16 MARZO 1951 - LA PETROLIERA MONTALLEGRO ESPLODE NEL PORTO DI NAPOLI

 

16 MARZO 1951 - LA PETROLIERA MONTALLEGRO ESPLODE NEL PORTO DI NAPOLI

 

 

Petroliera MONTALLEGRO: Armatore CAMELI

La società “Carlo Cameli & C.” viene fondata nel Luglio 1927 a Genova, si presentava all’inizio del secondo conflitto mondiale forte di una flotta di cinque motocisterne per oltre 13.000 tsl.

Alla fine del secondo conflitto mondiale, la flotta versava in una situazione catastrofica avendo perduto praticamente la totalità del suo tonnellaggio d’anteguerra ma a seguito di un programma di ricostruzione del naviglio sociale efficiente ed ambizioso, già nel 1953, la società poteva contare su un tonnellaggio leggermente superiore a quello dal 1940, circa 13.665 tsl. L’aliquota maggiore del nuovo tonnellaggio societario era rappresentato dalla T2 Montallegro (ex Crater Lake), la quale ebbe una vita molto avventurosa nel secondo dopoguerra, esplosa in due tronconi mentre era sotto discarica nel porto di Napoli nel 1951, venne riparata e continuò a navigare fino al 1965.

Tra le altre società satellite che il Gruppo controllava è opportuno citare la “Navigazione Toscana S.p.A.” che esercitava le linee da e per l’Arcipelago Toscano (Linea 81, 82, 82 bis, 83, 84), anch’essa duramente colpita dagli eventi bellici che la videro perdere il suo intero tonnellaggio ammontante a circa 4000 tsl.

Nel primo dopoguerra si dotò di due ex corvette della U.s. Navy riadattate al servizio passeggeri (PortoAzzurro e Portoferraio) e della motonave Pola, acquistata nel 1953.

 

Filmato dell’incidente registrato nel porto di Napoli

 

 

https://patrimonio.archivioluce.com/luce-web/detail/IL5000018848/2/esplosione-petroliera-nel-porto-napoli.html&jsonVal=

 

 

La lettura di questo articolo mi trasmette anche tanta tristezza nel vedere elencati tutti i nomi e cognomi dei “politici” intervenuti alla cerimonia funebre mentre sono stati del tutto ignorati quelli delle vittime. La mia ricerca di quei nomi e cognomi è stata vana quanto inutile!

 

IL NOME DELLA NAVE

Quando una nave porta il nome: “MONTALLEGRO”, ai RAPALLINI s’illuminano gli occhi, ed il loro sguardo si rivolge al santuario della Madonna di Montallegro che svetta a 612 mt. sul golfo Tigullio e che da almeno cinquecento anni i marinai e non solo loro, si sentono protetti da quel che ritengono uno scudo spirituale celeste testimoniato da centinaia e forse migliaia di ex voto marinari.

 

Santuario Basilica Nostra Signora di Montallegro (Rapallo)

 

Il Santuario di Nostra Signora di Montallegro nasce dopo l’Apparizione della Madonna del 2 luglio 1557 al contadino Giovanni Chichizola, nativo della vicina San Giacomo di Canevale; da quel giorno ormai lontano il Tempio, tanto caro alla gente tigullina emana, proprio come un FARO MARITTIMO, una forte luce diuturna per migliaia di naviganti che prima o poi lassù salgono in pellegrinaggio per pregare e lasciare una testimonianza di fede alla Madonna: un voto per GRAZIA Ricevuta durante il passaggio di un viaggio nell’inferno di CAPO HORN; ne abbiamo le testimonianze: tre velieri su cinque erano disalberati dai venti ruggenti e urlanti di quelle latitudini e si perdevano nei gelidi abissi dell’emisfero australe.

Tavolette, dipinti rustici, cuori argentati, grucce, vecchi fucili, proiettili, bombe a mano e molti altri attrezzi marinareschi ancora salati: pezzi di salvagente, di cimette e bozzelli che oggi sono scatti fotografici che fermano il tempo e ci rendono partecipi di quei tragici momenti sofferti dalla gente di mare. Testimonianze che nell’assumere valore religioso, esprimono la fede, la speranza di salvezza e di protezione, ma sono anche l’espressione di una gratitudine profonda ed indicibile.

Il sottile filo del tempo corre dalla preistoria fino ai giorni nostri unendo questi figli del mare immersi in tutte le attività ad esso collegate. Marinai che dopo aver affrontato bonacce insidiose e tempeste estremamente pericolose, combattevano spesso a mani nude contro i frequenti attacchi dei pirati barbareschi che li depredavano, li sequestravano e li tenevano prigionieri nelle loro cale barbaresche in attesa del riscatto che veniva concordato con il “Magistrato genovese del riscatto degli schiavi”.

Dalle avventure di tal genere nascono spontanei gli ex voto raccolti a Montallegro e nei santuari mariani della nostra riviera, quale atto di devozione e di gratitudine per lo scampato pericolo, ma anche come manifestazione di religiosità, di quel senso spirituale che ogni uomo ha radicato in sé e che si estrinseca nei momenti difficili della vita.

 

 

La petroliera Montallegro stava facendo lavori di manutenzione nel porto di Napoli, era quindi “vacante” (vuota di carico).

Era il 16 marzo 1951. Come visto nel filmato, l’esplosione a poppavia divise la nave in due tronconi, seguita da un pericoloso quanto esteso incendio che costrinse le navi ormeggiate vicino al disastro ad allontanarsi in estrema emergenza.

La parte prodiera rimase a galla. La parte poppiera, contenete il “locale pompe”, caldaie, turbine ed il motore della nave affondò precipitando sul fondale.

A bordo c’erano 150 operai. 6 furono i morti e 51 i feriti.

Tra le vittime c’erano l’Ingegnere di fiducia dell’armatore Cameli e l’Allievo di coperta della Montallegro che, al momento dello scoppio si trovavano vicini alla cisterna esplosa.

Le salme furono trovate fuori bordo a parecchi metri di distanza dalla Montallegro, le altre vittime erano operai del Cantiere.

 

LA CAUSA

Si seppe in seguito che la cisterna responsabile era la n.9 centrale. Nell’ambiente intanto circolava insistentemente il “rumor” che sul fondo della cisterna c’erano residui del carico precedente che esalavano gas. Un estrattore d’aria, usato per arieggiare la cisterna, era difettoso e aveva prodotto la scintilla di innesco della miscela esplosiva di gas e aria esistente nella cisterna.

Il grande incendio era dovuto all’innesco dei gas ancora presenti in cisterna. Il concetto tecnico che definisce la causa più probabile del disastro sarebbe questo:

“la cisterna non era correttamente GAS FREE”

Sulle petroliere sono stati richiesti sistemi a gas inerte a partire dai regolamenti SOLAS del 1974.

L’Armatore Carlo Cameli, sentiti i periti del RINA (Registro Navale Italiano) e dello ABS (American Bureau of Shipping) decise di recuperare e riparare la nave.

Riporto uno stralcio dell’articolo scritto dall’Allievo di coperta Dino Bolla di Savona, che alla fine degli anni ’60 conobbi come ufficiale sui Rimorchiatori d’Altura di Genova. Una bella persona che raggiunse il Comando e fece una brillante carriera.

“Mentre aspettavamo che il cantiere finisse i lavori, assistevo ai lavori degli operai in coperta, senza disturbarli; io mi tenevo in disparte e non parlavo. Ma, ogni tanto, qualcuno mi diceva, come se non lo sapessi, che il mio predecessore aveva fatto una brutta fine. Ribattevo che con operai a bordo sarei stato molto attento. C’erano anche quelli che mi dicevano che, con mare agitato, le saldature che collegavano i due pezzi di scafo potevano rompersi; ribattevo che i Periti del RINA e del ABS, con i quali ero in buoni rapporti (ed era vero), mi avevano detto che la nave era più robusta di prima, perché avevano fatto aumentare il numero di strisce longitudinali di rinforzo, in acciaio, sulle saldature che univano i due pezzi dello scafo.

…. Venne presto il giorno della partenza. Il primo viaggio fu da Napoli, in zavorra, a Ras Tanura, nel Golfo Persico, per caricare crude oil. Prevista prosecuzione per Swansea, UK, per scaricare. A bordo tutto funzionava come se la MONTALLEGRO  fosse nuova.”

Riporto integralmente l’articolo di Dino Bolla perché ritengo sia prezioso per il lettore e, soprattutto per i giovani che si avvicinano oggi alla vita di mare per comprendere meglio l’atmosfera di bordo del dopoguerra in cui lavorarono e vissero i loro nonni.

LA PETROLIERA MONTALLEGRO

https://docplayer.it/docview/40/21087833/#file=/storage/40/21087833/21087833.pdf

 

 

LA M/N MONTALLEGRO ERA UN T/2 – USA

 

 

UN PO’ DI STORIA

Nel 1946 furono offerte all’Armamento italiano importanti possibilità di rinnovamento e di ricostruzione: il provvedimento del Governo in data 20 Agosto 1946 concedeva in particolare agli Armatori di trattenere la valuta estera introitata perché fosse impiegata nell’acquisto di naviglio usato e lo Ship Act degli Stati Uniti consentiva la vendita all’estero di navi residuate di guerra a condizione di particolare favore. Per facilitare l’acquisto delle navi furono stipulati accordi tra il Governo degli Stati Uniti e quello Italiano, per cui il Governo Italiano provvide a comperare in proprio le navi dalla U.S. Marittime Commission e a rivenderle agli armatori secondo un criterio di preferenza in base alle perdite subite. Il prezzo medio di ogni Liberty si aggirava sui 225.000 $. Il Governo Italiano provvide, inoltre a fornire agli Armatori la valuta per il pagamento immediato del 25% del prezzo e al Governo degli Stati Uniti la garanzia per il pagamento del residuo 75% in 20 anni al tasso del 3,50%. Furono così acquisite alla bandiera italiana in tre lotti successivi 95 navi da carico del tipo “Liberty” o similare, di circa 7.600 t.s.l. e 10.800 t.p.l, 20 navi cisterna del tipo “T/2” di circa 10.400 t.s.l. e 16.600 t.p.l. e otto navi da carico del tipo “N3” di circa 2.000 t.s.l. e 2700 t.p.l.

 

Navi della Reserve Fleet USA ormeggiate in massima sicurezza

 

20 dicembre 1972 - Foce del fiume James (nei pressi di Newport News, Virginia).

Mercantili tipo “Victory” in stato di conservazione nell’ancoraggio della National Defence Reserve Fleet. Entro la fine del decennio saranno tutti avviati alla demolizione.

(Foto U.S. Naval Institute)

 

 “Al primo impatto con quella baia ricoperta di centinaia di Liberty ancorati ed affiancati a rovescio, (prora con poppa), ci venne naturale riflettere su quell’immensa produzione bellica ed alla presunzione di chi ci aveva governato per vent’anni e che non aveva minimamente stimato il patrimonio umano, la ricchezza, le capacità tecniche ed organizzative, di quella potenza economica che era l’America di quel tempo. E ci fu subito un’altra sorpresa: ci aspettavamo, dato il basso costo d’acquisto della nave, d’imbarcare s’un residuato bellico quasi da demolire. Al contrario ci trovammo su un Liberty perfettamente funzionante, in ottimo stato di conservazione, perché era visibile, in ogni suo angolo, l’opera di una manutenzione accurata ed eseguita ogni giorno durante la sosta alla fonda. La nave era provvista di frigoriferi, ampie salette, cabine singole per gli ufficiali e doppie per la bassa forza. La strumentazione nautica: girobussola, radiogoniometro, eco-scandaglio, costituiva una novità assoluta per quell’epoca. Devo dire che tutto il materiale a nostra disposizione sul Liberty era all’avanguardia per quei tempi”.

 

 

Reserve Fleet: Navi “VIctory” – “T/2” ed altre ormeggiate sull’Hudson River

 

 

 

Petroliera T2

 

Immagine di una T/2 in versione militarizzata.

The U.S. Type T2-SE-A1 tanker Hat Creek underway at sea on 16 August 1943.

La petroliera T2 è stata una nave costruita per il trasporto di petrolio e suoi derivati, progettata e realizzata negli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale. 

La T2 standard aveva le seguenti caratteristiche:

Lunghezza totale:152,9 mt. 

Larghezza massima: 20,7 m.  

Stazza: 8.981 tonnellate 

Portata lorda: 16.104 tonnellate.

Dislocamento totale standard di una T2: si aggirava intorno alle 19.141 tonnellate.

 

Le petroliere T2 avevano per l'epoca delle dimensioni rilevanti, superate solo dalle petroliere T3, che però furono costruite solo in cinque esemplari. 500 furono le T2 costruite tra il 1940 ed il 1945, molte delle quali furono utilizzate per decenni dopo la fine della guerra. Come altre navi realizzate in questo periodo, andarono incontro a problemi di sicurezza: dopo che nel 1952  due T2 - lSS Pendleton e la SS Fort Mercer - andarono perdute a distanza di poche ore spezzandosi in due tronconi (l'equipaggio della Pendleton venne tratto in salvo da una difficilissima e storica operazione condotta dal marinaio Bernard Webber  a bordo di una motovedetta CG 36500), lo U.S. COAST GUARDA MARINE BOARD OF INVESTIGATION dichiarò che queste petroliere erano inclini a spezzarsi in acque fredde, pertanto vennero aggiunte alla struttura della nave delle strisce di acciaio. Le inchieste tecniche attribuirono inizialmente la tendenza delle navi a spezzarsi alle scarse tecniche di saldatura.  In seguito venne stabilito che, durante la guerra, l'acciaio utilizzato per la loro costruzione aveva un contenuto di zolfo troppo elevato, che lo rendeva fragile alle basse temperature.

 

LE ALTRE VERSIONI DELLA T2:

Il progetto della T2 venne formalizzato dalla United States Maritime Commission  come tipologia di petroliera per la Difesa Nazionale di medie dimensioni. La nave veniva costruita per il servizio commerciale ma in caso di conflitto poteva essere utilizzata come nave militare inserita nella flotta ausiliaria. La Commissione si faceva carico della differenza dei costi aggiuntivi dovuti all'inserimento di tutte le caratteristiche necessarie per l'impiego militare della nave e che andavano oltre i normali standard commerciali.

Il modello T2 venne basato su due navi costruite nel 1938-1939 dai cantieri Bethlehem Steel per la Socony-Vacuum Oil Company. Le due navi, Mobifuel e Mobilube, differivano dalle altre navi Mobil principalmente per l'installazione di un motore più potente che poteva garantire una maggiore velocità.

Le sue turbine a vapore fornivano 8.900 KW (12.000 hp) ed azionavano un’elica singola che poteva spingere la nave fino ad una velocità di 16 nodi. 

In totale ne sono state costruite sei utilizzate per l'impiego commerciale presso i cantieri Bethlehem-Sparrows Point Shipyard che avevano sede in Maryland. Subito dopo l'attacco a Pearl Harbor le navi sono state prese in carico dalla U.S. Navy dove vennero riunite nella classe Kennebec.

 

La T2-A

La società Keystone Tankships ordinò nel 1940 la costruzione di cinque cisterne che vennero realizzate presso i cantieri Sun Shipbuilding & Drydock di Chester, Pennsylvania. Erano basate sul progetto delle T2 ma erano più lunghe ed una maggiore capacità di trasporto. La Commissione designò queste navi come T2-A.

Avevano una lunghezza di 160,3 m ed un dislocamento di 20.361 tonnellate. La stazza era di 9.616 tonnellate con una portata lorda di 14.787 tonnellate. Raggiungevano una velocità di 16,5 nodi e furono tutte requisite dalla Marina durante la guerra. Furono trasformate in petroliere per la flotta come classe Mattaponi.

 

 

La T2-SE-A1

Costituiva la tipologia più popolare delle petroliere T2. Questa versione era nata come progetto di una nave destinata all'impiego commerciale. La loro costruzione avvenne a partire dal 1940 presso i cantieri Sun Shipbuilding Company per la Standard Oil Company del New Jersey. Aveva una lunghezza di 159,4 e una larghezza di 20,7 m. La stazza era di 9.478 tonnellate e una portata lorda di 15.071 tonnellate. Il loro sistema di propulsione era turbo-elettrico che forniva 6.000 hp (4.474 kW) all'albero con la potenza massima raggiungibile di 5.400 kW (7.240 hp). La velocità massima era di 15 nodi con una autonomia di 12.600 miglia.

Dopo Pearl Harbor la Commissione ordinò la costruzione in massa di questo modello con il quale rifornire tutte le unità da guerra che allora erano in costruzione.

Ne sono state costruite 481 in un tempo relativamente breve nei cantieri Alabama Drydock and Shipbuilding Company di Mobile, Alabama, i cantieri Swan Island Yard della Kaiser-Company di Portland - Oregon nei cantieri della Marinship Corp di Sausalito - California  e nei cantieri Sun Shipbuilding and Drydock Company di Chester-Pennsylvania. Il tempo medio di costruzione di una di queste navi, dalla posa della chiglia al completamento, era di 70 giorniIl record di velocità di costruzione è stato quello della SS Huntington Hills che era pronta per le prove in mare dopo soli 33 giorni in cantiere.

 

Le T2-SE-A2

Era una versione costruita solo nei cantieri Marinship di Sausalito. Era una copia quasi identica della T2-SE-A1 dalla quale differiva solo per la potenza del motore che era di 7.500 kW (10.000 hp) invece che di 7.240 hp (5.400 kW).

 

La T2-SE-A3 

era una -A2 costruita però fin dall'inizio come rifornitore di flotta piuttosto che modificata per tale compito come molte altre A2.

 

T3-S-A1

La versione T3-S-A1, nonostante la sua denominazione che può creare confusione, venne costruita nei cantieri Bethlehem Sparrows Point per la Standard Oil del New Jersey. Erano identiche alle T2 originali, tranne che per la minore potenza del motore che era di 5.742 kW (7.700 hp). Ne vennero ordinate venticinque unità delle quali cinque furono utilizzate dalla Marina che le riunì nella classe Chiwawa.

Come abbiamo già visto, la petroliera MONTALLEGRO fu acquistata dall’Armatore Carlo CAMELI di Genova. Per chi volesse conoscere meglio la storia di questo Armatore propongo il seguente LINK:

https://www.treccani.it/enciclopedia/carlo-cameli_%28Dizionario-Biografico%29/

 

 

RIFLESSIONE FINALE

Come da consuetudine, durante i lavori di manutenzione annuali, il personale di bordo viene sbarcato per fine contratto, oppure viene mandato in licenza. Fu soltanto per questo motivo che l’equipaggio della MONTALLEGRO può definirsi salvato “P.G.R.” dalle terribili conseguenze di quell’esplosione del 16 marzo 1951.

Tuttavia, in quel giorno infernale per tutta la città di Napoli, non tutto l’equipaggio si salvò. l’Allievo di coperta era presente a bordo insieme all’Ing. fiduciario dell’Armatore. Chissà per quale misteriosa coincidenza del destino, in quel fatidico “momento”, entrambi si trovavano a poppavia della nave nei pressi della cisterna n.9 che esplose?

Ancora oggi, a distanza di 72 anni, il nostro triste pensiero va comunque a queste due persone che furono le uniche vittime di quell’equipaggio a causa di una fatale coincidenza del destino.

Come non accumunare ad essi le altre maestranze del Cantiere navale che persero la vita nel loro porto, vicino alle loro case e alle loro famiglie.

A noi sembra che la causa sia stata la palese carenza di procedure di “sicurezza” male applicate in ambienti di lavoro estremamente delicati per la presenza di gas velenosi ed anche esplosivi i quali, entrando in contatto con fiamme ossidriche o scintille sprigionate da qualsiasi utensile non regolamentato, diventano bombe micidiali.

Purtroppo, il tragico evento della MONTALLEGRO non fu il primo né l’ultimo nella storia di navi ai lavori di manutenzione. E ci viene sempre in mente quel saggio detto che ancora oggi si sente recitare come un ritornello sui “bordi”… ma anche nelle case di tutto il mondo all’ora dei TG nazionali:

“TUTTI PARLANO DI SICUREZZA E DI SOLIDARIETA’, MA POCHI DI LORO SONO DISPOSTI A PAGARLA”.

 

 

 

Carlo GATTI

Rapallo, 22 Marzo 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


MUSEO NAVALE INTERNAZIONALE DEL PONENTE LIGURE

MUSEO NAVALE INTERNAZIONALE DEL PONENTE LIGURE

 

Monumento ai naviganti di Capo Horn alla radice del molo lungo di Porto Maurizio-Imperia

 

Inaugurato il 23 maggio 1983 in occasione del secondo e ultimo congresso mondiale dei Capitani di Capo Horn (450 membri appartenenti a 13 nazioni)

 

UN PO’ DI STORIA tormentata…

Museo Navale: una storia infinita, una nuova “incompiuta”?

 

Ottobre 1978: intuizione storica sul Museo, vedasi “proposta” nel volume “La Città dei Marinai”.

23/8/1978 : Istituzione Museo Navale- Atto della Giunta n.°1469  del Comune di Imperia.

27/8/1978: articolo di Emilio Varaldo: “Perchè la Città non ha un Museo”?

23/10/1979: nasce il Museo Navale in sede” precaria” nelle sale dell' ex Liceo Scientifico”.

12/01/1980: “Finalmente “sì“ ( conferma) della Giunta al Museo Navale”.

8/5/1980: nasce l'Associazione Amici del Museo Navale” (Not. Donato).

19/5/1981: visita del Sen. Taviani che plaude all'iniziativa e fa pervenire al Museo  tutti volumi della   “Colombiana”  del Poligrafico dello Stato.

1984/1985: Museo sulla copertina elenco Telefonico SIP.

1992: il Museo Navale presente all'Expo delle Colombiane.

1992: proposta dall' Associazione A.M. per  la nuova sede agli ex Magazzini Generali.

23/1/1992: Ass.Nattero: “Museo Navale presto trasferito nei docks portuali”.

20/12/1998: Consigliere P. Denegri : “Nuova sede tra due anni”.

9/6/1999: approvato il progetto trasloco.

11/6/1999: ottenuta concessione demaniale dell'area (ex Magazzini portuali).

25/3/2002: Il Piano Regolatore Portuale (Regione Liguria) destina il complesso di edifici a sede museale.

19/10/2002 : Assessore Baudena espone il progetto del Planetario da inserire nel Museo.

2003: Sindaco Sappa espone i progetti per il 2003 (Museo Navale e Depuratore).

19/11/2004: Sindaco Sappa espone progetto per Palasport e Museo Navale.

28/5/2005: Ass re.Gaggero presenta la  pratica “Museo” alla Conferenza dei Servizi.

19/8/2005: Sindaco Sappa dichiara “appalti e lavori di ristrutturazione palazzine entro l'anno”!

20/5/2008: pagato il restauro di “Luna Rossa” (Sovrintendenza) da conservare nel Museo Navale

luglio 2008: termine 1° lotto lavori.

settembre 2008: prime visite ai locali del futuro Museo durante le Vele d' Epoca (Mostra antiquariato). I giornali parlano arbitrariamente di inaugurazione del Museo Navale!

30/9/2009: piove dentro la nuova sede con tetto nuovo!

17/3/2010: Ass.re Gaggero e P. Strescino: “apertura ancora lontana”.

10/5/2010: Ass.re Baudena: “a settembre taglio del nastro”!

1/8/2010: Flavio Serafini: “Nuova sede già vecchia!”

3/9/2010: Protesta delle Associazioni culturali Imperiesi per i ritardi.

25/11/2010: Strescino: comunica: “un milione di euro per il Planetario”.

giugno 2012: scafo di “Luna Rossa” in completo abbandono sullo spiazzo esterno.

26/4/2012: Strescino: “Il Museo aprirà entro il 2013”.

26/4/2013: prestito cimeli del “Rex” alla Mostra di Genova.

23/11/2013: appalto vetrine di tutta l'area a cura della Sovrintendenza. Inadeguate e fuori misura. quelle dell'area di ponente. Contestazione sul loro collaudo.

13/4/2014: Com.te Serafini: “Luna Rossa”, uno scandalo per tutta la Città. Lo scafo viene ritirato da Prada a seguito della promessa inevasa del Sindaco.

18/4/2014: Ass.re Sara Serafini: ripresa dei lavori 2° lotto.

8/7/2015: Sindaco Strescino: “il Museo del futuro, apertura prevista nel 2016”.

24/4/2016: Ass.re Podestà: “Il Planetario dovrebbe essere completato entro l'anno”.

12/8/2016: inizio trasloco reperti “fai da te” con i mezzi privati della Associazione A.M.

16/9/2016: Serafini: richiesta al Sindaco Capacci per il rifacimento completo del tetto nuovo. Piove nelle sale!

3/1/2017: scadono i termini per l'appalto del Planetario.

31/1/2017: apertura ufficiale ed inaugurazione dell'area di levante. Grazie al lavoro ed ai traslochi dell'Associazione A.M. evitata all'ultimo giorno la restituzione dei fondi assegnati.

23/4/2019: Ass.re Roggero presenta il nuovo progetto della rete museale.

settembre 2019: Ass.re Roggero comunica inizio lavori area di ponente.

ottobre 2020: Ass.re Roggero comunica l'inizio dei lavori area di ponente per 600.000 euro.

15/12/2020: Ass.re Roggero comunica l'imminente inizio dei lavori (nuovo progetto). I  600.000 euro sicuramente non basteranno per l'allestimento della Sezione “Cantieristica”, “Atelier Modellista”, “Padiglione Imbarcazioni storiche” e “Sala Mostre” ,”Sala riunioni “ per il completamento del Museo al piano terra dell' area di ponente. Alla luce dei fatti il “fundraising” non è stato sufficiente, ma va ulteriormente integrato.

febbraio 2021: inizio trasferimento di reperti dal locale interno (Deposito) all'area (storica) di ponente senza il coinvolgimento della Associazione A.M. e loro collocazione disordinata senza un criterio storico scientifico, oltre all'esposizione alla polvere di diversi modellini navali.già protetti da teche.

marzo/aprile 2021: smantellamento reperti (quadrerie e modelli) e mezzi espositivi dell'area di levante ( già operativa da fine gennaio 2017 e che tanti consensi ed ammirazione avevano sollevato dal pubblico)  perchè “non in linea” con i mezzi espositivi originali, nonostante il benestare ( febbraio 2017) dei Dirigenti della Regione Liguria. Completa rimozione delle quadrerie in tutti i settori, già selezionate e disposte nel proprio contesto storico, prerogativa che può essere esercitata solo dal Comitato storico/scientifico dell'Associazione.

maggio 2021: arbitrario smantellamento Sala Idrografie/Strumenti meteo/topografici” con rilevazione di alcuni danneggiamenti alla  preziosa strumentazione. Si ricordano in proposito gli art. 5 e 20 del Codice dei Beni Culturali di pubblica fruizione ( Decr. Legisl. n.° 42 del 22/1/2004) .

Con dette operazioni di smantellamento viene vanificato il lavoro di due anni ( 2015 e 2016) da parte della Associazione A.M.

giugno 2021: nessuna chiamata per continuare gli allestimenti nell'area storica! Procedono da soli?

L'Associazione A.M. è anche interessata, seppur marginalmente non essendo suo compito specifico, alla sistemazione di bookshop, caffetteria e hall di ingresso, servizi che ritiene fondamentali per una corretta gestione economico/ finanziaria del Museo. Si auspica che almeno in questo settore non vadano disperse risorse preziose.

Luglio 2021: nessuna chiamata. Agosto è passato! Direttore dei lavori, Comune, Soprintendenza si sono sempre negati al telefono!

Dicembre 2021: Museo ancora chiuso da quasi un anno! Non dovevano finire i lavori a giugno?

 Praticamente allo stato attuale ed alla data odierna il Museo Navale non esiste più!

 Si profila un ennesimo slittamento dell'inaugurazione finale del Museo!!! Sarebbe la quarta e non l'ultima!

20 giugno 2022 : Riapertura Museo Navale ed inaugurazione del Planetario! I locali destinati a bookshop e caffetteria sono ancora vuoti.

Dicembre 2022:  Alcuni attendono ancora il trasloco dalla vecchia sede.

Gennaio 2023 il museo resta abortito e mutilato senza le più importanti sezioni legate alla storia della città: Cantieristica, Pesca, Portualistica

31 gennaio 2023: il Consiglio Comunale approva il progetto di gestione della cultura affidato a soggetti privati (partenariato)

A cura di:

Associazione Amici del Museo Navale – Associazione ex Docenti ed Allievi del Nautico IM – Collegio Capitani L.C. e D.M di Imperia – Unione Medaglie Oro L.N. - Radioamatori Imperia.

 

Hanno espresso la loro solidarietà:

Compartecipi e collaboratori in tutti questi anni con l'“Associazione Amici del Museo Navale” che ha creato una grande struttura culturale che onora Imperia, la Liguria e non solo, esprimiamo la nostra più viva preoccupazione sulla attuale situazione degli allestimenti ed auspichiamo che i creatori del Museo possano continuare ad operare proficuamente come per il passato.

In particolare esprimiamo la nostra solidarietà, fiducia ed incondizionato apprezzamento nell'operato della Associazione A.M. che si è sempre distinta per operosità, professionalità e competenza riconosciute anche a livello internazionale.

Condividiamo le preoccupazioni del Com.te Serafini che sono anche le nostre!

Associazione ex Docenti ed Allievi del Nautico IM – Unione Medaglie d'Oro di L.N. - Vele Storiche Viareggio – Comitato San Maurizio - Il Museo Navigante – Club Artiglio – Cantiere della Memoria SP– APSD Stella Maris IM – “Cumpagnia de l'Urivu” IM - Associazione Amici del Santuario di Montegrazie IM – Lega Navale IM – Confraternita S.S. Trinità - Zacboats - A.D.P. S. Borgo Foce IM – Federazione Italiana Barche Storiche ( FIBAS) – C.V. Ventimiglia - Collegio Naz. Cap. L.C. e D.M. Sez. IM – Fondazione Artiglio Europa – Ass. Amici del Museo della Marineria VR– Il Mare di Carta – Ipersub IM – Euro Sub DM - HDS Italia – Museo Nazionale delle Attività Subacquee RA – Yacht Club SR – “Famiia Sanremasca” SR - Ass.Docenti di Geografia Sez. IM – Museo Marinaro Tommasino Andreatta CH – Corpo Piloti LI – Lega Maestri d'Ascia e Calafati VR – Fondazione Luigi Ferraro GE – Comitato Nazionale C. Colombo GE - Decio Lucano News – ex Soci Osservatorio Astron.co IM – Collegio Nazionale Cap.L.C. e D.M. GE – Gruppo ANMI DM – Nucleo storico Fondatori Museo Navale – Radio Amatori IM – Impresa Portuale Lodovico Maresca IM – Museo del Mare Tortona – Nastro Azzurrro GE – Guardia Costiera Ausiliaria GE – Società Marittima di M. S. IM – Imperia Yacht Service – Marittima Service Group IM – Marina Uno IM – Stella Maris LI – Circolo Filatelico IM – Museo Marinaro GBono Ferrari CA – Accademia di Marina PI – Istituzione Cavalieri di S. Stefano PISA- ANMI GE- Communitas Diani - Associazione Mare Nostrum Rapallo.

 

La tempesta imperfetta investe il Museo Navale

Chi vuol prendere visione di uno scenario devastante può affacciarsi, sempre  che ne ha facoltà, all'interno di quello che per anni è stato un Museo Navale, il primo a sorgere in città (1980) a differenza di altri che musei non sono, ma solo mostre permanenti. L'area moderna, inaugurata in pompa magna ed ufficiale il 31 gennaio 2017, di fatto   non c'è più, smantellata con una operazione arbitraria e strisciante che non ha avuto testimoni oculari esterni. Che cosa è successo? Negli ultimi mesi si è ritenuto opportuno modificare, o meglio stravolgere e snaturare, senza neanche coinvolgere o chiedere un parere alla “Associazione Amici del M.N.”, il percorso museologico; praticamente mezzi espositivi e reperti, quadrerie e modelli sono stati ammassati nel Deposito da personale, manodopera generica eufemisticamente definibile non qualificata. I risultati non sono mancati: danneggiamenti di modelli navali, lesioni di vetri nelle quadrerie, ecc. Forse una maggiore accortezza decisionale (nostro avrebbe dovuto essere l'incarico della movimentazione dei reperti dal Deposito) avrebbe evitato uno scempio che lascia esterefatti e sgomenti. Per non parlare del vedere vanificato un lavoro paziente e faticoso durato due anni del Comitato scientifico interno della “Associazione A.M” delegato ad occuparsi delle varie Sezioni nelle quali è articolato il Museo. L'operazione inqualificabile è stata portata a termine solo dopo che l'Associazione è stata privata con scusanti sibilline delle chiavi di accesso al Museo. Pare che il motivo scatenante di tale improvvida iniziativa sia stata la constatazione che alcuni dei nostri mezzi espositivi (moderni e costosi dei quali dobbiamo giustificare il futuro utilizzo) non sono “in linea” con quelli originali in dotazione a nostro giudizio insufficienti per numero alla conservazione. Eravamo aperti alla discussione con proposte migliorative ed anche disponibili a snellire le esposizioni per le quali si era operato in fretta per non far perdere i fondi assegnati, salvati solo per un giorno grazie al nostro lavoro! Ci eravamo regolati  anche in base all'esperienza acquisita alla Bocconi ed alla Università di Pisa e proceduto in collaborazione con l'Università e CNR di Genova. Non crediamo a eventuali suggerimenti di cattedratici, accademici o luminari che in questo specifico settore non esistono anche se presi in prestito o a pagamento. E' sufficiente ricordare come l'Amministrazione abbia coinvolto la Promo Spa di Lucca (38.000 euro) o lo Studio Filippini di Genova (24.000 euro) per venirci a raccontare come deve nascere un Museo! In questo scenario desolante rileviamo lo spostamento di alcune vetrine in siti non appropriati e l'eliminazione di tutte le quadrerie dalle pareti (peraltro già accortamente suddivise nei rispettivi settori tematici) dimenticando che le stesse costituiscono l'architrave e la ricchezza delle strutture mueseali, parlano al pubblico ed offrono suggestioni e messaggi. Con l'occasione si ricorda l'ispezione /controllo di due dirigenti della Regione Liguria che hanno avallato gli allestimenti e si sono complimentati (presente l'ing. Enrico), oltre ai commenti lusinghieri a fine visita riportati nel Libro Visitatori da centinaia di persone. In questo contesto colpisce l'assoluta mancanza di trasparenza, l'arbitrio consumato nei riguardi dell'Associazione A.M. che, ricordiamo, fino a quando non sarà ufficializzato un regolare passaggio notarile di proprietà, rimane legalmente responsabile delle collezioni. Appare evidente il tentativo di esautorare  l'Associazione senza la collaborazione e presenza continua della quale il Museo non potrà andare da nessuna parte. Quanti hanno creato ed operato in quarant'anni nel Museo sono stati messi alla porta! Inevitabile il contenzioso che coinvolgerà diverse  generazioni di Imperiesi e non solo, ma soprattutto le migliaia di donatori anche stranieri che saranno doverosamente presto informati sulla situazione. Anche problemi per gli allestimenti in atto, per la verità fermi da oltre sei mesi, nella zona di ponente (area storica):  i reperti sono stati trasferiti con la stessa procedura e spesso fuori contesto ; solo in una occasione  in presenza ci è stato concesso di illustrare la natura specifica del reperto ed indicarne la collocazione nella sala  e nella vetrina interessata, mentre sarebbe stato più opportuno e logico trasferire con metodo e razionalità  i reperti dai depositi e non con una precipitazione ingiustificata.  Stravolta inoltre, la collocazione dei reperti nelle Sale Idrografia/Strumentazione/Topografica” e “Viaggi ed Esplorazioni Scientifiche” proprio per la mancanza assoluta di cognizioni storiche e tecniche. Anche in questo settore appaiono rilevanti i danneggiamenti alla preziosa ed unica strumentazione. Ricordiamo che si tratta sempre di reperti soggetti a vincolo e inventariati dalla Soprintendenza. Mentre gli annosi problemi del Museo appaiono tuttora irrisolti (condizionamento, apparecchiature multimediali, illuminotecnica, telecamere esterne ed a circuito chiuso, pc, pavimentazione impresentabile, fabbrica industriale di polvere ( vedere l'esempio del nuovo mercato a Porto Maurizio), si è pensato anche di sindacare sull'importanza della biblioteca, sicuramente tra le più importanti a livello nazionale che non solo è indispensabile agli operatori museali, ma anche a ricercatori, storici, laureandi, ecc.

Mancano sempre gli allestimenti essenziali di due sale (“Portualistica“ e “Pesca”)  nell'area disponibile degli ex uffici Salso: una significativa serie di reperti che resta tuttora in Deposito. Con queste premesse si finirà per creare un museo abortito o mutilato. Il mondo, i media devono valutare quanto il mancato rapportarsi all'esperienza ed alla competenza del gruppo di esperti che ha ideato e creato l'Istituzione, possa danneggiare l'immagine della Città e come siano da evitare le decisioni di singoli a scapito di quelle collegiali e condivise su un patrimonio culturale che appartiene a tutta la collettività, alla sua storia e tradizioni.

 

ENTRIAMO NEL MUSEO

Il museo, nato nel 1980 per iniziativa del comandante Flavio Serafini, si articolava in 14 sezioni che custodiscono un prezioso patrimonio di testimonianze delle tradizioni marinare liguri e nazionali dal XVIII al XX secolo. Vi si trovano una ricca collezione di strumenti di bordo, materiali e attrezzi relativi alla tradizione cantieristica in legno e ai suoi uomini, dipinti marinari, ex-voto, uniformi. Notevole è l'aspetto modellistico, mercantile e militare, arricchito da diorami e dai modelli di Léon Perret, artista e modellista, vissuto tra XIX e XX secolo, al quale è dedicata una sala. Particolare risalto viene dato a materiali e cimeli riguardanti la navigazione velica oceanica e all'impresa più bramata dai navigatori: il doppiaggio di Capo Horn.

Tra gli strumenti esposti, sono da segnalare alcuni cimeli legati alla letteratura e al viaggio quali la bussola del veliero Narcissus su cui fu imbarcato Joseph Conrad, che ad esso dedicò il romanzo "The nigger of the Narcissus", il sestante tascabile di Giacomo Bove, oggetti personali, indumenti polari, diari, documenti di bordo, della "Tenda Rossa" dove trovarono rifugio i membri della sfortunata spedizione polare del Dirigibile "Italia". Una sezione è dedicata ai mezzi e agli strumenti della ricerca archeologica sottomarina e alla palombaristica.

La visita è arricchita da un allestimento multimediale e da un percorso di postazioni didattiche, che garantiscono un'esperienza in prima persona, con simulazioni di navigazione e quattro percorsi tematici: Il lavoro sul mare, Il viaggio per mare, La guerra sul mare, Il mare come evasione.

 

Il Museo Navale di Imperia svela i segreti della “Città dei Marinai”

Noto anche come la "Città dei Marinai", il museo presenta un'esposizione modernissima che occupa uno spazio di circa 9.000 metri quadri.

 

 Il 30 gennaio 2017 a Borgo Marina di Imperia, in via Scarincio 9, presso gli ex magazzini generali di Calata Anselmi, è stata inaugurata la nuova sede del  nuovo Museo Navale, noto anche come “La Città dei Marinai”. L’esposizione modernissima, che va a sostituire i vetusti locali destinati al museo navale, occupa 9.000 metri quadri di spazio in quello che attualmente è un “work in progress”, un museo in divenire del quale si possono intuire pregi odierni e potenzialità future.

Imbarcazioni d’epoca reali o rappresentate in accurati modelli, attrezzature navali, divise, ricostruzioni di ambienti marinari, fotografie e quadri si susseguono nelle sale nuovissime, nelle quali sono presenti anche delle installazioni multimediali interattive che permettono di simulare una navigazione al timone o una battaglia navale al periscopio di un sottomarino.

Una particolare visione è data al passato marinaro di Imperia, in una narrazione del legame complesso fra l’uomo e il mare e delle imprese eroiche vissute. Quattro i percorsi tematici: il lavoro, il viaggio, la guerra sul mare e il mare come evasione.

La visita inizia con la sala dedicata ai dolia, gli imponenti recipienti per il vino utilizzati tra il I° secolo a.C. e il II° secolo d.C., che danno mostra di sé in un ambiente a loro dedicato che rimembra il fondo marino e la scoperta, avvenuta nel 1975 nelle acque prospicienti Diano Marina, ad opera dell’archeologo Nino Lamboglia, fondatore dell’archeologia subacquea. 

Al primo piano, veramente affascinanti sono le sezioni dedicate ai palombari e al loro difficile e pericoloso lavoro e a Luigi Ferraro, medaglia d’oro al valor militare e pioniere della subacquea ricreativa italiana, con i primi corsi di immersione e la creazione della Technisub. C’è poi la plancia della motonave Sestriere con la storia dei migranti, la plancia della motonave Doria, la palestra della vela, la sala dedicata al Santuario dei Cetacei e la macchina del vento.

Particolarmente importante per gli appassionati storici è la parte dedicata alla subacquea militare e al famoso sommergibile Scirè, del quale è qui conservato il portello di poppa. Si tratta del mezzo subacqueo italiano più famoso, il terrore della marina inglese nel Mediterraneo durante la Seconda guerra mondiale.

Era il sommergibile d’appoggio degli incursori della Regia Marina, che compirono l’impresa di Alessandria violando il porto egiziano e danneggiando le corazzate britanniche Valiant e Queen Elizabeth, oltre ad una nave cisterna e ad un cacciatorpediniere. Individuato grazie alla decrittazione di Enigma, gli venne preparata un’imboscata davanti al porto, allora britannico, di Haifa, nella quale non sopravvisse alcun marinaio italiano.

All’interno del museo si trova anche un auditorium dotato di maxischermo che ospita eventi di carattere culturale ed è in seguito diventato Teatro del Mare, con un cartellone ricco di serate ed artisti differenti. Il museo navale di Imperia è aperto il martedì mattina dalle 9.30 alle 11.30 e il giovedì e sabato pomeriggio dalle 15.30 alle 19.30.

"Durante la piena stagione estiva, nei mesi di luglio ed agosto, oltre al martedì mattina il museo rimane aperto il giovedì, venerdì e sabato sera dalle 18.30 alle 22.30. Biglietti di ingresso interi 7€, ridotti 3,50€, scuole 3€ con un ingresso gratuito ogni 15 persone. Per informazioni museonavale@comune.imperia.it, tel. 0183 651363".

Paolo Ponga

 

FOTOGALLERY 

IL LATO NORD DEL MUSEO

 

Un angolo della Battaglia dell'Atlantico con il ricordo dell'unica nave italiana  “SESTRIERE” presente in tre convogli.

 

 

TIMONERIA E SALA RADIO DELLA M/N SESTRIERE

 

 

 

SEZIONE PALOMBARISTICA

NAVE RECUPERI ARTIGLIO

SORIMA

UN ANGOLO DEDICATO ALLE MEDAGLIE D’ORO DI LUNGA NAVIGAZIONE

 

 

 

LA SEZIONE PALOMBARI

 

 

 

 

CAMERA DI DECOMPRESSIONE MONO USO

 

 

 

 

POMPA DI PALOMBARO E GUIDE AL LAVORO

 

 

 

CAMERA DI DECOMPRESSIONE PROFESSIONALE

 

DUE SCHERMI CON FILM ORIGINALI CHE RICORDANO IL LAVORO DELL’ARTIGLIO

 

 

PORTELLO DFI POPPA DEL SOMMERGIBILE SCIRE’ AFFONDATO NELLE ACQUE DI HAIFA

 

 

 

INIZIO DELL’AREA STORICA

 

 

LA GALLERIA D’INGRESSO COME SI PRESENTAVA ALL’INIZIO DEGLI ALLESTIMENTI

 

 

 

L’ANGOLO DEI SOMMERGIBILISTI

 

 

LA SEZIONE UNIFORMOLOGICA - I PILOTI DELLA MARINA

UNO SCORCIO DELLE VARIE UNIFORMI

 

SEZIONE MARINA MILITARE

 

 

 

GIACCA BIANCA ORDINARIA ESTIVA DELL’AMMIRAGLIO ANTONIO LEGNANI E MEDAGLIERE   

 

 

GLI OPERATORI GAMMA DELLA X-MAS CON LE ATTREZZATURE DELLA MEDAGLIA D'ORO LUIGI FERRARO

 

 

 

REPERTI  DELLA NAVE PASSEGGERI STOCKHOLM

 

 

 

TELESCRIVENTE E BUSSOLA NORMALE DI CONTROPLANCIA DELLA STOCKHOLM

 

 

 

 

MODELLO DELLA M/n GIULIO CESARE

SEZIONE TRANSATLANTICI

 

 

 

STOVIGLIERIE DI BORDO

 

 

SIMULATORI DI MANOVRA

 TELEGRAFO DI MACCHINA

(TIMONERIA M/N SESTRIERE)

 

 

 

 

SIMULATORE DIDATTICO DI NAVIGAZIONE A VELA

 

 

UNO SCORCIO DELL’AREA STORICA LATO PONENTE

 

 

 

SEZIONE CAPO HORN

UN ALBATROS DELLE BASSE LATITUDINI

 

 

 

Sezione "Yachting"

"una parte della raccolta di guidoni di Yacht Club di tutto il mondo"

 

 

VARII ASPETTI DELLA SALA DI ARCHEOLOGIA SUBACQUEA

(SALA NINO LAMBOGLIA)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SEZIONE EX VOTO MARINARI

 

 

 

 

 

 

SEZIONE EX VOTO MARINARI

 

 

 

 

 

 SEZIONE NAVI A PROPULSIONE A PALE  

 

 

1 - Endeavour 1768 - Realizzata nel 2004 - dimensioni 76 x 31 x 53h;

 

 

2 - Savannah - 1819 - dimensioni 98 x 46 x 78h;

 

 

3 - Hope - 1864 - Realizzata nel 1995 - dimensioni 110 x 35 x 52h

 

 

 

4 - Stabia -1861 - Realizzata nel 2002 -  dimensioni  70 x 27 x 46h;

 

 

5 - Gulnara - 1832 - Realizzata nel 1977 -  dimensioni 116 x 38 x 70;

 

 

 

6 - Guiscardo - 1842 - Realizzata nel 2001 - dimensioni 83 x 29 x 5h

 

 

 

7 - Cotre - 1815 - Realizzata nel 1974 - dimensioni 106 x 56 x 90h;

 

 

 

8 - Sphinx - 1845 - Realizzata nel 1975 - dimensioni 75 x 25 x 47h;

 

 

 

9 - Mississipi - 1841 - Realizzata nel 1988 - dimensioni 120 x 41 x 74h;

 

 

 

10 - L'Orenoque - 1848 - Realizzata nel 1979 - dimensioni 106 x 31 x 57h;

 

 

 

 

 

Ad Imperia l’inizio dell’estate 2022 coincide con la riapertura al pubblico del Museo Navale, completamente rinnovato all’esterno e riorganizzato all’interno e con l’inaugurazione del Planetario.

 

VARIE TEMATICHE ILLUSTRATE DURANTE ALCUNE VISITE AL PLANETARIO

 

Per quanto riguarda il Museo Navale gli interventi effettuati hanno permesso l’apertura dell’ala di Ponente, la revisione e la riqualificazione del tetto e della facciata, il completamento funzionale del percorso museale, la realizzazione del nuovo ingresso lato Banchina e la predisposizione del nuovo locale caffetteria-bookshop. Completa l’offerta turistico-museale della struttura il Planetario di Imperia ospitato nella cupola, terzo in Italia per dimensioni e il più tecnologicamente avanzato. Con la sua cupola full dome, 62 posti a sedere, permetterà di viaggiare tra le stelle e conoscere meglio lo spazio con spettacoli in 2D e 3D.

https://www.riviera24.it/2022/06/inaugurato-il-planetario-di-imperia-il-piu-tecnologico-ditalia-766656/

 

 INAUGURAZIONE DEL PLANETARIO DI IMPERIA

PADRINO IL PRIMO ASTRONAUTA ITALIANO 

FRANCO MALERBA 

 

 

 

L’ATTUALE ORARIO DI APERTURA DEL MUSEO NAVALE E QUELLO DEL PLANETARIO (SU PRENOTAZIONE) E’ IL SEGUENTE:

SABATO E DOMENICA DALLE 17.30 ALLE 21.30

 

I LIBRI DI FLAVIO SERAFINI

La lista non è completa

 

 

Il Comandante Flavio Serafini presenta il suo ultimo libro  

'Il mio Nautico'

 

Mi complimento con il mio caro amico Comandante Flavio Serafini per l'IMMENSO lavoro svolto in questi anni con indiscusse capacità manageriali, profondissima passione storica e ammirabile cultura marinara. Lo RINGRAZIO  per il materiale che gentilmente ha voluto inviarmi e che qui ho riportato, purtroppo, in modo incompleto e superficiale. Spero in tal modo di  stimolare la curiosità di tanti appassionati del MONDO MARINARO affinchè mettano in agenda LA VISITA GUIDATA  in questo MUSEO in cui si respira anche una fresca aria di modernità.

MUSEO NAVALE E PLANETARIO DI IMPERIA

Indirizzo:

VIA SCARINCIO N.7 18100 IMPERIA

TELEFONO:

0183 651363 – 0183 701554

A cura di Carlo GATTI

Rapallo, 14 Marzo 2023

 

 

 

 

 

 


NAVIGARE TRA I GHIACCI - TESTIMONIANZE DI VITA VISSUTA …

NAVIGARE TRA I GHIACCI

TESTIMONIANZE DI VITA VISSUTA …

 

Comandante S.L.C Mario Terenzio PALOMBO

Ho visto e letto con interesse il tuo inserimento "navigare tra i ghiacci". 
Mi è tornata in mente la mia esperienza effettuata, la prima con la Home Line e grado da Primo Uff.le nel lontano 1974, la seconda da comandante nel 1999. 

Ti allego la foto del Costa Allegra nel Magdalene Fjord. Nel 1974, a causa dei numerosi e piccoli iceberg (growlers) non si poteva entrare facilmente all'interno del Fiordo. Nell'estate del 1999, la Costa mi affidò il comando della Costa Allegra per verificare se le crociere della Norvegia, Svalbard e banchisa polare potevano essere fattibili con navi di un tonnellaggio superiore. 
Dopo una sosta negli scali di Longyrearbyen e Ny-Alesund la tappa successiva era a Magdalene Fjord. 
A Ny-Alesund avevamo imbarcato due guardie forestali nel caso si potessero sbarcare i passeggeri. 
Infatti, come vedi dalla foto che ti allego, rispetto al 1974, le cime dei monti non erano molto innevate, i growlers erano veramente pochi e si potevano evitare. Ero riuscito a navigare sino alla radice del fiordo, rimanere sulle macchine, sbarcare i passeggeri utilizzando una piattaforma galleggiante che avevamo costruito a bordo e sistemata a terra.  I passeggeri sbarcavano dal nostro Tender, facevano alcune foto, subito dopo rientravano a bordo, ben contenti di aver messo piede nel punto più alto della terra. Lat. 79° 34' N long. 10° 54' E. Le due guardie forestali osservavano la zona in caso della possibile vicinanza di orsi polari. La crociera fu un successo!

Comandante S.L.C. Ernani ANDREATTA

In riferimento all’impresa del Laura Bassi in Antartico, ho anch’io qualche ricordo dei ghiacci nei mari del Nord ma in “Artico"!

 

 

Rotte approssimative della GULF STREAM

 

Immagini satellitari del Golfo di Botnia

Libero dai ghiacci (sopra)- Quasi ricoperto (sotto)

 

 

 

Ho fatto parecchi viaggi in inverno al Comando della petroliera TEXACO OHIO nel Golfo di Botnia per andare a scaricare Low Sulphur  Fuel. Andavamo sino a LULEÅ nella parte NORD della Svezia e sono stati viaggi straordinariamente interessanti. Il mare del Golfo di Botnia anni fa almeno, in inverno era sempre molto ghiacciato perché non viene toccato dalla corrente (CALDA)  del Golfo (o GULSTREAM) che dopo aver attraversato l’Atlantico lambisce poi le coste della Norvegia e parte della Svezia, nonchè Danimarca e non fa ghiacciare il mare nonostante le basse temperature. Dopo le isole Åland cominciavamo a trovare il ghiaccio che diventava sempre più spesso. Ma avevamo un rompighiaccio che sempre a proravia della nostra nave frantumava la spessa coltre di ghiaccio e ci tracciava come una autostrada in modo che potessimo navigare sino a LULEÅ. A Luleå davamo solo un cavo a prora e uno a poppa senza nemmeno gli SPRING per tenere la nave in posizione all’ormeggio. Il ghiaccio, appena in posizione in banchina, ci attanagliava subito e nessuno poteva muoverci se non quando alla partenza, dopo avere scaricato il LOW SULPHUR FUEL, il rompighiaccio andando su e giù frantumava il ghiaccio che ci imprigionava sino poi a tracciare di nuovo la strada affinché potessimo seguirlo e uscire dal Golfo di Botnia. Il problema era quando qualche grosso peschereccio che si infilava nella nostra “AUTOSTRADA” tracciata dal rompighiaccio e dovevamo fare acrobazie per scartarlo e non affondarlo. A volte mi passavano di poppa a pochi centimetri, non metri …. Sia all’andata che al ritorno a seconda del galleggiamento la nostra carena aveva il colore “argento” perché durante la traversata di andata e ritorno da Lulea i pezzi di ghiaccio rotti picchiavano nella nostra carena e a seconda del galleggiamento la “lucidavano" nel vero senso della parola. Il freddo e il ghiaccio in coperta erano terribili e naturalmente il nostro prezioso carico di LOW SULPHUR FUEL andava sempre riscaldato attraverso le apposite serpentine di vapore che erano sul fondo delle cisterne. Non era una navigazione molto normale ma in mezzo ai ghiacci si ha l’impressione di navigare in un altro modo "quasi fatato" … e vi garantisco che era bellissimo!

Saluti a tutti Ernani Andreatta 

Comandante Carlo GATTI

Quando la "guardia"  in navigazione si faceva sulle alette...

In copertina: la “SATURNIA”  in tenuta polare durante una delle traversate dell’inverno Nord Atlantico - 1963

 

 

 

D.M. PINO SORIO

 

Aurora Boreale

Rian

 

 

 

 

The crew of U.S. Coast Guard Cutter Healy and the Geotraces science team have their portrait taken at the North Pole Sept. 7, 2015. Healy reached the pole on Sept. 5, becoming the first U.S. surface vessel to do so unaccompanied. Healy is underway in support of Geotraces, an international scientific endeavor to study the geochemistry of the world’s oceans. (U.S. Coast Guard photo by Petty Officer 2nd Class Cory J. Mendenhall)

 

 

 

 

 

 

 

 

 Australian I.B. AURORA AUSTRALIS

 

Towing trough the Cheasepeake Bay-Ice

 

 

 

 

 

Arthur-M-Anderson-rescue 2

 

 

Kaleen- MacAllister

 

 

USGC Icebreaker

 

 

 

Icebreakers meeting

 

 

Sisu

 

 

 

 

COME NASCE UN ROMPIGHIACCIO

Le foto sotto si riferiscono ai tre rimorchiatori rompighiaccio costruiti in Romania e dei quali il D.M. di Rapallo PINO SORIO ha seguito tutta la loro costruzione, dal taglio della prima lamiera alle prove nel Mar Nero - le prove di rottura dei ghiacci nel Mar Caspio - la loro consegna all’armatore russo.

 

Sopra e sotto - NEW AKER ICEBREAKER

 

 

 

H740-Mangystau

 

 

Rompighiaccio MANGYSTAU-2 - Prove antincendio nel Mar Nero

 

 

 

 

NAVIGARE TRA I GHIACCI - 1

https://www.marenostrumrapallo.it/ghiacci/

di Michele GAZZALE

 

NAVIGARE TRA I GHIACCI -2

https://www.marenostrumrapallo.it/ghiacci-2/

di Maurizio BRESCIA

 

 

NAVIGARE TRA I GHIACCI – 3

ROMPIGHIACCIO ATOMICO AL POLO NORD

https://www.marenostrumrapallo.it/ghiacci-3/

di Pino SORIO  (contiene il curriculum vitae dell'autore)

 

 

NAVIGARE TRA I GHIACCI - 4

STAZIONE PILOTI GÄVLE- BÖNAN - GOLFO DI BOTNIA

https://www.marenostrumrapallo.it/gaevle/

di Carlo GATTI

 

 

In crociera sulla nave rompighiaccio

https://www.nauticareport.it/dettnews/report/in_crociera_sulla_nave_rompighiaccio-6-8060/

 

 

ICEBERG - Un pericolo sotto controllo?

https://www.marenostrumrapallo.it/ice/

Per chi vuole saperne di più …. Riportiamo dal WEB:

LA BANCHISA

 

 

Immagine satellitare della Scandinavia in inverno. Visibili il golfo di Botnia e il Mar Bianco coperti dalla banchisa.

La banchisa, detta anche ghiaccio marino, banchiglia, è una massa di ghiaccio galleggiante, dallo spessore raramente superiore ai 3m, che si forma nelle regioni polari a causa delle basse temperature che provocano il congelamento delle acque marine superficiali.

La banchisa si forma quindi per il congelamento dell'acqua dell’oceano che, essendo salata, ghiaccia a circa -1.8 °C: il ghiaccio che ne scaturisce è comunque insapore, costituito da acqua non salata, in quanto durante il processo di congelamento i Sali minerali restano in soluzioni, lasciando che a congelare sia semplicemente l'acqua pura.

Le banchise più grandi si trovano nel Mar Glaciale Artico intorno all’Artide e nel Mar Glaciale Antartico attorno all’Antartide, dove sono permanenti, crescendo d’inverno e riducendosi d’estate. Nel Baltico, nella Baia di Hudson e in altre zone costiere dell’emisfero settentrionale, invece, la banchisa compare d’inverno e svanisce in primavera-estate.

Dalla banchisa non derivano gli iceberg: questi ultimi, infatti, hanno origine dalle piattaforme di ghiaccio galleggianti che, dalla costa, si protendono nel mare. Gli iceberg, alti anche molte decine di metri, derivano pertanto dalla neve compatta dei ghiacciai e quindi dall’acqua dolce continentale e non dal ghiaccio di origine marina della banchisa, alta per contro solo pochi metri.

A causa delle enormi quantità di acqua e della loro superficie, il comportamento delle due grandi banchise artica e antartica ha notevole importanza sulla circolazione termoalina e più in generale sui cambiamenti climatici, sia come indicatori di processo sia innescando processi di retroazioni.

Il ghiaccio a frittelle è la banchisa che è stata compressa dall'azione esercitata dalle onde su una sorta di nevischio dall'apparenza oleoso («frazil ice»), a sua volta generato a partire dai piccoli cristalli lenticolari. Le placche di questo giovane ghiaccio di un solo anno di vita raggiungono 1,5m-2m di spessore

Anche se essa si forma su qualunque mare in cui la temperatura scenda sotto i -1,8 °C, quando si parla di banchisa quasi sempre si fa riferimento alle due grandi banchise polari: quella situata nell’Artico e quella situata intorno all’Antartico.

  • La Banchisa Artica raggiunge a marzo i 15 milioni di km² mentre a settembre scende a 6,5 milioni di km². Da qualche anno perde un po’ della sua estensione ad ogni ciclo, fatto che viene attribuito al riscaldamento globale e che potrebbe portare nel tempo alla sua scomparsa nel periodo estivo.

  • La Banchisa Antartica si riduce fortemente nell’estate australe, riformandosi in inverno e raggiungendo una estensione pari a quella del continente antartico: in settembre raggiunge i 18,8 milioni di km² mentre in marzo scende a soli 2,6 milioni di km².

 

Tipi di banchisa

Ci sono due tipi di banchisa:

  • quella detta ghiaccio fisso (da non confondere con le piattaforme di ghiaccio galleggianti) ovvero la banchisa attaccata alla costa, agganciata ad essa oppure impigliata nei fondali bassi della piattaforma continentale. A differenza della banchisa alla deriva, essa non si muove sotto la spinta delle correnti marine e dei venti.

  • quella alla deriva, che galleggia liberamente e consiste di lastroni di ghiaccio che fluttuano sulla superficie dell’acqua in balia delle correnti marine e dei venti dando vita spesso a canali navigabili: quando è unita insieme a formare grandi masse viene chiamata pack. Essa può muoversi liberamente o venire bloccata dalla banchisa attaccata alla costa.

 

Formazione

Il motivo principale della formazione della banchisa è il congelamento della sua superficie, essendo le precipitazioni nevose molto scarse nelle regioni polari, permanentemente interessate dalle alte pressioni del vortice polare. L’acqua si congela in superficie e non sul fondo del mare, dove non raggiunge mai temperature sufficientemente basse, stante il suo elevato calore specifico e, di conseguenza, la sua scarsa propensione a variare la temperatura. Essa comincia a solidificare a -1,8 °C e non a 0 °C come avviene per l’acqua pura a causa della sua salinità che ne diminuisce il punto di fusione. Si formano dapprima piccoli cristalli lenticolari di acqua pura (il sale rimane in soluzione), i quali vanno via via unendosi, formando un aggregato di ghiaccio.

 

Navigazione

La banchisa ovviamente costituisce un ostacolo alla navigazione marittima, possibile solo nel caso di pack cioè banchisa spezzata attraverso i canali navigabili formatisi e con scafi sufficientemente robusti o attraverso le cosiddette navi rompighiaccio che a seconda della loro potenza propulsiva e opportuni scafi sono in grado di spezzare la banchisa fino a qualche metro di spessore. Non è infrequente che qualche nave in navigazione (es. navi di ricerca scientifica e a volte gli stessi rompighiaccio) nei mari polari rimanga intrappolata tra i ghiacci alla deriva o in formazione.

Fusione della banchisa

Inoltre il ghiaccio bianco della banchisa, sebbene sottile, è molto riflettente, contribuendo significativamente all’albedo del nostro pianeta, ossia alla quantità di radiazione solare che viene rispedita nello spazio per riflessione, rappresentando uno dei parametri climatici più importanti. Di conseguenza, la diminuzione stagionale o durante le fasi interglaciali dell’albedo ai poli, per effetto dello scioglimento della banchisa, comporta una minor riflessione dei raggi solari con effetto di feedback positivo e quindi un ulteriore riscaldamento. All'opposto durante la formazione invernale e le ere glaciali, all'aumento dei ghiacci corrisponde un aumento dell’albedo che aumenta la riflessione facendo diminuire la temperatura con effetto di feedback positivo e conseguente ulteriore aumento dei ghiacci.

Una funzione importante delle banchise, assieme alle calotte polari, è quella di fungere da regolatori termici degli oceani e del clima terrestre sul medio e breve periodo in quanto l'eventuale fusione del ghiaccio assorbe una quantità di calore pari al cosiddetto calore latente di fusione e viceversa nella sua formazione, agendo dunque da feedback negativo.

Lo scioglimento dei ghiacci delle banchise polari, diversamente da quanto si crede, non porterebbe invece ad alcun aumento del livello dei mari e oceani, in quanto si tratta di ghiaccio galleggiante su una superficie liquida e che ha un maggior volume della rispettiva acqua liquida in esso contenuta, facendo innalzare il livello dell'acqua per spinta di galleggiamento,  mentre il suo eventuale scioglimento porterebbe invece ad una diminuzione del volume complessivo in assenza di tale spinta, come accade per un cubetto di ghiaccio in un bicchiere riempito con liquido. Diverso invece è il caso delle Calotte glaciali (Antartide e Groenlandia)) e dei ghiacciai che invece poggiano sulla crosta terrestre.

Pur tuttavia lo scioglimento o meno delle banchise polari rappresenta un fenomeno che può essere correlato con la temperatura globale di oceani e atmosfera sia nel breve periodo (stagionale) sia nel lungo periodo (trend climatico) rappresentando un indicatore di possibili eventi meteorologici e mutamenti climatici.

CATEGORIE DI ROMPIGHIACCIO

  1. e agg. inv. [sec. XIX; impt. di rompere ghiaccio]. Ciascuna delle unità speciali, dette anche navi rompighiaccio, destinate a operare aprendosi un varco fra i ghiacci. Le navi rompighiaccio sono state concepite allo scopo di favorire la navigazione nei mari glaciali, aprendo rotte lungo le coste settentrionali dall'Alaska all'Europa alla Siberia, e in quei mari (o quei laghi) che durante l'inverno gelano (per esempio il Baltico).

Tecnica: criteri costruttivi

Il primo rompighiaccio, l'Ermak, venne ideato dal russo S. O. Makarov nel 1898 secondo criteri costruttivi e operativi ancor oggi adottati: lo scafo presenta strutture particolarmente robuste lungo la linea di galleggiamento (per resistere alle spinte laterali di compressione dei ghiacci) e a prora, zona di impatto con i ghiacci; ha basso rapporto lunghezza-larghezza (fra 4 e 4,6 in media), il che dà alla nave forme tondeggianti, le più idonee per formare un canale fra i ghiacci; l'inclinazione della ruota di prora è studiata per la specifica funzione che svolge il rompighiaccio e ha, quindi, un piè di ruota molto robusto e a ripida inclinazione in modo da facilitare il disimpegno dai ghiacci. I moderni rompighiaccio sono attrezzati con casse di zavorra laterali le quali permettono alla nave, facendo circolare acqua da un lato all'altro, di oscillare e quindi di liberarsi dalla morsa dei ghiacci. I rompighiaccio debbono avere una notevole autonomia e un complesso di attrezzature e servizi di bordo idonei alle particolari condizioni di lavoro e di navigazione: in particolare sono dotati di apparati motore Diesel-elettrici, che hanno grande elasticità di funzionamento e bassi consumi; di un'alta coffa provvista di un duplicato degli strumenti di governo della nave e, sulle navi più grandi, di uno o più elicotteri; di lanciabombe o di cannoni per abbattere eventuali ostacoli rappresentati da ammassi di ghiaccio; di specializzati servizi di soccorso e pronta assistenza e di perfezionati apparati per la navigazione e il rilevamento dei ghiacci anche in condizioni di visibilità nulla. L'alta coffa e gli elicotteri sono essenziali sia per individuare ostacoli sia per indirizzare la nave lungo la rotta ottimale: i rompighiaccio, infatti, debbono aprirsi un varco il più rettilineo possibile ed entro il minore spessore di ghiaccio; le navi più piccole lavorano per urto, fendendo il ghiaccio con la prora a mo' di cuneo; quelle maggiori agiscono, se necessario, spaccando i lastroni col proprio peso, cioè sormontandoli di prora. Se il ghiaccio ha spessori superiori ai 2,5 m si deve operare con entrambi i metodi eseguendo una successione di manovre a “lisca di pesce”, se del caso indebolendo la massa con lancio di cariche esplosive. Essenziale, per il compito che devono svolgere i rompighiaccio, è un elevato rapporto tra la stazza e la potenza motrice: alla nave, infatti, è richiesta la possibilità di manovra in acque ristrette, un'elevata accelerazione per ottenere il massimo abbrivio in poco spazio, una potenza di trazione all'indietro pari a quella in avanti. Le prestazioni di un rompighiaccio hanno portato alla realizzazione di eliche appositamente studiate per le manovre di attacco ai ghiacci: esse hanno diametro moderato, con elevato rapporto del passo col diametro; sono di norma a tre pale ampie, corte e robuste, fatte in acciaio speciale a elevata resistenza; sono sempre del tipo a passo variabile. Le eliche sono sistemate in un'ampia luce diametrale rispetto alla carena per evitarne il bloccaggio a causa del ghiaccio; vengono poste di solito due a poppa e una a prora, oppure tre a poppa, con quella centrale di potenza doppia rispetto alle altre due; l'elica di prora offre il vantaggio di facilitare la rottura dei ghiacci per effetto della depressione causata sotto di essi in seguito al moto di aspirazione dell'acqua; di contro è più soggetta a danni proprio per la sua posizione in avanti.

Classificazione: categorie e prestazioni

I rompighiaccio sono distinti in tre categorie: per acque interne, per zone costiere e spessori di ghiaccio non superiori a 1,5 m, per mari glaciali e spessori di ghiaccio oltre i 2,5 m; i primi hanno stazza massima fino a 4000 t e potenze fino a 10.000 CV; i secondi stazza fino a 8000 t e potenze anche superiori ai 14.000 CV; i terzi hanno stazza superiore alle 10.000 t e potenze superiori ai 20.000 CV; viene anche impiegata la propulsione nucleare, sia con impianti turboelettrici (rompighiaccio della classe Lenin, stazza 16.000 t, potenza 56.000 CV), sia con impianti turboriduttori, come nei più recenti rompighiaccio delle classi Arktika e Sibir; questi ultimi hanno rispettivamente lunghezze di 152 e 165 m, larghezze di 23 e 28 m, immersione di 8 e 9,2 m; le stazze sono rispettivamente di 25.000 e 28.000 t mentre la potenza viene fornita da coppie di reattori nucleari con turboreattori ciascuno di 36.000 e 40.000 CV rispettivamente; questi rompighiaccio nucleari hanno un'autonomia operativa di oltre tre anni e capacità di aprire un canale largo 30-40 m nei ghiacci con spessore fino a 4 m, navigando alla velocità di 4-6 nodi. L'incremento del traffico lungo rotte commerciali in mari ghiacciati per parte dell'anno e lo sfruttamento di risorse minerarie, specialmente petrolio, nell'area del Mar Glaciale Artico, ha portato alla realizzazione di navi passeggeri e da carico (alla rinfusa e petroliere) abilitate alle funzioni di rompighiaccio; tali navi presentano prora e carena analoghe a quelle dei rompighiaccio, mentre il loro apparato motore, di norma costituito da turbine a gas, fornisce potenze doppie rispetto a navi di uguale stazza; esse operano la rottura del ghiaccio mediante il loro peso, cioè sormontandolo. Il primo traghetto entrato in servizio, il finlandese Finnjet, ha una stazza di 23.000 t e una potenza motrice di 75.000 CV, che gli consente di procedere in mare libero da ghiacci alla velocità di crociera di oltre 30 nodi e in mare ghiacciato con spessore fino a 1 m a oltre 6 nodi. Varie sono le navi cisterna oggi in servizio sulle rotte polari, alcune delle quali con stazza superiore alle 100.000 t: esse hanno apparati motori di oltre 200.000 CV e sono in grado di transitare quasi tutto l'anno tra i ghiacci, che frantumano grazie al loro rilevante peso. Oltre ad alcune navi portarinfuse, come l'Arctic canadese da 35.000 t di stazza e potenza installata di 105.000 CV, vi sono anche navi da guerra in grado di operare quali rompighiaccio, come gli incrociatori nucleari lanciamissili russi della classe Kiev.

I appartenenti alla classe Arktika (progetto 10520 secondo la classificazione russa) costituiscono la spina dorsale della flotta rompighiaccio russa. Si tratta delle più grandi unità del loro tipo esistenti oggi al mondo. Queste navi presentano alcune differenze tra loro, essendo state varate in un periodo di circa 30 anni. In generale, comunque, le unità più moderne sono più grandi e veloci, e richiedono un equipaggio meno numeroso.

I rompighiaccio classe Arktika hanno il doppio scafo. Lo scafo esterno ha uno spessore di 48 mm nelle parti in cui deve rompere il ghiaccio, ed uno spessore minimo sempre rispettato di 25 mm. Inoltre, tra lo scafo esterno e quello interno c’è una zavorra d’acqua, che può essere spostata per aiutare la nave durante le operazioni di rottura. Queste operazioni sono inoltre facilitate da un sofisticato sistema di aria compressa, in grado di liberare nove getti d’acqua a 24 m³/s sotto la superficie. Alcuni esemplari hanno inoltre sullo scafo un rivestimento polimerato per ridurre l’attrito. La grande potenza, nonché le dimensioni di queste unità, permettono loro di rompere il ghiaccio in maniera continuativa navigando sia in avanti, sia all’indietro. La potenza dell’impianto propulsivo è tale che i rompighiaccio della classe Arktika, durante la navigazione, utilizzano un solo reattore. L’altro è tenuto di riserva.

Tuttavia, la grande potenza dei reattori è anche un limite all’operatività di queste navi. Infatti, per mantenere i reattori alla giusta temperatura, sono costrette a navigare in acque fredde: per questa ragione, non possono superare i tropici per dirigersi nell’emisfero meridionale.

Alcune navi sono in grado di imbarcare uno o due elicotteri. Estremamente completo è l’apparato di comunicazione imbarcato, che consente la ricezione di email, e permette di comunicare con il mondo grazie al satellite. Inoltre, a bordo sono presenti anche telefono e fax.

Vi sono alcune unità di questa classe, poi, che sono particolarmente attrezzate per il turismo artico (in particolare le ultime). La dotazione “turistica” prevede piscina, sauna, cinema, palestra, infermeria e libreria. Inoltre, nel ristorante di bordo, c’è un bar ed attrezzature per concerti dal vivo. Infine, sullo Yamal c’è anche un campo da pallavolo.

Il servizio

Tutte le unità sono state costruite nei cantieri navali di San Pietroburgo. Ne sono state varate sei, di due versioni (progetto 10520 e progetto 10521). Tra le varie unità ci sono diverse differenze, visto il lungo arco di tempo (circa 30 anni) che ha separato il varo della prima e dell’ultima unità della classe. In generale, si può dire che le unità più moderne sono le più grandi e veloci, richiedono meno equipaggio e sono più attrezzate per il turismo artico.

Oggi, le due unità più vecchie non sono operative. Questo sia a causa di problemi legati all’età (hanno circa 30 anni), sia per problemi economici. Infatti, visto l’attuale volume di traffico nell’Artico, non è conveniente tenere operative ben sei navi di questo tipo. Di conseguenza, sono prevedibili tagli nell’organico e, vista l’età degli esemplari più anziani, è probabile che saranno questi i primi ad essere posti in disarmo.

L’ultimo esemplare entrato in servizio, il 50 Let Pobedy

  • NS Arktika: entrato in servizio nel 1975, è stata la prima nave di superficie al mondo a raggiungere il Polo Nord (17 agosto 1977). Attualmente non è operativo, ed è ormeggiato ad Atomflot per riparazioni. Tra le altre cose, i reattori nucleari e le turbine devono essere completamente revisionate perché non soddisfano gli standard di sicurezza stabiliti per i reattori nucleari più recenti dei rompighiaccio. I reattori della Arktika hanno oltre 150.000 ore di servizio, ed occorre valutare se vi sono margini per altre 25.000 o più ore.

  • NS Sibr: entrato in servizio nel 1977, attualmente è fermo ad Atomflot. Tuttavia, i motivi stavolta non sono tecnici, ma economici: se non ci sarà un significativo aumento del trasporto nell’Artico, sarà posto in disarmo.

  • NS Rossiya: entrato in servizio nel 1985, è stato il primo rompighiaccio atomico sovietico a portare a bordo cittadini non appartenenti a Paesi comunisti (40 tedeschi occidentali nel 1990). Revisionato nel 2004, è in grado di trasportare due elicotteri.

  • NS Sovetskiy Soyuz: entrato in servizio nel 1990, nel 1998 rimase intrappolato per tre giorni nei ghiacci. Prese parte alla spedizione del 2004 nel cuore dell’Artico per misurare gli effetti dei cambiamenti climatici. Un operatore turistico lo ha in listino per crociere al Polo Nord.

  • NS Yamal: entrato in servizio nel 1993, è molto usato per spedizioni turistiche e scientifiche. Ha 50 cabine per i passeggeri, ed imbarca un elicottero. L’equipaggio è di 150 uomini. È stata la dodicesima nave di superficie ad aver raggiunto il Polo Nord.

  • NS 50 Let Pobedy: si tratta dell’ultima unità della classe costruita (Progetto 10521). La sua costruzione è iniziata nel 1989. Il nome iniziale era NS Ural, ma in seguito è stato rinominato NS 50 Let Pobedy (letteralmente: 50º Anniversario della Vittoria). L’intenzione era farlo entrare in servizio nel 1995, in occasione, appunto, del 50º anniversario della vittoria nella Seconda guerra mondiale. Lo scafo è stato varato nel 1993, ma l’allestimento fu sospeso poco tempo dopo per motivi economici. La costruzione è ripresa nel 2003, e la nave è stata completata all’inizio del 2007. Le prove in mare si sono svolte dal primo febbraio nel Golfo di Finlandia. Il viaggio inaugurale, verso Murmansk, si è svolto nel mese di marzo. Durante il viaggio è emersa la grande manovrabilità della nave, nonché la sua alta velocità (21,4 nodi). La nave è arrivata l'11 aprile 2007. La nuova nave è molto diversa rispetto alle precedenti. Infatti, è stato aggiunto un modulo ambientale per il trattamento dei rifiuti che ha allungato lo scafo di 9 metri, aggiunti ai 159 che già c’erano: ora, è la più grande dei rompighiaccio classe Arktika, e quindi, la più grande del mondo. L’equipaggio è di soli 138 uomini, e può imbarcare due elicotteri Ka-32. Inoltre, è dotata di tutti i comfort per le crociere nell’Artico.

A cura di Carlo GATTI

Rapallo, 9 Marzo 2023


BRUNO DI LORENZI - EROE RAPALLESE

BRUNO DI LORENZI

EROE RAPALLESE

 

 

 

Targa commemorativa posta all’ingresso del molo al centro della passeggiata a mare che ricorda       

BRUNO DI LORENZI

Un grande Rapallino marinaio e palombaro (inserito in un nucleo speciale di nuotatori d’assalto
denominato GRUPPO GAMMA, che durante la seconda guerra mondiale si distinse al punto da
essere decorato con Medaglia d’argento al valore militare per le sue azioni di
sabotaggio ed affondamento di navi nemiche nel porto di Gibilterra.

 

 

“OPERATORI GAMMA TUTTI RIENTRATI – MISSIONE COMPIUTA”

STORIA > II GUERRA MONDIALE

 

 

La trasmissione cifrata giunge, attesissima, la mattina del 14 luglio 1941, al comando supremo della Xª Flottiglia MAS: la base navale inglese di Gibilterra era stata violata!

L’Operazione "GG1", questo il nome in codice dell'ardita missione, parte da lontano, dato che per eludere l'agguerrito spionaggio inglese e la possibile fuga di informazioni da parte di Supermarina, il comando della Xª MAS prepara la nuova ambiziosa missione in modo perfetto, depistando tutte le possibili fonti di delazione.

Si sta preparando, infatti, un nuovo e rivoluzionario metodo di attacco, addirittura differente da quelli già micidiali ed irridenti ai quali l’Italia ha fatto amaramente “abituare”, ob torto collo, i furenti comandi inglesi.

Una nuova unità della Flottiglia, denominata “Gruppo Gamma” e formata da atleti incredibili che univano allo spiccatissimo animo patriottico, un fisico e temperamento eccezionali, secondi unicamente al proprio insuperabile coraggio, era pronta ad assestare un nuovo - durissimo - colpo, al prestigio ed al morale della potente marina reale britannica.

Il 14 giugno 1941, tra i 60 sottufficiali e marinai inviati, come da routine, alla base sommergibili atlantica BETASOM di Bordeaux, si infiltrano una parte degli operatori Gamma, destinati all’Operazione GG1. Dopo alcuni giorni, il 23 giugno, questi senza farsi notare ed indossati abiti borghesi, si dileguano dalla base, raggiungendo dopo qualche giorno e con una perfetta operazione di infiltrazione segreta, durante la quale percorsero anche lunghissime tratte a piedi, in pieno territorio spagnolo, la meta di partenza dell’ardita ed ambiziosa missione.

La distanza dell’obiettivo della rada di Gibilterra dalla base segreta ricavata nelle stive di Nave Olterra, internata ed ormeggiata in territorio spagnolo, era notevole anche per le eccezionali capacità atletiche degli operatori Gamma, cosicché si decise di preparare un piano di attacco alternativo.

Un paio di mesi prima, una coppia di italiani – i coniugi Ramognino - che avevano lasciato intendere agli spagnoli di aver voglia di scampare alla guerra, aveva preso in affitto una casa sulla costa, proprio nei pressi di Gibilterra: Villa Carmela.

Le squadre di attacco del "Gruppo Gamma", i cui operatori provenivano da varie direzioni, alcuni dopo aver sostato a Cadice, altri a Madrid e dopo un breve passaggio dalle segrete stive dell’Olterra, giunsero finalmente in località La Linea. Qui, si nascosero proprio a Villa Carmela, ove nel frattempo i servizi logistici della Flottiglia avevano fatto giungere, in gran segreto, le semplici ma micidiali attrezzature d’attacco.

Beh! Raccontata così sembra già difficile, per non dire impossibile, figuriamoci compierla una missione così articolata! Siamo certi che lo scrittore britannico Fleming, per le avventurose storie inventate per il suo famoso "007", abbia attinto a piene mani dalle straordinarie operazioni sotto copertura dei micidiali uomini della Decima MAS. Con una sola differenza: quelle di James Bond erano frutto di pura fantasia; le altre, invece, sono Storia divenuta meravigliosa Leggenda.

Al calar delle tenebre della sera del 13 luglio, inizia tra mille incognite la delicata fase dell’attacco.

La nuova e rivoluzionaria squadra di assalto italiana, composta da ben 12 straordinari marinai appartenenti al Gruppo "GAMMA", nuova arma segreta della più micidiale unità di assalto subacquea di tutti i tempi - la Xª Flottiglia MAS - eludono, a nuoto, tutte le difese e le ostruzioni disseminate attorno alla super protetta e strategica base navale inglese.

Nuotando faticosamente tra le fortissime correnti provenienti dall'oceano, per interminabili ore, con durissime fasi di devastante apnea, armeggiano con somma perizia sotto le chiglie dei mercantili Alleati, carichi di preziosi rifornimenti. Evitando, magistralmente, le decine di sentinelle che pattugliano la rada e le numerosissime esplosioni procurate dalle micidiali bombe di profondità, portano infine a compimento una missione perfetta.

L’esito dell’Operazione GG1 è, infatti, semplicemente straordinario.

E' da poco sorta l'alba, nella desolante ed incendiata baia di Gibilterra. La "Decima" ha appena inferto agli inglesi un duro colpo, mostrandogli un nuovo ed incredibile metodo di attacco, danneggiando pesantemente i preziosi carichi imbarcati e costringendo all'incaglio addirittura 4 navi, per un totale di ben 9.465 tonnellate.

Dalle garitte in subbuglio ed in allarme del porto inglese, più di un ufficiale britannico osserva, sconsolato e con lo sguardo perso nel vuoto, la vastità di quel mare che cela le storie e l'identità di un pugno di eroi, verso i quali risulta proprio impossibile non nutrire, misto certamente ad astio e timore, una profonda e sconfinata ammirazione.

Quella notte, tutti i 12 meravigliosi "Uomini Gamma" che si infiltrarono nelle acque molto vigilate e pattugliate antistanti la base inglese, nuotando con assurda fatica dal confinante territorio spagnolo, riuscirono addirittura anche ad esfiltrare, a missione compiuta, senza subire perdita alcuna!

Per questa eccezionale azione, tutti i magnifici 12 Uomini Gamma furono decorati di Medaglia d'Argento al Valor Militare.

Ecco, ad imperitura memoria di sommo coraggio e puro patriottismo, i loro nomi:

Agostino STRAULINO

Giorgio BAUCER

Alfredo SCHIAVONI

Alessandro BIANCHINI

Carlo DA VALLE

Giuseppe FEROLDI

Vago GIARI

Evidio BOSCOLO

Bruno DI LORENZO

Rodolfo LUGANO

Giovanni LUCCHETTI

Carlo BUCOVAZ

 

 

 

 

Per conoscere meglio l'eroe BRUNO DI LORENZI abbiamo scelto un altro GRANDE "rapallino" EMILIO CARTA il quale, nella PRIMA PUBBLICAZIONE (2002) di Mare Nostrum Rapallo,  scelse Bruno De Lorenzi come EMBLEMA del coraggio e delle  capacità natatorie della gente del TIGULLIO.

 

 

 

 

 

 

 Carlo GATTI 

il quale desidera aggiungere ancora alcune riflessioni e ricordi di gioventù:

Bruno de Lorenzi nacque nel 1920, compì una doppia impresa a Gibilterra nel 1943, come abbiamo appena scritto, e solo nel 2002, ultimo di una schiera di "eroi nazionali" ancora in vita, ebbe l’onore di presenziare ad una cerimonia importante come Testimonial.

Il suo essere umile “marinaio” delle NAGGE per tutta la vita lo confinò nella sua spiaggia preferita circondato soltanto dai suoi AMICI fraterni, marinai come lui, tenendosi ben distante dai riflettori della storia. Lo ricordo verso la metà degli anni ’50, ancora in gran forma, nuotare come uno squalo ed avventarsi sul pallone che poi scagliava con una forza notevole nella porta di pallanuoto (Bagni Tigullio) presidiata dal sottoscritto… Bruno era un duro! Non era facile al sorriso. Il suo sguardo non era minaccioso, ma penetrante come una lama, non era alto ma sembrava scolpito nell’acciaio.

Le persone di poche parole e di grande temperamento non hanno bisogno  della pubblicità perchè non la amano proprio!

E’ stato un grande onore conoscerlo!

 

 

Rapallo 2 Marzo 2023

 

 

 

 

 


LAURA BASSI - ORGOGLIO ITALIANO

LAURA BASSI

ORGOGLIO ITALIANO

 

Grande giornata per la LAURA BASSI - la nave rompighiaccio dell’OGS - Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale, che nel corso della 38ª spedizione italiana del Programma Nazionale di Ricerche in Antartide - PNRA, ha toccato la Baia delle Balene: il punto più a sud mai raggiunto da una nave.

Partita da Trieste lo scorso 17 dicembre, ha solcato i mari per quaranta giorni alla volta della Nuova Zelanda ed ora del Mare di Ross. *

Complimenti a tutto l’equipaggio, che ha tagliato un altro grande traguardo per il nostro Paese.

 

 

- La baia delle Balene (in inglese Bay of Whales) è una baia antartica della dipendenza di Ross. Localizzata ad una latitudine di 78° 30' sud e ad una longitudine di 164°20' ovest, la baia si trova al limite della barriera di Ross, lungo la costa settentrionale dell'Isola Roosevelt.

 

 

 

La nave rompighiaccio a metà dicembre è salpata per una missione che la condurrà nelle acque del Polo Sud, ma la campagna scientifica inizierà dal mese di Gennaio 2020, ha precisato Paola Rivaro, oceanografa dell’università di Genova e responsabile scientifica della spedizione e ha poi dichiarato: uno degli obiettivi della Spedizione è quello di studiare le acque in relazione ai cambiamenti climatici, monitorare la superficie del ghiaccio, la fusione della calotta polare e la contaminazione ambientale.

 

 

 

 

IL CHIAVARESE

RICCARDO SCIPINOTTI

Uno dei CAPI SCIENTIFICI che si sono alternati sulla nave rompighiaccio

LAURA BASSI

 

Riccardo Scipinotti

Also published under: R. Scipinotti 

Affiliation

ENEA (Italian Agency for New Technologies Energy and Sustainable Economic Development) Research Center of Bologna, Bologna, Italy.

Publication Topics

Beverages, food safety, bioMEMS, biological techniques, chromatography, contamination, food products, hydrogen, insulation, lab-on-a-chip, microactuators, microchannel flow, microfabrication, optoelectronic devices, photodiodes, portable instruments, quality control, silicon, thermal conductivity, toxicology, photodetectors, amorphous semiconductors, elemental semiconductors, thin film sensors, DNA

Biography

Riccardo Scipinotti received the master’s degree and the Ph.D. degree in electronic engineering from the Sapienza University of Rome, Rome, Italy, in 2005 and 2009, respectively. His Ph.D. dissertation focused on the study and fabrication of a lab-on glass system for the detection and analysis of biomolecules by using thin-film technologies. He is currently a Researcher with ENEA, Italian Agency for New Technologies Energy and Sustainable Economic Development, Bologna, Italy. He is also with the Information and Communication Technologies Group, Antarctic Technical Unit, ENEA, where he is in charge to actuate the scientific research programs in the annual Italian Antarctic expedition.(Based on document published on 26 April 2018).

 

YOU TUBE: Interviste a Riccardo Scipinotti Capo Scientifico della Spedizione in Antartico

https://www.facebook.com/watch/?v=447454506432749

https://www.facebook.com/watch/?v=165000028143800

 

LUNEDI’ 5 FEBBRAIO 2023 il SECOLO XIX

Intitolava

Due liguri a bordo della nave arrivata nel punto più a Sud mai toccato:

“Siamo nella storia”

L’emozione del chiavarese Alessio Andreani, ufficiale di navigazione. “Ho festeggiato il record con una telefonata a mia mamma"

“NOI LIGURI A DUE PASSI DAL POLO, MAMMA, SIAMO NELLA STORIA”

 

 

Da sinistra, il comandante Franco Sedmak con i liguri Diego De Nardi (al centro) e l’ufficiale chiavarese Alessio Andreani

 

 LAURA BASSI

salpa verso l'Antartide

05/01/2023

 

 

Laura Bassi, foto di Riccardo Scipinotti PNRA

 

 

 

COMUNICATO STAMPAConsiglio Nazionale DELLE RICERCHE

05/01/2023

La nave rompighiaccio italiana Laura Bassi ha lasciato il porto di Lyttelton in Nuova Zelanda, facendo rotta verso l’Antartide.

Inizia così la missione prevista per la 38° campagna in Antartide finanziata dal Ministero dell’Università e Ricerca (MUR) nell’ambito del Programma Nazionale di Ricerche in Antartide (PNRA), gestito dall’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l'energia e lo sviluppo economico sostenibile – ENEA per la pianificazione logistica e dal Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) per la programmazione scientifica. 

 

Quest’anno le attività a bordo della nave Laura Bassi, di proprietà dell’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale – OGS, si svolgeranno nell’arco di due mesi, nel corso dei quali saranno realizzate due diverse campagne oceanografiche. Durante le due tratte nel Mare di Ross, 28 tra ricercatrici e ricercatori si alterneranno per portare avanti le attività di ricerca previste nell’ambito di 8 progetti finanziati dal PNRA oltre alle attività in collaborazione con l’Istituto Idrografico della Marina Militare.

Il viaggio della Laura Bassi è iniziato lo scorso 17 novembre quando ha lasciato Trieste per raggiungere il porto di Ravenna e da qui, dopo aver caricato personale e materiali, ha intrapreso una navigazione di circa 40 giorni, non priva di imprevisti. Il 20 novembre la nave ha, infatti, tratto in salvo 94 migranti intercettati su un’imbarcazione alla deriva a largo delle coste greche. 

A fine dicembre è approdata a Lyttelton per le attività di carico di materiale e carburante e per imbarcare il personale scientifico, in parte destinato alla Base italiana in Antartide Mario Zucchelli (MZS): più precisamente 18 containers, circa 300 mc di carburante (ISO Tanks e Bulk), un mezzo antincendio dei vigili del fuoco, 34 tecnici e ricercatori del PNRA oltre a 24 membri dell’equipaggio della nave.

Chiuse le operazioni di carico, il 5 gennaio la nave è partita dal porto di Lyttelton alla volta del Mare di Ross dove svolgerà le prime attività scientifiche fino al 15 gennaio 2023, quando la rompighiaccio arriverà alla Stazione Mario Zucchelli per lo scarico del materiale, operazioni che dureranno circa 4 giorni.


La campagna navale nell’emisfero australe prevede quest’anno una sola rotazione tra la Nuova Zelanda e l’Antartide. Le attività svolte sono state raggruppate, in base alla zona di lavoro e alla tipologia di ricerche, in due campagne oceanografiche di pari durata che hanno come punto di contatto la Stazione Mario Zucchelli (MZS).


Una pianificazione dettata dalla volontà di massimizzare i giorni di attività scientifica nel Mare di Ross, ottimizzando i consumi di carburante. 

La prima campagna oceanografica (5 gennaio 2023 - 4 febbraio 2023) sarà dedicata a sette diversi progetti che prevedono: attività di lancio e recupero di boe (floating e drifter) per lo studio della circolazione marina; recupero e messa a mare dei “mooring”, ovvero sistemi di misura ancorati al fondo del mare utilizzati per lo studio di caratteristiche fisico e chimiche della colonna d’acqua; carotaggi tramite “multicorer” o “box corer” e carotaggi per lo studio geologico del fondale marino. Inoltre, ci saranno attività di pesca scientifica oltre a indagini di laboratorio biologico e chimico fisico. Verrà effettuata anche un'attività specifica legata alla mappatura del fondale marino per la realizzazione di mappe di aree ancora non cartografate. Il 4 febbraio 2023 la nave farà ritorno alla Stazione MZS per effettuare il cambio del personale scientifico, sbarcando quello che ha ultimato il suo periodo a bordo e imbarcando quello che dovrà partecipare alla seconda campagna oceanografica. Inoltre, verranno eseguite le operazioni di carico dei container da riportare in Nuova Zelanda e in Italia.

Il 6 febbraio 2023 verrà imbarcato il personale PNRA, logistico e scientifico, che opererà a bordo fino al 28 febbraio 2023 e la nave partirà per l’esecuzione della seconda campagna oceanografica nel Mare di Ross, portando a completamento le attività avviate nel corso della prima campagna ed effettuando ulteriori indagini geofisiche di sismica a riflessione.
Il rientro al porto di Lyttelton in Nuova Zelanda è previsto per il
6 marzo 2023, dopo circa 6 giorni di navigazione, mentre quello in Italia è atteso nella seconda metà di aprile 2023.

 

 

Oltre 78° gradi di latitudine Sud. E’ il record raggiunto dalla nave rompighiaccio Laura Bassi. L’equipaggio italiano in missione di ricerca in Antartide si è spinto là dove nessuno era mai arrivato a bordo di un’imbarcazione.

 

UN PO’ DI STORIA

 

 

M/n ITALICA

Prima della Laura Bassi, in servizio per l’Antartide vi fu una nave da carico convertita in rompighiaccio. Questa nave si chiamava ITALICA, ed è stata venduta per la demolizione nel 2017. A differenza della Laura Bassi, questa nave non nacque con l’obbiettivo di essere una nave da “supporto polare”, ma era una semplice nave da carico dotata di una prora speciale in grado di scivolare sulle banchise e di romperle con il proprio peso (vedi foto sopra).

 

PRIMA ANCORA….

 POLAR QUEEN

 

 

23 dicembre 1985 - la nave Polar Queen raggiunge il punto prescelto per la prima base italiana in Antartide: Baia Terra Nova, propaggine estrema della Terra Vittoria. Protagonisti dell’impresa sono 42 tra ricercatori, equipaggio nave e Stato Maggiore. Tra loro Carlo Stocchino, coordinatore scientifico del CNR, Celio Vallone, capo del Progetto Antartide dell’ENEA e il generale Ezio Sterpone, responsabile della prima Spedizione nazionale.

Una penna nera tra i ghiacci e l'Italia scoprì l'Antartide

La prima spedizione italiana in Antartide partì da Genova il 27 ottobre 1985. Portò all'individuazione del sito idoneo alla realizzazione di una Base permanente a Baia Terra Nova (BTN) e all' impostazione delle prime ricerche scientifiche. Come nave appoggio e per il trasporto del personale venne usata la nave Polar Queen.

(Chi scrive ricorda d’averla messa in partenza dal Molo Vecchio Porto-Genova)

I risultati raggiunti portarono all'ammissione dell'Italia nel gruppo dei Membri Consultivi del Trattato Antartico nel corso della riunione ordinaria dell'ottobre 1987 a Rio de Janeiro. La spedizione era comandata dal generale degli Alpini Ezio Sterpone (nato a Genova il 16 febbraio 1933, tra l'altro ha comandato la Brigata Alpina «Taurinense», la Scuola Militare Alpina di Aosta e il 19° Comando Operativo Territoriale di Genova, ora Comando Reclutamento e Forze di Completamento regionale "Liguria" comandato oggi dal generale di brigata Piercorrado Meano), vi facevano parte il tenente colonnello Mauro Spreafico, l' ufficiale medico Enzo Giacomin e la guida, il maresciallo Lorenzo Boi. Responsabile Scientifico ne fu il professor Carlo Stocchino.

 

 

 

La nave rompighiaccio Laura Bassi

 

La N/R Laura Bassi è la prima nave da ricerca “rompighiaccio”. Dal 2019 è registrata e certificata in Italia per navigare nei mari polari. Da quella data, il PNRA può contare sulla disponibilità dell’unica nave italiana utilizzata per la ricerca oceanografica e il trasporto di materiali e persone in Antartide. È una rompighiaccio categoria A classe PC5 ed è stata concepita come una nave speciale combinando in maniera ottimale sia capacità cargo sia di ricerca scientifica. Ha una stazza di 4028 tonnellate, è lunga 80 metri e larga 17 metri, ha un sistema di posizionamento dinamico che le garantisce un’elevata manovrabilità e un’accuratezza di stazionamento in un prefissato punto dell’ordine di 1 metro. La struttura del fasciame, particolarmente robusta, le permette di operare in mari coperti da ghiaccio senza temere danni strutturali. 

In realtà la LAURA BASSI fu costruita in Norvegia per una compagnia di navigazione norvegese. Passò di proprietà britannica e successivamente italiana. Pur essendo passata di mano due volte, è considerata una nave ancora nuova.

 

L’acquisto

“Ernest Shackleton”

 

Smantellata nel 2017 la nave Italica, nel maggio 2019, l’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale acquistò per 12 milioni di euro, la nave “Ernest Shackleton” della compagnia di navigazione norvegese Rieber Shipping, grazie a un finanziamento ricevuto dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca. Ribattezzata “Laura Bassi”, la nave è oggi al servizio di tutta la comunità scientifica nazionale, grazie a un accordo tra i principali Enti nazionali che studiano le aree polari e ne gestiscono le infrastrutture.


CARATTERISTICHE

 

La nave rompighiaccio Laura Bassi vanta di essere l’unica unità italiana che rispetta le nuove regole internazionali dettate dal ‘Polar Code’ sul design, la costruzione e l’equipaggiamento delle navi e sulla formazione dell’equipaggio, per la salvaguardia della vita umana in mare e la protezione dell’ambiente.

 

 

Sala controllo

 

Caratteristiche tecniche

·       Anno di costruzione: 1995

·       Conforme al Polar Code

·       Lunghezza 80 m

·       Larghezza 17 m

·       Stazza: 4028 t

·       Tipo: Rompighiaccio: ICE 05 E0 – Special Purpose Ship

·       Posizionamento dinamico secondo livello (DP2)

·       Potenza installata: 5.100 kW

·       Velocità di crociera: 12 nodi

·       Combustibile: gasolio marino a bassissima percentuale di zolfo nelle casse nave e gasolio per aviazione
jet-A1 in serbatoi separati

·       Autonomia: 60 giorni

Capacità di carico e trasporto

·       Gru da 50 t a 10 m

·       Stiva da 3000 m3

·       Ponte di volo per elicotteri

 

Gru telescopica e gru cargo

 

Alloggi:

  • 37 cabine (da 1,2,3,4 posti)

  • 22 posti per equipaggio

50 posti per personale scientifico

 

                           Le cabine

 

Capacità di ricerca:

  • laboratorio umido e asciutto (90m2totali)

  • ampia area di operazioni a poppa

  • gru telescopica di poppa per la messa a mare, portata 10 t

  • gru cargo su ponte di coperta, portata 5 t a 10 m

Alloggiamento per container-laboratorio con collegamento diretto all’area operazioni di poppa

 

Laboratorio secco

 

Tempo libero

  • Mensa

  • Zone ricreative

  • Lavanderia

  • Sauna

  • Palestra

  • Spogliatoi dedicati

Sala ricreativa

 

 

Infermeria

 

 

 

La nave fu chiamata Laura Bassi in onore della scienziata italiana che nel 1700 divenne la prima donna al mondo a ottenere una cattedra universitaria.

 

 

CHI ERA LAURA BASSI ?

 

Laura Bassi, nata a Bologna il 29 ottobre 1711, fu la seconda laureata d'Europa. Versata in moltissime materie (biologia, matematica, logica, filosofia, latino, greco e francese, studiate a casa), fu accolta nel 1732 all'Accademia delle scienze. Lo stesso anno discusse all'università bolognese due tesi, ottenendo una cattedra onoraria di filosofia per 500 lire annue – ma poteva insegnare solo in certe occasioni.

Famosa in tutta Europa, intraprese studi di fisica sperimentale e matematica con il medico Giuseppe Veratti, che sposò nel 1738. Con lui ebbe 8 figli e organizzò in casa un laboratorio di fisica sperimentale newtoniana e un salotto culturale, e qui dal 1749 iniziò a insegnare la disciplina a universitari, aggirando il divieto di insegnamento per le donne; l'ateneo comunque le raddoppiò lo stipendio.

Ogni anno la Bassi teneva dissertazioni all'Accademia delle Scienze sugli argomenti più svariati. Grazie alla sua autorevolezza scientifica nel 1776 le venne assegnato il posto di professore di fisica sperimentale nell'Istituto delle scienze dell'Università di Bologna.

La figura di Laura Bassi è davvero importante perché nonostante i limiti posti al suo insegnamento dalle regole dell'Università di Bologna e dal comune pensiero accademico del tempo che quasi escludeva le donne dall'insegnamento, riuscì a costruirsi una notevole carriera accademica. Ma non solo: le sue ricerche nel campo della fisica newtoniana e le sue sperimentazioni nella dinamica dei fluidi, nell'ottica e nell'elettricità, erano all'avanguardia.

Tra i suoi primi allievi ci fu Lazzaro Spallanzani, suo lontano parente: grazie all'influenza di Laura Bassi, Spallanzani abbandonò gli studi di giurisprudenza e si avvicinò prima alla fisica e poi alle scienze naturali.

La coppia Bassi-Veratti come detto animò un salotto culturale ricco di incontri e scambi filosofici e scientifici sull'onda della cultura illuministica che si stava affermando in tutta Europa. La loro casa, oltre a essere un laboratorio e a ospitare lezioni, divenne così un centro di cultura scientifico frequentato da scienziati e studenti italiani e stranieri. Grazie a questi scambi Bassi entrò in contatto con i più importanti studiosi del suo tempo, da Volta a Voltaire.

La mattina del 20 febbraio 1778 Laura Bassi morì improvvisamente. Fu onorata con solenni esequie e seppellita, rivestita con le insegne dottorali.

Consiglio Nazionale delle Ricerche

 

Record mondiale per la nave rompighiaccio Laura Bassi

 

 

Nave Laura Bassi in Baia delle balene (Mare di Ross - Antartide) - foto Scipinotti/Ferriani©PNRA

 

 

31/01/2023

Nave Laura Bassi in Baia delle balene (Mare di Ross - Antartide) - foto Scipinotti/Ferriani©PNRA

Record mondiale assoluto per la nave rompighiaccio italiana Laura Bassi, che ha toccato il punto più a sud mai raggiunto da una nave, nel corso della campagna oceanografica della 38° Spedizione Italiana del Programma Nazionale di Ricerche in Antartide (Pnra).

I ricercatori e i tecnici a bordo hanno raggiunto, all’interno della Baia delle Balene, un sito ad oggi inesplorato che si trova alla latitudine di 78° 44.280’ S, il punto più meridionale mai raggiunto nel Mare di Ross in Antartide, per effettuare importanti campionamenti previsti nell'ambito del progetto "BIOCLEVER" (Biophysical coupling structuring the larval and juvenile fish community of the Ross Sea continental shelf: a multidisciplinary approach) coordinato dall'Istituto di scienze polari (Cnr-Isp) del Consiglio nazionale delle ricerche, grazie anche alla collaborazione dell’osservatorio marino MORSea (Università Parthenope).

Le condizioni del mare, straordinariamente libero dai ghiacci, hanno consentito di effettuare una profilatura CTD e attività di pesca scientifica a ridosso del Ross Ice SHelf - RIS che in questa posizione è particolarmente basso (circa 8 metri di altezza). I primi risultati dello studio dei parametri fisici dell’acqua marina (dalla superficie fino alla profondità prossima al fondale di 216m) hanno evidenziato la presenza di acqua particolarmente fredda e si confermano di grande importanza per lo studio della dinamica delle correnti nel Mare di Ross. Inoltre, una prima analisi del materiale prelevato dai ricercatori ha evidenziato un’elevata densità di stadi larvali e giovanili di specie ittiche, evidenziando la presenza di alcune varietà raramente osservate nel Mare di Ross oltre la presenza di elevate masse di alghe unicellulari che denotano un’elevata produzione primaria e incoraggiano ulteriori ricerche.

Il viaggio della Laura Bassi è iniziato lo scorso 17 novembre quando ha lasciato Trieste per raggiungere il porto di Ravenna e da qui, dopo aver caricato personale e materiali, ha intrapreso una navigazione di circa 40 giorni, verso la Nuova Zelanda. Il 5 gennaio ha lasciato il porto di Lyttelton alla volta della Stazione Mario Zucchelli e del Mare di Ross. La nave è, infatti, attualmente impegnata nella 38° campagna in Antartide finanziata dal Ministero dell’Università e Ricerca (MUR) nell’ambito del Programma Nazionale di Ricerche in Antartide (Pnra), gestito dall’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l'energia e lo sviluppo economico sostenibile (Enea) per la pianificazione logistica e dal Consiglio nazionale delle ricerche per la programmazione scientifica.

Quest’anno le attività a bordo della nave Laura Bassi, di proprietà dell’Istituto nazionale di oceanografia e di geofisica sperimentale (Ogs), sono state organizzate dall’Unità Tecnica Antartide di Enea in un’unica rotazione suddividendo la campagna in due campagne oceanografiche nel Mare di Ross, intervallate dalla sosta presso la stazione Mario Zucchelli, nel corso delle quali 46 tra ricercatrici, ricercatori e tecnici  complessivamente si alterneranno per portare avanti le attività di ricerca previste nell’ambito di 8 progetti finanziati dal PNRA oltre alle attività in collaborazione con l’Istituto Idrografico della Marina Militare.

Il record è stato raggiunto nel corso della prima campagna oceanografica dedicata a sette diversi progetti che prevedevano: attività di il lancio e recupero di boe (floating e drifter) per lo studio della circolazione marina; recupero e messa a mare dei “mooring”, ovvero sistemi di misura ancorati al fondo del mare utilizzati per lo studio di caratteristiche fisico e chimiche della colonna d’acqua; carotaggi tramite “multicorer” o “box corer” e carotaggi per lo studio geologico del fondale marino, attività di pesca scientifica e indagini di laboratorio biologico e chimico fisico. È stata anche condotta un'attività specifica legata alla mappatura del fondale marino per la realizzazione di mappe di aree ancora non cartografate in collaborazione con l’Istituto Idrografico della Marina Militare Italiana.

La prima campagna oceanografica si avvicina alla conclusione con il cambio di personale scientifico presso la stazione Mario Zucchelli il 4 Febbraio. Dopo le operazioni di carico del materiale e dei campioni scientifici provenienti dalle stazioni di Mario Zucchelli e Concordia, la Laura Bassi ripartirà il 7 Febbraio per la sua seconda campagna oceanografica.  

Il rientro al porto di Lyttelton in Nuova Zelanda è previsto per il 6 marzo 2023, mentre quello in Italia è atteso per la seconda metà di aprile 2023.

 

 

Programma Nazionale di Ricerche in Antartide (PNRA)

foto Lorenzo Facchin©PNRA

 

 

Ho scelto e riporto integralmente per i nostri lettori il reportage dell’inviato speciale di MONDOINTASCA essendo una meravigliosa IMMERSIONE in un clima freddo che, tuttavia, ci permette di percepire il “calore umano” e la professionalità dei nostri connazionali impegnati in una fantastica e storica avventura… che ha per obiettivo tanto lavoro di ricerca per dare risposte anche al fenomeno naturale che stiamo vivendo:

IL CAMBIAMENTO CLIMATICO!

 

30 Gennaio 2023 alle 16:39

 

In Antartide con la spedizione scientifica italiana

 

La 38ª spedizione del Programma di ricerche in Antartide gestito da Enea e CNR è salpata dal porto di Lyttelton in Nuova Zelanda il 6 gennaio. A bordo della rompighiaccio Laura Bassi anche un Reporter di Mondointasca per raccontare la missione.

di Stefano Valentino

Ritorniamo dopo sei anni ai confini del mondo. Mondointasca vi porta di nuovo in Antartide per mostrarvi il lavoro degli scienziati italiani che studiano i cambiamenti climatici. Il nostro reporter, Stefano Valentino, si è imbarcato in Nuova Zelanda a bordo della rompighiaccio Laura Bassi dell’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale (OGS) di Trieste. La missione Antartide i nostri lettori la possono seguire attraverso la sezione dedicata ANTARTIDE che mostra in diretta il percorso e le tappe. 

 

 

Particolare della nave italiana rompighiaccio Laura Bassi (ph. s. valentino © mondointasca.it)

 

È passato quasi un mese dalla nostra partenza (il 6 gennaio) dal porto di Lyttelton in Nuova Zelanda. Ma abbiamo smesso di contare i giorni. Nell’estate australe il sole non tramonta mai. Il viaggio della missione Antartide prosegue lungo interminabili coste imbiancate, dandoci l’impressione di restare inerti nel tempo e nello spazio. A scandire il flusso della quotidianità sono solo i pasti e le attività di ricerca. Queste ultime condotte dagli scienziati e i tecnici a bordo secondo orari concordati dal comandante Franco Sedmak, il capo spedizione Riccardo Scipinotti e Pasquale Castagno, coordinatore scientifico della campagna oceanografica.

 

 

La sconfinata banchina di ghiaccio frantumato (ph. s. valentino © mondointasca.it)

Si tratta della 38a spedizione organizzata nell’ambito del Programma nazionale di ricerche in Antartide (PNRA), gestito da ENEA e CNR. Le distese di ghiaccio che ci circondano, quelle in mare e quelle sul continente, rappresentano un’incantevole immensità. I ricercatori li scompongono in elementi da studiare per cercare di capire l’evoluzione del clima terrestre. Scienza e meraviglia si fondono a ogni tappa del viaggio. La prima fermata è stata alla stazione italiana Mario Zucchelli. Seconda tappa al ghiacciaio Campbell fino a Cape Washington, non distante dalla base; poi attraverso una sterminata banchisa verso sud e infine al Ross Ice Shelf (RIS), il ghiacciaio più grande del mondo.

 

Missione Antartide: i fantasmi degli antichi ghiacciai

 

 

Muraglie di ghiaccio (ph. s. valentino © mondointasca.it)

 

Come molti altri ghiacciai antartici, il RIS scende giù dal continente. Nella parte terminale si appoggia sul mare, creando una monumentale muraglia alta oltra 30 metri. La costeggiamo per giorni, inseguendo con lo sguardo a destra e sinistra la tortuosa sagoma. Vediamo che si allunga, assottiglia e opacizza fino al punto in cui l’occhio umano non riesce più a vedere. I fronti glaciali si estendevano ben oltre l’area in cui navighiamo. Dove ora c’è il blu, in epoche passate c’era solo bianco. Di fatto, attraversiamo i fantasmi degli antichi ghiacciai. Studiare la loro evoluzione è fondamentale per capire qual è stato l’impatto delle temperature. Ma anche per valutare in che misura l’effetto del riscaldamento globale potrebbe contribuire alla loro ulteriore fusione.

 

Missione Antatide: i cambiamenti dei fronti glaciali

 

 

Tecnici preparano gli strumenti da mettere in mare (ph. s. valentino © mondointasca.it)

 

“È fondamentale formulare modelli predittivi che anticipano l’entità di future fusioni glaciali″, spiega Luca Gasperini, ricercatore dell’Istituto di Scienze marine del CNR. Durante la navigazione dirige il progetto Disgeli scandagliando i fondali per individuare segni di arretramento o avanzamento delle lingue glaciali sottomarine negli ultimi 10mila anni; In pratica il periodo intercorso dall’ultima glaciazione. L’obiettivo è confrontare la variazione nel tempo dei fronti glaciali con quella dell’atmosfera intrappolata nelle carote di ghiaccio estratte sul continente col progetto Beyond Epica. Le carote di ghiaccio quest’anno saranno trasportate per la prima volta con la nave in Italia per l’avvio delle analisi.

 

 

Sonda in fase d’immersione (ph. s. valentino © mondointasca.it)

 

″Il raffronto ci permette di prefigurare le condizioni di CO2, e quindi di temperatura, che potrebbero innescare una fusione della calotta glaciale antartica. Fenomeno che innalzando il livello dei mari, sommergerebbe le zone costiere″, conclude Gasperini. Per determinare la variazione dei fronti glaciali vengono raccolti campioni di sedimenti che si sono depositati sui fondali marini. La raccolta avviene nei punti in cui i ghiacciai erano ancorati alla base rocciosa. Innanzitutto vengono identificati i sedimenti con un particolare strumento acustico, chiamato Topas, dopodichè la nave si arresta sopra ogni punto e con un carotiere calato in profondità vengono estratte appunto carote di sedimento, intrappolati in lunghi tubi, che vengono trasportate in Italia per essere analizzate.

Missione Antartide: il fondamentale ruolo dei venti

 

 

Ponte della nave e cabina comandi (ph. s. valentino © mondointasca.it)

 

Le conversazioni con gli scienziati, che siano in laboratorio o nelle sale di ricreazione a prua, ci aiutano a osservare il ghiaccio con occhi diversi. Impariamo che l’Antartide non è un unico conglomerato ghiacciato che si estende dal continente al mare, ma che il ghiaccio continentale (formato dalle precipitazioni nevose) e diverso dalla banchisa galleggiante che e frutto del congelamento del mare. Comprendiamo le interazioni del ghiaccio marino con gli altri due elementi freddi, l’aria e l’acqua, che mantengono l’Antartide nel suo stato di mistica e aliena immobilità.

 

Stefano Valentino sulla nave rompighiaccio con la sua attrezzatura (ph. © mondointasca.it)

 

Mentre siamo appostati sui ballatoi esterni del ponte di comando per fotografare gli spazi metafisici che ci circondano, le nostre dita vengono spesso morse dagli artigli freddi dei cosiddetti venti catabatici. Questi venti non soffiano da nessun luogo. Semplicemente precipitano dalle alture del continente a causa della loro bassa temperatura che li rende particolarmente pesanti. Svolgono un ruolo importantissimo. Non solamente raffreddano la superficie del mare, facilitandone il congelamento, ma spazzano a largo il ghiaccio marino già formatosi, sgomberando ampie porzioni di mare dove puo creare un’ulteriore quantità di ghiaccio.

 

Circolazione oceanica e clima terrestre

 

 

Nave rompighiaccio Laura Bassi (ph. s. valentino © mondointasca.it)

La formazione del ghiaccio marino e un fattore capace di influenzare il clima terrestre. Infatti, ghiacciando, l’acqua rilascia sale nelle masse d’acqua sottostanti che diventando dense e pesanti, sprofondano e fluiscono verso nord; mentre quelle calde dall’Equatore si dirigono verso i poli″, spiega Pasquale Castagno, ricercatore all’Università di Messina. A bordo è responsabile del progetto MORSea dell’Università Parthenope di Napoli”.

Aggiunge: ″queste correnti che fluiscono in direzioni opposte innescano la circolazione oceanica globale che garantisce un’equa distribuzione del calore sul globo terrestre, mantenendo le condizioni ottimali per la vita come la conosciamo″.

È stupefacente guardare il manto di ghiaccio tagliato e frantumato dalla chiglia della nave. Si percepisce mentalmente il freddo ostile delle acque sottostanti capaci di porre fine alla vita di un essere umano in pochi istante; al tempo stesso va considerato che tutto questo gelo mette in moto un meccanismo che è fonte di vita nelle zone temperate da cui proveniamo.

Missione Antartide: effetti contrapposti del ghiaccio

 

 

Montagne nel ghiaccio (ph. s. valentino © mondointasca.it)

 

Sulla Laura Bassi, impariamo che il clima è una cosa complessa. “Il ghiaccio marino ha effetti paradossalmente contrapposti. Da una parte col suo colore bianco riflette la luce e quindi l’energia solare, impedendo il surriscaldamento del mare, dall’altra, proteggendo lo stesso mare dai venti freddi, impedisce il congelamento delle acque”, commenta il paleoclimatologo dell’Istituto di Scienze Polari del CNR. Aggiunge: “e quindi importante analizzare quest’insieme di retroazioni, come ci prefiggiamo di fare col nostro progetto Greta, al fine di comprendere in quale modo la formazione del ghiaccio marino e delle acque dense, generate dal rilascio di sale, è evoluta in passato per anticipare le dinamiche future”.

 

 

Candidi panorami ghiacciati (ph. s. valentino © mondointasca.it)

 

Gli esploratori del passato si precipitavano in Antartide per conquistare la frontiera meridionale del mondo, il continente più irraggiungibile; l’unica terra dove la civiltà umana non ha messo radici, per poi tornarsene a casa con il loro trofeo per non pensarci più. Oggi i ricercatori vengono regolarmente qui per spiegare come il ghiaccio dell’Antartide non sia solo un affascinante archetipo della terra di nessuno, ma sia soprattutto un anello fondamentale del sistema ambientale in cui l’Uomo ha sempre vissuto.

Missione Antartide: odissea tra gli iceberg

 

 

Famiglia di Pinguini (ph. s. valentino © mondointasca.it)

 

Durante la nostra odissea tra gli iceberg, continuiamo ad ammirare l’Antartide dal di fuori, non ne violeremo le distese abitate, non ne raggiungeremo il cuore ambito dagli avventurieri di tutti i tempi. Noi ci accontenteremo di farne ritratti da lontano, facendo volare la nostra fantasia, accontentandoci di condividere brevi istanti a tu per tu con foche e pinguini adagiati sulle loro zattere di ghiaccio vaganti nel Mare di Ross. Siamo venuti qui a capire i misteri scientifici che si celano nelle sue acque e a portarci con noi in Italia le poche risposte ottenute dai ricercatori che, in quanto tali, offrono, il pretesto per tornare nuovamente in questi luoghi remoti in fondo alla curvatura terrestre.


Dominare la complessità dei fenomeni climatici imperniati sui ghiacci antartici sarà molto più difficile che piantare la bandierina come fecero Amundsen e Scott durante la loro eroica corsa al Polo Sud.

 

Info utili:

Seguite il diario di viaggio, realizzato in partnership con Green&Blue di Repubblica.it (link https://mondointasca.it/Antartide)
La spedizione giornalistica in Antartide e stata realizzata grazie all’invito del PNRA che ha ospitato Stefano Valentino a bordo della nave Laura Bassi e si e avvalsa della collaborazione con Morgana Production. Attrezzature e supporto sono state fornite da Avventure nel mondo, Telespazio, Canon e Huawei.

RINGRAZIAMENTI:

Nell'articolo ho citato le fonti ufficiali. La DIVULGAZIONE della STORIA DEL MARE è lo scopo principale della nostra ASSOCIAZIONE che non persegue scopi di lucro.

RINGRAZIO SENTITAMENTE TUTTE LE FONTI ALLE QUALI MI SONO ANCORATO....

    

Carlo GATTI

 

Rapallo, 23 Febbraio 2023


MUSEO NAVALE ROMANO - ALBENGA , LA CITTA’ DELLE 100 TORRI

MUSEO NAVALE ROMANO

ALBENGA 

LA CITTA’ DELLE 100 TORRI

 

 

 

MUSEO DELLA NAVE ROMANA DI ALBENGA

 

“ ... nessuno ricorda che l’Italia ha bisogno di risorse esterne e che la vita del popolo romano è esposta ogni giorno alle incertezze del mare e delle tempeste!”

(Tacito-Ann-III,2.52)

Con queste parole risentite Tiberio fustigava in senato i lussi e gli sperperi di Roma, ricordando che invano si sarebbero cercate in patria le risorse necessarie alla sopravvivenza dei cittadini se gli alimenti di base non fossero arrivati d’oltremare. Difficilmente si potrebbe esporre meglio la dipendenza alimentare di Roma dai suoi rifornimenti via mare già nell’alto impero.

 

PREMESSA

Non essendo il sottoscritto un archeologo e neppure un esperto della materia, ma soltanto un appassionato di archeologia marina, in questo articolo divulgativo ho ritenuto più saggio lasciare quasi tutto lo spazio disponibile agli specialisti della materia perché ritengo che soltanto loro possano attirare nuovi proseliti verso questa affascinante disciplina. Questo almeno è quanto mi è successo molti anni fa... 

Navigare il Mediterraneo però non era una passeggiata. Nonostante il Mediterraneo appaia come un bacino chiuso, il Sahara a sud e l’Oceano Atlantico a ovest provocano nei periodi di cambio stagionale variazioni meteomarine abbastanza veloci e non prevedibili senza moderni equipaggiamenti; i navigatori antichi si potevano affidare soltanto all’esperienza per prevedere il cambiamento delle condizioni atmosferiche. Tutta la navigazione si basava su un sapere tramandato di generazione in generazione; per esempio, tra le nozioni apprese dagli antichi naviganti vi era la conoscenza di venti e brezze stagionali che, insieme alle correnti, permettevano di utilizzare diverse rotte a seconda del periodo dell’anno. Il periodo meno favorevole alla navigazione era l’inverno, detto in antico “periodo del mare clausum”, quando le condizioni metereologiche erano più complicate. La grande esperienza dell’equipaggio era necessaria per navigare in buone condizioni di vento e senza copertura nuvolosa notturna che impediva di vedere le stelle utilizzate per orientarsi di notte.

Il museo, oltre al carico di anfore vinarie, provviste e attrezzature provenienti dai resti anfora di una nave romana affondata nel secolo I a.C. davanti alla costa, espone reperti archeologici di area ingauna e una collezione di vasi da farmacia dell’Ospedale di S. Maria della Misericordia.

 

Isola Gallinara

 

L'isola Gallinara isola Gallinaria (A Gainâa in ligure, Insula Gallinaria Gailiata in latino ) è un'isola situata nei pressi della costa ligure, nella Riviera di Ponente,  di fronte al comune di Albenga  al quale appartiene. L'isola dista 1,5 km dalla costa, dalla quale è separata da un canale profondo in media 12 m; essa costituisce la Riserva naturale regionale dell’Isola Riserva naturale regionale dell’isola di Gallinara. 

 

La raccolta completa del museo conserva, oltre ai ritrovamenti della nave romana, anche materiali sottomarini rinvenuti dalle diverse esplorazioni subacquee, dal 1957 in poi, nei fondali circostanti l'isola Gallinara. Nella sala detta "degli affreschi", caratterizzata dalla presenza di portali in ardesia del XVI secolo e un camino, è stata allestita la raccolta dei vasi da farmacia provenienti dall'ospedale di Albenga; la collezione comprende all'incirca un centinaio di pezzi in ceramica bianca e blu, databili tra il XVI e XIX secolo, di fabbricazione savonese e albissolese.

 

NINO LAMBOGLIA

 

Nino Lamboglia è considerato il padre dell’archeologia stratigrafica e di quella subacquea, nel 1958 fondò il Centro sperimentale di archeologia marina, invitò studiosi da tutto il mondo, organizzò congressi e seminari e lavorò alla carta archeologica dei fondali, seguendo poi, tutti i ritrovamenti subacquei, dell'intera costa italiana.

La scoperta del relitto della nave romana di Albenga

Il primo scavo subacqueo in Italia

 

E' stata oggetto di tredici campagne di scavo subacqueo che hanno consentito di documentare gradualmente gli elementi del carico e le caratteristiche costruttive dello scafo. E' stato pure accertato che si tratta della più grande nave oneraria (nave da carico) romana conosciuta a tutt'oggi nel Mediterraneo, con un carico superiore alle 10.000 anfore, e quindi con una portata netta di 450/500 tonnellate. Le anfore contenevano vino proveniente dalla Campania destinato ai mercati della Francia meridionale e della Spagna. Insieme al vino veniva esportata la ceramica a vernice nera e altri tipi di vasellame.

Il relitto è adagiato a 40 metri di profondità e ad 1 miglio circa dalla costa

NAVE ROMANA DI ALBENGA

La nave da carico era di grandi dimensioni, 40 metri di lunghezza.

Era il 1925 quando un pescatore del luogo, Antonio Bignone, trovò tra le sue reti alcune anfore. La scoperta destò interesse da subito, ma fu necessario attendere sino al febbraio 1950 per un primo tentativo di recupero, in quanto il relitto è adagiato a 40 metri di profondità e ad 1 miglio circa dalla costa.

Lo scavo permise altresì di individuare l’albero maestro che aveva un diametro di circa 50 cm. seguito dei risultati dello scavo fu accertato che la nave Romana d’Albenga era lunga circa 40 m., larga almeno 10 m. e le anfore trasportate dovevano essere almeno 10.000. Teniamo conto che le anfore pesano (vuote) kg 21.5, che il loro contenuto era di 26 litri, ogni anfora pesava all’incirca 45 kg., quindi la nave aveva una portata di 450 tonnellate.

Anfora del tipo Lamboglia 2

 

Per il tipo di anfore rinvenute sul relitto (Dressel 1b e poche anfore di forma Lamboglia 2), ed il tipo e la forma delle ceramiche rinvenute si è potuto collocare il relitto nel primo decennio del secolo I a.C.

Tra i materiali del carico sono stati recuperati 8 elmi bronzei, che potrebbero indicare la presenza di una scorta armata a bordo.

E’ ormai diventata famosa la “ruota di manovra” in piombo (del quale non ho trovato la foto) scoperta dai palombari dell’Artiglio, ancora oggi di dubbia interpretazione, ed il corno in piombo che secondo Lamboglia avrebbe fatto parte della testa di un animale che doveva decorare la prua di questa magnifica nave.

 

 

https://www.albengacorsara.it/corsara/

 

“La dotazione di bordo comprendeva, oltre alle stoviglie, tutto l’occorrente per provvedere alle improvvise necessità che potevano verificarsi durante la traversata. Ad esempio vi era un crogiolo in quarzo, adatto a fondere il piombo in modo da poter provvedere alle urgenti saldature e riparazioni.

 Per fabbricare funi a bordo era stato installato un meccanismo che prevedeva una ruota di piombo infissa, per mezzo di un foro centrale a sezione quadrata, su una struttura lignea che ne permetteva la rotazione. Disposti a croce rispetto al foro appena citato, ve ne erano altri quattro, all’interno dei quali passavano i singoli cavi che, grazie al movimento della ruota, si attorcigliavano vicendevolmente in modo da formare cime consistenti (le ipotesi di uso riguardanti la “ruota di manovra” sono molteplici, quella illustrata è la più accreditata da parte di chi scrive).

La pirateria era molto diffusa lungo i mari italiani e il Mar Ligure gode di un’efferata fama corsara all’interno delle fonti antiche. Al fine di una difesa in caso di attacchi, vennero caricati a bordo alcuni elmi, facenti parte dell’attrezzatura per una difesa estemporanea e improvvisata, certamente non attribuibili ad una vera scorta armata militare. Per scongiurare tali infausti eventi, era parte dell’arredamento un corno in piombo, con chiaro intento apotropaico, che doveva allontanare malocchi e malefici.

Purtroppo il corno non fu sufficiente, perché la nave, salpata dalla Campania, incontrò una violenta tempesta nei pressi di un centro abitato denominato Albingaunum. Nonostante il vicino riparo del porto e un agevole approdo sull’isola Gallinara, la nave, sospinta dal vento e dal mare, si inclinò a tribordo e si inabissò. Il carico scivolò verso il lato destro e il grande peso delle anfore, circa 45kg l’una da piene, sommato all’urto contro il fondale provocò la rottura dello scafo all’altezza del ginocchio (punto di raccordo fra il fondo della nave e la murata)”.

 

Le anfore

Sulle navi lo stivaggio delle anfore avveniva impilandole le une sulle altre con un sistema “a scacchiera”, in modo che quelle dello strato superiore si inserissero fra tre colli delle anfore sottostanti. I contenitori si adeguavano alla forma della carena e venivano fissati e protetti dagli urti con ramaglie di ginepro, di erica, giunchi, paglia ed altro.

Le anfore venivano fabbricate nelle regioni di produzione delle merci, con forme diverse a seconda della provenienza, della cronologia e del contenuto. In età romana circolavano in tutto il Mediterraneo, spingendosi fino alla Britannia e al Bosforo, testimoniando l’unificazione commerciale, oltre che politica, dell’impero.

Il primo a comprendere l’importanza di questi oggetti per la ricostruzione dei traffici commerciali fu Heinrich Dressel, che alla fine dell’Ottocento studiò la relazione tra le diverse forme di anfore e le iscrizioni conservate su di esse. Così Dressel gettava un ponte tra archeologia, epigrafia e storia economica. Di qui si è sviluppata una solida tradizione di studi.

Oggi si è in grado di attribuire le anfore a grandi blocchi di produzioni (italiche, galliche, iberiche, africane e orientali) e, all’interno di questi, a sempre più specifici ambiti di provenienza, riuscendo a “tracciare” i rapporti commerciali dei popoli del Mediterraneo.

 

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Esposizione di importanti reperti recuperati dal relitto della nave oneraria romana rinvenuta nei fondali dell’Isola Gallinara: vasellame, attrezzature navali, pedine da gioco, piccoli arnesi in piombo per la pesca oltre ad un centinaio di anfore vinarie, disposte come lo erano originariamente sulla loro nave, in un’apposita rastrelliera in legno che ne riproduce il “ventre”.

A differenza delle navi da guerra, i mercantili o navi onerarie avevano uno scafo tondeggiante e robusto, adatto sia per la navigazione di cabotaggio, sia per la navigazione in mare aperto, necessaria al fine di attraversare più velocemente determinate zone nel Mediterraneo. La propulsione era unicamente a vela (sempre di tipo quadra che, opportunamente ridotta ad una forma triangolare, permetteva di risalire il vento) e nelle onerarie di maggiori dimensioni poteva essere presente un secondo albero a prua, di dimensioni minori.

Le dimensioni degli scafi potevano variare a seconda delle tipologie di trasporto in cui erano impiegate. Si distinguono: navi di piccolo tonnellaggio (inferiori ai 15 m di lunghezza) adatte alle navigazioni di breve durata, navi di medio tonnellaggio (tra 15 e 30 m) impiegate sia per le rotte lungo costa che per tratti in mare aperto e navi di grande tonnellaggio (sopra i 30 m di lunghezza) che facevano parte della flotta dell’Annona e rifornivano principalmente la capitale.

 

Nota da ROMANO IMPERO:

ANNONA: Prese il nome di Annona il raccolto di grano di un'annata (annus), poi, gradualmente, ogni altra derrata prodotta da un territorio in un anno.

In seguito si intese con questo nome l'insieme dei prodotti agricoli raccolti in un anno per l'approvvigionamento di una città o di uno Stato.

Vi si aggiunse poi anche il magazzino adibito al deposito dei prodotti e l'ufficio che vi sovrintendeva.

I mercantili possedevano un ponte su cui si muoveva l’equipaggio e potevano trasportare passeggeri (non esistevano navi da trasporto passeggeri per lunghi tratti, ma si viaggiava insieme alle merci). Al di sotto del ponte era presente una stiva in cui venivano sistemati i carichi che potevano essere eterogenei o omogenei (nel caso di navi usate solo per il trasporto di grano o olio). Il principale contenitore da trasporto erano le anfore, ma si potevano utilizzare anche i dolia di grandi dimensioni per il vino, sacchi per il grano, cassette lignee e altro.

 

DOLIA

NAVE ROMANA DI ALBENGA

 

Anfora tipo Dressel 1B

 

La stiva veniva colmata con anfore vinarie di produzione italica-campana, le Dressel 1B, alte poco più di un metro e caratterizzate per un orlo ripiegato esternamente per formare un colletto leggermente sfasato verso il basso, impostato sul collo, di lunghezza variabile, che termina in una spalla un po’ spigolosa. La pancia poteva essere pronunciata o longilinea. All’estremità inferiore delle anfore si trova un alto puntale, necessario per permettere l’impilamento. All’interno della nave ne furono caricate fino a dieci mila, disposte su cinque strati sovrapposti, con il puntale dell’anfora superiore trattenuto tra i colli delle inferiori. Sfruttando tali incastri il mercante era certo che, anche in presenza di turbolenze, i contenitori non si sarebbero rovesciati e infranti, spargendo il loro prezioso contenuto. Ulteriore accorgimento per evitare la dispersione del vino era costituito dalla chiusura ermetica dell’imboccatura dell’anfora. Il collo veniva sigillato incastrandovi un tappo di sughero, spesso ben 7 cm, bloccato da uno strato di malta e calce. L’estrema sigillatura del collo era data dall’inserimento di una pigna verde che, con il passare del tempo, si sarebbe seccata e aperta a ventaglio. Quest’ultimo espediente poteva avere una duplice funzione, la prima era quella di aromatizzare il contenuto dell’anfora, e la seconda, più pratica, di facilitare la rimozione del tappo. La pigna infatti, grazie alle sue asperità, avrebbe creato dei luoghi di appiglio per incastrarvi due leve che permettessero di applicare la forza necessaria a rimuovere l’intero tappo. Invece, per preservare le proprietà organolettiche del contenuto da commistioni esterne, l’intera superficie porosa dell’anfora fu ricoperta di uno spesso strato di resina o pece.

 

 

Legato al nome dell’illustre archeologo e studioso di storia romana e medievale Nino Lamboglia, il prestigioso Museo Navale Romano, sito all’interno di Palazzo Peloso Cepolla espone gli importanti reperti recuperati dal relitto della nave oneraria romana rinvenuta nei fondali dell’Isola Gallinara: vasellame, attrezzature navali, pedine da gioco, piccoli arnesi in piombo per la pesca oltre ad un centinaio di anfore vinarie, disposte come lo erano originariamente sulla loro nave, in un’apposita rastrelliera in legno che ne riproduce il “ventre”.

 

 

Diversamente dagli alimenti solidi, come il grano, il trasporto delle derrate liquide o semiliquide come il vino, l’olio e le salse di pesce (garum), è affidato a contenitori in terracotta, in particolare alle anfore (dal termine greco amphìphèro, porto da entrambe le parti, riferito alle due anse dei contenitori). Questo genere di recipienti rappresenta il mezzo più efficace per garantire la conservazione e la spedizione di grandi quantitativi di merci per via marittima o fluviale.

 

Nelle navi lo stivaggio delle anfore avveniva impilandole le une sulle altre con un sistema “a scacchiera”, in modo che quelle dello strato superiore si inserissero fra tre colli delle anfore sottostanti. I contenitori si adeguavano alla forma della carena e venivano fissati e protetti dagli urti con ramaglie di ginepro, di erica, giunchi, paglia ed altro.

Le anfore venivano fabbricate nelle regioni di produzione delle merci, con forme diverse a seconda della provenienza, della cronologia e del contenuto. In età romana circolavano in tutto il Mediterraneo, spingendosi fino alla Britannia e al Bosforo, testimoniando l’unificazione commerciale, oltre che politica, dell’impero.

Il primo a comprendere l’importanza di questi oggetti per la ricostruzione dei traffici commerciali fu Heinrich Dressel, che alla fine dell’Ottocento studiò la relazione tra le diverse forme di anfore e le iscrizioni conservate su di esse. Così Dressel gettava un ponte tra archeologia, epigrafia e storia economica. Di qui si è sviluppata una solida tradizione di studi.

Oggi siamo in grado di attribuire le anfore a grandi blocchi di produzioni (italiche, galliche, iberiche, africane e orientali) e, all’interno di questi, a sempre più specifici ambiti di provenienza, riuscendo a “tracciare” i rapporti commerciali dei popoli del Mediterraneo.

 

 

Sono stati pure recuperati oggetti di uso personale dell'equipaggio e della scorta armata di bordo (elmi), quest'ultima necessaria per difendersi dai pirati che infestavano soprattutto le coste liguri. Tutti gli elementi raccolti permettono di datare il naufragio della Nave Romana di Albenga tra il 100 e il 90 a.C., momento che coincide con la concessione del diritto latino alle popolazioni liguri, con la romanizzazione della regione e con il conseguente sviluppo delle città.

 

RECUPERO DEL RELITTO

STORIA BREVE

 

Albenga. Ancora oggi costituisce uno dei più grandi relitti di navi onerarie romane oggi conosciute nel mediterraneo. E’ la nave romana adagiata sui fondali di Albenga. Venne scoperta casualmente da un pescatore nel 1925. Nelle sue reti finirono tre anfore risalenti all’età romana. La nave “riposa” a circa un miglio dalla costa ad una quarantina di metri di profondità. Solo 25 anni dopo, la SORIMA, (società specializzata che recuperò l’oro sul relitto Egypt,) effettuò un primo intervento di scavo e recupero del relitto. In particolare furono recuperate circa 1.000 anfore, in gran parte danneggiate nella parte superiore per le reti a strascico, ma anche per la pesante benna di recupero dell’Artiglio

Soltanto nel 1957, con la creazione del Centro Sperimentale di Archeologia Sottomarina Albenga, si iniziarono i primi rilevamenti del relitto.

Nel 1961 si affrontò il rilevamento ufficiale della nave adottando il sistema di quadri di rilievo in tubi rigidi formanti una rete di copertura sul relitto, a maglie di cm 150×150, che attraverso un sistema di ingrandimento fotografico in scala di tutti i quadrati (192 per l’esattezza) e il loro fotomontaggio diede le misure reali del cumulo di anfore emergente dal fondo: 26 Mt. di lunghezza e 7.5 di larghezza. Lo scavo iniziò subito dopo al rilevamento e lo stesso permise di accertare che vi era stato subito dopo il naufragio della nave un rapido insabbiamento del fondale e un riempimento di fango proveniente dal fiume Centa che fino agli inizi del Trecento sboccava di rimpetto al relitto.

I risultati più importanti furono raggiunti durante le campagne degli anni 1970 – 1971. Durante queste campagne si poterono costatare che gli strati di anfore erano come minimo quattro, la scoperta di tre ordinate (larghe 14 – 15 cm e alte 12 cm) distanti 10 cm tra di loro nonché la scoperta della lamina di piombo con le chiodatura in rame che fasciava il fasciame esterno, la scoperta della ceramica a vernice nera facente parte del carico impilata negli spazi vuoti tra le anfore la ceramica probabilmente era imballata con materiali leggeri (paglia o altro) e attorno ad essa frammenti di pietra pomice anch’essa come le anfore e le ceramiche di provenienza campana. Lo scavo permise altresì di individuare l’albero maestro che aveva un diametro di circa 50 cm.

A seguito dei risultati dello scavo si accertò che la nave Romana d’Albenga era lunga circa 50 m. larga almeno 10 m.t. e le anfore trasportate dovevano essere almeno 10.000.

Si tenga conto che le anfore pesano vuote kg 21.5, che il loro contenuto era di 26 litri ogni anfora pesava all’incirca 45 kg. – quindi la nave aveva una portata di 450 tonnellate.

Trattandosi di un record, ripetiamo ancora una volta che questa nave costituisce, ad oggi, uno dei più grandi relitti di navi onerarie romane oggi conosciute nel mediterraneo.

Per il tipo di anfore rinvenute sul relitto (Dressel 1b e poche anfore di forma Lamboglia 2), il tipo e la forma delle ceramiche rinvenute si è potuto collocare il relitto nel primo decennio del secolo 1 a.C.
Tra i materiali del carico sono stati recuperati 8 elmi bronzei, che potrebbero indicare la presenza di una scorta armata a bordo.

E’ ormai diventata famosa la “ruota di manovra” in piombo trovata dai palombari dell’Artiglio, ancora oggi di dubbia interpretazione e il corno in piombo che secondo il Lamboglia come facente parte della testa di un animale che doveva decorare la prua di questa magnifica nave.

 

 

 

 

 

 

Il professor Nino Lamboglia, a bordo della nave "Artiglio" (foto sopra) riuscì a recuperare in poco meno di un mese oltre 700 anfore, dando il via ad una campagna di scavi sommersi condotta in modo sistematico, la moderna "archeologia subacquea". Purtroppo all'inizio furono utilizzati strumenti inadeguati, tra cui una benna meccanica, che arrecarono dei danni irreparabili al carico della nave. Le ricerche che si sono susseguite negli anni hanno permesso di ampliare le conoscenze sulla nave ed il recupero di molto materiale tra cui elmi in bronzo ed oggetti di uso personale dell'equipaggio. Il carico, infatti, è ricchissimo ed in perfetto stato di conservazione nonostante la datazione delle anfore risale intorno al 100 a.C. Le anfore erano stivate con il tipico sistema delle navi onerarie romane e l'aspetto sorprendente è che le anfore pesino vuote circa 21 kg e che il loro contenuto era di 26 litri, per un peso complessivo di circa 45 kg. La nave aveva una portata di oltre 450 tonnellate ed è, ancora oggi, uno dei più grandi relitti di navi onerarie romane conosciute nel mar Mediterraneo.

 

Il sistema di sollevamento dei resti per mezzo della benna

 

 

 

 

 

 

 

 

Per il recupero dei relitti venivano impiegati scafandri rigidi e articolati, forniti di gambe e braccia terminanti con artigli metallici in grado di afferrare utensili. Il palombaro attraverso degli oblò poteva osservare l’esterno e comunicava con la superficie attraverso un cavo telefonico. Quaglia credette così tanto in questo progetto che nel 1927 acquistò in esclusiva gli scafandri rigidi tedeschi Neufeldt und Kuhnke

 

LA NAVE

 

 

 

Ce lo spiega molto bene una descrizione tratta da www.antika.it/008704_nave-romana-di-albenga.html e qui riassunta: la nave oneraria di epoca romana rinvenuta ad Albenga (Savona – Liguria), era un’imbarcazione impiegata per il trasporto di merci, lunga 40 m e larga 12 m; essa poteva trasportare intorno alle 11.000/13.000 anfore vinarie e vari tipi di ceramica, tra i quali ve ne erano alcuni che erano stati realizzati in Campania per essere poi esportati in Francia meridionale e in Spagna.

Nel 1950 il professore Giovanni Lamboglia tentò il primo recupero dei reperti con l’aiuto della nave Artiglio, mentre nel 1961 furono realizzati i primi rilievi del relitto.

 

IL CARICO DELLA NAVE

 

La nave trasportava per la maggior parte anfore, alcune delle quali furono ritrovate integre, altre soltanto in frammenti costituiti da fondi e colli; il numero delle anfore e la capacità del relitto hanno portato a sostenere che la nave contenesse 13.000 pezzi.

Esse contenevano per la maggioranza vino, ma sono stati rinvenuti anche anfore con residui di noccioline. Le anfore erano chiuse con tappi di sughero, sigillati con la malta, alcune di esse presentavano sotto il tappo una pigna incastrata nel collo, con lo scopo di mantenere l’aroma del vino. Le anfore facenti parte del carico sono le Dressel 1; tre olearie Lamboglia 2 e alcuni frammenti di Dressel 27. Per quanto riguarda la ceramica, essa è presente nella campana A e C e d’imitazione; vasi a vernice rossa interna; urnette; olle; olpi e grandi boccali.

Tra i vari resti sono stati trovati anche due elmi in frammenti; un corno di ariete; una ruota di manovra; tubi; un mortaio; lamine; un tubetto in piombo e piccoli strumenti difficili da identificare. Per il tipo di anfore rinvenute (Dressel 1 B e Lamboglia 2) e il tipo e le forme della ceramica (Campana A, forme 5 e 31) e per gli altri vasi (Campana C, imitazione campana, vasi a vernice rossa interna, vasi a patina cenerognola e vasi comuni) la nave di Albenga è stata datata primo decennio del I a.C.

 A cura di A. Eusebio

 

Nel 1925 il pescatore Antonio Biglione recuperò dal mare tre anfore di epoca romana, la cui posizione era di circa 1 miglio dalla costa e a 40 m di profondità. Nel 1948 l’avvocato Giovanni Quaglia, con lo scopo di verificare la presenza della nave, propose una prima campagna di indagini ed il Ministero della Pubblica Istruzione approvò tale richiesta. Fu stipulato un accordo secondo il quale i reperti recuperati sarebbero stati custoditi nel Museo Civico di Albenga.

LA PRIMA CAMPAGNA DI SCAVO

La campagna iniziò il mattino dell’8 febbraio del 1950 e fu il professor Giovanni Lamboglia a descriverla, vivendola in prima persona:

“Guidammo l’Artiglio, alle 8 del mattino dell’8 febbraio 1950, sulla località delle anfore, con la barca dello stesso pescatore Antonio Bignone e col geom. Fortunato Canepa, del comune di Albenga, pure appassionato pescatore. Fissati gli ormeggi, il palombaro Petrucci si calò per primo sul fondale, entro la torretta di osservazione che costituisce uno degli strumenti più preziosi dell’Artiglio; e, alla profondità di m. 40, telefonò subito che si vedevano anfore a centinaia, sparse in ogni direzione, su una linea di circa 30 metri di lunghezza e circa 10 metri di larghezza, formante una massa affusolata alta circa due metri sul fondale melmoso circostante”.

In seguito a questi rinvenimenti i ricercatori stabilirono di iniziare il recupero delle anfore e di constatare le condizioni della nave:

“Il giorno dopo, 9 febbraio furono issate a bordo le prime anfore, e l’interesse della stampa e del pubblico diventò immediatamente spasmodico, creando seri intralci al lavoro. Fu, ciò nondimeno, un’impressione indimenticabile veder salire a bordo le anfore intatte, a grappoli di cinque o sei, legate a doppio nodo con una fune dai palombari che lavoravano sul fondo, coperte dai colori vivissimi della fauna marina, che al sole si estinguono dopo pochi minuti, di alghe, incrostazioni calcaree e molluschi secolari”.

Dello scafo della nave non emersero resti, perciò si ipotizzò o che la nave fosse stata ricoperta dalla sabbia, oppure che lo scheletro del relitto, a causa del forte peso del carico e all’opera delle correnti marine, si fosse squarciato aprendosi sui due lati, lasciando intatte solo le anfore e probabilmente la chiglia.
Nei giorni successivi venne perfezionato il metodo utilizzato per sollevare le anfore, infatti fu impiegata una rete invece del sistema della legatura ad una fune, che riduceva le anfore in frammenti. Non era stato ancora risolto il dubbio della reale esistenza della nave, della sua posizione e delle sue condizioni di conservazione; perciò le ricerche furono rivolte verso l’estremità del relitto orientata verso il mare aperto.

Il 13 febbraio le ricerche ripresero per mezzo della benna, che aveva la capacità di sollevare una quantità maggiore di anfore e di raggiungere più velocemente la chiglia ed il 17 furono estratti i primi resti della nave. Il 18 lo scavo fu approfondito fino a 2 m, dalla buca furono estratte anfore prive di incrostazioni, ciò fu chiaro indice della vicinanza della chiglia. La campagna fu sospesa il 21 su decisione di Lamboglia e del prof. Pietro Romanelli (ispettore del Ministero della Pubblica Istruzione).

 

Nel 1960 la “Daino”, protagonista di questa storia, trasformata in nave ricerche archeologiche sottomarine, assumendo la sigla NATO “A 5308”.

 Nel 1962 una seconda esplorazione del relitto fu effettuata dalla nave DAINO così come altre spedizioni sottomarine negli anni seguenti su incarico e a cura del Centro Sperimentale di Archeologia Sottomarina che proprio ad Albenga ha la sua sede nazionale.

 

Nave Romana A

Sito Centro Subacqueo Idea Blu

https://www.youtube.com/watch?v=9p2hJ0gZBQA&t=18s

https://www.centrosubideablu.com/13-immersioni/54-nave-romana-a

 

IMMAGINI DELL’IMMERSIONE DEL 2 AGOSTO 2014

 

 

 

 

 

IMMERSIONE SULLA NAVE ROMANA

DEEP DIVING ACADEMY

L’immersione sulla “Nave Romana di Albenga”, pur non presentando particolarità o difficoltà che la rendono eccezionale, ha tuttavia un fascino al quale è difficile rimanere indifferenti.

Una montagna di anfore poggia su un fondale sabbioso a poco più di 40 metri di profondità, intorno il nulla o quasi. Il 2 agosto 2014 alcuni pesci luna accompagnavano i sub.

Una oasi di storia e di vita accoglie il subacqueo che visita in sito, ogni anfora è diventata la casa o il rifugio di animali marini e così da luogo di memoria è diventato un ambiente di trasformazione, una culla dove nuova vita sorge tra i reperti di quella passata.

 

Villa san Giovanni in Tuscia - STORIA
Micaela Merlino

 

 

CHI ERA NINO LAMBOGLIA?

Nino Lamboglia è stato il padre dell’archeologia stratigrafica e di quella subacquea

 

Tra le figure di grandi studiosi di archeologia e di storia, l’Italia vanta Nino Lamboglia il padre dell’archeologia stratigrafica e di quella subacquea, che purtroppo, però, è poco conosciuto dal grande pubblico.

Nato a Porto Maurizio in provincia di Imperia il 7 Agosto 1912, già dagli anni dell’Università si interessò alla storia dell’Ingaunia, antica zona della Liguria di ponente. 

Nel 1933, nello stesso anno in cui si laureò all’Università di Genova, fondò ad Albenga la “Società Storico Archeologica Ingauna”, quindi dal 1934 al 1937 fu Direttore della “Biblioteca Civica” di Albenga, facendola risorgere dopo un periodo di crisi. Fu poi nominato Commissario straordinario del “Museo Biknell” di Bodighera, fondato nel 1888 dall’inglese Clarence Biknell (1842-1918) che, tra l’altro, aveva scoperto e studiato le incisioni rupestri del Monte Bego. Il Museo raccoglieva le sue collezioni di botanica, ornitologia, archeologia e mineralogia. 

In quegli stessi anni il Lamboglia conobbe il famoso archeologo genovese Luigi Bernabò Brea (1910-1999), dal 1939 al 1941 Soprintendente alle Antichità della Liguria, con il quale iniziò a collaborare in ricerche archeologiche nella Riviera di Ponente. Il Bernabò Brea fu il precursore in Italia dello scavo archeologico stratigrafico, che applicò nello scavo della grotta delle Arene Candide presso Finale Ligure, un sito di età Neolitica, e successivamente nello scavo dell’acropoli di Lipari in Sicilia quando fu Soprintendente alle Antichità della Sicilia Orientale. 

Sempre animato da grande passione per le antichità e da grande energia, nel 1942 Nino Lamboglia fondò a Bordighera l’“Istituto Internazionale di Studi Liguri”, rivestendo la carica di Direttore per trentacinque anni, istituendo successivamente anche altre sezioni in diverse città della Liguria. Né va dimenticato che collaborò attivamente con la Soprintendenza alle Antichità della Liguria come Ispettore aggiunto, in molte ed importanti ricerche di archeologia locale. 

La sua benemerita attività si segnalò anche in occasione della Seconda Guerra Mondiale, quando fu Direttore della “Biblioteca Civica Aprosiana” a Ventimiglia, la prima biblioteca pubblica aperta in Liguria e una delle più antiche d’Italia, fondata nel 1648 da Angelico Aprosio (1607-1681) monaco agostiniano e letterato, riconosciuta ufficialmente nel 1653 da Papa Innocenzo X, poi dagli inizi del XIX secolo amministrata dal Comune di Ventimiglia. 

La biblioteca possedeva preziosi volumi, incunaboli e manoscritti, e già nel periodo della dominazione napoleonica in Italia aveva subìto furti e dispersione, ma dai primi decenni del XX secolo conobbe una rinascita e ciò grazie all’opera intelligente e zelante di alcuni bibliotecari, tra cui lo stesso Lamboglia, che paventando possibili danni al patrimonio librario e archivistico a causa degli eventi bellici, si attivò per garantirne la conservazione. 

I rapporti tra Nino Lamboglia e Luigi Bernabò Brea continuarono ad essere proficui anche dopo la Seconda Guerra Mondiale. In questo periodo il Bernabò Brea fondò in Sicilia il “Museo Archeologico di Lipari” insieme all’archeologa Madeleine Cavalier, sua infaticabile collaboratrice. Una seria e preparata studiosa che anche il Lamboglia stimò ed apprezzò affidandole nel 1948 le cariche di Segretaria e Vice Presidente della “Section Languadocienne” dell’ “Istituto Internazionale di Studi Liguri”, che mantenne fino al 1952. 

Nel 1950 Nino Lamboglia su incarico della Soprintendenza alle Antichità di Siracusa assunse la direzione degli scavi di Tindari, in provincia di Messina, e si dedicò anche allo scavo archeologico sottomarino della nave di Albenga, poi nel 1958 fondò il “Centro Sperimentale di Archeologia Sottomarina”, una struttura tecnico-scientifica deputata alle ricerche di archeologia subacquea. 

In quello stesso anno ad Albenga si svolse il “II Congresso Internazionale di Archeologia Sottomarina”, e grazie al contributo del Ministero della Pubblica Istruzione e del Ministero della Difesa Marina al Centro Sperimentale fondato dal Lamboglia fu affidata la nave “Daino” appositamente adattata per le ricerche archeologiche in mare. Dal 1959 al 1963 furono condotte campagne di scavo sottomarino a Baia, a Spargi (relitto di nave romana), a Punta Scaletta presso l’Isola di Giannutri nel 1963 (relitto di nave di età repubblicana), e nuove campagne di scavo ad Albenga (relitto di nave romana). 

Poi il “Centro Sperimentale di Archeologia Sottomarina” si dotò di una propria nave denominata “Cycnus”, impegnandosi in importanti ricerche lungo le coste tirreniche. Archeologo sempre attento alla salvaguardia dei Beni Culturali, il Lambolgia si battè con decisione per salvare Villa Hanbury presso il promontorio di Capo Mortola a pochi chilometri dal confine con la Francia. 

La villa possedeva un meraviglioso giardino botanico allestito dal 1867 dall’inglese sir Thomas Hanbury, coltivando specie vegetali di tutto il mondo, e diventando ben presto conosciuto ed apprezzato a livello internazionale. 

Sir Hanbury morì nel 1907, ma il figlio Cecil e sua moglie Dorothy continuarono a prendersi cura della villa e del giardino, che però furono abbandonati nel periodo della Seconda Guerra Mondiale. Fu allora che il giardino rischiò di essere lottizzato, ma appunto il Lamboglia con grande tenacia nel 1960 riuscì a farlo acquistare dallo Stato Italiano, e nel 1962 il complesso fu dato in gestione all’ “Istituto Internazionale di Studi Liguri”. 

Tra gli altri meriti del Lamboglia c’è quello di essere stato il primo archeologo italiano ad aver ricoperto nel 1974 la cattedra di “Archeologia medievale” nell’Università di Genova, nello stesso anno in cui fu fondata la rivista “Archeologia Medievale” diretta dall’ archeologo Riccardo Francovich (1946-2007). Sembra incredibile che il padre dell’archeologia subacquea italiana abbia trovato la morte proprio in mare, non durante una ricerca archeologica sottomarina ma a causa di un incidente.

La sera del 10 Gennaio 1977 mentre era alla guida del suo autoveicolo in compagnia del collaboratore Giacomo Martini, fatalmente tratto in inganno dalla folta nebbia e dall’oscurità che impedivano una corretta visibilità, durante le manovre per salire sulla rampa di accesso di un traghetto sbagliò direzione, precipitando nelle gelide acque del mare. La morte tragica e prematura del grande archeologo, e del suo collaboratore, lasciò sconcertati e addolorati i suoi colleghi studiosi, i suoi studenti e quanti avevano avuto modo di conoscerlo e di apprezzarlo. 

Per ricordarlo, sull’Isola della Maddalena in Sardegna gli è stato dedicato un Museo, perché nei pressi dell’isola di Spargi Lamboglia aveva recuperato alcuni reperti. In occasione del quarantennale della tragica morte, la “Sezione di Imperia” dell’ “Istituto Internazione di Studi Liguri” il 10 Gennaio scorso ha reso omaggio all’illustre studioso con una cerimonia svoltasi presso la sua tomba, nel cimitero di Porto Maurizio. 

L’eredità che Nino Lamboglia ha lasciato, non solo agli studiosi di archeologia, è di grande importanza: la ricerca ha sempre bisogno di coraggiosi “iniziatori” di nuovi metodi di indagine, proprio come lui è stato; per ricostruire in modo esauriente la storia di una civiltà e del territorio nel quale si è formata, e trasformata, occorre avere attenzione non solo per le “fasi classiche” ma anche per i periodi preistorici, e similmente per quelli tardo-antichi e medievali, e il Lamboglia non ha mai prediletto una fase storica rispetto ad un’altra ma tutte ha trattato e studiato con uguale interesse e rigore scientifico.

Una seria ricerca archeologica non si accontenta delle indagini nel terreno, ma scruta con lo stesso impegno gli abissi marini, poiché terra e mare allo stesso modo conservano tracce cospicue dell’uomo, della sua storia, della sua cultura, e il contributo da lui dato all’archeologia subacquea italiana è stato di importanza fondamentale.

L’archeologo non può limitarsi allo studio dei contesti che intende indagare, perché non è né uno “scavatore” nè un intellettuale avulso dalla sua società e dalle urgenze contingenti del momento storico e culturale in cui vive, ma ha il dovere di vigilare con amore, e di far sentire la sua voce con fermezza tutte le volte che qualcuno, o qualcosa, minacciano l’integrità, la sopravvivenza e la trasmissione alle generazioni future dei Beni Culturali, sottraendosi alla logica della speculazione, del guadagno di pochi, dell’indifferenza o della rassegnazione, proprio come ha fatto lui. 

L’archeologia per Nino Lamboglia non fu una disciplina a cui dedicare tempo ed energie, ma una scienza che ha performato ed “invaso” tutta la sua vita, identificandosi con essa e andando anche oltre, grazie alla preziosa eredità che ha lasciato.

Micaela Merlino

 

 

ANFORE

Aspetti generali

Struttura dell'anfora

Le classificazioni delle anfore

La tebella Dressel

La tabella Lamboglia - Benoit

Esempi: le anfore cananee

Esempi: le anfore greco - arcaiche

Esempi: le anfore greco - italiche

Esempi: le anfore fenicie e puniche

Esempi: le anfore Etrusche

Esempi: le anfore imperiali

La più antica e famosa classificazione di questi vasi biansati senz'altro quella data dall'archeologo tedesco Henry Dressel, che visse molti anni a Roma e nel 1899 studi i marchi delle anfore del Monte Testaccio.

Questo monte, vicino a Porta Portese (Roma), d un'idea del grande uso che veniva fatto di questi recipienti in epoca romana; non altro infatti che una discarica di cocci d'anfora alta 30 metri.

La tabella Dressel (da Corpus Inscriptionum Latinarum) una classificazione tipologica delle anfore romane e, nonostante l'opinione contraria di molti archeologi, anche una tabella cronologica, seppure con molte lacune. Viene universalmente adottata, perchè il punto di partenza delle classificazioni posteriori; si legge a righe successive: la prima si riferisce alle forme repubblicane (II e I secolo a.C.), le altre a forme imperiali (I-III secolo a.C.).

Il compianto professor Nino Lamboglia, assieme al collega francese Fernand Benoit, ha rivisto e rielaborato la primitiva tabella Dressel con una nuova tabella, riordinando le varie forme, con una maggiore attendibilità cronologica.

La più completa e documentata classificazione a cui mi riferisco riguardo alle anfore quella pubblicata dall'archeologo francese Jean Pierre Joncheray nel 1976, con il titolo "Nouvelle classification des anphores dcouvertes lors de fouilles sousmarines".

Si tratta della descrizione tipologica e cronologica delle anfore recuperate lungo i litorali francesi; l'autore un appassionato archeologo oltre che un ottimo sommozzatore. I francesi hanno fatto maggiori progressi e sono a un livello superiore al nostro nella ricerca e nello studio dell'archeologia subacquea.

Lorenzo Mari tratto da 'Speciale Archeosub' supp.to n. 79 di Sub - 6/91

 

 

FONTI: Museo della Nave Romana di Albenga

BIBLIOGRAFIA

  1. Lamboglia, Diario di scavo a bordo dell’ “Artiglio”, in “Rivista Ingauna e Intemelia”, V, 1, gennaio-marzo 1950, pp. 1-8.

    N. Lamboglia, La nave romana di Albenga, in “Rivista di Studi Liguri”, XVIII, 3-4, luglio-dicembre 1952, pp. 131-203.

    N. Lamboglia, Il primo saggio di scavo sulla nave romana di Albenga, in “Rivista Ingauna e Intemelia”, XVII, 1-4, gennaio-dicembre 1962, pp. 73-75.

    F. Pallarés, Nino Lamboglia e l’archeologia subacquea, in “Rivista di Studi Liguri”, LXIII-LXIV, gennaio-dicembre 1997-1998, pp. 21-56.

A cura di Carlo GATTI

Rapallo, 16 Febbraio 2023


IL DISASTRO DEL TRAGHETTO DOÑA PAZ

 

DOÑA PAZ

Ricordato come: ASIA’S TITANIC

“il più mortale disastro marittimo del ventesimo secolo”

Così la rivista TIME definì l’affondamento della nave

L'incidente marittimo più noto è quello del TITANIC, dove nel naufragio del 1912, legato alla famosa collisione con un Iceberg, persero la vita più di 1500 persone.

 

Molti però non conoscono la storia della DOÑA PAZ

 

Storia

Costruito in Giappone

Nome

Himeyuri Maru

Proprietario

Linea RKK

Porto di immatricolazione

Kagoshima

Costruttore

Cantiere Onomichi

Numero di cantiere

118

Varato

25 aprile 1963

Fuori servizio

23 dicembre 1987

Destino

Venduto a Sulpicio Lines

Venduto alle Filippine

Nome

Don Sulpicio

Proprietario

Linee Sulpicio

Porto di immatricolazione

Manila

Itinerario

Tacloban–Catbalogan–Manila

Acquisiti

1975

Rinominato

Doña Paz nel 1981

Rimontare

Dopo un incendio a bordo il 5 giugno 1979

Identificazione

Numero IMO :  5415822

Destino

Preso fuoco e affondò dopo una collisione con la MT Vector il 20 dicembre 1987

Caratteristiche generali

Tipo

Traghetto passeggeri

Tonnellaggio

·2.324 tsl

·1.192  tpl

Lunghezza

93,1 m (305 piedi)

Baglio

13,6 m (45 piedi)

Velocità

18 nodi (33 km / h; 21 mph)

Capacità

1.518 passeggeri

Equipaggio

  66

 

 

Il Mt Doña Paz era un traghetto passeggeri costruito in Giappone e registrato nelle Filippine.

Quel giorno - 20 dicembre 1987- sebbene risultassero registrati a bordo 1.493 passeggeri e 59 membri d'equipaggio, la nave trasportava (si disse) 4.374 passeggeri non registrati sul “manifesto” passeggeri di bordo: era il periodo natalizio e i biglietti per il “passaggio” erano a bassissimo prezzo per favorire gli spostamenti in vista delle Festività Natalizie. 

 

Traghetto DOÑA PAZ

È il 20 dicembre 1987 - Il Doña Paz è in viaggio da Leyte a Manila (la capitale delle Filippine) quando entra in collisione con la petroliera Vector MT (che aveva un carico di 8.800 barili di benzina e altri prodotti petroliferi che specificheremo tra breve).

 

Petroliera  MT VECTOR

Nella collisione tra la petroliera MT Vector ed il traghetto filippino Doña Paz, si verifica un incontenibile incendio e le fiamme si propagano immediatamente su entrambe le navi. Nella collisione solo 26 sono i sopravvissuti fortunatamente recuperati da quell’inferno di fuoco. Ventiquattro di loro sono passeggeri del traghetto Doña Paz, gli altri due sono membri dell'equipaggio della petroliera MT Vector.

 

LA ZONA DEL DISASTRO

Il DOÑA PAZ era partito dall’isola di Leyte ed era diretto a Manilla

 

Il 20 dicembre 1987 alle 06,30 (Philippine Standard Time) – Il traghetto salpò al comando del Capitano Eusebio Nazareno.  L’arrivo della nave era previsto a Manila alle 04,00 del giorno successivo. L'ultimo contatto radio si era verificato intorno alle 20,00. Tuttavia, i rapporti successivi degli inquirenti scoprirono che il Doña Paz non disponeva della Stazione Radio a bordo o quanto meno che fosse fuori uso. 

Verso le 22,30 il traghetto era a Dumali Point, lungo lo Stretto di Tablas, vicino a Marinduque. Un sopravvissuto in seguito dichiarò che quella notte il tempo era sereno, ma il mare era mosso. 

 

Ricostruzione grafica della collisione

 

La collisione si verificò mentre la maggior parte dei passeggeri era in cuccetta. Nel violentissimo urto, il carico della petroliera Vector prese fuoco e le fiamme investirono il Doña Paz alla velocità di un fulmine. 

 

I sopravvissuti hanno ricordato di aver percepito lo schianto e l'esplosione come se il tutto fosse stato causato dalla caduta di una bomba provocando terrore, un fortissimo shock, incredulità, panico e confusione tra le persone imbarcate sul traghetto. 

Uno di loro, Paquito Osabel, raccontò: “le fiamme si propagarono rapidamente per tutta la nave e in breve tempo il fuoco circondò la nave stessa che diventò una enorme palla di fuoco”. 

Un altro sopravvissuto, un caporale della Polizia filippina Luthgardo Niedo, affermò: “le luci di bordo si spensero pochi minuti dopo la collisione, non c'erano giubbotti di salvataggio sul Doña Paz e i membri dell'equipaggio correvano in preda al panico con gli altri passeggeri, e nessuno dell'equipaggio diede ordini o fece alcun tentativo di organizzare i passeggeri”.  

Successivamente fu accertato che gli armadietti dei giubbotti di salvataggio erano stati tutti chiusi a chiave. 

I più coraggiosi si tuffarono in mare, tutt’intorno alla nave, e presero a nuotare tra corpi avvolti dalle in fiamme.  Altri naufraghi usavano le valigie come dispositivi di galleggiamento improvvisati. 

Solo una ventina riuscirono a nuotare sott'acqua per sfuggire al mare infuocato.

La velocità con cui si era propagato l'incendio non aveva dato il tempo ai marinai d’ammainare le scialuppe di salvataggio.

 

Il Doña Paz affondò due ore dopo la collisione  

la Victor affondò dopo quattro ore

Entrambe le navi s’inabissarono in circa 545 metri (1.788 piedi) di profondità nello Stretto di Tablas infestato dagli squali. 

Gli ufficiali e il capitano di una nave di passaggio tra le isole, MS Don Claudio, assistettero all'esplosione delle due navi e, dopo un'ora, trovarono i sopravvissuti del traghetto Doña Paz

Gli agenti della Don Claudio gettarono delle reti fuori bordo (chiamate in gergo marinaro “giapponesi”) sulle quali solo un esiguo numero di naufraghi si arrampicò e si salvò.

La X indica il punto della collisione

 

 

Il traghetto Doña Paz era partito da Tacloban City (Isola Leyte) e verso le 22:30, si trovava a Dumali Point, lungo lo stretto di Tablas, vicino a Marinduque (vedi carta sopra), quando entrò in collisione con la petroliera MT Vector nello stretto di Tablas; il carico di benzina prese fuoco e subito si propagò rapidamente sulle due navi dando origine ad un immane rogo.

La collisione tra il Doña Paz e la MT Vector avvenne mentre la maggior parte dei passeggeri era in cuccetta. La petroliera era in rotta da Bataan a Masbate e trasportava 1.050.000 litri di benzina e altri prodotti petroliferi di proprietà della Caltex Filippine. Per l’esattezza la petroliera Vector trasportava 1,05 milioni di L (8.800 barili USA) o 1.041 tonnellate (1.148 tonnellate corte) di benzina e altri prodotti petroliferi di proprietà di Caltex Philippines. 

 

Indagine sulle cause dell'incidente

 

Dalle indagini condotte, emerse che l'equipaggio della petroliera MT VECTOR non era stato adeguatamente addestrato e che anche i Documenti-nave erano scaduti. Lo stesso Comandante risultò non essere in possesso delle necessarie LICENZE per cui non era idoneo al Comando!

Secondo l'indagine iniziale condotta dalla Guardia Costiera Filippina, al momento della collisione, sul Ponte di Comando del Doña Paz si trovava soltanto un Allievo di coperta alle prime esperienze.

Altri ufficiali stavano bevendo birra o guardando la televisione negli alloggi ricreativi dell'equipaggio.  Il Capitano della nave stava guardando un film nella sua cabina.  

Una testimonianza simile è stata data da uno dei sopravvissuti, Luthgardo Niedo, in cui ha affermato che un collega soldato di polizia, lo avrebbe informato di "una festa in corso con risate e musica ad alto volume sul ponte della nave dove vi era anche il capitano tra i partecipanti”. 

La Marine Board of Inquiry della Guardia Costiera, presieduta dal capitano Dario Fajardo, svolse una missione conoscitiva sull'affondamento e presentò il suo rapporto al Congresso il 29 febbraio 1988. 

I sopravvissuti hanno testimoniato d’aver visto i passeggeri dormire lungo i corridoi, sui ponte-lance e sulle cuccette con tre o quattro persone sulle stesse e che era quindi possibile che il Doña Paz avesse trasportato un numero di passeggeri probabilmente intorno ai 4.000.  

 

LE VITTIME

 

Nel febbraio 1988 il Philippine National Bureau of Investigation dichiarò, sulla base di interviste con i parenti, che a bordo c'erano almeno 3.099 passeggeri e 59 membri dell'equipaggio, provocando 3.134 vittime a bordo. 

Nel gennaio 1999 un rapporto della task force presidenziale stimò, sulla base degli atti giudiziari e di oltre 4.100 richieste di risarcimento, che vi fossero 4.342 passeggeri. Sottraendo i 26 passeggeri sopravvissuti e aggiungendo 58 membri dell'equipaggio, si calcolano:

4.374 vittime

Sommando gli 11 morti dell'equipaggio di Vector, il totale vittime della tragedia risulta:

4.385 vittime

Reazioni e conseguenze

 

Il Presidente Corazon Aquino ha descritto l'incidente come "una tragedia nazionale di proporzioni strazianti... la tristezza del popolo filippino è tanto più dolorosa perché la tragedia ha colpito con l'avvicinarsi del Natale”.  

Sulpicio Lines ha annunciato tre giorni dopo l'incidente che Doña Paz era assicurata per 25.000.000 (US $ 668.780 nel 2021 dollari), ed era disposta a indennizzare i sopravvissuti per l'importo di 20.000 (US $ 574 nel 2021 dollari) per ogni vittima. Giorni dopo, centinaia di parenti delle vittime hanno organizzato una manifestazione di massa a Rizal Park chiedendo che gli armatori risarcissero anche le famiglie di coloro che non erano elencati nel Manifesto dei passeggeri della nave, oltre a fornire un resoconto completo dei dispersi. 

Tuttavia, il Board of Marine Inquiry alla fine ha scagionato Sulpicio Lines of fault nell'incidente. Successive indagini hanno rivelato che Vector operava senza licenza, senza guardia in navigazione (vedetta) ed il Comandante non era adeguatamente qualificato.  

Durante il 1999 la Corte Suprema delle Filippine stabilì che dovessero essere i proprietari della Vector a dover risarcire le vittime della collisione. 

 

LA SENTENZA:

La Compagnia di Navigazione VECTOR SHIPPING fu ritenuta colpevole della collisione. Mentre la Compagnia noleggiata CALTEX fu assolta da qualsiasi responsabilità. Anche nella sentenza d’Appello emessa il 24 luglio 2008 la Corte Suprema delle Filippine assolse la Caltex Philippines (ora Chevron) da qualsiasi responsabilità nella collisione tra le navi Dona Paz e MT Vector. Alla VECTOR Co. fu ordinato di rimborsare la Sulpicio Lines di Php 800,000.000. The former Captain dichiarò agli investigatori che il timone della petroliera VECTOR era difettoso e che occorreva l’impiego di due timonieri in navigazione. Un’altra inchiesta appurò che i membri dell’equipaggio erano “underqualified” e che la nave aveva Certificati di Navigazione e di Sicurezza scaduti.

 

ALBUM FOTOGRAFICO

 

Costruita da Onomichi Zosen di Hiroshima, in Giappone, la nave fu varata il 25 aprile 1963 come Himeyuri Maru con una capacità di 608 passeggeri. Nell'ottobre 1975, la Himeyuri Maru fu acquistata da SULPICIO LINES e ribattezzata Don Sulpicio. Dopo un incendio a bordo nel giugno 1979, la nave fu ristrutturata e ribattezzata Doña Paz.

 

Doña Paz in navigazione

 

Il Doña Paz all’ormeggio

Le foto che seguono si riferiscono al traghetto Doña Paz e non necessitano di commenti.

 

 

Dieci anni fa scrissi un articolo per Mare Nostrum Rapallo:

TRAGEDIE NAVALI DEL NOVECENTOBREVE STORIA

https://www.marenostrumrapallo.it/tragedy/

Chiusi l’articolo con un “pensiero” che purtroppo mi sembra sempre attuale:

“Noi pensiamo più semplicemente che la deregulation sia il vero nemico da combattere in mare, nei porti e sulle strade. Così come pensiamo che le parti politiche che si fronteggiano in Parlamento, dovrebbero, almeno nel nome dei morti dell’intero settore dei trasporti mondiali, trovarsi d’accordo sull’esercizio di una politica austera, che fosse in grado di colpire i moderni “corsari” senza paura di perdere, ognuno, i propri consensi elettorali”.

Sebbene la lotta alla “DEREGULATION” abbia fatto in questi anni passi da gigante nel campo legislativo e tecnico, i “corsari” cambiano nome ma esistono ancora ed agiscono con sistemi sempre più sofisticati: si annidano nella corruzione, nel malaffare e occorre “tenere alta la guardia” per combatterli e neutralizzarli.

 

 

YOU TUBE

https://www.youtube.com/watch?v=r6j9evuYfwU

https://www.youtube.com/watch?v=mpwuRFLFym0

Carlo GATTI

Rapallo, 2 Febbraio 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


LE NAVI R.A.M.B

 

LE NAVI  R.A.M.B.

Acronimo

Regia Azienda Monopolio Banane

 

 

Negli anni ’30 il business delle banane era diventato una “affare internazionale” in tutta Europa. Nel dicembre 1935 anche il regime fascista decise di adeguarsi a questa tendenza economica. Nacque così la Regia Azienda Monopolio Banane (R.A.M.B.) per trasportare e commercializzare in Italia le banane prodotte nella colonia della Somalia italiana.

Un atto di forzaNel 1936 la Regia Azienda Monopolio Banane fu venduta al Ministero delle Colonie (dall’anno seguente: Ministero dell’Africa Italiana), tuttavia, la bananiera Capitano Bottego” e le sue gemelle non furono vendute alla R.A.M.B., bensì requisite d’autorità dal governo italiano e trasferite a tale compagnia.


La nuova azienda R.A.M.B costruì capannoni nei principali porti italiani e utilizzò le navi frigorifero già esistenti e dal 1937 iniziò la costruzione di quattro bananiere battezzate con il logo dell’azienda: RAMB I, RAMB II, RAMB III, RAMB IV. 

Di queste, due vennero costruite dal Cantiere Ansaldo di Sestri Ponente (le Ramb I e III) e due dai Cantieri Riuniti dell'Adriatico, negli stabilimenti di Monfalcone (le Ramb II e IV).

 

Progetto e costruzione

La mente del progetto RAMB fu il maggiore generale del Genio Navale Luigi Barberis la cui principale premessa (imposta dall’alto) era la seguente:

il percorso Mogadiscio-Napoli doveva essere compiuto a pieno carico e senza scalo.

Le altre caratteristiche molto innovative per l’epoca del progetto erano di tipo tecnico:

  • 2418 tonnellate di carico

  • Imbarco 12 passeggeri (nave mista)

  • Possibilità di trasformare le navi mercantili in Incrociatori Ausiliari armati con 4 pezzi da 120/40 mm in coperta e due, elevabili sino a sei, mitragliere da 13,2 mm. I materiali per la militarizzazione delle navi furono posti in deposito a Massaua per due unità ed a Napoli per le altre due.

  • Lo scafo, in acciaio, con forme più da nave militare che mercantile, era diviso in sette compartimenti da sei paratie stagne trasversali. La nave aveva un ponte principale, un ponte di sovrastruttura completa con castello e tughe a centro nave, un cassero di 16,33 metri a prua ed una tughetta a poppa. Il profilo dell'unità era caratterizzato da due alberi da carico (uno a prua ed uno a poppa) e da un fumaiolo a centro nave.

  • L'apparato propulsivo era costituito da due motori diesel a due tempi, che consumavano 40,9 kg di nafta per miglio alla velocità di 17 miglia orarie, tale consumo era estremamente ridotto. Nelle prove contrattuali furono segnati 18,5 nodi per sei ore; nelle prove progressive con 1.000 tonnellate di carico vennero raggiunti anche i 21 nodi.

  • Di queste, due vennero costruite dal Cantiere Ansaldo di Sestri Ponente (le Ramb I e III) e due dai Cantieri Riuniti dell'Adriatico, negli stabilimenti di Monfalcone (le Ramb II e IV).

  • Le quattro RAMB erano munite di quattro stive e di quindici picchi di carico (dodici da cinque tonnellate, uno da 30 a prua, uno da 15 a poppa ed uno da 1500 kg per l'apparato motore), potevano imbarcare 2418 tonnellate di carico, nonché dodici passeggeri, due dei quali in appartamenti di lusso con camera da letto, salotto e servizi e dieci in camerini a due letti, uno dei quali provvisto di bagno, mentre per gli altri vi era un bagno ogni due camerini. Le navi erano anche dotate di un ponte riservato esclusivamente ai passeggeri (separato da quelli per l'equipaggio), di una sala da pranzo con vista su tutti i lati tranne che a poppa e di due verande-fumatori vetrate. Le sistemazioni dei passeggeri erano anche provviste di aria condizionata.

Caratteristiche generali

Lunghezza: 122,00 m (per I e III) e 116,78 m (per II e IV)

Larghezza: 14,60 m (per I e III) e 15,20 m (per II e IV)

Pescaggio: 7,77 m

Stazza lorda: 3667 t I, 3685 t II, 3660 t III e 3676 t IV

Propulsione: 2 motori diesel potenza 6800-7200 - CV 2 eliche

Velocità di crociera: 17-18 nodi

Velocità massima: 19,5 nodi

Capacità di carico: 2418 tonnellate

Equipaggio: 120

Passeggeri: 12 (come nave mercantile)

Armamento: 4x120/45 + MT

 

La triste storia delle RAMB I - II - III - IV... navi frigorifero veloci per trasportare frutta e verdura fresca tra l'AOI e la Madre Patria...fu che tutte vennero requisite con lo scoppio della II GM e tutte affondate...

Il 10 giugno 1940, alla data dell'entrata dell'Italia nella Seconda guerra mondiale, l'unica della quattro navi a trovarsi nel Mediterraneo era la Ramb III, mentre le altre tre si trovavano nel Mar Rosso.

Le motonavi Ramb I, II e IV furono quindi messe a disposizione del Comando Navale Africa Orientale Italiana.

 

RAMB I

Sestri Ponente - 21 luglio 1937: la RAMB I pronta al varo.

 

 

22 luglio 1937: il varo della RAMB I - Sestri Ponente (Genova)

 

 

La RAMB I in navigazione

 

 

Un’altra immagine della RAMB I nella rada di Merca, in Somalia.

 

 

 

 

La RAMB I Affondata da navi inglesi 27/2/41

 

Allo scoppio delle ostilità, la nave fu trasformata in incrociatore ausiliario con gli armamenti presenti nel porto di Massaua.

La RAMB I limitò la propria attività bellica come “nave corsara” ad una singola ed infruttuosa incursione in Mar Rosso nell'agosto 1940 alla ricerca di naviglio mercantile nemico, missione che fu interrotta proprio perché non risultò possibile trovare navi da attaccare.

 

RAMB II

 

Varo: Monfalcone 7.6.1937 - 40 trasporti – da Massaua si trasferisce in Giappone dove diviene CALITEA II, catturato dai Giapponesi l’8/9/43, bombardato e affondato 12/1/45.

La Ramb II salpò da Massaua il 22 febbraio, al comando del capitano di corvetta di complemento Pasquale Mazzella, anch’essa con destinazione Nagasaki.

Venne superato dapprima lo stretto di Perim, eludendo la sorveglianza operata dalla Royal Navy e dalla Royal Air Force, quindi lo stretto di Bab el-Mandeb e il golfo di Aden, per poi passare tra Capo Guardafui e Ras Hafun ed entrare così nell'Oceano Indiano. Opportunamente camuffata, non ebbe particolari problemi, al di là di alcuni sporadici avvistamenti, rapidamente elusi. Nei primi giorni di marzo la Ramb II transitò a sud delle Maldive, continuando a procedere verso sudest, mentre tra il 10 ed il 15 del mese transitò nelle acque dell'Indonesia, dapprima passando a nordovest di Timor, quindi puntando verso nord e passando nello stretto delle Molucche, per poi fare rotta verso nordest, in direzione del Giappone.

Il 18 marzo 1941, venne ricevuto un dispaccio radio il quale avvertiva che il Giappone, essendo ancora neutrale, non poteva consentire l'ingresso nei propri porti di navi da guerra appartenenti a Stati belligeranti. In considerazione di tale informazioni, i cannoni e mitragliere vennero rimossi e nascosti nelle stive, mentre le loro piazzole vennero occultate. La nave, avendo così perso le “stellette”, venne ribattezzata Calitea II. Il 21 marzo venne ricevuto un nuovo ordine che mutava la destinazione in Kobe che veniva raggiunta il 23 marzo 1941.

Nel maggio 1941 la nave venne data in gestione alle Linee Triestine per l'Oriente, con sede a Trieste e successivamente la motonave si trasferì a Tientsin, dove si trovava nel settembre 1941. A partire dal dicembre 1941 la Calitea II, mantenendo equipaggio italiano, riprese il mare noleggiata dal Governo giapponese, trasportando munizioni ed altri carichi d'interesse bellico a Bali, Giava e Sumatra. A fine agosto 1942 venne inviata per lavori di riparazione a Kobe.

Alla proclamazione dell'armistizio, l'8 settembre 1943, la Calitea II si trovava ancora ai lavori a Kobe e, come da ordini ricevuti, venne autoaffondata dal suo equipaggio la mattina del 9 settembre.

Poche settimane dopo l'autoaffondamento la Calitea II venne riportata a galla dai giapponesi ed utilizzata come trasporto ausiliario (specialmente per viveri) e venne ribattezzata Ikutagawa Maru il 3 ottobre 1943.

Il 24 dicembre 1943, terminati i lavori di riparazione la motonave prese il mare alla volta di Sasebo, ed il 1 gennaio 1944 venne assegnata alla Flotta Combinata ed aggregata alla Flotta dell'area sudoccidentale (Nansei Hōmen Kantai) svolgendo, per tutto l’anno, intensa attività nei mari delle Indie Orientali e sfuggendo agli attacchi dei sottomarini americani

Il 12 gennaio 1945 la Task Force 38 della US Navy lanciò l'operazione «Gratitude»: velivoli statunitensi attaccarono naviglio aeroporti ed installazioni terrestri giapponesi nell'Indocina sudorientale. L'Ikutagawa Maru, ormeggiata a Saigon, venne colpita durante una delle incursioni aeree statunitensi ed affondò.

 

7 giugno 1937: il varo della RAMB II nei cantieri di Monfalcone

 

 

La RAMB II pronta per l’allestimento

 

La RAMB II in navigazione

 

 

Sopra e sotto – La RAMB II in navigazione

 

 

 

RAMB III  - Una vita longeva e avventurosa

 

 

Varo: Sestri Ponente 18.41938

Il giorno seguente la dichiarazione di guerra, la RAMB III venne requisita a Genova dalla Regia Marina ed iscritta nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato e venne trasformata in incrociatore ausiliario. Imbarcò quattro cannoni da 120/45 mm e due mitragliere da 13,2 mm; in seguito vennero aggiunti anche scarica-bombe (di profondità).

Dal 19 giugno 1940 la nave venne assegnata alle scorte dei convogli tra Italia e Libia e poi a quelli verso Grecia ed Albania.

Nella notte dell'11 novembre 1940 la RAMB III lasciò Valona al comando del capitano di fregata richiamato Francesco De Angelini, era in mare di scorta, con la torpediniera Nicola Fabrizi, ad un convoglio di quattro mercantili (piroscafi da carico Premuda, Capo Vado, Antonio Locatelli e la motonave passeggeri Catalani).

Dopo aver attraversato i campi minati il convoglio, che procedeva ad 8 nodi con eccellente visibilità, fu avvistato all'1.15 del 12 novembre, a 12-15 di miglia da Saseno, dalla 7ª Divisione incrociatori leggeri britannica: Orion-Ajax-Sidney e dai cacciatorpediniere Nubian e Mohawk.

Nello stesso momento anche le navi italiane avvistarono quelle inglesi, ma la disparità di forze era enorme: verso l'1.25 le navi britanniche aprirono il fuoco ed in breve tutte e quattro le navi da carico del convoglio furono affondati od incendiati.

La distruzione del convoglio venne ultimata entro l'1.53, con 25 vittime e 140 superstiti, tra cui 42 feriti, fra gli equipaggi dei mercantili affondati). La Nicola Fabrizi si portava decisamente al contrattacco, cercando di attaccare le unità inglesi e di distoglierne l'attenzione dal convoglio, ma riportando gravi danni (nonché 11 morti e 17 feriti) in tale tentativo, la RAMB III sparò 17 colpi (o 19 salve) con i propri quattro cannoni da 120 mm, per poi ritirarsi e lasciare il luogo dello scontro, onde evitare la distruzione.

 

 

Il 30 maggio 1941 la Ramb III, alle 19.30 fu colpita nel porto di Bengasi dal sommergibile inglese Triumph, la nave aveva la prua che sporgeva di una trentina di metri dalla diga foranea ed alle 19.30 (per altre fonti alle 19.45) venne colpita da uno dei due siluri lanciati alle 19.25 dal sommergibile britannico da poche migliaia di metri.

 Il siluro danneggiò gravemente la prua, ma, grazie alla tenuta stagna delle stive frigorifere, la nave non affondò, appoggiandosi al fondo del porto. Non essendo possibile eseguire i necessari lavori di riparazione con i mezzi a disposizione in loco, venne presa la decisione di asportare l'intera parte prodiera, gravemente lesionata ed allagata. Dopo il sollevamento, l'incrociatore ausiliario venne zavorrato in modo da ovviare all'appruamento e ripristinare l'assetto longitudinale e trasversale. Venne quindi presa la decisione di affrontare la navigazione verso l'Italia a marcia indietro trainata da un rimorchiatore, facendo rotta per Brindisi, ove arrivò il 25 agosto e successivamente, per Trieste, ove giunse il 20 settembre 1941 e venne sottoposta ai lavori di riparazione e ricostruzione della parte prodiera.

Ripreso il mare, poco dopo le 13.10 del 1° febbraio 1943 il RAMB III, in navigazione alla volta di Palermo, avvistò alcuni naufraghi superstiti del piroscafo da carico Pozzuoli, silurato ed affondato poco prima; la nave si fermò per il recupero ma venne fatta oggetto del lancio di un siluro da parte del sommergibile britannico Turbulent ma riuscì ad evitarlo.

All'atto della proclamazione dell’Armistizio, l'8 settembre 1943, il RAMB III si trovava nel porto di Trieste, ormeggiata al quinto molo (molo Carboni) del Porto Duca degli Abruzzi, accanto al mercantile armato tedesco John Knudsen.

Nella notte tra l'8 ed il 9 settembre 1943 i reparti e le unità tedesche dislocate in zona ricevettero l'ordine di vigilare e di non permettere a nessuna nave italiana di uscire dal porto. Nella mattinata del 9 settembre il RAMB III, come le altre navi italiane presenti a Trieste, ricevette un cablogramma con l'ordine di partire per consegnarsi agli Alleati. Ricevuto tale ordine, l'incrociatore ausiliario salpò le ancore, ma venne immediatamente preso sotto tiro da parte della John Knudsen: l'equipaggio italiano reagì aprendo il fuoco con una mitragliera  ed armando il cannone poppiero,  preparandosi ad aprire il fuoco con esso, ma gli uomini della Knudsen abbordarono  e catturarono la nave italiana, ponendosi ai cannoni ed alle mitragliere ed aprendo il fuoco contro la corvetta Berenice,  che stava cercando di lasciare il porto e che venne affondata con il concorso di altre navi e di cannoni terrestri (colpita al timone dal proiettile  di un cannone contraereo, la corvetta iniziò a girare in tondo, divenendo facile bersaglio,  e poco dopo le otto del mattino, dopo una ventina di minuti di combattimento, affondò con la perdita di 80 dei suoi 97 uomini).

Incorporata nella Kriegsmarine come trasporto, in un primo momento la nave mantenne il nome di Ramb III. Il 13 novembre 1943 la Ramb III, insieme a tre pontoni-traghetto tipo «Siebel» ed a varie unità minori, nell'ambito dell'operazione «Herbstgewitter» (Tempesta d’autunno) sbarcò reparti della 71 Infanterie Divizion nelle isole dalmate di Cherso, Veglia e Lussino occupate dai partigiani jugolavi.

In seguito l'unità venne sottoposta a lavori di trasformazione in posamine, con l'aggiunta all'armamento di tre mitragliere pesanti da 37/54 mm Breda, ad uso contraereo, nonché delle attrezzature per il trasporto e la posa di mine (l'equipaggio venne ridotto a tre Ufficiali e 64 tra sottufficiali e marinai). 

Ribattezzata Kiebitz, la nave entrò in servizio per la Kriegsmarine il 15 febbraio 1944, prendendo parte alle operazioni contro le isole della costa dalmata ed a missioni di posamine.  Dal marzo al novembre 1944 la Kiebitz, unitamente al posamine ex italiano Fasana, posò nelle acque dell’Adriatico (spingendosi verso sud sino ad Ancona) un totale di circa 5000 mine.

La prima missione come posamine, il 18 marzo 1944, venne interrotta bruscamente a causa della perdita della torpediniera TA-36, già italiana Stella Polare.  Tale unità, infatti, mentre stava posando delle boe che indicavano il punto in cui la Kiebitz avrebbe rilasciato le mine, alle 17.10 urtò una mina che le distrusse la prua, affondando con la morte di 46 uomini.

La Kiebitz raccolse i superstiti e rientrò in porto.

Il 13 luglio 1944, durante una nuova missione, la Kiebitz, a causa di un’avaria alle macchine, urtò due delle proprie mine, riportando gravissimi danni: nonostante tutto il posamine, assistito dalla torpediniera TA-38 ex italiana SPADA), riuscì a rientrare a Pola. Trasferita a Trieste, la nave rimase in riparazione fino al 7 agosto successivo. In agosto riprese l'attività di posa di mine, resa sempre più difficoltosa dalle continue avarie, specie alle eliche. 

Particolarmente intensa fu l'attività di posa mine nel settembre 1944: in cinque differenti missioni, nelle notti tra l'8 ed il 9 settembre, tra il 10 e l'11, tra il 16 ed il 17, tra il 27 ed il 28 e tra il 28 ed il 29, la nave posò rispettivamente i campi minati «Murmel 6-10», «Murmel 11-12», «Waschbär», «Murmel 16-17» e «Murmel 19-20».

Il 3 novembre 1944 la Kiebitz, scortata dalle torpediniere TA-40-TA-44-TA-45, tutte ex italiane, effettuò la posa di un campo minato difensivo nell’Alto Adriatico.

Due giorni più tardi, nel corso di un bombardamento aereo statunitense su Fiume, il posamine, che era ormeggiato presso la Riva Ammiraglio Thaon de Revel nel porto della città quarnerina, venne colpito da tre bombe  sganciate da quadrimotori USA  ed in seguito a un furioso incendio  provocato da una bomba che aveva colpito un deposito di carburante affondò  dopo alcune ore, adagiandosi su un fondale  di circa 20 metri  di profondità, con il ponte di coperta completamente sommerso, mentre gli alberi,  parte delle piazzole dell'armamento e le sovrastrutture  erano emergenti. Nella medesima incursione furono affondate anche la torpediniera TA-21 (ex italiana INSIDIOSO)  ed il cacciasommergibili G-104, mentre furono semidistrutti due magazzini ubicati sul Molo Genova.

 

 

La RAMB III dopo varie vicissitudini: cambi di bandiera e un affondamento, fu l'unica delle quattro RAMB a sopravvivere sino ai giorni nostri.

 

RAMB III a Fiume

 

 

Una bella immagine del RAMB III in versione mimetica ed insegne della Kriegsmarine.

 

 

Successivamente venne rinforzato l’armamento e predisposta per la posa delle mine; così armata la nave svolse l’attività di posamine nelle acque dell'Adriatico.

Il 5 novembre 1944, nel corso di un bombardamento aereo statunitense su Fiume, venne la RAMB III, ora Kiebitz fu colpita da tre bombe sganciate da quadrimotori statunitensi.

 

La RAMB III in affondamento a Fiume (foto sotto)

FIUME- In seguito a un furioso incendio provocato da una bomba che aveva colpito un deposito di carburante, affondò, adagiandosi su un fondale di circa 20 metri di profondità.

 

La ex Ramb III (poi Galeb-poi Viktor Lenac) nel 2008 ormeggiata presso Fiume

 

Alla fine della Seconda guerra mondiale venne recuperata dagli jugoslavi nel 1947 e riattata a Pola con lavori che durarono dal 1948 al 1952 e ribattezzata GALEB. Nella Marina Jugoslava alternò compiti di nave scuola per allievi ufficiali a quello di nave di rappresentanza del dittatore Tito. Con il collasso della Jugoslavia la nave venne assegnata al governo del Montenegro e lasciata abbandonata presso le Bocche di Cattaro.  Alcuni anni dopo venne venduta ad un uomo di affari greco per un eventuale restauro che non venne realizzato ed è attualmente ormeggiata in un Cantiere nei pressi di Fiume in attesa che venga deciso il suo destino.

 

 

RAMB IV

 Tsl: 3675 – Varo: Monfalcone 8.6.38 - Velocità: 18 nodi – Armamento: 4x120/45 +MT

Missioni compiute: 8 Trasporti - 41 scorte

Operò nel Mar Rosso come NAVE OSPEDALE

Bombardato e affondato 28.5.43

 

 

A differenza delle Ramb I ed II, convertite in incrociatori ausiliari, la RAMB IV rimase inattiva per alcuni mesi nel porto di Massaua, disarmata ed utilizzata come nave alloggio.

La RAMB IV, alla caduta di Massaua, fu abbordata dalla flotta britannica (nonostante la protezione della Croce Rossa e, tenuta come preda bellica, fu inviata nel Mediterraneo Orientale come nave ausiliaria (alla fine del 1941 portava ancora i contrassegni come nave ospedale) e fu affondata il 10 maggio 1942 da un attacco aereo tedesco.

In previsione della futura ed inevitabile caduta dell’Africa Orientale Italiana, negli ultimi giorni del dicembre 1940, la Regia Marina decise di trasformare la RAMB IV in una nave ospedale, per poter salvare e ricondurre in patria almeno parte dei feriti e malati gravi e del personale sanitario presente nell'A.O.I. (Africa Orientale Italiana)

Ridipinta pertanto secondo le norme stabilite dalla Convenzione di Ginevra per le navi ospedale (scafo e sovrastrutture bianche, fascia verde interrotta da croci rosse sullo scafo e croci rosse sui fumaioli), la nave, dotata di attrezzature sanitarie e personale medico reperibili in Africa Orientale, venne requisita ed iscritta nel ruolo del Naviglio ausiliario dello Stato il 7 febbraio 1941. Dotata di 272 posti letto, la Ramb IV nei primi mesi del 1941 stazionò a Massaua come ospedale galleggiante.

L'8 aprile 1941, subito prima della caduta della città ormai assediata dalle truppe britanniche, la Ramb IV lasciò quel porto diretta verso nord, progettando di chiedere ed ottenere il permesso di transitare per il canale di Suez, onde poter raggiungere l'Italia ove portare gli oltre duecento infermi, tra feriti e malati, imbarcati.

 

 

Essendo la nave regolarmente denunciata e registrata presso le autorità di Ginevra, ed essendo stati stabiliti dai trattati internazionali, sin dal 1869, la neutralità ed il diritto di transitare nel canale di Suez sia in tempo di pace che di guerra, il progetto era teoricamente realizzabile, ma in realtà il Regno Unito aveva affermato, sin dalla prima guerra mondiale, che solo le proprie autorità avevano il diritto di consentire o vietare il transito tra Suez e Porto Said. Qualora gli inglesi non avessero accordato il permesso di passare per il canale, era stato deciso che la Ramb IV si sarebbe diretta nello Yemen o nell'Arabia Saudita, nazioni neutrali, per farvisi internare.

In realtà gli inglesi non si limitarono a negare il passaggio, ma inviarono il cacciatorpediniere Kingston ad intercettare la nave ospedale: abbordata e catturata al largo di Aden la sera dell’8 aprile.

L'unità fu condotta a Massaua, ormai in mano britannica. Le autorità britanniche decisero di incorporare la nave nella Royal Navy, continuando ad impiegarla come nave ospedale nel Mar Rosso e, dai primi mesi del 1942, nel Mediterraneo orientale, dove operò lungo le coste della Libia e dell'Egitto.

 

 

Nel primo mattino del 10 maggio 1942, in buone condizioni di visibilità, la nave ospedale venne attaccata al largo di Alessandria d'Egitto, dove era quasi giunta proveniente da Tobruk con a bordo 95 uomini di equipaggio e 269 infermi imbarcati nella città libica, da bombardieri Junkers Ju 88 della Luftwaffe, che la colpirono con alcune bombe, incendiandola. Divorata dalle fiamme, la RAMB IV, dopo alcuni tentativi di vincerle anche grazie all’equipaggio del cacciatorpediniere HMS Kipling, inviato in aiuto da Alessandria insieme all'Harrow e all'Hasty, dovette infine essere abbandonata e finita a cannonate dall'Hasty.

 

Nel porto di Massaua e nel grande golfo interno dell’isola di Dahlak Kebir (il Gubbet Mus Nefit) restavano una quindicina di piccole unità militari, e ventiquattro unità mercantili diciotto italiane:

 (Adua, Antonia C., Arabia, Capitano Bottego, Brenta, Clelia Campanella, Colombo, Giove, Impero, Giuseppe Mazzini, Moncalieri, Nazario Sauro, Riva Ligure,
Romolo Gessi (già Alberto Treves), Tripolitania, Vesuvio, Urania, XXIII Marzo) e sei tedesche (Gera, Frauenfels, Liebenfels, Crefeld, Lichtenfels ed Oliva)
.

Con l’approssimarsi delle truppe inglesi, il Comandante di Marisupao, Ammiraglio Bonetti, dispose che alcune unità si spostassero nel grande golfo interno di Dahlak
Kebir per autoaffondarsi, affidando ad altre il compito di autoaffondarsi in posizioni tali da rendere impossibile l’accesso alle installazioni portuali di Massaua.

Il “suicidio” collettivo iniziò già il 3 aprile 1941, ma non vi è certezza della sorte di molte unità né di dove giacciono eventualmente i loro relitti.

La decisione di procedere all’autoaffondamento creò una sorta di cimitero di navi, uno a Massaua e l’altro nel grande golfo interno di Dahlak Kebir.

Delle navi militari la torpediniera ORSINI, al comando del Tenente di Vascello Giulio Valente, prima di autoaffondarsi concorse alla difesa del porto.

Al sopraggiungere delle prime colonne blindate britanniche, aprì subito il fuoco con i suoi pezzi da 102/45 e 40/39, rallentando la marcia delle truppe britanniche nei pressi di Embereni, poi, esaurite tutte le munizioni, nella tarda mattinata dell’8 aprile il Comandante Valente decise l’autoaffondamento, aprendo le valvole Kingston e rompendo alcuni tubi di macchina. Fu escluso l'impiego di ordigni esplosivi data la vicinanza della nave ospedale RAMB IV e dell'ospedale a terra. 

 

PRIMA DEI R.A.M.B

UN PO’ DI STORIA…

Per la verità la storia della “Regia Azienda Monopoli Banane” (R.A.M.B.) inizia negli anni ’30.

Ne 1931, a iniziativa di Andrea Marsano e G. Bellestreri, fu costituita a Genova lka S.A. “Navigazione Italo Somala” S.A.N.I.S. per il trasporto marittimo della frutta a mezzo di navi frigorifero. Capitale iniziale L.1.000.000 in azioni di L.1000 ciascuna. Amministratori delegati: Andrea Marsano ed Eugenio Lehel.

L’attività sociali fu iniziata con i piroscafi noleggiati “Jamaica Merchant” e “R.H.Sanders” di bandiera svedese, effettuando trasporto di agrumi al Nord Europa. Nel 1933 furono acquistate sullo scalo nei Cantieri Eriksberg di Goteborg tra motonavi frigorifere gemelle, particolarmente adatte al trasporto delle banane, con sistemazione in cabine doppie per 12 passeggeri, saletta da pranzo, saletta fumo e vestibolo, velocità 16 nodi.

M/n Capitano BOTTEGO

Si trattava in assoluto delle prime navi bananiere costruite per una compagnia italiana.
Per il trasporto delle banane disponevano di quattro celle frigorifere (isolate con sughero granulato) della capacità di 2872 metri cubi, con due gruppi refrigeratori ad anidride carbonica (alimentati da quattro compressori e prodotti dalla ditta J. & E. Hall Ld. di Dartford).
Le stive erano tre, con una portata lorda di 3118 tpl* ed una netta di 1950 **tpn.
Le loro non grandi dimensioni consentivano sia di limitare i costi di pedaggio per l’attraversamento del Canale di Suez (essendo questi calcolati sulla base del tonnellaggio delle navi che lo attraversavano), sia di massimizzare il coefficiente di carico.
La velocità, che oscillava tra i 15,5 ed i 16,5 nodi, era relativamente elevata per delle navi da carico, al fine di minimizzare i tempi della traversata e preservare così la freschezza del carico di banane: la classe
Capitano Bottego e gemelle risultarono le più veloci navi in servizio sulla rotta tra l’Italia e la Somalia, che percorrevano in dodici giorni, poco più della metà del tempo impiegato dai piroscafi postali della società Tirrenia.


Oltre alle stive per le banane ed altre merci, le navi di questa Classe erano provviste anche di alcune cabine nelle quali potevano trovare posto fino a dodici passeggeri (erano destinate ai concessionari dei terreni somali in cui erano coltivate le banane).


L’apparato propulsivo era costituito da due motori diesel a 6 cilindri da 2550 cavalli, su due eliche, che consentivano una velocità di crociera di 15 nodi ed una massima di 16,5.

*TPL tonnellate di portata lorda: tutto il carico mobile (quindi il peso massimo) che una nave può trasportare) che una nave può imbarca

“DUCA DEGLI ABRUZZI” – 2316 consegnata nel settembre 1933

“CAPITANO BOTTEGO”    - 2316 consegnata nell’ottobre 1933

CAPITANO A. CECCHI”   - 2320 consegnata nel gennaio 1934

Con le navi fu iniziata una linea regolare per Massaua e Mogadiscio.

Costituitasi a Roma la R.A.M.B. “Regia Azienda Monopolio Banane” a cura del Ministero dell’Africa Italiana, la S.A.N.I.S. venne liquidata e le tre motonavi passarono alla nuova azienda a capitale interamente statale che con R.D.L. 11 giugno 1936 fu autorizzata a provvedersi di altre 4 motonavi frigorifero, due ordinate ai Cantieri Navali Riuniti dell’Adriatico e due ai Cantieri Navali Riuniti del Tirreno, con la spesa prevista di 30 milioni, in seguito raddoppiata a 60.000.000.

Potevano trasportare 12 passeggeri in cabine multiple, con saletta da pranzo, saletta-fumo e bar.

QUALCHE RIFLESSIONE:

Delle navi RAMB (varate nel 1937 e 1938) abbiamo scritto che erano innovative per l’epoca:

  • Gli alloggi e sistemazioni varie dei passeggeri erano anche provviste di aria condizionata.

Chi scrive ricorda che 25 anni dopo l’entrata in servizio delle RAMB, le navi di linea “classe navigatori” - Società Italia di Navigazione – (foto sotto) collegavano Italia-Sud Pacifico (viaggi molto caldi) ed erano ancora sprovviste di aria condizionata, avevano un’elica soltanto e non erano veloci come le RAMB.

 

 

 M/n ANTONIOTTO USODIMARE 

Classificazione

Classification

R.I.Na - 

Bandiera

Flag

Italiana - Italian

Armatore

Owner

Lloyd Triestino - ITALY

Operatore

Manager

Lloyd Triestino - ITALY

Impostazione chiglia

Keel laid

Varo

Launched

10.1942

Consegnata 

Delivered

03.1948

Cantiere navale

Shipyard

Cantiere Ansaldo - Genova - ITALY

Costruzione n.

Yard number

Tipo di scafo

Hull type

scafo singolo - single hull

Materiale dello scafo

Hull material

acciaio - steel

Nominativo Internazionale

Call Sign

I.M.O.    Internationa Maritime Organization

5020421

M.M.S.I.   Maritime Mobile Service Identify

Compartimento Marittimo

Port of Registry

Numero di Registro

Official Number

Posizione attuale

Actual position

CLICCA QUI / CLICK HERE

Stazza Lorda

Gross Tonnage

9.715 Tons

Stazza Netta

Net Tonnage 

Portata (estiva) 

DWT (summer) 

7.642 Tonn

Lunghezza max

L.o.a. 

147,80 m

Lunghezza tra le Pp

L. between Pp

138,70 m

Larghezza max 

Breadth max 

19.0 m

Altezza di costruzione

Depth 

Pescaggio Max

Draugth max

Bordo libero

Freeboard 

Motore principale

Main Engine

1 - Diesel

Potenza Motori

Engine Power

Eliche di propulsione

Propellers

1 - passo fisso / fixed pitch

Velocità massima

Max speed 

16,0 kn

Passeggeri

Passengers

700 - 89 in Classe Unica + 614 in 3° Classe.

Stive

Holds

5 - 

Boccaporti

Hatches

5 - 

Mezzi di carico

Cargo gear

10 - bighi / derricks

Equipaggio

Crew

Navi gemelle

Sister ship

Demolita

Scrapped

Ortona - 07.1978

Inserita il

Posted

30.12.2016

Aggiornata al

Last updated

30.12.2

INFORMAZIONI STORICHE

ANTONIOTTO USODIMARE, nave passeggeri/cargo presa ad esempio, fu costruita nel cantiere Ansaldo di Genova – Varata 10.1942, completata 03.1948, faceva parte di una serie di 6 navi da carico progettate nel 1939: UGOLINO VIVALDI - SEBASTIANO CABOTO - PAOLO TOSCANELLI - MARCO POLO AMERIGO VESPUCCI. Le prime tre furono terminate dopo la guerra, le ultime tre subito dopo il varo furono affondate in banchina dai cantieri, e poi recuperate. Le 6 navi furono completate come navi miste e poi gestite sia dal Lloyd Triestino che dalla Italia di Navigazione. La PAOLO TOSCANELLI fu trasformata general cargo per la Società Italia di Navigazione e impiegata sulla linea Centro America e Nord Pacifico. Dal 1949 le due navi UGOLINO VIVALDI - SEBASTIANO CABOTO passarono al Lloyd Triestino e impiegate sulla linea con l'Australia, nel 1952 tornarono per un breve periodo all'Italia SpA per la linea del Plata, e poi ritornarono al Lloyd Triestino e furono trasformate in general cargo. Le altre tre continuarono l'attività passeggeri sul centro America e sud Pacifico. Nel 1963 furono cedute al Lloyd Triestino e trasformate in cargo.

 

 

Carlo GATTI

Rapallo, 23 Gennaio 2023

 

 

FONTI

-Incrociatori ausiliari RAMB

-Enciclopedia dei Trasporti Libri V-VI-VII

-Il Mare nel cuore

-Navi e Capitani

 

 

 

 

 

 

 


IL TESORO DELLA GARONNA

 

IL TESORO DELLA GARONNA

AQUITANIA – FRANCIA

Ogni relitto ritrovato è la tessera di un mosaico che racconta il cammino della storia navale nella sua evoluzione in tutti i settori:

  • costruzione navale

  • trasporto delle merci

  • mappa delle rotte frequentate

  • portualità dell’Impero Romano interno al Mare Nostrum ed anche esterno.

Ciò di cui ci occupiamo oggi è qualcosa di diverso dal solito, il relitto ritrovato è sicuramente una nave oneraria romana simile a quelle che trasportavano anfore colme di vino, olio, frutta secca e soprattutto il GARUM di cui ci siamo già occupati in varie occasioni.

Ma cosa ha di speciale questo relitto che è considerato uno tra i più importanti ritrovamenti archeologici degli ultimi decenni?

 

Innanzitutto si parla di una nave oneraria romana che, uscita da Gibilterra, navigò nel non facile golfo di Guascogna aperto sull’oceano fino a raggiungere Bordeaux dove, risalendo il fiume Garonne, incontrò forti correnti di marea che, da sempre, possono raggiungere gli 8 metri di altezza.

Di quella nave non si sa nulla perché fu devastata da un incendio e naufragò dove meno era probabile che accadesse in aperta campagna a 15 km da Burdigala (Bordeaux) nel suo viaggio di ritorno. Ma del suo carico, dopo 2 millenni, se ne parlerà ancora a lungo ….

Portare l’imprinting di Roma nel cuore dell’Occitania ed anche più a Nord presentava insidie di ogni tipo ed ebbe costi enormi per molti secoli.

 

Riportiamo alcune immagini significative del tesoro ritrovato

Il “Tesoro della Garonna”: 4001 monete romane, ora esposte al Museo d’Aquitania

4 Gennaio 2023

IL TESORO DELLA GARONNA

ROMANO IMPERO

 

FRANCIA - Il Tesoro della GARONNA: un insieme di 4001 monete romane che vennero perse con un naufragio nel II secolo d.C., è stato esposto al Museo dell’Aquitania' a Bordeaux. Questa è la prima volta che tutte le 4001 monete vengono esposte al pubblico. Le monete sono SESTERZI in oricalco, una lega di zinco e rame simile all'ottone, la cui data va dal regno dell'imperatore CLAUDIO (41-54 d.C.) a quello di ANTONINO PIO (138-161 d.C). È il più grande e significativo tesoro di monete ROMANE ritrovate in Francia.

Il naufragio avvenne a SSE della città di Bordeaux, nella zona indicata dalla freccia rossa, nelle località Camblanes-Meynac-Quinsac e Cadaujac oltre l’altra sponda. 

Le monete furono ritrovate tra il 1965 e il 1970 sui fondali della Garonna, presso alcuni piccoli paesi indicati con una freccia rossa sulla carta con i relativi nomi riportati nella didascalia.

I rinvenimenti avvennero durante lavori di dragaggio effettuati per ricavare materiali da costruzione, e le monete sono quindi state ritrovate durante un lungo e certosino lavoro di setacciamento, portato avanti da un professore universitario, Robert Etienne.

Il docente, con una determinazione e competenza fuori dal comune, riuscì a mappare i fondali, calcolare gli spostamenti delle dune sabbiose nei secoli per poi setacciare scrupolosamente tonnellate e tonnellate di materiale argilloso calcolando le forti correnti di marea nei due sensi: montante e calante; infine riuscì a recuperare monete anche nei cantieri di costruzione degli edifici.

Passarono sei anni e l'ex professore dell'Università di Bordeaux Robert Étienne continuò le sue ricerche di monete organizzando una serie di scavi sistematici in diversi siti sul fiume.

Le monete ancora intrappolate nella sabbia della Garonna, continuarono a spuntare nei decenni successivi, donate anche da privati ed altre Associazioni di ricercatori volontari.

Pezzi di legno carbonizzati trovati nella scoperta iniziale indicano che le monete si trovavano su una nave mercantile che risaliva il fiume da BURDIGALA (l’odierna BORDEAUX) tra il 170 e il 176 d.C. La nave prese fuoco e affondò con il suo carico, tra cui migliaia di sesterzi, molti dei quali sono stati visibilmente alterati dal contatto con il fuoco.

Le stime basate sulle dimensioni del carico della nave suggeriscono che almeno 800 monete sono ancora disperse, rubate dai cacciatori di tesori, o incastonate nel sedimento sul letto del fiume. La registrazione e lo studio dell'enorme numero di monete ha richiesto molti decenni di lavoro, motivo per cui il tesoro completo è stato esposto soltanto di recente.

Gli interrogativi …

 La nave discendeva verso la città per ordini commerciali? Per vendere dei prodotti? Oppure stava iniziando il viaggio di ritorno nel Mare Nostrum con il “frutto” delle sue vendite?

Le ipotesi avanzate sono molte… ma nessun reperto ritrovato pare sia in grado di riportare alla luce la vera storia di quel naufragio.

Personalmente non escluderei un attacco piratesco di bande nemiche di  Roma o comunque attirate dalla ricchezza ostentata dalle navi onerarie di Roma.

La trappola potrebbe essere scattata in aperta campagna lontana dai controlli delle pattuglie armate del fiume.

Aspettiamo i vostri commenti … Prendetevi tutto il tempo che volete!

 

 

All’epoca la somma della “CAGNOTTE” era pari a 125 anfore di vino o 10 tonnellate di grano, ma il tempo e la storia la rendono oggi un tesoro inestimabile”.

Per quanto riguarda il conio, la zecca più vicina ai luoghi di ritrovamento era Lione. Tutti i reperti sono stati lungamente restaurati, catalogati e studiati prima di essere messi in mostra, a molti anni dal loro ritrovamento.

UN PO’ DI STORIA ...

NAVE ONERARIA ROMANA

Parallelamente ai ritrovamenti di rostri che testimoniano la presenza di navi da guerra romane, nel Mediterraneo sono sempre più frequenti le segnalazioni e i susseguenti recuperi di imbarcazioni destinate ai traffici commerciali. 

 

 

Le navi onerarie erano legni adibiti a tal scopo. Le dimensioni delle stesse variavano anche in funzione del carico, da una decina a oltre 60 metri, per particolari imbarcazioni destinate al trasporto di blocchi di marmo. 

Mentre queste ultime pare presentassero particolari soluzioni costruttive per l’uso straordinario cui erano destinate (doppio fondo), le onerarie minori (di circa 20 metri), presentavano una struttura più semplice, a unico fondo, così come rappresentato nella figura riportata a sinistra.

La tecnica costruttiva preponderante era del tipo “a guscio portante”: il fasciame esterno, montato a paro, era assemblato da linguette lignee (tenoni) incavigliate all’interno di mortase, mentre l’ossatura presentava madieri e costole in alternanza, fissati al fasciame esterno con chiodi metallici o con caviglie in legno annegate.

Due elementi longitudinali paralleli (paramezzalini), collegati da traverse, assicuravano l’intera struttura sulla chiglia. All’interno dello scafo, serie di “serrette” (tavole di fasciame mobile per l’ispezione e la pulizia delle sentine) e “correnti” – per dar ulteriore rinforzo alla struttura esterna – costituivano la struttura del pagliolato; lamine in piombo, infine, erano utilizzate per apportare riparazioni allo scafo e per rivestire punti nevralgici. 

La tecnica costruttiva sopra descritta ha avuto conferma in diversi ritrovamenti in tutto il “Mare Nostrum”, ultimo dei quali quello del relitto della nave di Marausa (TP) (III – IV sec. d.C.). 

Quest’ultima è un reperto di eccezionale valore per la completezza dello scafo (ad eccezione delle estremità consunte dal tempo e dalle teredini) e la varietà del carico che portava, composto principalmente da varie tipologie di anfore africane chiuse da tappi di sughero, utilizzate per il trasporto di frutta secca (pinoli, nocciole, mandorle, pesche, fichi), olive e con ogni probabilità olio, vino e salsa di pesce o “garum” (come testimonierebbe all’interno dei contenitori la presenza di un tipo di resina); sono stati inoltre rinvenuti recipienti ceramici (coppe, coppette, coppe con base carenata, ampolline, piatti) e vetro.

 

Nelle costruzioni navali e nelle opere marittime ad esse collegate, cioè porti, moli, magazzini ecc. i Romani svilupparono una branca importante della loro maestria di architetti ed edificatori, con tecniche sofisticate ed innovative, sia nell'ingegneria navale, che nell'ingegneria marittima e costiera.

 In tutte le coste del Mediterraneo e dell’Oceano costruirono nuovi porti marittimi e fluviali, ristrutturando e ampliando i vecchi con la costruzione di moli, dighe e scali, non solo seguendo i canoni descritti da Vitruvio nel suo trattato sull’architettura, ma creandone di nuovi.

 

 

Ve ne sono ampie testimonianze su tutte le coste che appartennero all’impero romano, che tuttora custodiscono molti resti di porti e fari dell’antica Roma, in parte studiati e recuperati, in parte visibili solo sott'acqua, coperti dal mare per il lento fenomeno del bradisismo sul Tirreno che nasconde e mette a repentaglio opere d'arte incommensurabili.

La costa tirrenica è piena di moli, torri e resti di ville romane sulle spiagge, barbaramente distrutte dai vari palazzinari col beneplacito dello stato, o lasciate a a marcire sott'acqua per non salvare opere eccezionali come le ville imperiali di Posillipo.

Ma la maggior parte, ed è un bene, giace sepolta sotto terra o sotto le spiagge, perchè lo stato non reputa vantaggioso investire nell'archeologia, nonostante abbiamo un patrimonio apprezzato da tutto il mondo. Diciamo che è un bene perchè dall'Italia prendono il volo misteriosamente statue alte 4m e mezzo, che pesano svariate tonnellate e che svaniscono dai musei senza che nessuno sappia nulla, come se un visitatore se le fosse messe sotto braccio trafugandole in tal modo.

Fonte: ROMANO IMPERO

 

Carlo GATTI

Rapallo, 15 Gennaio 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


LA COMETA DI NEANDERTHAL

 

Cometa di Neanderthal

Foto di Michael Jäger

La Cometa C/2022 E3 (ZTF), scoperta il 2 Marzo 2022, dagli astronomi Bryce Bolin e Frank Masci, ritorna nel Sistema solare dopo 50.000 anni, cioè da quando sulla Terra viveva l’uomo di Neanderthal (da ciò deriva il suo nome).

E’ consigliabile, andare in zone buie, guardare verso Nord con un binocolo o un telescopio e così si può osservare che, come accade in genere a tutte le comete, ha due code: una coda formata da polvere (più luminosa e di colore biancastro) depositata lungo la sua orbita e una coda formata da ioni plasma, trasportato dal vento solare, di colore bianco bluastro) visibile nella direzione opposta al Sole.

Nota: le code sono difficilmente osservabili anche con strumenti, soprattutto da luoghi cittadini.

Anno 2023

Il 12 Gennaio la Cometa è nel punto più vicino al Sole e il 1 Febbraio è alla minima distanza dalla Terra (42 milioni di chilometri).

Dal 17 Gennaio al 5 Febbraio è visibile tutta la notte attorno alla Stella Polare; in dettaglio: il 22 Gennaio è nell’Orsa Minore, dal 29 Gennaio è nella Giraffa e poi si sposta nell’Auriga.

Il 15 Febbraio la cometa è nel Toro, vicino alla stella Aldebaran, poi “scende” verso Orione, passa vicino alla stella Rigel e ci “saluta”.

 

 

 

 

 

A cura dell'Associazione Culturale il SESTANTE - Chiavari

 

La scienza senza la religione è zoppa

la religione senza la scienza è cieca.

EINSTEIN

Chiavari, 12 Gennaio 2023