con il peplo romano e la pelle di capra, un elmo e una corona con teste di lupo, una lancia nella mano destra e la statuetta di una Vittoria alata nella sinistra. L’iconografia deriva dalle raffigurazioni di Atena, la dea greca della sapienza, Minerva nel mondo romano.

 

Statua raffigurante la DEA ROMA al

 VITTORIANO

 

Statua raffigurante la DEA ROMA alla

ARA PACIS

 

In fondo al Salone della Stazione Marittima di Genova è stata collocata la statua di “Roma Eterna” che fu scolpita da A. Zanelli (1848 – 1942) per essere posizionata nel salone di prima classe del transatlantico ROMA orgoglio della marineria italiana. La statua fu ritrovata da Francesco Scotto dopo 50 anni di abbandono e di oblio, restaurata e riportata all’ antico splendore dalla Stazione Marittima Porto di Genova con la collaborazione della Rochem Marine s.r.l. Per un’opera salvata tante sono andate perdute… aveva ragione Indro Montanelli quando affermava: ”un popolo che ignora il proprio passato, non saprà mai nulla del proprio presente.”

 

* A proposito della portaerei AQUILA  (ex transatlantico ROMA)…..

 

Spesso si ricorre all’affermazione del Duce che sosteneva:

“L’Italia non ha bisogno di portaerei perchè l’Italia è già una portaerei nel Mediterraneo”.

Ormai è comprovato che mai fu detta tale espressione! Al contrario, furono certi alti vertici della Marina che sabotarono tutto ed in un interessantissimo libro – “La portaerei del Duce” di Daniele Lembo, della Ma.Ro editrice, Copiano di Pavia – si sostiene chiaramente che furono, appunto, proprio gli ammiragli della Regia Marina, con la loro specifica competenza, a dissuadere il Duce dall’impegnare i cantieri italiani nella costruzione di navi portaerei e non certo, quindi, Mussolini che, anzi, chiese sempre lumi, informazioni e pareri sulla possibilità che l’Italia fosse in grado e, per la guerra, urgente la costruzione di portaerei! Addirittura, Mussolini in un convegno di ammiragli, dichiarò apertamente: “Sono qui per imparare. Conto sulla vostra collaborazione allo scopo di rendere sempre più efficiente la nostra Marina»! Ebbene, in quella occasione, la quasi la totalità degli ammiragli presenti votarono contro la realizzazione di portaerei, perché ritenuto da loro non necessarie, né utili, insistendo affinché Mussolini si convincesse, definitivamente, che simili grandi navi non servissero, assolutamente, proprio a niente! Dopo, però, le perdite nel Mediterraneo, Mussolini respinse, finalmente, tutte le opinioni dei “grandi ammiragli” italiani, ed ordinò l’immediata costruzione di portaerei! Le due grandi navi passeggeri “Roma” ed Augustus furono così trasformate in portaerei, diventando, rispettivamente, “Aquila”“Sparviero” e, in particolare, la prima fu completata ed era tra le più belle del mondo, così non avvenne per la seconda, che finì affondata dai tedeschi all’imboccatura del porto di Genova. 

Bibliografia:

STORIA DEI TRASPORTI ITALIANI - TRASPORTI  MARITTIMI DI LINEA - Ogliari /Radogna - Volume terzo

I GIGANTI DI LINEA - Vincenzo Zaccagnini - Mursia

ENCYCLOPEDIA OF OCEAN LINERS 1860-1994 - William H. Miller jr

Carlo GATTI 

Rapallo, 27 Aprile 2022 

 


DUE VESPUCCI FAMOSI

- ARTE-MARE -

DUE VESPUCCI FAMOSI

PARTE PRIMA

Statua di Amerigo Vespucci – Uffizi - Firenze

AMERIGO VESPUCCI

Firenze 9 marzo 1454 – Siviglia 22 febbraio 1512

Un personaggio che fa ancora discutere …

Perché l’America si chiama così? Si dice che deve il suo nome ad Amerigo Vespucci... ma non la scoprì Colombo?

Risponde Alessandro Barbero – docente universitario di Storia Medievale

“…non voglio fare l'accademico pedante, ma debbo intervenire per amore di verità sulla risposta data dal collega Barbero al lettore che chiedeva perché l'America si chiama così ("Specchio" N. 230, 24.6.2000, pp. 45-46). In effetti, l'opinione secondo la quale: "Colombo rimase sempre convinto che le isole da lui scoperte fossero parte del continente asiatico ... non riuscì a persuadersi che quella [Venezuela] fosse davvero la terraferma d'un nuovo continente", è solo uno dei tanti gravi errori d'interpretazione della vicenda colombiana (che presenta molti più lati "oscuri", ancora oggi, di quanto non si pensi), ampiamente diffusi purtroppo anche presso gli "specialisti".

A prescindere dal fatto se Martin Waldseemüller - il geografo di Saint-Dié-des-Vosges che ai primi del '500 battezzò il Nuovo Mondo in onore del Vespucci - ritenesse sinceramente valida o no detta motivazione (sembrerebbe che fosse caduto in un involontario equivoco, dal momento che in una successiva carta del 1516 rinnegò la sua stessa proposta, eliminando ogni riferimento al nome America), e se parimenti di essa fossero in buona fede persuasi i successivi fautori di quella controversa denominazione (che ha sicuramente a che fare anche con contrapposizioni politico-religiose: i cattolici spagnoli ad esempio non la accettarono per qualche secolo, mentre la sua diffusione fu immediata nei paesi protestanti), è abbastanza facile dimostrare che siamo di fronte a una spiegazione errata, ancorchè "comoda", appunto perché dà una facile risposta a un quesito al quale non sarebbe altrimenti così agevole rispondere (le risparmio le mie personali congetture, una cui traccia si potrebbe trovare nel sito web segnalato in calce).

Cito allo scopo alcune affermazioni che la dicono lunga sulla questione, tratte da lettere di Pietro Martire d'Anghiera, un "amico personale dello scopritore", che al tempo viveva presso la corte dei re di Spagna, o meglio di Aragona e di Castiglia ("La scoperta del Nuovo Mondo negli scritti di P. M. D'A.", Nuova Raccolta Colombiana, Comitato Nazionale per le Celebrazioni del V Centenario della Scoperta dell'America, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, Vol. VI, Libreria dello Stato, Roma, 1988, p. 6):

1 - lettera del novembre 1493 ad Ascanio Sforza: "Quel Colombo, scopritore di un NUOVO MONDO, nominato dai miei Re capo del mare Indiano" (loc. cit., p. 47);

2 - lettera del 20 ottobre 1494 a Giovanni Borromeo: "Di giorno in giorno, notizie sempre più straordinarie sono riportate dal NUOVO MONDO, grazie a quel ligure Colombo, nominato Ammiraglio dai miei Re per le sue imprese portate a buon fine" (loc. cit., p. 49).

3 - lettera scritta il 9 agosto del 1495 al Cardinale spagnolo Bernardino de Carvajal: "[Colombo] venne a sapere attraverso i suoi interpreti indigeni ... che in nessun luogo si interrompeva la terra: sa dunque per certo che si tratta di un continente" (loc. cit., p. 73).

Parole che non lasciano adito a dubbi. Come vede, si parla sin da subito di un NUOVO Mondo (novembre 1493; Colombo aveva fatto ritorno dal suo primo viaggio nel mese di marzo), e sin da subito fu altresì chiaro che questo Nuovo Mondo era un intero continente. È vero infatti che l'ultimo brano citato è del 1495, ma bisogna tenere conto del fatto che Colombo fece rientro a Cadice, al termine del suo secondo viaggio (iniziato nel settembre 1493), soltanto nel giugno del 1496!

Il continente asiatico, si potrebbe in effetti replicare, ma allora perchè chiamarlo "Nuovo Mondo"? E comunque, accettata pure questa ipotesi, risulterebbe di conseguenza alquanto improbabile che Colombo potesse escludere in modo assoluto che quella da lui toccata nel corso delle esplorazioni successive "fosse davvero la terraferma" di un tale, più "vecchio" che non "nuovo", continente.

A complicare le cose, c'è da aggiungere un'informazione assai poco nota, che dà spazio a nuove congetture sul quadro concettuale in cui le terre scoperte venivano collocate, almeno da parte di persone appartenenti a certi particolari "ambienti". L'esistenza di un "continente sconosciuto" dislocato di fronte alle coste occidentali europee ed africane era stata infatti prevista circa due secoli prima dal famoso Raimondo Lullo ("Quodlibeta", Questione 154, Tomo IV), un autore che Colombo conosceva bene:

"La principale causa del flusso e del riflusso del Mar Grande o del Mar d'Inghilterra è l'arco dell'acqua del mare che a ponente appoggia o confina in una terra opposta alle coste dell'Inghilterra, Francia, Spagna e di tutta la confinante Africa, nella quale gli occhi nostri vedono il flusso e riflusso delle acque perché l'arco che forma l'acqua come corpo sferico è naturale che abbia appoggi (confini) opposti su cui posare, poiché altrimenti non potrebbe sostenersi. Per conseguenza, così come in questa parte appoggia sul nostro continente, che vediamo e conosciamo, nella parte opposta di ponente appoggia sull'altro continente che non vediamo e non conosciamo fino ad oggi; però per mezzo della vera filosofia, che riconosce ed osserva mediante i sensi la sfericità dell'acqua ed il conseguente flusso e riflusso, il quale necessariamente esige due sponde opposte che contengano l'acqua tanto movimentata e siano i piedistalli del suo arco, si inferisce logicamente che nella parte occidentale esiste un continente nel quale l'acqua mossa va ad urtare così come rispettivamente urta nella nostra parte orientale".

Questa speculazione, che fu a lungo oggetto di meditazione, anche se "riservata", da parte di tutti gli "addetti ai lavori" (e certo non minore fonte di ispirazione per la stessa impresa di Colombo, il quale andava a cercare tutt'altro che una nuova rotta per la Cina, portandosi dietro specchietti e perline non certo per i civilissimi cinesi descritti nel "Milione" di Marco Polo!), mostra che gli autentici retroscena di una così importante vicenda, giustamente prescelta a segnare il confine tra Medioevo ed Età Moderna, sono completamente ignorati dalla superficiale "vulgata" corrente, e che invece di accontentarsi di sbrigative spiegazioni come quella precedentemente discussa, molto più bisognerebbe ancora riflettere ed approfondire...

 UN PO’ DI STORIA:

AMERICA, STORIA DI UNA PAROLA.

Come abbiamo appena letto, fu il cartografo tedesco Martin Walseemüller a battezzare (con qualche dubbio sollevato dal prof.Barbero) AMERICA  l’intero continente in onore di Amerigo Vespucci. In un volume del 1507, Cosmographiae introductio, che riportava in 12 fogli una mappa del mondo allora conosciuto (o immaginato), Waldseemüller scrisse “America” sulle terre che s’erano appena cominciate a scoprire. Merito del Vespucci era d’aver capito la “nuova geografia” novità alla quale aveva dato nome MONDUS NOVUS. Nel 1650 i coloni usavano America per indicare soltanto le colonie britanniche del Nord. E risale al 1781 l’uso d’indicare con America soltanto gli Stati Uniti.

Ma poiché America designava un continente, il termine Americani fu (anche) riferito ai suoi abitanti originari, quelli che Colombo aveva chiamato INDIANI. A metà del Settecento, Americani erano gli Indiani per il saggista inglese Joseph Addison, che chiamava invece “Inglesi trapiantati” i coloni. Ma già nel 1697 Cotton Mather, grande esponente  degli ambienti puritani della Nuova Inghilterra, si era servito della forma “americano” per indicare se stesso e i suoi concittadini.

La definizione “Stati Uniti d’America” appartiene infine a Tom Paine, uno dei padri dell’Indipendenza. “Siamo sovrani in quanto Stati – aveva scritto - il nostro grande titolo è di essere AMERICANI”.

Nel 1791 George Washington inserì l’abbreviazione U.S. E compare nel 1795 la sigla (odiata o amata che sia) ormai a tutti: U.S.A.

LA CARACCA DEL NAVIGATORE AMERIGO VESPUCCI

La caracca: Si tratta di un bastimento di alto bordo e di gran portata a quattro o cinque coperte, con due castelli uno a poppa e l'altro a prua, tre alberi, vele quadre,  gabbie, parrocchetti, la mezzana latina. La sua portata è di 2.000 tonnellate. Veniva usata da tutte le nazioni, ma particolarmente da Genovesi e Portoghesi, per il traffico e qualche volta anche in guerra.
Il castello, sia a prua che a poppa, è una sovrastruttura leggera, praticamente una piattaforma, circondata da una balaustra o da un grigliato per non pesare sulle estremità della nave.
Inizialmente era fornita di due soli alberi, quello di maestra e quello di mezzana. La spinta maggiore viene naturalmente dalla vela più grande, una sola vela quadra sull'albero di maestra.
Con il tempo le viene apportata una modifica e viene aggiunto un terzo albero. E' da tener presente che ogni albero ha una sola vela ed è quadra. Le manovre dipendono dalle due vele più piccole, quella dell'albero di mezzana e quella dell'albero di trinchetto.
Successivamente anche le vele vengono modificate. Viene aggiunto un pennone al bompresso sul quale viene issata una vela quadra e sopra la maestra viene innalzato un alberetto sul quale è infierita una vela di gabbia, sempre quadra.

I viaggi in America

(Riassunto breve da Wikipedia)

Primo viaggio (1497-1498)

Vespucci partecipò al viaggio di esplorazione con Juan de la Cosa.  Il probabile comandante di questa spedizione fu Juan Diaz de Solis. Probabilmente fu il re Ferdinando II d’Aragona a volere questa spedizione, per rendersi conto se la terraferma fosse realmente distante dall'isola di Hispaniola e avere così una visione più ampia e precisa delle nuove terre.

Secondo viaggio (1499-1500)

Vespucci partecipò a una spedizione guidata da Alonso de Ojeda. Nella spedizione vi era anche il cantabrico Juan de la Cosa, famoso pilota e cartografo. Dopo aver toccato terra in corrispondenza dell'odierna Guyana, i due si separarono. Amerigo continuò verso sud fino a toccare la foce del Rio delle Amazzoni, all'incirca a 6° S. Successivamente Vespucci proseguì verso sud fino al Cabo de São Roque, circa 30 km a nord dell'odierna città di Natal.  Quindi la spedizione rientrò verso nord riconoscendo l’isola di Trinidad e il fiume Orinoco prima di fare ritorno in Spagna. 

Terzo viaggio (1501-1502)

In questo periodo, Amerigo viaggiò al servizio del Portogallo.  Nel 1501 prese parte a una spedizione comandata da Goncalo Coelho.  Prima di giungere nelle Americhe, la spedizione si era fermata alcuni giorni nelle isole di Capo Verde ed aveva incrociato le navi di Pedro Alvares Cabral, esploratore portoghese di ritorno dal suo viaggio in India. A Capo Verde Vespucci conobbe l'ebreo Gaspar da Gama che gli descrisse i popoli, la fauna e la vegetazione dell’India. Comparando questo racconto con quello che poi osservò, giunse nel 1501 alla conclusione che le terre che stava visitando non potevano fare parte dell’Asia ma costituivano quello che lui definì il NUOVO MONDO. 

Quarto viaggio (1503-1504)

Nel suo quarto viaggio, sempre comandato dai portoghesi, Vespucci individuò un'isola situata nel bel mezzo dell'oceano che fu successivamente battezzata Fernando de Noronha, in onore di uno dei componenti dell'equipaggio. Quindi la spedizione continuò verso le coste dell'attuale Brasile, ma non ci furono importanti scoperte.

da Wikipedia:

Amerigo Vespucci osservava attentamente il cielo, e la notte del 23 agosto del 1499, durante il suo secondo viaggio scrisse: 

«In quanto alla longitudine dico che per conoscerla incontrai moltissima difficoltà che ebbi grandissimo studio in incontrare con sicurezza il cammino che intraprendemmo. Tanto vi studiai che alla fine non incontrai miglior cosa che vedere e osservare di notte la opposizione  di un pianeta con un altro, e il movimento della luna con gli altri pianeti, perché la Luna è il più rapido tra i pianeti come anche fu comprovato dall'almanacco di Giovanni da Monteregio, che fu composto secondo il meridiano della città di Ferrara concordandolo con i calcoli del Re Alfonso: e dopo molte notti passate ad osservare, una notte tra le altre, quella del 23 agosto 1499, nella quale vi fu una congiunzione  tra la Luna e Marte, la quale congiunzione secondo l'almanacco doveva prodursi a mezzanotte o mezz'ora prima, trovai che all'uscire la Luna dal nostro orizzonte, che fu un'ora e mezza dopo il tramonto del Sole, il pianeta era passato per la parte di oriente, dico, ovvero che la luna si trovava più a oriente di Marte, circa un grado e qualche minuto, e alla mezzanotte si trovava più all'oriente quindici gradi e mezzo, dimodoché fatta la proporzione, se le ventiquattrore mi valgono 360 gradi, che mi valgono 5 ore e mezza? Trovai che mi valevano 82 gradi e mezzo, e tanto distante mi trovavo dal meridiano della cidade de Cadice, dimodoché assignando cada grado 16 e 2/3 leghe, mi trovavo 1374 leghe e 2/3 più ad occidente della cidade de Cadice.»

 

«La ragione per la quale assegno ad ogni grado 16 leghe e 2/3 è perché secondo Tolomeo e Alfagrano, la Terra ha una circonferenza di 6.000 leghe, che ripetendosi in 360 gradi, corrisponde ad ogni grado a 16 leghe e 2/3 e questa proporzione la provai varie volte con il Punto Nave di altri piloti cosicché la incontrai vera e buona.»

In seguito a questi ragionamenti vari astronomi e cosmografi dell'epoca e delle epoche successive riconobbero che Vespucci aveva inventato come verificare una longitudine con il metodo della distanza lunare.  Ad esempio nel 1950, l'astronomo del Vaticano, il professor Stein, disse: «Mi meraviglia che fino ad oggi nessuno abbia verificato le osservazioni fatte da Vespucci nella notte del 23 agosto 1499, dove calcolava la posizione relativa di Marte e della Luna in quell'epoca». Da tutto ciò si evince che Vespucci sapeva benissimo dove si trovasse, ed era in grado più di ogni altro di fare il punto nave con precisione.

 

FONTI DELL’AUTORE:

IL TRATTATO DI TORDESILLAS di Carlo GATTI

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=397;tordesillas&catid=36;storia&Itemid=163

STRETTO DI MAGELLANO di Carlo GATTI

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=403;mag&catid=36;storia&Itemid=163

COCCA, CARAVELLA E CARACCA di Carlo GATTI

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=669;crisco&catid=36;storia&Itemid=163

Tutto inLa risposta a ciò che cerchi.

Wikipedia – Amerigo Vespucci

Treccani – Vespucci Amerigo

Tuscanypeople-Amerigo Vespucci, il grande controverso Navigatore Fiorentino

I Percorsi della Storia-Atlante - I Percorsi della Storia-Manuale (2 volumi)

Istituto Geografico De Agostini – Corriere della Sera

 

 

PARTE SECONDA

SIMONETTA VESPUCCI 

della dinastia Cattaneo – Genova, fu una gentildonna tra le più note del Rinascimento

Genova 28.1.1453 - Piombino 26 aprile 14756

Fu la modella di Botticelli per la Nascita di Venere

 

Nascita di Venere di Botticelli, Galleria degli Uffizi (1482–1485 ca.).

 

Primavera di Botticelli, Galleria degli Uffizi, (1482 ca.).

 

Flora, l'allegoria della primavera stessa. Essa, vestita di fiori e cinta con girlande fiorite, annuncia l'arrivo della nuova stagione. Qualcuno ha supposto, senza base documentaria, che possa essere il volto di Simonetta

 

UN PO’ DI STORIA:

Della bella Simonetta Vespucci s’innamorò perdutamente Giuliano de’ Medici, fratello di Lorenzo il Magnifico. Ricordiamo, per la cronaca che Giuliano fu pugnalato a morte nella famosa Congiura dei Pazzi, il 26 aprile 1478 alle 13.30, nella chiesa di Santa Maria del Fiore – Firenze.

La bella Simonetta convolò a nozze nell’aprile del 1469, appena sedicenne, con il giovane sposo Marco VESPUCCI, cugino del famoso navigatore Amerigo Vespucci, nella chiesa gentilizia genovese di San Torpete (foto sopra), alla presenza del Doge di Genova e di tutta l’aristocrazia cittadina.

“Il giovane sposo era da poco stato inviato dal padre Piero a Genova per studiare i sapienti ordinamenti del Banco di San Giorgio, con cui aveva stretti rapporti lo stesso Jacopo III e di cui era procuratore appunto Gaspare Cattaneo, che nel 1464 era stato testimonio della dedizione di Genova a Francesco Sforza, duca di Milano. Marco Vespucci, accolto dai Cattaneo, si era innamorato perdutamente della bella Simonetta e il matrimonio era stato una logica conseguenza, visto l'interesse dei Cattaneo a legarsi con una potente famiglia di banchieri fiorentini, intimi dei Medici. La recente caduta di Costantinopoli e la perdita delle colonie orientali aveva infatti particolarmente colpito economicamente e moralmente la famiglia Cattaneo”.

L’arrivo della coppia a FIRENZE (città di VESPUCCI), coincise con la nomina di Lorenzo il Magnifico a capo della Repubblica. Gli sposi furono accolti nel Palazzo Medici di via Larga e seguirono festeggiamenti sontuosi nella Villa di Careggi.

“L'apice si raggiunse con il "Torneo di Giuliano", un torneo cavalleresco svoltosi in Piazza Santa Croce nel 1475. Qui Giuliano de' Medici, secondo quanto immortalato dal poemetto Stanze per la giostra di Giuliano de’ Medici di Angelo Poliziano, promise e dedicò la vittoria a Simonetta, presente tra il pubblico. Portò uno stendardo, che si ipotizza dipinto dal Botticelli e che raffigurava Simonetta nei panni allegorici di Venere-Minerva con ai piedi Cupido incatenato ed il motto “La sans” par scelto personalmente da Lorenzo. Simonetta fu la trionfatrice e venne proclamata "regina del torneo", offrendo personalmente a Giuliano il premio della giostra, un elmo di squisita fattura realizzato nella bottega del Verrocchio. La sua grazia aveva ormai conquistato tutti a Firenze, in primis Giuliano diventato suo amante. Dopo la morte di Simonetta, Giuliano ebbe una sola relazione con una dama fiorentina: Fioretta Gorini della famiglia dei Pazzi, che gli darà anche un figlio, Giulio il futuro pontefice Clemente VII.  Il Pulci  le dedicò alcuni sonetti e anche il Magnifico la celebrò nelle sue “SELVE D’AMORE”. 

LA MORTE colse Simonetta Vespucci il 26 aprile 1476, a l’età di soli ventitré anni, a causa di tisi o polmonite. Indagini successive conclusero   che Simonetta fosse in realtà affetta da adenoma ipofisario con secrezione di prolattina ed ormone della crescita, era sicuramente sterile e che l'aumento di volume del tumore la condusse alla morte.

Nella letteratura

Simonetta fu ricordata e celebrata da Giosuè Carducci nella prefazione: Stanze per la giostra del Poliziano.

Anche Gabriele D’Annunzio l’ha immortalata nel suo Alcyone.

«O Toscana, o Toscana,
dolce sei tu ne' tuoi orti
che lo spino ti chiude
e il cipresso ti guarda,
dolce sei nelle tue colline
che il ruscello riga
e l'ulivo t'inghirlanda...
O Fiorenza, o Fiorenza,
giglio di potenza
virgulto primaverile;
e certo non è grazia alcuna
che vinca tua grazia d'aprile
quando la tua valle è una cuna
di fiori di segni di pace
ove Simonetta si giace.»

Aprile infatti è il mese in cui Simonetta morì.

FONTI:

Il Primo Quattrocento n.5 - Il Rinascimento n.6 - Enciclopedia dell’Arte Universale-36 Volumi-Corriere della Sera

Conoscere i Grandi Musei-Ist.Geografico De Agostini-Novara/Uffizi-Firenze - 6 Volumi

Carlo GATTI

Rapallo, 13 Aprile 2022

 


RAPALLO NELLA STORIA NAVALE

RAPALLO NELLA STORIA NAVALE

 

Fonte: Il Mare

Rapallo - Sullo sfondo la nave ORONTES che il 22 maggio 1933 diede fondo l’ancora nel nostro golfo. La nave ospitava 400 passeggeri inglesi che alle ore 8 sbarcarono a Rapallo, ripartendo lo stesso giorno alle ore 16. Molti di questi facoltosi passeggeri fecero visita e giocarono al campo Golf di Rapallo.

La ORONTES nel Tigullio

Le foto della ORONTES ancorata nel golfo di Rapallo appartengono alla collezione Sergio Schiaffino che ringrazio

 

STORIA DI UNA NAVE

“ORONTES”

Questa nave fu l’ultima di una serie di cinque navi da 20.000 tonnellate che furono costruite negli Anni ’20 per la celebre Compagnia Marittima inglese ORIENT LINE in servizio sulla linea dell’Australia. Le altre erano: ORAMA (1924), ORONSAY e OTRANTO (1925), la ORFORD (1928).

La Peninsular and Oriental Steam Navigation Company , meglio conosciuta con le lettere P&O, fu  fondata a Londrannel 1837  da due uomini d'affari e politici britannici Brodie McGhie Willcox e Arthur Anderson  e dal capitano Richard Bourne. Era la più antica società di crociere  e le principali compagnie di navigazione sin dalla sua fondazione nel xix ° secolo, che opera in particolare nel Mediterraneo,  sulla rotta per l’India, l’Estremo Oriente e l’Australia.  A dominare la spedizione sulla strada est, ha giocato un ruolo importante nella emigrazione europea in Australia nel xix ° secolo e xx ° secolo. È stata anche pioniera nel mercato crocieristico in cui ha continuato ad operare sin dal suo assorbimento nel GRUPPO CARNIVAL, leader mondiale nel settore.

La ORONTES fu costruita Barrow nel Cantiere Vickers-Armostrong. Fu varata il 26 febbraio 1929 e fu completata a luglio. Partì da Londra per il suo viaggio inaugurale diretta a Brisbane il 26 ottobre di quell’anno.

Barrow-in-Furness o, più semplicemente Barrow (ca. 60 000 ab.) è un borgo nella contea inglese della Cumbria, sulla penisola di Furness, della quale è il centro abitato più popoloso. Affacciata sul Mar d’Irlanda, è situata circa 50 km   a nord di Blackpool.  La città appartenne, fino al 1974, alla contea storica del Lancashire. 

La ORONTES era un’elegante e molto attraente nave passeggeri come le sue gemelle (near-sisters). Lo scafo aveva la poppa ad “incrociatore” e la prua elegante e affilata per la sua epoca al contrario delle altre sue gemelle che avevano una prua più verticale. Ben disegnate e proporzionate erano le sovrastrutture con due ciminiere molto slanciate. Indovinate per capacità di trasporto delle sei stive destinate su distanze notevoli.

La ORONTES realizzò con successo le prove per il rodaggio di tutti i suoi macchinari, dopo il suo arrivo a Southampton partì per un particolare charter. Insieme alla Orford diventarono ufficialmente le due navi OSPITI del Trofeo Schneider “air race” tenutosi a Calshot nel 1929 dove le fu concesso un eccellente punto di osservazione.

Trascorse un periodo crocieristico di rodaggio “Shakedown”, nel 1934 venne in Mediterraneo con un nutrito programma di visite promozionali per il turismo inglese e fu in questa occasione che visitò il GOLFO TIGULLIO del quale sono rimaste alcune fotografie che pubblichiamo a breve. Possiamo anche aggiungere che sul finire della crociera la nave incaglio, senza gravi danni a Gallipoli.

Nei primi mesi della guerra continuò i viaggi per l’Australia sfruttando la sua buona capacità di trasporto passeggeri, ma soprattutto di carico nelle sue stive per cui divenne molto popolare e richiesta da quelle parti.

Nell’aprile del 1940 fu requisita dalla U.K. per il “trasporto Truppe”. Il suo primo viaggio in questo suo nuovo ruolo bellico, strano a dirsi, fu il trasporto truppe dall’Australia a Singapore.

Quando la nave ritornò in U.K. ebbe una frenetica attività di “trasporto militari” verso il Medio Oriente, spesso accoppiata con altre navi passeggeri.

Verso la fine del 1942 la ORONTES fu fortemente impegnata nella Campagna del Nord Africa nello sbarco a Orano delle truppe alleate.

In qualche occasione trasportò anche mezzi da sbarco anfibi per cui gli sbarchi dei militari venivano effettuati con molta rapidità.

Nel luglio del 1943 la nave ebbe una parte molto attiva nello sbarco degli Alleati in Sicilia, presso la spiaggia di Avola. Durante queste operazioni militari si trovò spesso sotto attacco di aerei nemici. Ma riuscì sempre a cavarsela.

Si distinse anche negli sbarchi degli Alleati a Salerno.

Più tardi fu impiegata nuovamente per il trasporto truppe su lunghe distanze: Bombay in particolare.

Nel 1945 ritornò in Estremo Oriente, sia in Australia sia per trasporto truppe francesi a Saigon.

Infine fu impiegata per il rimpatrio dei prigionieri di guerra in U.K.

Nell’aprile del 1947 la ORONTES concluse il suo periodo come “nave militarizzata”. Durante i suoi sette anni sotto il controllo governativo, ha percorso 370.000 miglia e trasportato circa 125.000 soldati.

Nel periodo 1947-48 la nave fu sottoposta ad importanti lavori di “reconditioning” e ammodernamento degli interni presso il Cantiere Thornycroft di Southampton.

Nel giugno 1948 riprese stabilmente i suoi viaggi per l’Australia e nel 1953 fu convertita esclusivamente in nave passeggeri – classe unica – destinata al trasporto  di allevatori per l’Australia e Nuova Zelanda.

La ORONTES partì per il suo ultimo viaggio da Tillbury per l’Australia il 25 novembre 1961 ed al ritorno fu tolta dal servizio.

Fu infine venduta ad una ditta spagnola di demolizione. Il 5 marzo 1962 arrivo a Valencia e lì terminò la sua FORTUNATA vita di mare.

Tre delle quattro navi gemelle: ORAMA, ORONSAY e ORFORD furono dichiarate:

 “perdite di guerra”.

Fonte:

BEKEN OF COWES (fotograph) – OCEAN LINERS -  By Philip J. Fricker

Libera traduzione di Carlo Gatti

Rapallo, 6 Aprile 2022


LA TRAGEDIA DEL "MONTELLO" DISSOLTO IN UNA PALLA DI FUOCO

LA TRAGEDIA DEL "MONTELLO" DISSOLTO IN UNA PALLA DI FUOCO

Introduzione di Carlo GATTI

Ogni tanto mi capita di ritagliare articoli di Storia marinara che conservo in un cassetto per poi approfondire, arricchire, ricostruire e pubblicarne la rivisitazione  sul nostro sito. Della tragedia del MONTELLO presi coscienza ai tempi del Nautico di Camogli quando me ne parlò un mio compagno di scuola che in quella tragedia perse un parente a lui molto caro.

Di quel tragico capitolo di storia nostrana: nave costruita a Riva Trigoso, Armatore Genovese, Equipaggio rivierasco, non ne sentii più parlare per molti decenni. A risvegliare in me quel ricordo fu una pagina ormai ingiallita del Secolo XIX, che in data 3 giugno 2011, in occasione del 70° anno della tragedia del MONTELLO, pubblicò con la firma del giornalista Roberto Pettinaroli e che conservai come una reliquia nell’attesa di recuperare i nomi dello sfortunato equipaggio.

Purtroppo, quasi subito, mi resi conto che esistevano solo notizie frammentarie sul tragico evento bellico nel quale fu  colpita la nave genovese.   L'articolo di Pettinaroli  è quindi l'unica fonte a me nota, ed  oggi ve la propongo in versione integrale perchè merita di essere letta e meditata non solo per la precisa e puntuale narrazione storica, ma anche e soprattutto per il linguaggio “marinaro” usato che solo un rivierasco di razza può permettersi. Aggiungo infine che l’atmosfera, purtroppo tragica che lo impregna, è figlia del coinvolgimento emotivo e nostalgico dell’autore di cui soltanto sul finire del racconto si può oggettivamente comprenderne tutte le motivazioni che vi lascio intuire.

Confido  nei nostri Amici “conservatori” dei Musei Marinari della Riviera  che forse potranno recuperare i nomi e cognomi dello SFORTUNATO EQUIPAGGIO del MONTELLO affinché possa rimanere viva  la memoria dei loro nomi e cognomi non solo presso i loro discendenti, ma anche nelle pagine della storia locale della nostra Riviera. 

7 dicembre 1926 - VARO DEL PIROSCAFO MONTELLO al Cantiere navale di Riva Trigoso

di Alberto PETTINAROLI

E’ UNA MATTINA già calda davanti alle coste dell’Africa settentrionale. Il sole è quasi all’orizzonte e l’aria è tiepida, come dev’essere all’inizio di giugno. Il convoglio AQUITANIA, con il suo incedere lento e sicuro, è arrivato quasi a destinazione e procede compatto, in parallelo rispetto al litorale tunisino.

   E’ partito nel pomeriggio di due giorni fa da Napoli e oggi – 3 giugno – sta solcando, via canale di Sicilia, le acque del Mediterraneo meridionale, diretto a Tripoli. Come sempre in queste missioni, la formazione è stata a lungo studiata dallo stato maggiore della Marina. Il convoglio è composto dai piroscafi Aquitania, Caffaro, Nirvo, Beatrice Costa, Montello e dalla cisterna Poza Rica. A scortarli, quattro cacciatorpediniere (Aviere, Camicia Nera, Geniere, Dardo) e la torpediniera Missori. La protezione a distanza è fornita dalla VIII Divisione Navale, rappresentata dagli incrociatori ABRUZZI E GARIBALDI. Un apparato di sicurezza imponente, con un compito preciso: scortare la spedizione e tenere alla larga possibili pericoli. Il carico più vulnerabile e prezioso procede in mezzo: tra questi c’è il “MONTELLO”, stipato all’inverosimile, nelle sue stive, di benzina, munizioni ed esplosivi. Carburante e proiettili ed esplosivi. Carburante e proiettili – in tutto, 4.500 tonnellate – sono destinati alle nostre truppe impegnate nel teatro d’operazioni libico. E’ la primavera del 1941 e l’Italia intera è mobilitata nel tentativo di assecondare le ambizioni imperialiste del suo duce. In questo periodo, le sempre più pressanti richieste di rifornimento di combustibili e munizioni per il fronte libico si intensificano, se possibile, ancor più. E a giugno il valore dei materiali trasportati raggiunge una delle cifre più alte di tutta la guerra, 100 mila tonnellate, con perdite nell’ordine del 6 per cento dei quantitativi partiti.

   Accade, così, che non solo i soldati abili e arruolati, ma anche i civili in grado di servire alla bisogna vengano militarizzati e spediti a far la loro parte per assicurare alla patria un posto al sole e – soprattutto – un invito al banchetto dei grandi d’Europa che si preparano a spartirsi il mondo. Anche le navi, come gli uomini, subiscono la stessa sorte. E’ un regio decreto del 13 luglio 1939 a permetterlo e in base a questa legge cambia lo status giuridico delle unità navali, che da navigli mercantili si trasformano in unità belliche. Il “Montello” non costituisce un’eccezione. Viene requisito dal ministero della Marina e militarizzato con tutto il suo equipaggio. Il piroscafo è stato costruito a Riva Trigoso e varato il 17 dicembre 1926 su ordine della compagnia di navigazione “Alta Italia” di Genova (poi diventerà Nai) la società armatrice. Il Montello non è una nave attrezzata per operazioni belliche: è solo un mercantile. Lungo 116 metri, largo 16,6 nel punto massimo, alto al ponte di coperta 8,26, ha una stazza di 6.117. Prima dell’entrata in guerra dell’Italia è sempre stato utilizzato per movimentare merci da e per il porto di Genova, sulle rotte del Mediterraneo.

E anche in seguito, dopo la sua militarizzazione, ha fatto la spola tra le sponde del grande mare per trasferire derrate alimentari e apparecchiature a chi combatteva sul “bel suol” africano. Ma questa volta è diverso. Stavolta non si tratta di un viaggio come gli altri: la plancia della nave è satura di liquido altamente infiammabile ed esplosivi e tutti e 33 gli uomini che il piroscafo ha imbarcato per questa missione sono perfettamente consapevoli che la spedizione è ad altissimo rischio. Per questo il piroscafo ha una scorta così robusta, anche se le misure di sicurezza rischiano di attirare il nemico. Non si è faticato, comunque, a mettere insieme l’equipaggio da imbarcare: c’è la guerra e ci sono madri, mogli e figli, a casa, che aspettano lo stipendio per tirare avanti. Quando si ha chiara la percezione del pericolo che si corre, ogni minuto “pesa” come un’ora e ogni ora come un giorno. Ma adesso, a bordo, la tensione inizia a stemperarsi. La costa tunisina è in vista già da tempo e il secondo di coperta ha appena dato l’ordine all’equipaggio di sfilare i giubbotti di salvataggio.

“Nostromo, dove ci troviamo esattamente?”. “Secche di Kerkennah”. Tripoli, il porto, la salvezza ormai sono lì, a portata di mano. Un gabbiano in volo radente va a posarsi sul castello di prua. Un marinaio lo osserva e scruta l’orizzonte. Sta pensando a casa. Grazie Signore, forse è davvero finita, forse l’abbiamo fatta. Intanto il suo sguardo abbraccia Kerkennah (Cercara, in italiano), un gruppo di isole pianeggianti – l’altitudine massima è 12 metri – fra le Pelagie e la costa orientale tunisina, davanti a Sfax, abitate in origine da popolazioni libico-berbere. Proprio un bel posto per vivere. Quel marinaio non sa, non può sapere che un ricognitore inglese ha avvistato il convoglio nelle ore antimeridiane a sud di Pantelleria e ha allertato una squadriglia di cinque bombardieri che, nel frattempo, si è già alzata in volo da Malta. La squadriglia avvista il convoglio intorno alle 14 grazie anche alla bassa velocità (8 nodi) dei piroscafi. In un primo momento gli aerei alleati si tengono a distanza, perché sopra il convoglio incrociano due Cr-42. Alle 14.30 gli apparecchi da caccia si allontanano lasciando nel cielo solo un Cant Z501 che segue a prora le navi in ricognizione antisommergibile. Alle 14.54 gli aerei inglesi entrano in azione. Vengono avvistati a una distanza di circa 4 mila metri, a dritta, poco lontani dalla direzione del sole. Sono cinque, in formazione a triangolo e volano bassissimi, a una quota di circa 50 metri sul mare. Il comandante della flottiglia di scorta al convoglio - che si trova in latitudine 35° 25’ 30” Nord, longitudine 11° 57’ 30” Est – dà l’allarme e chiede l’intervento degli aerei da caccia, mentre tutte le unità e i piroscafi aprono il fuoco con le mitragliere. Ma il loro tiro è difficoltoso perché gli apparecchi arrivano controsole e volando a una quota così bassa, sono seminascosti dagli scafi delle unità navali. Un rombo di motori e gli aerei piombano sulla verticale dei piroscafi. Sganciano il loro carico di morte e un attimo si scatena l’inferno. Il “MONTELLO” è centrato in pieno da una bomba. Terrificante la testimonianza di un guardiamarina imbarcato sulla Missori, una delle cinque torpediniere di scorta:

Uno scoppio terribile, un’enorme fiammata e il “MONTELLO” è scomparso in una palla di fuoco. Una visione che rivedremo poi nel fungo dell’atomica a Hiroshima e Nagasaki. L’esplosione improvvisa delle munizioni di cui era carica la nave è stata così violenta da causare la caduta di uno degli aerei inglesi, risucchiato dal vortice di calore, e di una miriade di schegge di ogni forma e dimensione che hanno seppellite – colpendole – le navi del convoglio. Tutti siamo rimasti attoniti e sconvolti: la nave è sparita in meno di dieci secondi, letteralmente dissolta in aria. E con la nave tutto il povero equipaggio”.  

Storditi da quanto è appena avvenuto, i marinai della torpediniera trovano comunque il modo di ripescare e portare in salvo i due aviatori inglesi dell’apparecchio abbattuto.

Per i 33 marinai del “MONTELLO” (marittimi e militari addetti alla mitragliera) non c’è scampo. Alcuni abitano nel Tigullio. Uno di loro si è trasferito qualche anno prima con la moglie e i tre figli a Lavagna da Marciana Marina (Isola d’Elba) per essere più vicina a Genova e agli imbarchi. Al lavoro, al pane. Si chiama Guido Casabruna, ha 37 anni, è fuochista addetto alla caldaia a carbone del “Montello”.

Guido Casabruna era mio nonno: il nonno che non ho mai conosciuto, il nonno che si è dissolto in una palla di fuoco, il nonno che si è fatto sole sopra le secche di Kerkennah. Oggi, settant’anni dopo quel giorno, il fiore che idealmente le famiglie dei 33 uomini del “Montello” affideranno al mare, perché le onde lo cullino dolcemente fino a Kerkennah, è il fiore del ricordo, che è più forte del tempo e dello spazio. Della guerra, della morte. Il ricordo è il messaggio in bottiglia destinato ai 33 uomini del “Montello”, mandati a morire in acque lontane per un assurdo sogno di conquista. Dice semplicemente no, nessuno di voi è stato dimenticato.

pettinaroli@il secoloXIX.it

IL SECOLO XIX

Venerdì 3 giugno 2011

Roberto Pettinaroli è nato a Lavagna (Genova) il 16 luglio 1962. Sposato, una figlia, è giornalista professionista dal 1988. A 16 anni ha iniziato a collaborare con il quotidiano genovese “Il Lavoro”. Nel 1982 è passato al “Secolo XIX” di Genova, della cui redazione di Chiavari è stato per 13 anni (dal 1992 al 2005) vice responsabile. Attualmente lavora nella redazione genovese come caposervizio dello staff di Cronaca.

ALBUM FOTOGRAFICO 

A cura di Carlo Gatti

 

IL “MONTELLO” sullo scalo del cantiere di Riva Trigoso.

                                                                                                       (Archivio Carlo Gatti)

 

La cartina mostra una rotta tipica dei convogli italiani destinati in Tunisia. In essa viene mostrata la posizione di KERKENNAH

Incrociatore RN GARIBALDI

FIAT C.R.42 Falco

CANT Z 501

Cacciatorpediniere AVIERECAMICIA NERA – GENIERE

Classe Soldati 1° serie

 

Cacciatorpediniere DARDO

 

ROBERTO PETTINAROLI è nato a Lavagna (Genova) il 16 luglio 1962. Sposato, una figlia, è giornalista professionista dal 1988. A 16 anni ha iniziato a collaborare con il quotidiano genovese “Il Lavoro”. Nel 1982 è passato al “Secolo XIX” di Genova, della cui redazione di Chiavari è stato per 13 anni (dal 1992 al 2005) vice responsabile. Attualmente lavora nella redazione genovese come caposervizio dello staff di Cronaca.

 

A cura di Carlo GATTI

Rapallo, martedì 5 Aprile 2022


LA LEGGENDARIA STORIA DEL GENERALE UMBERTO NOBILE

PARTE PRIMA

La leggendaria storia del generale UMBERTO NOBILE

UMBERTO NOBILE

 

Da HISTORIA REGNI riportiamo:

Umberto Nobile è il protagonista di una delle più grandi imprese del Novecento: la prima trasvolata del Polo Nord.

Generale del Genio aeronautico, ideatore, progettista e pilota di dirigibili semirigidi, esploratore polare, docente di Costruzioni Aeronautiche dell’Università di Napoli, scrittore, Umberto Nobile nacque a Lauro, provincia di Avellino, da Vincenzo e Maria La Torraca. Suo padre discendeva da un ramo cadetto della nobile famiglia delle Piane, che, avendo rifiutato l’omaggio ai Savoia in segno di fedeltà ai Borbone, era stata privata del titolo nobiliare e aveva assunto il cognome di Nobile a memoria dell’antica condizione sociale.

La sua storia si illumina il 10 aprile del 1926, il dirigibile Norge della missione decollò da Ciampino per arrivare alla base artica della Baia del Re, sulle isole norvegesi Svalbard, il 7 maggio e puntare poi al Polo Nord.

Dopo un volo di circa 5.300 km, durato tre giorni, il 12 maggio del 1926 “si prende l’altezza del sole. Siamo al Polo; rallento i motori. Si piantano le bandiere (la norvegese, l’americana e quella italiana)…”. Così Umberto Nobile annotava, sul Brogliaccio del Norge, il successo della prima spedizione aerea transpolare della storia, l’obbiettivo era stato raggiunto, fu toccato quel punto singolare della superficie terrestre dove i quattro punti cardinali si confondono in uno solo, il Polo Nord. Con l’allora colonnello Nobile c’erano Roald Amundsen e Lincoln Ellswotrh. In “In volo alla conquista del segreto polare”, così Umberto Nobile ricordò quei momenti:

 “La nebbia, che era durata fittissima per un’ora e dieci minuti, verso le 22,30 cominciò a diradare, lasciando intravedere il ghiaccio. Poco più tardi dileguò del tutto.

Intanto il cielo si era andato annuvolando. Il paesaggio aveva assunto di colpo un aspetto triste e solenne. Non c’è di meglio del sole per vivificare anche le cose morte, ma ora il sole erasi nascosto dietro le nuvole alte, e la sua assenza faceva sentire il silenzio mortale che avvolgeva tutto. L’immenso piano ghiacciato cessava di essere monotono: qua e là fiocchi di nebbia radi vi producevano delle macchie bigiastre.

Tutto l’ambiente aveva assunto una tonalità di color grigio perla.
La quota era di 780 metri. Ci andavamo gradualmente abbassando, quasi senza accorgercene, come per un’attrazione lenta verso il suolo. All’una eravamo a 350 metri e, pochi minuti dopo, a 250. Oramai eravamo a poca distanza dal Polo. Larsen era curvo ad un finestrino col sestante fra le mani, pronto a cogliere l’istante in cui il sole avesse fatto capolino tra le nubi.
Man mano che ci andavamo avvicinando, l’eccitazione a bordo cresceva. Nessuno parlava, ma si leggeva nei volti la contentezza. Io ero un po’ nervoso; mi riempiva il cuore una grande gioia che a stento riuscivo a contenere. Pensavo alla nostra bandiera che finalmente avrei fatta sventolare ancora una volta. Avevo solennemente promesso di farla sventolare su ghiacci del Polo, e detto a me stesso che ciò sarebbe stato fatto a qualunque costo: finalmente l’attimo sospirato, in cui si sarebbe adempiuta la promessa, stava per giungere. Non era che un gesto assai semplice da compiere, ma rappresentava come un rito sacro; non vi era che buttare giù un pezzo di stoffa, ma quel pezzo di stoffa era l’Italia lontana.

Una grande gioia che a stento riuscivo a contenere mi riempiva il cuore.
Chiamai impaziente Alessandrini:
– Prepara la banidera.

La norvegese e l’americana erano piccole e fissate a delle aste come stendardi: avevano perciò potuto – senza ingombrare – tenersi sempre pronte nella carena. La nostra no, era grande; bisognava estrarla dal cofano, spiegarla e fissarla all’asta che i miei ufficiali avevano preparato allo Spitzberg.

 Alessandrini andò, e com’egli si attardava a compiere accuratamente, amorosamente, l’operazione, io lo sollecitai impaziente. Stavamo per giungere.

– Fa’ presto. Vieni. Portala.

Finalmente era lì, accanto a me.

Alle 1,30 l’altezza del sole – che di tanto in tanto traluce fra le nubi – ci avverte che siamo al Polo. Discendiamo ancora di più, forse fino a 200 metri, perchè voglio accostarmi alla superfice dello sterminato mare di ghiaccio più vicino che sia possibile. Ora rallento i motori. Il loro ritmo si attenua, sicché il silenzio del deserto si sente più profondamente. In questo silenzio, religiosamente, si compie il rito.

Primo Amundsen lascia cadere la bandiera norvegese, poi Ellsworth l’americana. Sono di seta, piccole, graziose, fatte a posta per la circostanza. Ora viene la mia volta. Prendo la bandiera fra le mani. Essa contrasta con le altre due, è grande, vecchia, logora, una bandiera di combattimento: quella medesima che per due anni ha volato Italia sulla poppa dell’aeronave ITALIA: ha l’orlo sfilacciato dal vento, un po’ lacera, assai bella.

La prendo fra le mani e la sporgo fuori dalla cabina. Il vento l’investe gonfiandola: essa mi palpita fra le mani come un’ala viva. La lascio andare. La vedo scorrere lungo la parete della cabina ed impigliarsi nel derivometro. Corro a liberarla. Ecco ora che cade tutta aggrovigliata come una massa informe, poi si distende, si spiega tutta, discende solennemente. La vedo fluttuare: i bei colori attraverso l’aria fredda e trasparente vibrano contro il biancore immacolato dei ghiacci; il margine del drappo freme nell’immenso deserto come se partecipasse alla nostra emozione; il mio sguardo la segue come affascinato, né vale a distrarmi nemmeno la preoccupazione della condotta della nave. La bandiera raggiunge il ghiaccio, vi si abbatte, scompare. E’ realmente l’ala d’Italia che si posa sul Polo”.

 

IL COMUNE DI ROMA
L'AERONAUTICA MILITARE
NEL CENTENARIO DELLA NASCITA 1885-1985

UMBERTO NOBILE - Ingegnere aeronautico ed alto ufficiale dell'aeronautica militare, effettuò con i dirigibili spedizioni sopra il Polo nord. L'ultima ebbe esito tragico: la navicella si schiantò al suolo mentre il dirigibile riprendeva quota perdendo poi fra i ghiacci parte dell'equipaggio. I superstiti della navicella dovettero attendere 42 giorni (riparati alla meno peggio in una tenda, che dipinsero di rosso) prima di essere scoperti e salvati. Una commissione d'inchiesta esautorò Nobile dal suo grado. Dopo la guerra una seconda commissione lo riabilitò.

 

BREVE STORIA DELLA DRAMMATICA

"SECONDA SPEDIZIONE ARTICA"

DEL GENERALE UMBERTO NOBILE AL COMANDO

DEL DIRIGIBILE ITALIA

IN MEMORIA DEL
GENERALE PROF. ING.
UMBERTO NOBILE
ESPLORATORE-SCIENZIATO
PIONIERE DELL'AERONAUTICA ITALIANA
DUE VOLTE
CONQUISTATORE DEL POLO NORD
CON LE AERONAVI
"NORGE" (1926) E "ITALIA" (1928)
DA LUI PROGETTATE
COSTRUITE E COMANDATE
QUI VISSUTO
FINO ALLA SUA SCOMPARSA
IL 30 LUGLIO 1978

 

 

 

Il 15 aprile 1928 il dirigibile ITALIA partì da Milano (Aerodromo di Baggio), fece tappa a Stolp (Pomerania), a Vadsö (Norvegia) ed infine giunse alla Baia del Re il 6 maggio compiendo un volo di circa 6.000 km.

Il primo volo esplorativo a Nord Est delle isole Svalbard si concluse con il rientro alla base a causa di venti forti e guasti tecnici;

Il secondo volo durò tre giorni e diede alcuni risultati positivi: furono definiti gli estremi confini occidentali della Terra del Nord, fu dimostrata l'inesistenza della Terra di Gillis e vennero effettuati diversi rilevamenti sulla Terra di Nord-Est.

Il terzo volo fu disastroso: doveva esplorare la parte settentrionale della Groenlandia, alla ricerca di terre emerse, per dirigersi quindi sul Polo, dove erano previste misurazioni scientifiche sul pack. 

Alle 4.28 del 23 maggio 1928 l'ITALIA si alzò in volo con sedici persone a bordo e, nonostante una violenta perturbazione, raggiunse il Polo Nord alla  mezzanotte fra il 23 e il 24 maggio. Fu impossibile attuare la discesa sui ghiacci, a causa del forte vento. Alle 2.20 Nobile ordinò quindi che si prendesse la via del ritorno ma alle 10.30 il capo motorista Cecioni diede l'allarme: l'ITALIA stava perdendo rapidamente quota. Tre minuti più tardi, per cause che restano tuttora sconosciute, il dirigibile si schiantava sul pack, a quasi 100 km dalle isole Svalbard. Dieci uomini caddero dalla navicella di comando sui ghiacci. Il meccanico Pomella fu trovato morto dai superstiti subito dopo la caduta; Nobile e Cecioni subirono fratture agli arti. Sull'involucro privo di comandi restarono invece Alessandrini, Caratti, Ciocca, Arduino, Pontremoli e Lago, il giornalista.

 

Quando giunse la tragica notizia della perdita del dirigibile “ITALIA”, tutte le nazioni artiche offrirono il loro aiuto nella ricerca dei superstiti. L'Italia inviò due aerei, tra cui un Savoia 55, pilotato dall'italiano Umberto Maddalena.

 

Dal Sito della Marina Militare riportiamo:

“L'aeronave si risollevò lentamente scomparendo nella fitta nebbia: della sua sorte e di quella dei sei uomini rimasti a bordo non si ebbero più notizie. Fu rinvenuta una parte dei viveri e delle attrezzature, che l’impatto aveva disperso sui ghiacci ma soprattutto la tenda preparata per la discesa sul Polo e la radio di soccorso Ondina 33. La tenda, colorata di rosso con l'anilina per rilevazioni altimetriche, diventò un indispensabile rifugio per i naufraghi e un punto di riferimento per i soccorsi. Il radiotelegrafista Biagi montò subito l'antenna della radio e attivò l'apparecchio. Il 30 maggio, dopo cinque giorni di infruttuose trasmissioni Mariano, Zappi (da Mercato Saraceno, Forlì)) e Malmgren lasciarono la tenda per una marcia disperata verso la terraferma. Quattro giorni dopo, il 3 giugno, un radioamatore russo di nome Schmidt intercettò l'SOS dei naufraghi. Iniziarono cosi le operazioni di salvataggio che porteranno al recupero di Nobile. In Italia il governo fascista si limitò ad autorizzare la partenza di un idrovolante Siai S-55 pilotato dal maggiore Umberto Maddalena ma finanziato da privati.

La spedizione di soccorso che giunse a salvare gli uomini fu quella sovietica che impiegò due rompighiaccio, il Malyghin e il Krassin. La prima nave, partita da Arcangelo il 12 giugno, doveva raggiungere la parte orientale delle Svalbard e di qui dirigere verso nord. Il Krassin, comandato da Karl Eggi e con a bordo il professor Samoilovich, salpò da Leningrado il 16 giugno. Doveva raggiungere le Svalbard da ovest e perlustrare tutta la parte settentrionale dell'arcipelago verso l'isola di Foyn. La sera del 23 giugno due aerei svedesi raggiunsero nuovamente la Tenda Rossa: uno era il Fokker-31 di Lundborg, che riuscì ad atterrare sulla pista di neve e ghiaccio e a trarre in salvo il "solo" Nobile, che avrebbe dovuto dirigere dalla base svedese le successive operazioni di soccorso. Il comandante di un veliero è l'ultimo ad abbandonare la nave in procinto d'affondare e per questo fu anche lungamente criticato. Lundborg tornò poco dopo in aiuto degli altri naufraghi, ma in fase di atterraggio il suo Fokker si ribaltò e il pilota rimase a sua volta prigioniero dei ghiacci. Il 3 luglio, a nord delle Svalbard, il Krassin subì danni a un'elica; ulteriori avarie convinsero Samoilovich a ritornare per le riparazioni e per rifornirsi di carbone. Ma Nobile telegrafò al comandante della spedizione sovietica, pregandolo di non rinunciare alle ricerche, e riuscì a ottenere che dal rompighiaccio fosse calato il trimotore Junkers pilotato da Boris Ciuknowski. L'aereo decollò alle 16 del 10 luglio e riuscì ad avvistare il gruppo Mariano ma non a rientrare al Krassin. La nebbia lo costrinse infatti a un atterraggio di fortuna presso le Sette Isole, dove il velivolo restò bloccato dai danni subìti. Samoilovich, sostenuto da un equipaggio noncurante delle avarie e della scarsità di carbone, decise di proseguire. All'alba del 12 luglio vennero avvistati e tratti in salvo Mariano, che aveva un piede congelato, e Zappi. Malmgren, purtroppo, non aveva retto alla tremenda marcia sui ghiacci. Alle 20 dello stesso giorno fu avvistata la Tenda Rossa: mezz'ora dopo il rompighiaccio iniziava il salvataggio dei cinque naufraghi rimasti. La tenda fu smontata e trasferita sulla nave insieme all'Ondina 33. Erano trascorsi 48 giorni dal tragico impatto dell'ITALIA. La Tenda Rossa, riportata in Italia, è oggi al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnica. La radio Ondina 33 è conservata dal Museo della Marina militare italiana di La Spezia.”

 

PARTE SECONDA

CITTA’ DI MILANO

Una Nave una Storia

Missione Artica di supporto al Dirigibile ITALIA

 

La nave posacavi CITTA’ DI MILANO aveva un dislocamento di 5.380 tonnellate. Lunghezza f.t. 97,72 mt. Varata il 21 ottobre 1905 nei Cantieri tedeschi Schichau di Danzica con il nome “Grossherzog Von Oldemburg” fu consegnata al governo italiano nel 1919 per “risarcimento danni di guerra”. Il 1° agosto 1921 entrò in servizio nella Regia Marina.

MISSIONE ARTICA: Scopo della missione era dare il necessario apporto logistico e organizzativo all'impresa pianificata e fortemente voluta dal generale Umberto Nobile. Fu rinforzato lo scafo mediante la ricopertura di lastre d’acciaio come protezione contro la morsa dei ghiacci polari.

Nel 1927 fu equipaggiata con le ultime novità scientifiche in materia di Radio e apparati meteorologici. Al normale equipaggio si aggiunsero alpini, studenti universitari e naturalmente scienziati.

20 marzo 1928 la "Città di Milano", al comando di Giuseppe Manoja, partì dal porto di La Spezia con la funzione di nave appoggio alla spedizione artica del dirigibile "Italia". Prima meta erano le Isole Svalbard.

 

Rompighiaccio KRASSIN

Si attivarono soccorsi d’imbarcazioni e aeroplani provenienti dalla Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia che inviò anche il rompighiaccio militare "Krassin" appartenente all'armata sovietica. Altre unità ebbero un ruolo fondamentale nel recupero dei superstiti come la Hobby, baleniera norvegese, e la Braganza.

La Città di Milano bloccata dai ghiacci

 

Dalla nave “Città di Milano” si attivarono le procedure di coordinamento, ricerca e soccorso che permisero il salvataggio dei superstiti, passati alla storia delle esplorazioni polari come i “naufraghi della Tenda Rossa”.

 Le operazioni di ricerca andarono avanti per giorni, fino a quando, avvistati dal pilota italiano Umberto Maddalena vennero recuperati e messi in salvo Cecioni Natale, Felice Troiani, Giuseppe Biagi, Viglieri Alfredo, Mariano Adalberto, Zappi Filippo e lo stesso Umberto Nobile a bordo della nave "Città di Milano".

Intrapreso il lungo viaggio di ritorno, il "Città di Milano" attraccò nel porto di La Spezia il 20 ottobre 1928 concludendo così la spedizione.

 Il 10 giugno 1940 laCitta’ di Milano” interruppe i cavi telefonici di collegamento tra Gibilterra e Malta. Era la nostra prima missione nel primo giorno dell’entrata in guerra dell’Italia nella Seconda guerra mondiale.

Piano di costruzione

 

CARTOLINA COMMEMORATIVA DEL 90° ANNIVERSARIO DELLA SPEDIZIONE AL POLO NORD - 1928 - 2018

TELEGRAPH SUPPORT SHIP "CITTA DI MILANO"

 

Sulla fine della CITTA’ DI MILANO riportiamo una preziosa TESTIMONIANZA di Giorgio Andreino Mancini, che si rivolge a suo zio Pancrazio Ezio (storico)
in merito all’auto affondamento della regia nave Città di Milano, dicendo che ha avuto una confessione dal Marinaio genovese Di Maria imbarcato su quella nave, e adesso proverò a dirti cosa è successo tra l’8 e il 9 settembre del 1943 nel Porto di Savona da quello che mi ha raccontato Di Maria iscritto all’A.N.M.I.-di-Genova.

“Come tu saprai dall’8 settembre del 1943 è successo di tutto e non solo a Savona, c’era molta confusione, per farla breve nel porto, oltre ai Marinai della Regia Marina, c’erano quelli tedeschi della Kriegsmarine, si conoscevano e c’era anche un sano cameratismo tra loro ed è per questo che non c’è stato nessun atto di forza da parte della Kriegsmarine per impossessarsi della nave (questo naturalmente l’8 settembre). Sempre dal racconto del Di Maria pare che gli stessi marinai della Kriegsmarine avevano avvisato che il giorno 9 reparti della Wermacht avrebbero fatto un colpo di mano per impossessarsi della nave, cosa che poi avvenne il giorno successivo. Mi raccontava che quel giorno successe di tutto nel Porto di Savona, fischiavano pallottole da tutte le parti, l’equipaggio della Città di Milano ha risposto al fuoco con le armi che aveva, ma la superiorità tedesca era nettamente superiore. E’ stato allora che il Di Maria insieme ad un altro Marinaio (che non ricordo il nome) sono scesi in sala macchine per aprire le valvole per l’auto affondamento, operazione avvenuta con successo.
I tedeschi della Wermacht erano molto arrabbiati, fortunatamente per i marinai della Città di Milano, quelli rimasti (parecchi avevano disertato, non so se tu voglia scriverlo), sono stati fatti prigionieri da quelli della Kriegsmarine che li hanno trattati bene, prima di internarli nei campi di prigionia.

 
Spero di essere stato d’aiuto nell’aggiungere un’altra pagina della storia dei Marinai di una volta, sicuramente il Marinaio Di Maria è stato l’artefice dell’auto affondamento della regia nave Città di Milano!
Vedi se riesci a correggere qualcosa, come ti ho già scritto non sono bravo a scrivere, ma ci ho messo tutte le emozioni che il Di Maria mi ha trasmesso raccontandomi questa storia! 
Ti auguro una serena serata e come dici sempre Tu:  
Un abbraccio grande come il mare della Misericordia”

Giorgio Andreino Mancini

PARTE TERZA

 Intervista del giornalista Gianni Bisiach al generale Umberto Nobile

DIRIGIBILE ITALIA di UMBERTO NOBILE AL POLO NORD

https://www.youtube.com/watch?v=HaVlSI_2D1Q

Ernani Andreatta

LA CONQUISTA DELL'ARTICO E DELL'ANTARTICO

https://www.youtube.com/watch?v=vlUOKAv3LFc

IQ3VE – Sezione ARI di Venezia

GIUSEPPE BIAGI – LA TENDA ROSSA

http://www.arivenezia.it/giuseppe-biagi-la-tenda-rossa/

mmta517 - Convegno sul dirigibile Italia - Versione ridotta

https://youtu.be/tWxPbc8BpfY

 

Venerdì 19  Ottobre 2018 si è tenuto il Convegno sul Dirigibile Italia a 90 anni dalla Tenda Rossa. I relatori hanno ricordato la tragedia che sconvolse  la vita del Generale Umberto Nobile. di membri del suo equipaggio che vi persero la vita  con  implicazioni politiche, sociali e  umane nello stesso  tempo. Ma il convegno, che si è rivelato di grande successo,  ha coinvolto personalità della scienza, della tecnica e della navigazione registrando così un evento  inaspettato con la presenza dell'Ammiraglio di Divisione Alberto Bianchi Comandante delle Scuole Militari Italiane. La manifestazione è stata organizzata e condotta dal Tenente Colonnello Guido Casano con la regia del Comandante della Scuola TLC di Chiavari C.V. Nicola Chiacchietta.  

mmta503 – Massimo Minella racconta il Campo 52 

https://youtu.be/Ecfkiq99B60

 

mmta504 – 1928 Dalla Spezia al Polo Nord

https://youtu.be/-Jm4-aHYWZ0

Museo della Memoria - Museo Marinaro Chiavari - Edizioni Giacche' 

Michele Coviello Allievo nocchiere di La Spezia nel 1928 faceva parte dell'equipaggio della nave appoggio Città di Milano. Durante la permanenza alle isole Svalbard scatto’ una serie di fotografie che lasciò in eredità alla nipote Annalisa Coviello, giornalista e scrittrice. Attraverso l'editore "Giacchè" ne usci un interessante libro dal titolo "1928 da la Spezia al Polo Nord"

 

mmta505 –  Spedizione Nobile - Collegamento telefonico eredi Mariano

https://youtu.be/djzUF2cc1ro

mmta506 - 1928  DA LA SPEZIA AL POLO NORD

https://youtu.be/ffqx6X-VyuM

 

Carlo GATTI

Rapallo, 30 Marzo


LE NAVI DEI FILOSOFI

LE NAVI DEI FILOSOFI

In questo periodo caratterizzato da devastanti venti di guerra che ci travolgono ormai dal 24 febbraio 2022, è difficile indirizzare altrove i nostri pensieri, così com’è difficile esprimere opinioni politiche che in questa sede, per abitudine ormai consolidata, non riveliamo per non aprire dibattiti che esulerebbero dagli scopi istituzionali della nostra Associazione.

Tuttavia ci sono altri modi per rimanere sia nel campo navale che in quello della tragica attualità, specialmente quando essa c’impone la riflessione sul tempo che passa… che migliora gli standard di vita di tutti i popoli del mondo, anche di quelli che non intendono mutare il proprio pensiero di fondo che rimane antidemocratico! Uno snodo etico-morale sul quale non ci sarà mai un incontro ma piuttosto uno scontro…

Questo almeno è il messaggio che il sottoscritto ha percepito ascoltando la trasmissione PASSATO E PRESENTE mandata in onda alcuni giorni fa da Paolo Mieli (nella foto) in cui il bravo storico ha voluto dedicare al suo pubblico una pagina dimenticata ma sempre attuale, intitolata: Le Navi dei Filosofi.

Della trasmissione ho colto soprattutto il desiderio dell’autore di ricordare, con l’aiuto di altri esperti e giovani storici, almeno uno dei metodi di deportazione forzata di liberi pensatori, scrittori, dissidenti politici che erano già stati vittime dello “zarismo”. Stiamo parlando della Russia di ieri che “appare”, per molti aspetti, speculare a quella di oggi.

La nave dei Filosofi: Si tratta di uno sguardo sul destino di molti intellettuali filosofi, teologi, sociologi e scienziati, che dopo la rivoluzione bolscevica sono stati costretti a lasciare il Paese, insieme ad oltre un milione di russi dissidenti.

A tanto si può arrivare per impedire la libera circolazione delle idee!

LE NAVI DEI FILOSOFI FURONO DUE:

- Oberbürgermeister Haken

- Preussen

Un po’ di Storia

Il 6 febbraio 1922 la Čeka diventava Direzione Politica di Stato: GPU, una sezione dell'NKVD della RSSF Russa. Fu quindi il GPU che ricevette l’incarico di arrestare gli intellettuali.

Era il maggio del 1922 quando LENIN ordinò di studiare un piano per esiliare l’élite degli intellettuali russi che si opponevano con i loro scritti ai bolscevichi, una fazione marxista rivoluzionaria di estrema sinistra fondata da Vladimir Lenin.

Nella notte tra il 16 e il 17 agosto 1922 gli intellettuali furono sommariamente processati, condannati e costretti a scegliere tra l'esecuzione e l'espulsione. Chi sceglieva l’esilio doveva pagarsi il viaggio e lasciare in patria gli oggetti di valore e persino i libri.

Le cronache riportano che: “Le due navi che trasportarono gli intellettuali da Pietrogrado a Stettino erano due, la prima partì il 29 settembre 1922 e giunse a destinazione il 1º ottobre 1922 con 35 intellettuali russi e le loro famiglie. La seconda si chiamava Preussen e partì a novembre.”

La data di partenza della nave l'Oberbürgermeister Haken entrò nella storia rappresentando il momento simbolico che fece da spartiacque tra la cultura sovietica e la cultura emigrata.

La Oberbürgermeister Haken, una delle due navi che trasportò gli intellettuali dal porto sovietico da Pietrogrado a Stettino verso la Germania

Monumento dedicato all'espulsione dei "filosofi" a San Pietroburgo

Intellettuali espulsi

 

su RUSSIA BEYOND leggiamo:

Titolo:

Nel 1922, a bordo di due piroscafi tedeschi, il capo del nuovo Stato sovietico (Lenin) costrinse all’esilio filosofi, teologi, sociologi e molti scienziati non allineati.

“L’espulsione degli elementi controrivoluzionari e dell’intellighenzia borghese è il primo avvertimento del potere sovietico a questi elementi sociali”, scriveva la Pravda verso la fine di agosto del 1922.

Un paio di mesi più tardi, due navi tedesche, la “Oberbürgermeister Haken” e la “Preussen” salpavano dalle coste sovietiche carichi di influenti pensatori russi.

In tutto oltre 160 persone (contando anche i familiari) furono forzati a lasciare il Paese. Tra questi, professori, medici, insegnanti, economisti, scrittori e figure politiche e religiose. Tutti avevano una cosa in comune: si opponevano fieramente al regime sovietico.

Non fu loro permesso di portare molto con sé: due ricambi di biancheria, calzini e scarpe, una giacca, un paio di pantaloni, una giacca e un cappello. E questo era tutto. Soldi e gioielli non erano permessi, e tutti i beni di valore, comprese le obbligazioni, furono loro confiscati.

Scienziati prolifici

Tra gli espulsi c’era la crema degli intellettuali e degli accademici. Il più famoso di loro era Pitirim Sorokin (1889-1968), uno dei padri fondatori della moderna sociologia. All’epoca della rivoluzione aveva supportato i rivali dei bolscevichi ed era stato arrestato, ma poi si era allontanato dalla vita politica, scrivendo una lettera a Lenin. Dopo qualche tempo a Praga, passò gran parte della sua vita negli Stati Uniti, diventando persino presidente dell’American Sociological Association”.

Poi c’erano famosi scrittori, teologi e filosofi non marxisti, come Sergej Bulgakov, Nikolaj Berdjaev, Nikolaj Losskij, Ivan Ilijn e Semen Frank, che avevano profondamente segnato il pensiero russo prima del 1917. Ma allo stesso tempo, la maggioranza degli emigrati forzati non era composta da nomi famosi. Erano spesso ricercatori o scienziati, e si considera che tra il momento in cui furono esiliati e il 1939 abbiano pubblicato all’estero qualcosa come 13 mila lavori in vari settori scientifici”.

 

Tra la Rivoluzione russa del 1917 e la successiva formazione del nuovo Stato sovietico fino al crollo dell’URSS, avvenuto nel 1991, si contano cinque diverse ondate di migrazione di massa. 

Con la nascita del nuovo Stato sovietico, formatosi ufficialmente nel 1922, si registrò una massiccia emigrazione di coloro che si erano opposti alla salita al potere del nuovo governo bolscevico, i cosiddetti Emigrati Bianchi.  

LA STORIA SI RIPETE…

Un solo esempio: il primo esodo nella storia della Russia fu il più massiccio e devastante. Il numero di persone che fuggirono dal Paese fu di circa 2 milioni di persone.

Fin qui abbiamo parlato di “esodi forzati”, ma ci furono anche tentativi di fuga e ammutinamenti, il più celebre dei quali ispirò il film: “CACCIA A OTTOBRE ROSSO”. Lo scrissi dieci anni fa per “riportare alla luce” il vero retroscena storico che ispirò il film del regista John McTiernan e magistralmente interpretata dal com.te Ramius (Sean Connery).

Quella tragica storia VERA venne alla luce molti anni dopo …

L’ammutinamento della fregata

STOROZHEVOY

Ispirò il film ‘Caccia a Ottobre Rosso’

https://www.marenostrumrapallo.it/storozhevoy/

di Carlo GATTI

Rapallo, 14 maggio 2012


MARCO VIPSANIO AGRIPPA - IL PANTHEON E LA BATTAGLIA DI AZIO

RITRATTO DI MARCO VIPSANIO AGRIPPA

UN GRANDISSIMO AMMIRAGLIO CHE, GRAZIE ALLE SUE INNATE CAPACITA’, ENTRO’ DI DIRITTO ANCHE NEL MONDO DELL’ARTE UNIVERSALE

 

Se dovessi cercare un simbolo per rappresentare il connubio: ARTE – MARE, non avrei il minimo dubbio: sceglierei il busto marmoreo di Marco Vipsanio AGRIPPA, brillante politico, grande militare e architetto romano. Questo eclettico personaggio nacque ad Arpino nel 63 a.C. - morì in Campania nel 12 a.C.

IL PANTHEON E LA BATTAGLIA DI AZIO

DUE TRA I SUOI TANTI CAPOLAVORI….

GALLERIA DEGLI UFFIZI

FIRENZE

Seconda metà del I secolo a.C.

68 x 42 cm

Questo ritratto è noto in numerose raffigurazioni: dalle gemme ai cammei, e dalle statue ai rilievi.  La testa è posta su un busto moderno, e presenta una marcata accentuazione dello sguardo che conferisce forza, decisione e carisma al personaggio.

L’opera conservata nella Galleria è entrata nelle collezioni medicee attraverso una donazione di Papa Pio IV a Lorenzo de’ Medici, giunto a Roma nel 1471 ed è da annoverare fra i pochissimi marmi antichi sicuramente riconducibili al nucleo originario della collezione di antichità della famiglia Medici.

 

UN PO’ DI STORIA

 

Legato da amicizia con il giovane Ottavio (Gaio Giulio Cesare Ottaviano), nacquero lo stesso anno, gli fu sempre a fianco dalla prima spedizione in Macedonia contro i Parti fino alla sua ascesa all’'Impero di Roma.

 

Agrippa e Augusto avevano servito come ufficiali di cavalleria sotto Cesare durante la battaglia di Munda nel 45 a.C., al termine della quale Ottaviano venne adottato dal grande condottiero romano e mandato a studiare ad Apollonia presso le legioni macedoni, sempre insieme ad Agrippa.

In Macedonia Agrippa si guadagnò ben presto i favori delle legioni, dimostrando grande dimestichezza con il comando, inoltre in quei luoghi approfondì le sue conoscenze dell’architettura che mise a frutto nel corso degli anni. Ad Apollonia in quel periodo giunse la notizia dell’assassinio di Giulio Cesare, così Ottaviano fece immediatamente ritorno a Roma.

Agrippa assunse il comando delle legioni lì stanziate, con le quali corse in aiuto dell’amico, permettendogli così di dare il via al secondo triumvirato, insieme a Marco Antonio e ad Emilio Lepido, lo scopo era di contrastare e combattere gli assassini di Giulio Cesare.

Agrippa combatté al fianco di Ottaviano e di Marco Antonio nella decisiva battaglia di Filippi, nel 42 a.C.

Dopo il ritorno a Roma, nel 41 a.C., Ottaviano Augusto inviò Agrippa a dirigere la guerra contro Lucio Antonio e Fulvia Antonia, rispettivamente fratello e moglie di Marco Antonio, guerra che si concluse con la loro cattura a Perusia (Perugia) nel 40 a.C. Due anni dopo, represse una rivolta degli Aquitani in Gallia e attraversò il fiume Reno per punire le aggressioni delle tribù germaniche.

 

Prima di aver compiuto i 43 anni richiesti dalla carica, Marco Vipsanio Agrippa viene richiamato a Roma da Ottaviano per il Consolato nel 37 a.C. Ottaviano subisce alcune sconfitte navali umilianti contro Sesto Pompeo e ha bisogno del suo fidato amico per elaborare la strategia da seguire in guerra. Al suo comando sconfigge Sesto Pompeo prima e annienta Antonio ad Azio.

Marco Vipsanio Agrippa, oltre ad essere stato il braccio destro del I° Imperatore di Roma, in seguito divenne suo genero avendo sposato la figlia Giulia.

 

Ma le sue doti militari si rivelarono magnificamente quando, con energia e rapidità, seppe dare a Roma una base navale con la costruzione del Portus Julius (riunì i laghi di Averno e Lucrino) e una poderosa flotta. 

PORTUS JULIUS (37 a.C.)

Mentre Sesto Pompeo controlla le coste italiche, il primo obiettivo di Agrippa è di trovare un porto sicuro per la flotta. Durante la sua precedente campagna, Agrippa non aveva trovato basi navali in Italia vicino alla Sicilia. Agrippa mostra però un "grande talento di organizzatore e di costruttore" intraprendendo "lavori giganteschi" edificando in Campania una base navale partendo da zero, facendo scavare un canale fra il mare ed il LAGO DI LUCRINO per formare un porto esterno e un altro fra il Lucrino ed il lago d'Averno per avere un porto interno. Il nuovo complesso portuale viene chiamato Portus JULIUS in onore di Ottaviano.

Il suo cursus honorum iniziò con la pretura, poi fu per tre volte console:

37 a.C., 28 a.C., 27 a.C.

 

L'Orbis pictus era una grande carta geografica del mondo conosciuto, fatta redigere da Ottaviano su indicazioni di Agrippa, che le inserì nel suo testamento, poi esposta nel Porticus Vipsania a Roma e oggi perduta.

 

Le mappe nel mondo antico. La Tabula Peutingeriana – parte I –

 

Questo segmento rappresenta una sezione dell’Italia centro-meridionale, del Nord Africa e dell’Europa centrale. Sono visibili in particolare gli Appennini, la città di Napoli e la Campania, compresa la Crypta Neapolitana, parte della Sicilia occidentale fino ad Agrigento, Spalato in Croazia e i Balcani, Macomades e altre città dell’odierna Algeria.

 

L’eclettico Ammiraglio, come abbiamo accennato, seppe anche rivelare le sue doti di grande costruttore quando accettò nel 33 a.C. la carica di EDILE. Sue opere furono il Porticus Vipsaniae contenente la prima carta geografica mondiale (l’Orbis pictus) di cui aveva preparato i materiali, il pons Agrippae, la Basilica Neptuni e, infine, opera magistrale, il Pantheon.

 

L'iscrizione originale di dedica dell'edificio, fu ricollocata sulla successiva ricostruzione di epoca adrianea, recita: M·AGRIPPA·L·F·COS·TERTIVM·FECIT, ossia:

     «Marco Agrippa, figlio di Lucio, console per la terza volta, edificò»

Al suo ritorno rifiutò di celebrare il trionfo offertogli, ma accettò il suo primo consolato, era il 37 a.C.

Un anno più tardi, nel 36 a.C., Agrippa fu nominato Comandante in capo della flotta romana, fatto che gli permise di sottoporre gli equipaggi ad un addestramento intensivo e molto duro, dopo di che sconfisse Sesto Pompeo a Mylae e a Nauloco e in un mese distrusse completamente la forza navale di Sesto, ricevendo la corona navale per le sue vittorie in Sicilia.

 

 

In quanto EDILE e curator aquarum, iniziò la costruzione del monumentale acquedotto del Serino, una delle più grandi opere architettoniche dell'intero Impero Romano, destinato a rifornire la flotta imperiale ancorata a Miseno.

 

Agrippa restaurò anche gli acquedotti più antichi e ne costruì due nuovi (l’Aqua Iulia e, più tardi, nel 19 a.C., l’Aqua Virgo*), inoltre restaurò e ripulì la Cloaca massima e attuò la politica edilizia di Augusto nel Campo Marzio, costruendo terme, portici e giardini.

*L'Aqua Virgo fu il sesto degli undici acquedotti romani antichi. Restaurato nel Rinascimento e ribattezzato Acqua Vergine, è tuttora funzionante.

Nel 31 a.C., Agrippa fu richiamato alle armi come Comandante della flotta, durante la decisiva e vittoriosa battaglia di Azio, contro le navi di Antonio e Cleopatra, e se Ottaviano si ritrovava ora a capo di un Impero, lo doveva in buona parte alle competenze dell’amico Marco Vipsanio Agrippa. Augusto per facilitare l’ascesa al potere dell’amico, lo associò alla famiglia imperiale, costringendolo a separarsi dalla moglie Claudia Marcella Maggiore, sposata nel 28 a.C., per sposarsi invece con Giulia, la figlia di Augusto, rimasta vedova.

Inoltre ottenne un secondo consolato con Ottaviano lo stesso anno.

Nel 27 a.C., anno in cui Ottaviano ottenne il titolo di Augusto, Agrippa rivestì per la terza volta il consolato insieme all’amico.

Nel 19 a.C., lo stesso anno Agrippa fu impiegato per sedare alcune rivolte in Gallia e a difendere il confine dai Germani, ed infine venne incaricato di spegnere una rivolta dei Cantabrici in Spagna.  Fu poi nominato governatore della Siria una seconda volta nel 17 a.C., e lì la sua amministrazione giusta e prudente gli fece guadagnare rispetto e benevolenza, in particolare della popolazione ebraica. Agrippa inoltre ristabilì un efficace controllo romano sul Chersoneso Cimmerico (l’attuale Crimea) durante il suo governatorato.

Il sostegno di Agrippa per il suo amico Ottaviano non venne mai meno.

L’ultimo servizio pubblico reso da Agrippa fu l’avvio della conquista della regione superiore del Danubio, regione che si sarebbe poi trasformata nella provincia romana della Pannonia nel 13 a.C.

Agrippa morì in Campania nel marzo del 12 a.C. all’età di 51 anni a causa di una malattia. Dopo la sua morte nacque - da Giulia - l’ultimo dei suoi figli Marco Vipsanio Agrippa Postumo. Augusto onorò la sua memoria con un funerale magnifico ed egli stesso passò più di un mese in lutto per l’amico scomparso a cui lui e Roma dovevano parte della loro grandezza.

Successivamente Augusto adottò i figli di Agrippa e di sua figlia Giulia, Gaio Cesare e Lucio Cesare, come suoi successori designati.

Il PANTHEON DI AGRIPPA

Il nome Pantheon in greco, significa “di tutti gli Dèi”.

Ricostruzione particolare del PANTHEON DI AGRIPPA

Marco Vipsanio Agrippa (Louvre)

 

 

Il primo Pantheon fu fatto costruire nel 27-25 a.C. da Marco Vipsanio Agrippa nel quadro della monumentalizzazione del CAMPO MARZIO, affidandone la realizzazione a Lucio Cocceio Aucto. Esso sorgeva infatti fra i Saepta Iulia e la Basilica di Nettuno, fatti erigere a spese dello stesso Agrippa su un’area di sua proprietà, in cui si allineavano da sud a nord le Terme di Agrippa, la basilica di Nettuno e il Pantheon stesso.

 

IL CELEBRE CAMPO MARZIO

In Età Romana

 

Dai resti rinvenuti a circa 2,50 metri sotto l'edificio, alla fine del XIX secolo, si sa che questo primo tempio era di pianta rettangolare (metri 43,76×19,82) con cella disposta trasversalmente, più larga che lunga costruito in blocchi di travertino rivestiti da lastre di marmo. L'edificio di Agrippa aveva comunque l'asse centrale che coincideva con quello dell'edificio più recente e la larghezza della cella era uguale al diametro interno della rotonda. L'intera profondità dell'edificio augusteo coincide inoltre con la profondità del pronao adrianeo.

La sola fonte che descrive quali fossero le decorazioni del Pantheon di Agrippa è Plinio il Vecchio, che lo vide di persona. Nella sua Naturalis Historia riporta, infatti, che i capitelli erano realizzati in bronzo siracusano e che la decorazione comprendeva delle cariatidi e statue frontali.  Le cariatidi, collocate sulle colonne del tempio, furono scolpite dall'artista neoattico Diogenes di Atene.  Il tempio si affacciava su una piazza (ora occupata dalla rotonda adrianea) limitata sul lato opposto dalla basilica di Nettuno.

Cassio Dione Cocceiano afferma che il "Pantheon" aveva questo nome perché accoglieva le statue di molte divinità o più probabilmente perché la cupola della costruzione richiamava la volta celeste (e quindi le sette divinità planetarie), e che l'intenzione di Agrippa era stata quella di creare un luogo di culto dinastico, dedicato agli dei protettori della Gens Iulia (Marte e Venere)  e dove fosse collocata una statua di Ottaviano Augusto, da cui l'edificio avrebbe derivato il nome.

Essendosi l'imperatore opposto ad entrambe le cose, Agrippa fece porre all'interno una statua del Divo Giulio, (ossia di Cesare divinizzato) e, all'esterno, nel pronao, una di Ottaviano e una di sé stesso, a celebrazione della loro amicizia e del proprio zelo per il bene pubblico.

Distrutto dal fuoco nell'80, venne restaurato sotto Domiziano, ma subì una seconda distruzione nel 110 d.C. sotto Traiano a causa di un fulmine.

 

IL PANTHEON DI ADRIANO

ESPRIME ANCORA

LA GRANDEZZA DI ROMA

 

Il Pantheon di Adriano, riporta tuttora sulla trabeazione l’iscrizione del precedente tempio costruito da Agrippa M·AGRIPPA·L·F·COS·TERTIVM·FECIT (“Marco Agrippa, figlio di Lucio, console per la terza volta, fece”).

Nel 125 d.C. fu l’Imperatore ADRIANO a volerne fortemente la ricostruzione. Così come le strade aiutarono a tenere collegato l’impero, il PANTHEON diede al mondo l’immagine della reale grandezza di Roma e tra tutti i resti dell’Impero Romano è quello che meglio si è conservato ai giorni nostri.

Il Pantheon viene considerato uno tra i monumenti più belli e particolari del mondo antico. La sua caratteristica principale è il foro circolare, posto in alto e al centro chiamato oculo, che ha un diametro addirittura di nove metri e che spicca dunque all’interno della cupola.

Curiosità: Quell’oculo comunque ha la sua importanza perché si possono osservare dei fenomeni astronomici, cioè si osservano le stelle dall’interno dell’edificio e infatti il Pantheon è stato anche chiamato “tempio solare”.

Ad esempio, il giorno 21 del mese di aprile di ogni anno, 21 aprile che è il giorno in cui è stata fondata la città di Roma (il 21 aprile si chiama per questo motivo il “Natale di Roma”), a mezzogiorno esatto, un raggio di sole penetra dall’oculo all’interno nel Pantheon e colpisce il portale d’accesso, colpisce esattamente la porta di ingresso.

Dal sito: Le meraviglie di Roma

La Cupola stessa, comunque, che ha dimensioni esagerate se consideriamo il diametro lungo ben quarantaquattro metri che la rendono, tuttora, la più grande mai costruita al mondo senza l’ausilio del cemento armato.

Lo stesso imperatore Adriano lo utilizzava per riunire la corte oltre che per rendere omaggio agli dei (nonostante questa fosse una pratica tipica della cultura greca).

La struttura architettonica

La facciata del Pantheon fu idealizzata con l’intento di esprimere la netta supremazia nonché egemonia culturale dell’impero romano: a sorreggere il portico greco, antistante l’ingresso principale, troviamo ben sedici colonne costruite in Egitto e che quindi dovettero fare un viaggio lunghissimo prima di sbarcare nella Capitale. Nonostante ciò, però, arrivarono in condizioni eccelse e la loro struttura di granito le rendono ancora oggi indistruttibili.

Più precisamente: Il pronao è formato da 16 colonne, 8 colonne di granito grigio in facciata e 8 colonne di granito rosa provenienti dalle cave di Mons Claudianus e di Assuan (Egitto), distribuite nelle due file retrostanti.

Curiosità: Le cave più preziose erano gestite da fiduciari dell’imperatore; vere e proprie cave imperiali mentre le altre erano gestite da appaltatori. L’organizzazione era gerarchica: da un procuratore o centurione, fino ai cavatori che erano schiavi o condannati per reati (damnati ad metalla). Ad esempio il porfido rosso, bellissimo marmo color porpora proveniente dall'Egitto, era ritenuto il marmo dell'imperatore, tanto che ognuno di essi tenne a farsene fare una statua.

I marmi erano trasportati via mare dalle naves lapidariae, in grado di portare ciascuna da 100 a 300 tonnellate di marmo. Il luogo principale di destinazione era Roma e l’attracco avveniva alla statio marmorum di Ostia, un porto presso la foce del Tevere. Da qui i marmi affluivano, risalendo il fiume, nei magazzini di stoccaggio, in particolare nella zona sotto l’Aventino chiamata appunto Marmorata e poi, per la vendita e la lavorazione, nelle officine dei marmorari, ad esempio a Campo Marzio o nella zona tra le chiese di Santa Maria in Vallicella e di Sant’Apollinare.

I relitti di navi naufragate, rinvenuti nel Mediterraneo in epoca anche recente, permettono di ricostruire le rotte principali. Le navi trasportavano non solo blocchi di marmo ma anche elementi architettonici e altri tipi di manufatti scultorei in vario stadio di lavorazione, quali fusti, basi, capitelli, statue, sarcofagi ed elementi di arredo.

 

A partire dalla fine del II sec. d.c. il marmo lunense venne progressivamente soppiantato dal marmo proconnesio (utilizzato per la costruzione di Costantinopoli), un marmo bianco proveniente dalla piccola isola di Proconneso, nel mar di Marmara, favorita dalla vicinanza delle cave al mare, per cui i blocchi estratti potevano essere direttamente caricati sulle navi per il trasporto. L'abbondanza di vene sfruttabili anche per grandi blocchi e la produzione in loco di manufatti semirifiniti o finiti, dai capitelli, ai fusti di colonna, ai sarcofagi, permetteva di contenere ulteriormente i costi favorendo la diffusione di questo marmo nei secoli successivi.

Tratto dal sito: ROMANO IMPERO

All’inizio del VII-secolo il Pantheon fu convertito in basilica cristiana chiamata Santa Maria della Rotonda o Santa Maria ad Martyres: il fatto gli consentì di sopravvivere quasi integro alle spoliazioni inflitte dai papi agli edifici della Roma classica. Gli abitanti di Roma lo chiamavano popolarmente la Rotonna (“la Rotonda”).

La trave che passa sopra le colonne era completamente rivestita di bronzo così come lo erano le due porte gigantesche (alte sette metri) che anticipavano l’ingresso alla struttura e quindi alla sala circolare.

Una maestosità riconosciuta dai numeri

Ad oggi la struttura fa parte del demanio Italiano e conta migliaia di visitatori mensilmente tanto da superare nel 2017 le soglie degli otto milioni di visitatori annuali.

 

Calco-Gesso - Dimensioni: altezza: 46 cm -Provenienza: (originale) Museo del Louvre – Parigi

 

Gaio Giulio Cesare Ottaviano

 

(Roma, 23 settembre 63 a.C. – Nola, 19 agosto 14 a.C.) meglio conosciuto come Ottaviano o Augusto, è stato il primo imperatore romano dal 27 a.C. al 14 d.C., una persona che volle trasmettere l’immagine di sé come imperatore pacifico di quella Roma trionfatrice su tutto il mondo conosciuto. Egli lo fece attraverso un uso abile delle immagini e con l’abbellimento della città di Roma. Tutelò gli intellettuali che celebravano il principato, riqualificò il Senato e l’Ordine degli Equites. Fece molte importanti e durature riforme. Ma dal punto di vista militare di certo non eccelleva, cosa non da poco in quella Roma.

“Non era uno stratega né un cuor di leone in battaglia”

Ma Ottaviano aveva un asso nella manica in tal senso e rispondeva al nome di Marco Vipsanio Agrippa.

  

MARCO VIPSANIO AGRIPPA

AMMIRAGLIO

 

Come abbiamo già visto, Agrippa si dovette occupare di Sesto Pompeo che tentava di indebolire la posizione di Ottaviano agli occhi del Senato, si dedicarono alla pirateria e bloccarono i rifornimenti di grano provenienti dall’Africa per l’Impero, arrivando a conquistare anche la Sicilia.

In terra sicula, proprio in quell’occasione, conquistò gloria eterna quando nel 36 a.C., nella località di Nauloco, quando annientò completamente la flotta di Sesto Pompeo e grazie alle sue straordinarie capacità strategiche e militari, perse solo 3 navi, mentre Sesto Pompeo si ritirò con sole 17 navi sulle 350 che inizialmente aveva!

Proprio durante questo conflitto si cominciò a pensare che senza Agrippa, Ottaviano non sarebbe mai riuscito a compiere la sua straordinaria ascesa al titolo imperiale.

Ottaviano fece dichiarare Antonio nemico pubblico e il senato romano dichiarò guerra all’Egitto.

Ancora una volta toccò ad Agrippa prendere il comando della flotta quando scoppiò la guerra contro Antonio e Cleopatra. Sul finire del 32 a.C. I due sposi furono sconfitti nella battaglia di Azio, del 2 settembre 31 a.C., e si suicidarono entrambi l’anno successivo in Egitto. La vittoria di Ottaviano ad Azio, che gli diede il controllo di Roma, fu principalmente dovuta ad Agrippa.

Lo hai reso così grande che deve divenire tuo genero o essere ucciso

 

BATTAGLIA DI AZIO

IL SUO SECONDO CAPOLAVORO

LA NAVE DI AGRIPPA

Marco Vipsanio Agrippa, braccio destro di Ottaviano Augusto, fu un grande comandante e ammiraglio. Osservando le navi dei pirati illirici, concepisce un nuovo tipo di imbarcazione particolarmente adatto all’incontro ravvicinato. Saranno queste nuove costruzioni determinanti per la vittoria di Azio del 31 d.C.

 

Sulla Battaglia di AZIO getto la spugna… e vi affido ad un eccellente “PASSATO E PRESENTE” (Paolo Mieli), in cui è ospite il prof. Alessandro Barbero.

(Torino, 30 aprile 1959) – Storico, Accademico e scrittore, specializzato in Storia del Medioevo e in Storia Militare. 

 

LA BATTAGLIA AZIO

 

https://www.raicultura.it/storia/articoli/2019/02/La-battaglia-di-Azio-87574d9f-728b-4cd4-a402-5ddc56fb360e.html

 

GENOVA – LA CASA DEL BOIA   di Carlo Gatti

 

https://www.marenostrumrapallo.it/boia/

 

Agrippa da magistrato fece restaurare e costruire molte opere pubbliche (acquedotti, terme, templi, impianti fognari...). A Genova esisteva forse un recinto sacro in onore della famiglia imperiale, a lui dedicato.

Consiglio la lettura del saggio di cui riporto il titolo e LINK. Il bravissimo Ufficiale della M.M. Domenico CARRO vi convincerà che AGRIPPA è stato il più grande Ammiraglio che la “storia navale” ricordi. Un personaggio che più lo si conosce, più ci sorprende la sua enorme capacità d’esprimersi ai più alti livelli in molteplici campi dello scibile umano che, con grande spirito di servizio, affetto e amor di patria, mise a disposizione dell’Imperatore OTTAVIANO AUGUSTO del quale divenne anche genero, come abbiamo imparato da questa modestissima ricerca.

Di singolare e versatile ingegno Agrippa, va ricordato anche come autore di orazioni e memorie.

VESSILLO AZZURRO

LA STRATEGIA NAVALE DI AGRIPPA

Di Domenico CARRO

http://www.societaitalianastoriamilitare.org/COLLANA%20SISM/2014%20CARRO%20Vessillo%20Azzurro.pdf

 

Chi è Domenico CARRO

http://www.romaeterna.org/vitae.htm

 

Ricerca a cura di 

Carlo GATTI

Rapallo, 7 Marzo 2022


NAUTUCKET - LIGHT VESSEL - UNA STORIA DURATA 165 ANNI

NANTUCKET - LIGHT VESSEL - UNA STORIA DURATA 165 ANNI

Il 27 novembre 2018, sul sito di Mare Nostrum Rapallo, pubblicammo un articolo intitolato:

      IL MUSEO MARINARO TOMMASINO-ANDREATTA IN VISITA

ALLA CITTADELLA DI ALESSANDRIA

AL MUSEO DEL MARE DI TORTONA

https://www.marenostrumrapallo.it/nannin/

Tra poco scopriremo insieme che il MUSEO DEL MARE DI TORTONA ha dedicato un corposo saggio ai BATTELLI FANALE/LIGHT VESSEL–USA che oggi riporteremo “integralmente” con lo scopo di completare questo TEMA del quale, già dieci anni fa, nel gennaio del 2012, ci eravamo occupati. I BATTELLI FANALE nacquero nel Nord Europa inaugurando una pagina di Storia Navale, poco conosciuta al pubblico, ad esclusione dei NAVIGANTI.

Chi di questi si trovò a navigare e a “soffrire” nelle acque dell’ “English Channel” (LA MANICA), ed anche più a Nord, in Canali stretti e molto trafficati, tra le nebbie, i ghiacci e i bassi fondali, senza radar negli Anni ’40 e ’50, e spesso con questo strumento in avaria ancora negli Anni ’60, ed abbia usufruito del servizio di questi Battelli-Faro, ha sicuramente conservato una speciale gratitudine verso quella minoranza di “marinai” che scelse di dedicarsi ad una “strana” attività, votata esclusivamente alla SICUREZZA della navigazione.

Un sacrificio che, come vedremo in seguito, spesso costò loro la vita a causa di tempeste, speronamenti o collisioni con navi in transito.

               QUANDO I FARI GALLEGGIAVANO...

LIGHT VESSEL

                  https://www.marenostrumrapallo.it/battelli-fanale/

Purtroppo, di questa “minoranza speciale” di marinai si sa veramente poco. Nel mondo del mare i MARINAI sono considerati soggetti “comprimari”, angeli senza nome in transito… al servizio esclusivo dei bordi navali i quali, al contrario, sono “creature tecnologiche” che, per quanto piccole o grandi esse siano conservano, nel bene e nel male, la loro storia, che viene tramandata sulle onde ricorrenti dell’oceano, per diventare oggetto di tanti appetibili mercati: libri di storia, romanzi, films, quadri, ricercatissimi cimeli che passano da una famiglia all’altra e sono destinati a vivere ab aeternum.

Fateci caso, siano esse famose navi passeggeri, mercantili/militari o piccoli Light-Vessel, se ne citano i CELEBRI nomi esaltandone l’importanza, la bellezza, la grandezza, la potenza e quasi mai vengono resi noti i nomi dei loro Comandanti, Ufficiali ed Equipaggi.

Ovviamente, la situazione si ribalta nel caso di naufragi, tragedie e collisioni quando, in questi casi, le colpe sono “quasi” sempre umane e, solo allora, dei protagonisti imbarcati si vengono a conoscere vita e miracoli…

In MARE non ci sono TAVERNE e neppure i MEDIA …!

Le NAVI-FARO oggi si trovano nei musei a cielo aperto, tranquillamente ormeggiate in decine di porti-canale dove hanno operato e lasciato tracce storiche. Sono manutenute, fotografate e visitate, ma dubito fortemente che i visitatori di terra, non per colpa loro, possano coglierne il vero spirito di sacrificio dei loro equipaggi!

NAVE FARO

Una LIGHT-VESSEL è una imbarcazione che ha la funzione di faro che viene utilizzata in acque troppo profonde per la costruzione di un faro in muratura. La storia antica ci riporta di fuochi di segnalazione accesi sulle navi già dall'epoca romana.

La prima nave-faro moderna fu posta presso il “banco di sabbia NORE” alla foce del Tamigi in Inghilterra, dall'inventore Robert Hamblin nel 1732.

 

Questo tipo di nave riconoscibile dal colore rosso dello scafo è oggi considerato obsoleto, molte vecchie imbarcazioni sono state sostituite, con l'avanzare della tecnica, da veri fari o grandi boe automatiche.

È possibile distinguere tra;

  • battelli-faro: sono costituiti da uno scafo sul quale è montato un apparato luminoso di grande potenza. Sono in genere forniti di un minimo di equipaggio e sono ancorati in acque relativamente basse in punti particolari per la navigazione, ma dove è impossibile costruire un faro;

  • battelli-fanale: simili al battello-faro, ma con un apparato luminoso di portata più limitata, in genere sono senza equipaggio e segnalano pericoli al largo della costa.

Perché ce ne occupiamo di nuovo?

La “pista” battuta a suo tempo dal Com.te Ernani Andreatta, autorevole esperto di Musei Marinari, mi ha incuriosito fino ad introdurmi nei meandri delle ricerche effettuate dai curatori del MUSEO DEL MARE DI TORTONA, veri uomini di mare “piemontesi”, veri appassionati di storia militare e mercantile.

Mi sono così imbattuto nell’argomento, che riguarda proprio i BATTELLI FANALE, ma questa volta, e devo dire con molta ammirazione, d’aver apprezzato la serietà delle loro ricerche storiche, la completezza della descrizione dei mezzi per ogni fase della loro evoluzione tecnica, nonché il recupero davvero prezioso delle immagini.

Il nostro articolo accennato all’inizio, aveva trattato in forma riduttiva l’argomento, ben sapendo che avrebbe interessato pochi “marittimi” che ancora hanno nelle orecchie i caratteristici rintocchi della campana anti-nebbia del Nord Europa e dell’altra sponda dell’Atlantico.

Qui a Tortona, al contrario, siamo in presenza di un lavoro “SUPERBO e COMPLETO” che ho sentito il dovere di riportare integralmente a beneficio non solo degli appassionati, ma soprattutto per chi ha navigato e sente tuttora un affetto speciale per chi rischiava di essere travolto dalle tempeste e condannati a vagare nell’oceano per settimane prima di essere recuperati, oppure speronati e affondati dalle navi in transito come tra breve leggerete…

MUSEO DEL MARE

TORTONA

 

“Gli uomini di mare vivono tutta la loro vita con la passione nel cuore e hanno l’anima inesorabilmente immersa nei silenzi, nel mistero, nella libertà, nel pericolo del mare.

Il museo è dedicato alla MARINERIA e conserva molti reperti, anche rarità, trasudati dalla passione dei gestori che costantemente si dedicano, promuovendo e valorizzando la storia, la cultura marittima e navale, e non dimenticando i ricordi dei tanti marinai tortonesi e dei dintorni.

Il museo del mare di Tortona nasce per volontà, tenacia e collaborazione del gruppo Marinai d’Italia “Lorenzo Bezzi” nel 2008 e il 10 giugno 2010, viene inaugurato ufficialmente alla presenza di autorità civili e militari

Attualmente il museo si estende su una superficie di 300 mq e conta circa 1500 reperti.Si segnalano per il notevole valore storico i cimeli della spedizione al Polo Nord del Duca degli Abruzzi Luigi Amedeo di Savoia, avvenuta nel 1900, appartenenti al concittadino Generale medico Pietro Achille Cavalli Molinelli. Ricco di reperti e modellini di navi, manichini con uniformi originali che lasciano a bocca aperta per la loro impeccabile eleganza e l’accurata conservazione. Visitando le ampie stanze tra l’elmo del palombaro, nasse e reti da pesca, sembra di essere immersi e catapultati nel romanzo “Ventimila leghe sotto i mari “di Jules Verne.

Interessante è la ricostruzione del siluro a lenta corsa, comunemente chiamato “maiale” e utilizzato dagli uomini rana, i sommozzatori incursori d’assalto. Non manca la macchina crittografica simile alla Enigma di produzione italiana in uso dagli anni 50, legata a una storia molto suggestiva, raccontata dai marinai che vi guideranno in questa splendida avventura sotto i mari. Sarà un tuffo nel passato con memorie incancellabili come quelle accadute al porto di Alessandria d’Egitto, con la rocambolesca vita dei sopravvissuti che fecero l’incursione alle navi ancorate in porto. Il museo d’inestimabile valore e fornito di reperti originali e introvabili di vita degli uomini del mare, è veramente bello; andate a vederlo, ne vale la pena! Offerta libera, non si paga nessun biglietto e sarete guidati da ex marinai!

 

STORIA DEL LIGHT VESSELNANTUCKET

Nella carta geografica si vede la posizione di NANTUCKET, punto di atterraggio delle navi provenienti dall’Europa e dirette a NEW YORK e BOSTON.

1)   Cosa è una nave FARO?

Una NAVE FARO (LIGHT SHIP o LIGHT VESSEL) è una nave che svolge la funzione di un faro in località ove era impossibile costruirne uno.
Sebbene si abbia notizia di fuochi di segnalazione accesi su navi già in epoca romana, la prima nave faro moderna fu posta presso il banco di sabbia Nore alla foce del Tamigi, in Inghilterra, dall'inventore Robert Hamblin, nel 1732.

Tradizionalmente hanno lo scafo dipinto in rosso, allo scopo di migliorarne la-visibilità.

Le navi faro in America vennero utilizzate per 165 anni, dal 1820 al 1985
Il loro scopo era di segnalare pericolosi banchi di sabbia in movimento, secche, acqua bassa, ingressi portuali, foci di fiumi, in punti in cui non era stato possibile costruire fari veri e propri.

2) – LA PRIMA NAVE FARO - USA

La prima nave faro degli Stati Uniti fu posta in servizio a Chesapeake Bay nel 1820 e il loro numero totale lungo la costa raggiunse il picco nel 1909 con il presidio di 56 località.

  
Nel 1915, il periodo d'oro delle navi faro statunitensi, c'erano 54 stazioni negli Stati Uniti; 36 al largo della costa orientale, 2 nel Golfo, 5 sulla costa occidentale e 11 nei Grandi Laghi.

Di queste navi, 168 furono costruite dallo United States Lighthouse Service* e 6 dalla United States Coast Guard, che la assorbì nel 1939.
Negli USA, fra coste e Grandi Laghi, si arrivò ad un totale di 120 stazioni. 
Col trascorrere del tempo e con l'evolversi della tecnologia, anche il numero delle stazioni di navi faro è mutato, fino a quando nel 1985 l'ultima nave faro è stata sostituita.

Dal 1820 al 1952 (quando fu costruita l'ultima nave faro), furono costruite 179 navi, fra quelle a vela, con scafo in legno, in ferro, a vapore e con motori diesel.

*Lo United States Lighthouse Service, noto anche come Bureau of Lighthouses (Ufficio dei fari), è stata l'agenzia del Governo federale degli Stati Uniti d'America che, sotto il controllo del Dipartimento del Commercio, era responsabile del rifornimento e della manutenzione di tutti i fari e i battelli-faro negli Stati Uniti, dall'epoca della sua istituzione nel 1910 fino al 1939, quando fu assorbita dalla United States Coast Guard.

 

3) Schoals: carta dei banchi

*Schoals: banchi

 

In particolare ci occuperemo delle navi faro che furono utilizzate in un'area a sud e ad est dell'isola di Nantucket, chiamata Nantucket Shoals*, estremamente pericolosa per la navigazione.

*La zona dei suoi banchi misura 23 miglia per 40 miglia e si trova appena fuori dalle rotte marittime transatlantiche. In alcuni punti, la profondità dell'acqua si riduce fino a tre piedi e le forti correnti mantengono i banchi in un costante movimento, rendendoli difficili da evitare.

Nel 1843, il numero dei naufragi avvenuti nell'area era nell'ordine di un centinaio, per cui il problema fu portato al Congresso, che, dopo 10 anni, approvò la costruzione di una nave faro per contrassegnare l'area in questione. con uno stanziamento di 15.000 dollari.

Nel 1853, i cantieri Tardy & Auld di Baltimora, nel Maryland, si aggiudicarono il contratto per la costruzione del Light Vessel 11 (LV-11) al prezzo contrattuale di 13,462 dollari. Una volta completata nel 1854, sarebbe stata conosciuta come la nave faro Nantucket New South Shoal.

La stazione che segnava i limiti delle pericolose Nantucket Shoals era l'ultima nave faro vista dalle navi in partenza dagli Stati Uniti, nonché il primo faro visto in avvicinamento.

 
La posizione della stazione era a 40 miglia (64 km) a sud-est dell'isola di Nantucket.
Sii trattava della nave faro più lontana del Nord America, esposta a forti correnti di marea e alle burrasche dell'Atlantico.

 

4) LIGHTSHIP - 11

La prima delle navi incaricata di presidiare la stazione dei Nantucket South Shoals, la LV-11, era basata su un robusto scafo in stile "goletta" comunemente usato in queste acque.

La nave svolgeva la sua funzione in una posizione molto esposta alle correnti e alle aggressioni dell'Oceano Atlantico.

L' LV-11 espletò il suo servizio per soli 18 mesi, fino a quando nel 1855, quando fu strappata dal suo ormeggio e trascinata per 50 miglia verso ovest, finendo per incagliarsi a Montauk Point.

Recuperata e rimorchiata ad un cantiere navale di New York, fu riparata con una spesa di 11.000 dollari e poi destinata ad una stazione meno esposta, per segnalare il Brenton Reef, nel Rhode Island.

Il disegno rappresenta una nave faro, simile al LV-11.

 

5) LIGHTSHIP – 1

Nel periodo in cui la LV-11 era in cantiere per le opportune riparazioni, fu sostituita dalla LV-1, nave molto simile, costruita nel 1855 presso il cantiere navale di Portsmouth per 48.000 dollari.

La Light Vessel n°1 era costruita in legno di quercia bianca e ed era dotata di due lanterne più un campanello di segnalazione da nebbia azionato manualmente.

La seconda nave faro di Nantucket si è comportò meglio in termini di longevità, ma non nel rimanere immobile.

 
Sebbene abbia servito fedelmente per quasi 37 anni, dai registri, peraltro incompleti, risulta che abbia perso il suo ormeggio almeno 23 volte. 
Nel 1878 un fortunale la trascinò alle Bermuda, a circa 800 miglia a sud di Nantucket!
La fine del suo servizio agli Shoals arrivò quando
una bufera di neve nel marzo del 1892, strappò le ancore e la nave scomparve per settimane.

Fu avvistata incagliata su una scogliera a Norman's Land vicino a Martha's Vineyard. L'equipaggio era fortunatamente sopravvissuto e la nave, una volta recuperata e riparata fu destinata in acque più calme.

 

6) LIGHTSHIP – 1

 

 

La LV-1 aveva due alberi su cui, di notte, venivano issate grandi lanterne. 
Le lampade a olio di balena all'interno di queste lanterne fornivano la luce, che nella migliore delle ipotesi, nebbia permettendo, poteva essere vista solo per poche miglia (al contrario delle lampade dell'ultima Lightship in servizio, che avevano un'intensità di 400.000 candele e potevano essere viste per 23 miglia)

 

 

      7) VITA DI BORDO

In alto un equipaggio di una nave faro e sotto uno dei costruttori di cestini di Nantucket.

 

La vita a bordo delle navi faro era noiosa per i lunghi periodi di isolamento e durissima a causa del continuo beccheggio e rollio capace di causar malessere persino a vecchi lupi di mare.

Un vecchio capitano di baleniere disse: “La cosa più solitaria che avesse mai visto in mare era un orso polare che galleggiava su un pezzo di ghiaccio nell'Oceano Artico; l'altra cosa più solitaria era la South Shoal Lightship".

Fu per questo che a bordo di quelle prime navi faro di stanza presso gli South Shoals gli uomini degli equipaggi iniziarono la tradizione della "fabbricazione di cesti". Questa divenne col tempo una vera e propria industria artigianale per i membri degli equipaggi di Nantucket. Il loro secondo mestiere era al tempo stesso un mezzo di diversione dalla reclusione a bordo, quanto una fonte di reddito extra.

 

 8)    LIGHTSHIP - 54

Nel 1891, il Lighthouse Board richiese una nave faro a vapore dotata di un segnale di nebbia a vapore per la stazione di Nantucket New South Shoal e ne ottenne l'approvazione nel 1892.

La Light Vessel 54 (LV-54) era una nave a vapore con scafo di ferro e sostituì la vetusta LV-1 il 13 novembre 1892, diventando la Nantucket New South Shoal Lightship.

Questa nave rimase in servizio fino al 10 aprile 1893 quando fu ritirata per riparazioni e per fornirla di 25 tonnellate di ghisa come la zavorra.
In questo periodo fu sostituita dalla LV-9.

Al rientro in servizio venne però ritenuta inadatta per un'area così esposta e il 26 luglio 1894 fu rimpiazzata dalla LV-58, andando a svolgere servizio a Boston.

 

 

9) LIGHTSHIP - 58

La LV-58 fu costruita nel 1894 dai cantieri Craig Shipbuilding di Toledo, Ohio al costo di 50.870 dollari.

 
Era costruita con un telaio in acciaio rivestito di ferro, dotata di due lanterne, un fischio a vapore da 12 pollici e un segnale da nebbia a campana azionato a mano. Ciascuna delle lanterne conteneva otto lampade a olio, con riflettori.

La Light Vessel 58 (LV-58) servì come nave faro Nantucket New South Shoal fino al luglio 1896, quando su richiesta di un gruppo di armatori di navi a vapore, il Lighthouse Board stabilì una presenza di navi faro a Fire Island per fornire un passaggio più sicuro al porto di New York. La LV- 58 fu quindi trasferita a Fire Island*.

*Fire Island è l'isola più grande e centrale della barriera esterna di isole parallela alla riva sud di Long Island, nello stato di New York.

10) LIGHTSHIP - 66

La LV-66 venne varata nel 1896 nei cantieri Bath Iron Works di Bath, nel Maine, al costo di 69.282 dollari.

Fu costruita su un telaio in acciaio rivestito di legno e dotata di una sirena a vapore da 12 pollici e un gruppo di quattro lanterne con lenti e luci elettriche montate in un alloggiamento a galleria su ciascuna testa d'albero. La nave faro 66 trasportava un evaporatore Baird e un apparato di distillazione utilizzati per produrre acqua potabile fresca dall'acqua di mare.

Il 6 luglio 1896, il Light Vessel-66 prese la posizione e assunse il ruolo di Nantucket New South Shoal Lightship. Tuttavia il Il 17 ottobre dello stesso anno, alla nave fu ordinato di spostarsi di 17 miglia e un quarto verso sud-est e il nome le fu mutato in Nantucket Shoals.

Nel periodo tra il 1896 e il 1900 fu trascinata varie volte alla aderiva, richiedendo la sostituzione di sette ancore a fungo e 565 braccia (1.033 m) di catena.

Necessitando di riparazioni, il il 5 dicembre 1905, fu sostituita dalla Relief Light Vessel 58, nella quale però, a seguito di una burrasca si infiltrò acqua nella sala macchine che ne spense le caldaie e, dopo una vana lotta con le pompe attivate a mano, dovette essere abbandonata dall'equipaggio e lasciata affondare.

 
Alla notizia dell'affondamento, la LV-66 tornò immediatamente alla stazione, arrivando il 18 dicembre 1905.

11) LV-66

Sulla LV-66, nel 1901 era stata installata, in via sperimentale, l'apparecchiatura telegrafica senza fili Marconi.

 
Nel 1904 la Lightship 66 divenne poi la prima nave faro degli Stati Uniti con apparecchiature radio permanenti.

Nel 1907 passò al servizio di soccorso, venendo sostituita dalla Lightship 87

 

12)- LIGHTSHIP - 85

La Lightship 85, era una nave in legno, costruita nel 1907 a Camden, nel New Jersey, per 99.000 dollari. La LV-85 fu trasferita alla Marina degli Stati Uniti per ordine esecutivo l'11 aprile 1917, insieme all'intero servizio dei fari.

Durante il servizio per la Marina, durante la prima guerra mondiale, proseguì la sua precedente routine di avvertimento del tempo di pace, allontanandosi da Nantucket Shoals e vigilando le acque vicine per presenza di U-Boot tedeschi.

I marinai della nave faro intervennero nel salvataggio delle vittime del "disastro della melassa" di Boston*, perché la LV-85 era in quel momento attraccata nelle vicinanze.

Dopo che la pace fu ripristinata nel 1919, la nave faro 85 fu restituita al Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti.

La LV- 85 fu poi trasferita al servizio di soccorso nel 1923, dopo essere stata sostituita nella stazione dei Nantucket Shoals, dalla LV-106.

* Disastro della melassa: il 15 gennaio 1919, un enorme serbatoio, di 15 metri d'altezza e 27 metri di diametro, contenente più di 8.700.000 litri di melassa (il dolcificante allora più usato in America) collassò su sé stesso. Tale cedimento provocò un'immensa ondata di melassa, alta tra i 2,5 e i 4,5 metri, che inondò una parte della città, a una velocità di 56 km/h.

L'onda di melassa sviluppò una forza sufficiente a sbriciolare le strutture della vicina stazione di Atlantic Avenue della ferrovia sopraelevata di Boston e fece deragliare un treno dai binari.

L'inondazione di melassa uccise 21 persone e ne ferì 150.

 

13) LIGHTSHIP-106

La foto superiore mostra una nave faro durante una tempesta, quella inferiore, una delle esercitazioni settimanali antiincendio e con la lancia di salvataggio, divenute una routine a bordo della LV-106, dopo l'incidente occorso alla LV-117.

La Lightship-106 venne costruita nel 1923 dai cantieri Bath Iron Works di Bath, nel Maine, per 200.000 dollari.

Aveva lo scafo in acciaio, era dotata di una sirena a vapore da 12 pollici, una campana azionata manualmente, una campana sottomarina, un oscillatore sottomarino, un radiofaro e una lanterna
elettrica con una lente di 375 mm (14,8 pollici) su ciascuna testa d'albero.

Sostituita dalla Lightship 117 nel 1931, passò al servizio di soccorso.
Tornò a Nantucket dopo l'incidente occorso alla Lightship 117 nel 1934 fino a quando fu nuovamente sostituita con la Lightship 112 nel 1936.

 

14)- CAMPANE SOTTOMARINE

Quello delle "campane sottomarine", era un sistema di segnalazione che vediamo applicato alla nave faro (del tipo della LV.106) sulla destra del disegno. 
L'apparato fu brevettato e prodotto dalla Submarine Signal Company di Boston.
L'azienda produceva segnali acustici sottomarini, prima campane e ricevitori poi trasduttori, come ausilio alla navigazione.

I segnali erano associati a luci e altri apparati fissi o installati a bordo delle navi e consentivano di avvisare le navi di pericoli per la navigazione o la segnalazione tra le navi stesse.

Le campane originali furono rapidamente sostituite dall'oscillatore Fessenden, un trasduttore, sviluppato a partire dal 1912 presso la Submarine Signal Company. Quel trasduttore permetteva sia l'invio che la ricezione, portando a importanti progressi sia nei segnali sottomarini che nell'estensione nella telegrafia sottomarina e negli esperimenti con la comunicazione telefonica subacquea e infine il al sonar.

 

15) LIGHTSHIP - 106

La Lightship - 106 fu poi danneggiata da una collisione alle 12,30 del 13 novembre 1949 nella nuova stazione alla quale era stata destinata.

La fotografia dimostra quanto, il servizio di nave faro fosse intrinsecamente pericoloso, sebbene in questo caso non ci fossero state vittime.

 

16) LIGHTSHIP - 117

Varata nel 1931 dai cantieri Charleston Drydock & Machine Co, per 274.434 dollari, era una nave con scafo in acciaio e tughe in acciaio a prua e a poppa.
La propulsione era diesel-elettrica: quattro motori diesel da 101 cavalli (75 kW) azionavano i generatori, fornendo energia sia per l'apparato di segnalazione che per un motore di propulsione elettrico da 350 cavalli (260 kW).
Aveva in dotazione una lanterna con luci elettriche con lente da 375 mm (14,8 pollici) su ciascuna testa d'albero, una sirena da nebbia elettrica sull'albero maestro e campanello d'allarme antinebbia manuale.

Era ormeggiata con catene d'acciaio di 30 braccia (180 piedi) per 2 pollici (5,1 cm) di diametro attaccati a una coppia di ancore da 7.000 libbre (3.200 kg).
Ciò nonostante, la tempesta del 27 giugno 1933, ne ruppe le catene di ormeggio, allontanandola dalla sua posizione per diversi giorni.

Oltre ai rischi creati dalle condizioni meteorologiche, le navi faro erano esposte anche al pericolo del traffico navale che, con la loro presenza contribuivano a proteggere.

Il 6 gennaio 1934, la LV-117 subì una collisione dalla SS Washington (all'epoca il più grande transatlantico mai costruito negli Stati Uniti), riportando danni alle antenne radio e allo scafo.

 

17) – LIGHT VESSEL - 117

 

Tuttavia una volta riparati i danni e tornata in servizio, pochi mesi dopo, nella notte del 14 maggio 1934 la sorte le fu meno benigna.

L'Olympic (nave gemella del perduto Titanic) avvolta nella nebbia si stava dirigendo verso il radiofaro della LV-117 dopo aver ridotto la propria velocità a 12 nodi.

Il segnale radio e i segnali da nebbia della nave faro furono captati dall'Olympic verso le 10,55 e sembravano provenire da dritta della prua. 

Il capitano dell'Olympic ordinò di accostare di dieci gradi a sinistra e di ridurre la velocità a dieci nodi.

Il suo operatore radio tentò senza successo di entrare in contatto con LV-117 per determinare la sua posizione esatta.

  
I segnali acustici per la nebbia erano apparentemente provenienti da una distanza maggiore, sempre a dritta.

Sembrava che l'Olympic fosse ben lontano dalla nave faro, ma pochi minuti dopo la vedetta individuò la LV-117 esattamente di prua. 

Una improvvisa virata e la riduzione della velocità a 3 nodi non bastarono a salvare la Lightschip 117.

Speronata da una nave di 52.000 tonnellate (75 volte più grande della nave faro, che era di sole 630 tonnellate), la LV-117 affondò rapidamente.

Le lance messe in mare dall'Olimpyc recuperarono solo sette degli undici membri dell'equipaggio, e di questi, tre morirono a bordo per le ferite riportate.

La nave faro 117 giace ora a circa 61 m di profondità, coricata sul suo lato sinistro, in un'area con correnti imprevedibili fino a 3 nodi, che rendono una immersione difficile e pericolosa, anche per le molte reti da pesca impigliate nel relitto.

 

 

18- LIGHTSHIP - 112

Nel 1936, i cantieri Pusey & Jones di Wilmington, Delaware costruirono la Lightship 112 la più grande nave faro di sempre, al costo di 300.956 dollari. Questa nave fu pagata dal governo britannico come riparazione per la mortale collisione tra Olympic e Lightship 117.

Durante la seconda guerra mondiale, la Lightship 112 fu ritirata dalla stazione di Nantucket Shoals e utilizzata come nave d'avvistamento a Portland, nel Maine. 

Il 5 gennaio 1959, fu trascinata a 80 miglia (130 km) dalla sua stazione da un uragano.

Questo evento fece si interrompessero le comunicazioni radio per diversi giorni, a causa di alcuni componenti elettronici danneggiati dall'acqua. 

La nave faro 112 sopravvisse a tutte le altre navi faro assegnate a quella stazione. 
Dopo averla contrassegnata per 39 anni, il 10 maggio 2010, la Lightship LV-112, tornò a Boston per lavori di ristrutturazione e conservazione.

 

19)- Lightship - 112

Nella fotografia, la Lightship 112 nel porto di Boston nel 2018

 La Lightship 112 è stata dichiarata National Historic Landmark nel 1989, quando si trovava presso il molo del Southern Maine Vocational Technical Institute a South Portland, nel Maine.

Avrebbe dovuto tessere trasferita permanentemente a Staten Island, New York, ma rimase per diversi anni a Oyster Bay, New York.

 
Acquistata nell'ottobre 2009 dallo United States Lightship Museum (USLM) sotto la guida di Robert Mannino Jr. per la simbolica cifra di 1 dollaro, è arrivata nel porto di Boston l'11 maggio 2010, dove è in fase di ristrutturazione come museo galleggiante, ma aperta al pubblico presso il Boston Harbor Shipyard.

 

     20) - LIGHTSHIP WLV-612 (Nantucket I)

 

Costruita nel 1950 a Curtis Bay, nel Maryland dalla Guardia Costiera degli Stati Uniti Yard al costo di 500.000 dollari, la Lightship 612 è stata l'ultima nave a servire un intero turno di servizio alla stazione di Nantucket Shoals ed è stata anche l'ultima nave faro degli Stati Uniti in servizio.

 

21- LIGHTSHIP WLV-613 (Nantucket II)

 

Costruita presso lo United States Coast Guard Yard a Curtis Bay, Baltimora, Maryland nel 1952, fu l'ultima nave faro mai costruita e varata negli Stati Uniti e anche l'ultima nave faro messa in servizio.

 
Commissionata nel settembre 1952 come WAL-613 con un albero convenzionale, le fu montata, nel 1953, una grande lanterna cilindrica installata su un treppiede, con una luce rotante dell'intensità 5,5 milioni di candele.

Presidiò, col nome di Ambrose , l'Ambrose Channel a New York dal 1952 al 1967, quando fu sostituita dalla stazione-faro Texas Tower.

Divenne nave soccorso per la costa del Massachusetts fino al 1975, con il nome di Relief.

Nel 1980 infine fu ribattezzata Lightship Nantucket II e assegnata alla stazione dei Nantucket Shoals, dove si alternò con la sua nave gemella, la Lightship Nantucket (WLV-612), con turni di 21 giorni.

Alle 2:30 del mattino del 20 dicembre 1983 la Lightship 613 sostituì per l'ultima volta la Lightship 612 fino alle 8:00 quando entrò in funzione una Large Navigational Buoy, rendendo la Lightship 613 l'ultima nave faro in servizio degli Stati Uniti e alla stazione di Nantucket.

22)–APPARATO OTTICO PER LA LIGHTSHIP-613

Nel dicembre 1983 la Lightship 613 fu venduta al New England Historic Seaport per diventare una nave museo a Boston.

La Lightship 612 fu riassegnata al servizio di cutter della Guardia Costiera.
Dopo essere stato dismessa il 29 marzo 1985 e terminata l'era di 165 anni di servizio delle navi faro degli Stati Uniti, la Lightship 612 fu venduta al Boston Educational Marine Exchange e poco dopo fu rilevata dal Commonwealth del Massachusetts.

Nel marzo 2000, è stata acquistata da William e Kristen Golden, restaurata come unica nave faro pienamente operativa negli Stati Uniti e convertita in uno yacht di lusso che è stato ormeggiato a Rowes Wharf a Boston.
Nell'estate del 2007 era disponibile per charter* nel porto di Nantucket e Newport. 
La Nantucket Lightship WLV612 è stata noleggiata per un anno dal Delamar Hotel un hotel a 5 stelle a Greenwich nel Connecticut mentre nel 2008, è stata utilizzata per la crociera estiva del New York Yacht Club. 
Successivamente è stata noleggiata dal novembre 2008 al 31 maggio 2009 presso The North Cove Marina al World Financial Center di Manhattan, New York. 
Durante le estati del 2009 e del 2010, la Lightship WLV-612 è stata attraccata a Martha's Vineyard on Charter a Martha's Vineyard, Nantucket, Newport e Long Island Sound, tornando nell'autunno del 2010 per i charter a Newport.
*charter: noleggio di una nave armata e completa di capitano ed equipaggio che sono tenuti ad eseguire i viaggi ordinati dal noleggiatore, il quale, a sua volta, deve corrispondere loro salari e panatica (indennità nel caso l'armatore non sia in grado di fornire il servizio di mensa a bordo della nave)

Dalle ancore di epoca romana alle più recenti opere si percorre tutta la storia della Marineria Italiana, un emozionante viaggio della vita e degli uomini di mare e di tanti cittadini tortonesi che con onore e merito hanno, in alcuni casi, sacrificato la loro vita per la patria. Tra il materiale esposto l'onore del primo posto spetta al Tricolore Sabaudo, seguito dalla strumentazione per comunicare, per le incursioni subacquee, per navigare. Non mancano modelli di navi tra cui l'ammiraglia della Marina nella 2ª guerra mondiale "Corazzata Roma", la nave scuola "Amerigo Vespucci" e la più recente "Portaerei Cavour".
La realizzazione del museo è dovuta ad un superbo e caparbio lavoro dei soci del gruppo A.N.M.I. Medaglia d'Oro al valore militare "Lorenzo Bezzi" che hanno provveduto alla sistemazione dei locali, il reperimento e l'allestimento dei cimeli e delle opere.

   

Carlo GATTI

Rapallo, 18 febbraio 2022

 

 

MUSEO DEL MARE 

Musei, biblioteche e gallerie

via Pietro Pernigotti, 12

15057-Tortona

Tel:+39335.6715822/348.1498791
http://www.facebook.com/MuseoDelMareTortona/

orario: sabato:09-12//16-19


IL SUPERBACINO LASCIA GENOVA SENZA RIMPIANTI

Il SUPERBACINO lascia Genova senza rimpianti

Quattro rapallesi parteciparono a quella difficile manovra

Il porto di Genova era già stato in passato teatro d’innumerevoli manovre “rognose” di  superpetroliere, porta-contenitori di ultima generazione, le famose navi passeggeri QE/2 e Norway, portaerei, piattaforme, navi speciali ecc… ma il solo pensiero di spostare e mettere in uscita un manufatto costruito in cemento armato, lungo 370 mt., largo 80 e alto una ventina di metri, faceva tremare i polsi, non solo alle alte cariche cittadine che avevano deciso di liberarsene, ma soprattutto al Corpo Piloti  che ricevette l’ordine di studiare la manovra e realizzarla nella massima  sicurezza.

Questa megastruttura, nata e cresciuta in porto, era destinata al raddobbo delle supetroliere di 350.000 tonnellate di portata, che furono costruite dopo il blocco del Canale di Suez alla fine della Guerra dei Sei Giorni (6.6.67). La sua tormentata e penosa vicenda fu il risultato di errori di progettazione, di valutazione e programmazione che qui, per amor di patria, non intendiamo indagare, ma consentiteci tuttavia d’esprimere la nostra “non” isolata opinione, che il Superbacino fu ideato con lungimiranza e che rappresentò l’intelligente tentativo di dare al porto di Genova uno strumento tanto importante quanto necessario per lo sviluppo del ramo industriale, oltre che per restare al passo con i tempi. 

La comica risoluzione del problema esplose come un fuoco d’artificio quando ormai il manufatto era in via d’ultimazione. I lavori furono interrotti all'improvviso e la struttura assunse la veste di un ingombro enorme, un intralcio, un gigantesco mostro da eliminare, dopo venti anni d’assoluta inoperosità. La perentoria decisione politica sentenziò che il Superbacino era messo in vendita al miglior offerente, previa la rimozione ed il trasporto dell’impianto fuori del porto. Il manufatto, ovviamente, non era stato certamente concepito per essere spostato dal suo sito originale, né tanto meno per affrontare il mare aperto. Da questa “pratica” considerazione, detonarono le paure e le perplessità tecniche legate alla sua partenza.

Il Superbacino era, di fatto, un enorme galleggiante senza forme nautiche e nessuno osava immaginare quali sarebbero state  le sue reazioni al vento e alla corrente, e non dava inoltre alcuna garanzia di governabilità e di obbedienza ai richiami dei rimorchiatori. 

La sua forma, simile ad un enorme parallelepipedo vuoto e senza copertura, era il risultato dell’assemblaggio di otto elementi che era iniziato con il varo, tutt’altro che facile, del primo pezzo nel lontano 28 aprile 1975.

Lo spazio disponibile, ossia l’acqua di manovra per sfilarlo dalla sua posizione d’ormeggio verso il centro del canale, era così limitato da non consentire il benché minimo errore. Il punto debole della manovra era l’altezza della struttura che, moltiplicata per la sua lunghezza, esponeva al traverso della tramontana una superficie velica capace di farla scarrocciare di pancia, ad una velocità difficilmente contrastabile, qualora dalla bonaccia si fosse passati a rinforzi anche deboli del vento.

La minaccia d’urto contro le opere portuali era reale, e tale da far temere eventuali aperture di falle nella sua parte immersa, con il conseguente allagamento e appesantimento dell’impianto sino a toccare il fondale. A questo punto, l’incaglio del Superbacino nel centro dell’imboccatura  avrebbe chiuso il traffico portuale per molto tempo, causando ripercussioni economiche e commerciali di difficile valutazione.

Il Superbacino, ormeggiato di punta al lato occidentale della Nuova Banchina Industriale, è libero da terra ed  inizia a muovere verso la sua definitiva destinazione: la Turchia

Alle 04.00 del 26 luglio del 1997, quattro piloti: il CP Aldo Baffo, Giuseppe Fioretti, Carlo Gatti e Ottavio Lanzola presero posizione su ogni lato del Superbacino, quattro squadre di ormeggiatori si divisero i cavi da mollare e otto potentissimi rimorchiatori si disposero per sfilare il manufatto,  sostenendolo da ogni lato per evitare collisioni contro le opere portuali. La rotta tracciata rappresentava il binario sul quale doveva procedere il convoglio, nel più scrupoloso silenzio radio e  con la massima concentrazione da parte di tutti gli addetti alla manovra.

Verso le 05, alle prime luci dell’alba ed in completa assenza di vento, si udì in VHF  il “molla tutto da terra” e  dopo circa mezz’ora, il “libero da terra”. Il Superbacino iniziò a scivolare con sorprendente leggerezza e la sua velocità fu volutamente frenata per consentire ai due rimorchiatori “leaders di prora” di prenderlo a rimorchio nello stretto spazio della calata. Il loro compito era molto delicato e consisteva:

- nel “fargli da timone” durante lo sfilamento.

- Fermarlo in avamporto. 

- Trainarlo verso l’uscita.

- Consegnarlo infine al rimorchiatore russo stazionato fuori del porto.

Il compito d’eseguire quest’articolata manovra, fu assegnato a due comandanti rapallesi Giorgio Merello e  Giuseppe Percivale. Il terzo rapallese era Andrea Fioravanti,  direttore di macchina, imbarcato con Giorgio Merello.

Giunti in avamporto, nel punto di massima larghezza, accadde quanto era - in effetti - temuto dagli esperti. Al levarsi del sole sul Monte Fasce, improvvisamente soffiò una fresca tramontana che scaricò la sua pressione sul fianco sinistro del Superbacino, nel momento della sua massima vulnerabilità, mentre era fermo e senza abbrivo. In un attimo l’imponente struttura iniziò a scarrocciare verso la diga. Un rapidissimo consulto tra i Piloti fece scattare un ordine d’assoluta emergenza e tutti i rimorchiatori furono inviati immediatamente a spingere sottovento, eccetto quelli che erano già in tiro verso nord.

Quando i sei “mastini” iniziarono a spingere a tutta forza nella pancia del manufatto, si trovarono così vicini alla diga del porto che sembrava ormai inevitabile il loro intrappolamento. Gli fu chiesta l’extra potenza disponibile ed anche qualcosa di più….. 

Il Superbacino, che non provò mai la gioia di accogliere una nave nel suo seno, ebbe un’impennata d’orgoglio marinaro e si ribellò all’ennesima brutta figura. Presto riguadagnò la sua posizione nel centro del canale e s’avviò rassegnato, ma non sconfitto verso il mare aperto.

Il Superbacino è  in mezzo al canale. Il due  rapallesi, Merello e Percivale sono al comando dei due rimorchiatori trainanti che  lo consegneranno in rada al rimorchiatore oceanico russo

La partenza del Superbacino galleggiante fu un avvenimento davvero singolare. Per la città se ne andava una delle tante e inutili “cattedrali nel deserto”, un mostro che offendeva il suo panorama. Per il popolo portuale, al contrario, fu vissuto come uno spettacolo deprimente, con profondo senso di tristezza e di sconfitta per l’assurda vendita di una fonte di reddito per tanti lavoratori e operatori del settore marittimo-industriale.

 

Carlo GATTI

Rapallo, luglio 1997