LE CAMPANE DI PASQUA

LE CAMPANE DI PASQUA

Povirazio, un vecchio marittimo, uno dei tanti che si incontrano negli ospedali:

vicenda che non fa notizia ma che rallegra il cuore, come il canto di un usignolo ci ricorda che è primavera, anche nlele giornate umide.

Sia nei grandi che nei piccoli ospedali ci sono tensioni create dall’ambizione e dall’invidia come in tutti i posti di lavoro del mondo, perché la gente è la stessa dappertutto.


Lavoravo dunque a quei tempi in un posto dove avevo trovato tensioni emotive molto forti, condite di ingiustizie, e a volte, purtroppo, di supponenza.

Era un triste periodo di lavoro, per me, quello.

Suonò il telefono che ero appena entrato in Reparto, alle 7.30 del mattino. Una voce dal tono irritato:

«Pronto, sono Mieli: quando ci venite a rivedere quel malato?»

La dottoressa Mieli, di uno dei Reparto Medicina.

«Ciao, Mieli. Quale malato?»

«Quello dell’ernia strozzata, Povirazio. Siete già venuti a vederlo nei giorni scorsi … »

«Non ne so nulla. Sabato e domenica non ero di turno … »

«Anche prima! Sono un po’ di giorni che ve lo palleggiate. Quand’è che ve lo prendete?»

Caddi dalle nuvole:

«Un’ernia strozzata?»

«Eh! Un occluso, che sta sempre peggio!»

Sgranai gli occhi:

«E perché l’avete voi, se è occluso?»

Lei ringhiò quasi:

«E’ quello che ti chiedo! E’ un malato vostro, o no? Vi abbiamo già mandato una pila di richieste di consulenza!»

Mi guardai intorno: in quel momento non c’era nessun altro in Reparto.

«O.K., vengo a vederlo. Ciao, Antonella»

Nel Reparto Medicina la mattinata era appena all’inizio. La Mieli mi aspettava sulla porta.

«Ciao» disse «Grazie, che sei venuto subito … Ti accompagno. Il malato è da questa parte!»

Povirazio Cristiano mi parve subito un Povero Cristo. Un vecchio dagli occhi vispi, tanto piccino che quasi spariva nel letto.

Era senza denti, con un solo canino che gli spuntava dalla mandibola. Per la lassità dei legamenti la mandibola sporgeva oltre il labbro superiore, sicché quel canino usciva fuori minaccioso e gli dava un’aria da narvalo, o da orco dei fumetti.

Il sondino naso gastrico era pieno di contenuto spesso e la pancia enorme contrastava con la pochezza del resto.

«Signor Povirazio, questo è il chirurgo» disse la Mieli «E’ venuto a vederla. Gli racconti cosa sente!»

«Tengo male di pancia, sempre più forte» esordì il poveraccio «che non ce la faccio più …»

«Il male è aumentato tra sabato e domenica, signor Povirazio?» dissi io.

Lui scosse la mano destra avanti e indietro:

«Tanto, dottò, che non lo sopporto più»

«Mi faccia vedere la pancia, prego!»

Appena misi gli occhi sull’inguine destro mi scappò fuori un moccolo:

«Bellìn»

«Eh! Hai visto?» disse la Antonella.

Un’ernia maligna non ridotta, che portava i segni di ecchimosi generate dai precedenti tentativi dei ditoni che volevano ridurla.

«Com’è possibile» sussurrai «che l’abbiano lasciato lì, Antonella?»

Lei si strinse nelle spalle e scosse il capo

«Ha un’ernia strozzata!» sussurrai guardandola negli occhi «perché è qui?»

«Cosa ne so io? Non sono mica un chirurgo!»

«Quelli che l’hanno visto nei giorni scorsi non l’hanno trasferito?»

«Macché, è lì tale e quale, da quando è arrivato!»

«Perché non l’hanno preso?»

«E’ un ex navigante, fumatore, bevitore… bronchite cronica, diabete, cardiopatia. E’ un ASA II-III»

Voleva dire che il vecchio marittimo era tutto scassato, e che operarlo sarebbe stato un grosso rischio. Perciò chi l’aveva visto in precedenza si era limitato a pestare sul sacco nel tentativo di ridurre l’ansa bloccata, tanto da fargli venire la pelle viola!

E’ imbarazzante da dire, ma ogni tanto si attivano queste dinamiche, nei grossi ospedali: se un malato viene etichettato come fonte di possibili rivalse, a volte si innesca l’effetto dello scaricabarile (o del cerino corto).


E il cerino corto in quel caso l’avevo appena pescato io!

Ignaro, ma non stupido, Povirazio Cristiano, ex marittimo da carretta, stava lì con sondino e il dente unico a guardarmi. La pancia da batrace gli limitava ancor più il respiro, e il sacco dell’ernia gli prorompeva all’inguine, come uno zaino pieno di budella.

Budella atoniche, che toccando la pancia guazzavano come l’acqua dentro una camera d’aria gonfia!

L’occhio che mi guardava però era quello di un navigante che vede lontano: un misto di senso pratico e umiltà.

«Uhm…» dissi.

«Prenditelo» implorò speranzosa l’Antonella.

«Dottò, proprio non si può fare nulla?» chiese il Povirazio.

Sbuffava e ansimava, coi suoi pochi polmoni. Il sondino lo inchiodava al letto, ma riuscì a stupirmi:

«Dottò, operatemi. Toglietemi questo dolore. Guardate: non m’importa di morire, a mia, ma toglietemi il male. Non ce la faccio più!»

Polvirazio sognava la sua nave sospesa…

Era coraggioso, il tipo, come tutti quelli che hanno navigato il mare.

Il sondino che lo inchiodava al letto e le ecchimosi che aveva sulla pancia mi ricordarono altri chiodi e altri lividi occorsi a un povero Cristo di duemila anni prima. Così rammentai che eravamo all’inizio della Settimana Santa.

«Dottò, levatemi ‘sto male, Per carità!»

«I parenti cosa dicono?» chiesi sottovoce all’Antonella.

«Ti faccio parlare con loro appena andiamo di là»

«Ma quali parenti!» insorse Povirazio «Ve lo chiedo io: operatemi, dottò! Non è bastante?»

«Silenzio, Povirazio» lo zittì la Mieli «lasciaci parlare fra noi!»

«E’ mai possibile, Antonella» sussurrai «che oggi, qui, succedano ‘ste cose?»

«Altroché se è possibile! Allora lo prendi?» chiese, speranzosa.

«Per forza, è da operare!»

Lei sgranò gli occhi:

«Lo vuoi operare?»

«Secondo te come si può uscire da questa situazione? Lo guardiamo morire tastandogli la panza?»

Lei rise:

«Secondo me sei matto»

Aveva ragione, pensai, un po’ triste. Però dissi:

«Se fosse tuo padre?»

La frase era retorica, ma pur sempre inequivocabile, difatti la Anto annuì:

«Capisco. L’hai già detto in Sala?»

«Vado ora a dirglielo: si scatenerà il putiferio!»

Me l’aspettavo già, il ruggito degli anestesisti e l’ululato del Personale, ma per fortuna di turno di urgenza c’era il mio vecchio amico Gian-il-Burbero.

Fece ricorso a tutte le invettive, prese a calci gli armadietti, lanciò gli zoccoli, ma alla fine si calmò.

«Va bene, però gli faccio solo una spinale, eh? Se lo intubo, lo ammazzo!»

«Meglio che niente, Gian … »

«Se c’è un’ansa necrotica dovrai fargli la resezione da sveglio!» affermò con una certa perfidia.

Sudai freddo: pensavo alle condizioni di quell’ansa, dopo tutti quei giorni di strozzamento, e alle ditate che l’avevano percossa nei tentativi di riduzione.

Finsi indifferenza:

«Sta bene, facciamo come hai detto tu, Gian: una spinale e basta!»

«Hai già parlato coi parenti? Gli hai detto che può morire sotto i ferri?»

Annuii. I parenti avevano boccheggiato nella disperazione.

“Il rischio è molto grande” avevo detto “Le sue condizioni sono pessime”.

 

Quando lo portarono sul tavolo operatorio era più di là che di qua.

L’ernia era enorme, ma soprattutto l’ansa intestinale che c’era dentro sembrava proprio sul punto di scoppiare. Era nera e puzzava di morto, e quando la liberai dal cingolo strozzante non cambiò colore. Restò immobile, come un lombrico schiacciato.

«Datemi garze imbevute di fisiologica tiepida, scaldiamola un po’» dissi.

«Acqua calda» disse la ferrista

Non pareva esserci nulla da fare. Nulla si muoveva.

«Bisogna resecare l’ansa» dissi, e Gian si agitò sul suo sgabello.

«Ti ho detto che non lo posso intubare. Se lo faccio muore di sicuro al risveglio»

«Beh, così non lo posso lasciare. Se l’ansa non si riprende nei prossimi minuti, dovrò farlo»

Mentre lui si accingeva a preparare l’intubazione smoccolando, però, scorsi un barlume di miglioramento nel colore dell’intestino, che da nero era diventata viola.

«Aspetta un momento … il colore sta cambiando» dissi.

«Fa vedere …» disse Gian.

Nei dieci minuti successivi la situazione non cambiò di molto, ma facendo il calcolo mentale delle probabilità, mi convinsi che gliene restavano di più se l’avessi lasciata che se l’avessi resecata.

Dopo altri cinque di pazienza, la situazione pareva stabilizzata.

«La lasciamo stare» dissi. Gian e gli altri sospirarono di sollievo.

«Dai, chiudila lì e andiamocene a casa!» disse il mio amico.

I budelli scappavano fuori dalla breccia del sacco come serpi gonfie, ma riuscii lo stesso a fare una plastica e a riparare l’immane buco con una protesi a rete.

Appena finito lo trasferimmo in Rianimazione:

«Sei d’accordo per il trasferimento in Rianimo?» mi disse

«Certo» sorrisi «figurati se ti smentisco»

Tutti e due, senza dircelo, avevamo la certezza che sarebbe uscito dalla Rianimo coi piedi davanti.

Il giorno dopo passai a trovarlo. Versava in condizioni disperate ma non ancora morto. Tornai ancora per due giorni di fila, ma era sempre così.

La peristalsi non riprendeva, il ristagno aspirato dal sondino era molto abbondante e spesso.

Il venerdì partii per le ferie già programmate, verso la Toscana, e mi allontanai con un certo sottofondo di amaro nello stomaco.

Non mi levavo dalla mente la faccia del Povirazio che diceva:

“Mi operi, mi tolga questo dolore. Non ce la faccio più”

Telefonai dall’albergo, l’indomani:

«Pronto, Rianimo? Sono Lucardi. Come sta Povirazio Cristiano?»

Il collega mi snocciolò i dati degli esami, e alla fine concluse:

«Non va bene. Non ha più evacuato, e la pancia è tesissima»

Ogni volta la risposta era sempre la stessa:

«Niente evacuazioni? Neanche aria?»

«Macché, niente!»

Anche gli esami peggioravano, sicché a un certo punto mi venne paura di telefonare. La sorte di quel poveretto, mi accorsi, era diventata una parte di me, come se la sua sopravvivenza fosse legata alla difficile situazione lavorativa nella quale versavo, in quell’ospedale.

Era la notte di Pasqua, nella quale il cielo era una coperta di stelle, sulla Toscana silenziosa.

Non dormivo, perché la sorte di Povirazio mi pareva un’ingiustizia troppo ingiusta.

Morire male dopo aver lottato così! Lui ci aveva provato, pensavo: ce l’aveva messa tutta!

La sorte sua mi pareva in qualche modo quella di tutti i poveri Cristi del mondo, per i quali non c’è Resurrezione all’alba della Domenica.

Passammo la giornata di Pasqua nella piscina delle Terme, a Monsummano, patria del poeta Giusti: io quasi sempre in acqua, e quasi sempre con la testa sotto, a fare le bolle, mentre le campane suonavano la Resurrezione.

«Non ci pensare più» mi consolava mia moglie «vedrai che in qualche modo ne uscirà!»

“Già” pensai “ne uscirà coi piedi davanti”

Quella notte finalmente mi addormentai filato, e a un certo punto, sul fare dell’alba, dalle pieghe del dormiveglia scaturì un sogno.

Povirazio mi veniva incontro, in apparenza più giovane, con la dentiera rilucente, e mi ringraziava prendendomi le mani.

«Vi bacio le mani, dottò» diceva «feci una tonnellata di feci, e il male mi passò»

Felice, mi complimentavo con lui, e mi divincolavo prima che riuscisse a baciarmi le mani.

«Sta buono, Povirazio» esclamavo «Lasciami stare le mani!»

Tutto pareva reale, come se lui fosse stato veramente lì, con me.

«Vedi? » dissi «lo sapevo che non poteva finire male, dopo che sei stato così coraggioso!»

Poi gli dissi una cosa un po’ ridicola, mentre gli davo una pacca sulla spalla:

«Complimenti, Cristiano: mi hai insegnato una cosa che non sapevo ancora!»

La mattina dell’Angelo, mentre suonavano le campane, io feci colazione duro e impalato lì, come un piolo. Come i soldati Boemi e Croati della poesia di G. Giusti.

 

“Me lo sono sognato perché è morto, il poveraccio” pensavo.

Chiamai la Rianimo e mi rispose un’infermiera indaffarata:

«Scusi, abbiamo molto da fare. C’è stato un brutto incidente in Autostrada. Mi lasci il numero, dottore. La farò richiamare!»

Non mi telefonò nessuno, sicché mi convinsi che Povirazio fosse davvero nel mondo dei più e fosse venuto in sogno per salutarmi.

Provai a chiamare Gian, per vedere se ne sapeva qualcosa, ma mi rispose la segreteria.

 

«Accidenti, è vero!» esclamai «Anche Gian è in ferie. Me l’aveva pure detto!»

«Come sta, il tuo paziente?» chiese mia moglie

«E’ morto, probabilmente. Me lo anche sono sognato» risposi.

Le raccontai il sogno.

«Smetti di torturarti» disse lei « ti richiameranno presto!»

Non chiamò nessuno, e le ferie pasquali passarono molto lentamente. Ogni tanto mi consolavo dicendo che comunque nessuno avrebbe potuto fare di più. Che almeno avevo tentato!

Le solite cose, insomma.

Tornammo a casa dopo alcuni giorni e passai davanti alla porta della Rianimo senza entrare, perché avevo paura di sentirmi dire che tutto era stato inutile.

Sulla soglia della Chirurgia incontrai Ramazza, il collega che mi aveva aiutato durante l’intervento.

«Ciao Pietro»

«Ciao, Lucardi. Hai saputo che fine ha fatto Povirazio?»

«Ah, ehm… è morto, no? »

«Macché, guarda, è stato un miracolo. Stava per andarsene la notte dopo Pasqua. Ti ricordi, no, in che condizioni era? Ebbene, mi hanno raccontato che si è seduto sul letto e ha detto “Devo cacare, portatemi la padella” Ha riempito due padelle e poi voleva anche mangiare!»

Non credevo alle mie orecchie, ma mi sentivo felice …

«Possibile?» riuscii a dire infine «Dov’è, ora? »

«Da noi: è ricoverato di là, al letto 23. Sembra un altro. Da conciato com’era prima, a oggi … »

«Vado a trovarlo» dissi.

“Me lo sono sognato perché è morto, il poveraccio” pensavo.

Chiamai la Rianimo e mi rispose un’infermiera indaffarata:

«Scusi, abbiamo molto da fare. C’è stato un brutto incidente in Autostrada. Mi lasci il numero, dottore. La farò richiamare!»

Non mi telefonò nessuno, sicché mi convinsi che Povirazio fosse davvero nel mondo dei più e fosse venuto in sogno per salutarmi.

Provai a chiamare Gian, per vedere se ne sapeva qualcosa, ma mi rispose la segreteria.


Cristiano Povirazio sembrava davvero un altro, con la dentiera e la barba fatta

«Buon giorno: sono tornato oggi in Reparto e mi hanno dato la buona notizia. Ce l’ha fatta, signor Povirazio!»

«Dottore mio …» disse.

Gli vennero le lacrime agli occhi:

«Posso baciarvi le mani?»

“Uffa, con ‘ste mani!”

«No. Non esageriamo, Cristiano. Piuttosto, come si sente?»

Lui continuava a lacrimare in silenzio:

«La notte dell’Angelo ho sentito qualcuno che mi suggeriva di chiedere la padella perché dovevo andare del corpo, e così ho fatto. Io stesso non credevo che mi restava più un minuto da campare. Non potrò mai ringraziarvi abbastanza. Dottò!»

Ebbi la certezza in quel momento che Qualcuno avesse voluto insegnarci qualcosa. A me, a lui, o a tutti e due.

Carlo Lucardi

14 marzo 2021.

 

 


NAUFRAGIO SULLA SPIAGGIA DI SANTA MARGHERITA LiIGURE

NAUFRAGIO SULLA SPIAGGIA DI SANTA MARGHERITA LIGURE

9 Dicembre 1910


 

9 Dicembre 1910 naufragio del cutter “Angelo Padre” sulla scogliera del porto di Santa Margherita.


Il Caffaro riceve il seguente telegramma da Santa Margherita Ligure:
Stanotte il kutter « Angelo Padre » proveniente, da Isola Rossa (Corsica), carico di legna e diretto a Genova, si infranse sulla scogliera del porto. Poco dopo colava a picco. Dei 5 uomini componenti l'equipaggio, due perirono: il capitano Emilio Fanciulli, d'anni 37, ed il fratello Giovanni Battista, d'anni 35. Gli altri componenti l'equipaggio si salvarono gettandosi in mare. Alle 9 si rinvenne sulla spiaggia il cadavere del Giovanni Battista. Per tutta la giornata continuarono le ricerche per rinvenire l'altro cadavere. Verso le 11 il pretore si recò sul luogo per le constatazioni di legge. La nave apparteneva al compartimento di Civitavecchia, i marinai erano di Porto Santo Stefano, il carico era della ditta Profumo, di Genova. Tra i comproprietari della nave stessa sono il capitano ed il signor Sacco Eugenio, di Civitavecchia.

 

a.c. di Carlo GATTI

 

Rapallo, 16 Marzo 2021

 

Ringrazio: wwwlefotodi santa.com - renatodirodi


LUNA ROSSA - UN SOGNO INFRANTO

LUNA ROSSA

UN SOGNO INFRANTO




I VUOTI DI VENTO

HANNO CONDIZIONATO LA COMPETIZIONE?

Questa “novità” ha sbalordito tutti i competenti e non, appassionati e naturalmente anche i VELISTI PER CASO come noi che non avevano fatto i conti con il dispettoso EOLO che ha voluto far capire agli uomini di mare, ancora una volta, se ce n’era bisogno, che l’orchestra la dirige solo lui... e premia specialmente i locali che lo sanno “corteggiare” meglio dei foresti!

Pertanto credo che dall’alto sia arrivato un non troppo velato monito contro gli uomini scientifici dei due Team che avevano alzato troppo la cresta e andavano ridimensionati!

Naturalmente tra non molto sarà inventato anche lo strumento in grado di INDIVIDUARE ED EVITARE i VUOTI DI VENTO ….e vedremo quale sarà la risposta di EOLO

Per il momento si è visto che le due barche finaliste, nei buchi di vento, con lo scafo senza carena che hanno sotto i piedi, non sono navigabili! E questo é un fatto poco marinaro da qualsiasi punto di vista lo si voglia guardare e, personalmente, da uomo di mare ho provato una specie di “delusione” che mi ha fatto rimpiangere gli scafi marini di AZZURRA, IL MORO DI VENEZIA, ORACLE ecc...

Da uomo di mare, non da velista, mi è rimasto un dubbio da sciogliere.

Ho sentito e letto che il TEAM azzurro - PRADA, nel suo rivoluzionario modo di costruire LUNA ROSSA insieme al brain trust del Cantiere Persico (Bergamo) che sta spopolando nel mondo velico, avrebbe anche INVENTATO la formula del doppio TIMONIERE/skipper/comandante, uno per lato in regata. Formula che non é stata, per esempio, applicata da New Zealand.

A quelle velocità “pazzesche” le decisioni devono essere rapidissime e debbono essere prese, quasi istintivamente, da uno solo - il MIGLIORE!

Evidentemente non ho alcun titolo per dare giudizi di merito, ma ho la sottile sensazione che proprio quello sia stato il punctum dolens per l’avventura neozelandese della nostra spedizione australe.

Da nessuna parte mi è giunto alcunché di negativo su detta formula… ma io credo nella mia esperienza di 35 anni di manovre di navi nel vento ed anche, perché no, nella saggezza dei vecchi proverbi marinari …

- Bandiera vecchia onore di Capitano (non di due…)-

Bandëa vegia onô do Capitànio

- Barca carica regge il vento.

Barco carrigòu o reze ô vento.

- Chi impugna la barra, governa il timone.

Chi manezza a manoela, manezza o timon.

E soprattutto:

- Due a comandare, barca sugli scogli.

Duì Capitanni, barco in tu schêuggi.

Per non cadere in altri eventuali errori di valutazione tecnica, mi astengo dal proseguire … e mi limito a riportare alcuni interessanti commenti dei principali personaggi che abbiamo imparato a conoscere in questo emozionante periodo.

 

La vigila dell’ultima gara in programma:

Lo skipper Max Sirena ha analizzato la situazione ai microfoni della Rai:

È stata una regata bella, forse una delle più belle degli ultimi 15-20 anni, contro un team fortissimo. Alla fine nello sport conta vincere e quindi ci lascia un po’ di amaro in bocca, perché per l’ennesima volta i ragazzi sono stati bravissimi, sono partiti bene, hanno controllato la regata, poi purtroppo… A me non piace parlare di sfortuna, però non prendiamo mai l’ultimo salto di vento. Purtroppo noi, l’80%-90% delle volte facciamo delle decisioni giuste, sbagliamo pochissime volte, mentre i Kiwi possono permettersi di sbagliare la maggior parte delle volte. Il problema è che hanno una barca che permette di compensare gli errori che fanno. Partono sempre dietro e riescono ad arrivare davanti. Come ha detto Checco (Bruni, ndr) è come cercare di affogare un pesce in acqua, è tosta. Sono contento, abbiamo dato spettacolo contro uno dei team di New Zealand più forti di sempre. Il morale è alto, abbiamo regatato bene, siamo ancora stravivi e nello sport può succedere di tutto, noi ci crediamo ancora: domani andremo in mare per batterli, lo abbiamo già fatto e possiamo farlo ancora“.

Max Sirena lucido. “New Zealand è più veloce e può sbagliare, noi no”

Ogni minimo nostro errore equivale a dieci dei loro

Perché:

- Loro sono POCO più veloci di noi ed hanno sbagliato di meno

- Eravamo più forti nelle virate alle boe ma loro sono stati bravi a capire il rimedio necessario affondando meno il foil…

- Il resto lo ha deciso EOLO che nel golfo di Hauracki ha deciso da ormai 30 anni per chi tenere…

- La fortuna non è stata dalla nostra parte

: "Sbagliamo poco, ma alla fine vince New Zealand"

Max Sirena: "Sbagliamo poco, ma alla fine vince New Zealand"

Lo skipper di Luna Rossa: "Sfida spettacolare, ma loro hanno una barca che compensa gli errori"

DA 30 ANNI Emirates Team New Zealand E’ SULLA CRESTA DELL’ONDA nella vela mondiale

America's Cup, niente da fare per Luna Rossa: il trofeo rimane in Nuova Zelanda - Luna Rossa non ce l’ha fatta, la Coppa America resta in Nuova Zelanda. 7 a 3 il punteggio finale che consente ai Kiwi di festeggiare la difesa della 36 esima America’s Cup. –

E’ stata una bellissima avventura. Abbiamo tifato, ci siamo illusi e poi amareggiati, ma alla fine nello sport c’è sempre un vincitore e in questo Trofeo antico di 170 anni, com’è noto, non c’è neppure un secondo classificato. Luna Rossa ha fatto tutto quello che poteva davanti a un avversario che aveva una marcia in più. Non nell’organizzazione e neppure nella qualità dell’equipaggio, che anzi ha dato prova di grandi capacità, forse persino superiore ai maghi neozelandesi, ma nella velocità della barca. In Coppa America, alla fine, vince sempre quella più veloce e Team New Zealand lo è. Per dimostrarlo, però, ha dovuto soffrire e lottare anche lei, perché nonostante questo Luna Rossa l’ha spesso messa alle corde, approfittando di una qualità di conduzione e di un rodaggio di regate che il Defender non aveva e che ha poi compiuto strada facendo e velocemente, fino alla vittoria. Del resto è al Defender che spetta dettare le regole di progettazione e realizzazione delle barche ed è evidente che nel momento in cui lo fa ha già studiato il progetto e le sue possibili evoluzioni. Ha dunque un vantaggio sancito dai regolamenti, che gli altri devono solo far proprio. E qui i neozelandesi hanno probabilmente messo le basi della loro difesa, realizzando delle ali più piccole e per questo meno frenanti sull’acqua rispetto agli sfidanti, e persino regolabili a seconda delle necessità. Come se in Formula 1 un’auto potesse variare la geometria degli alettoni in base alla velocità e alle curve. Ciononostante Luna Rossa l’ha tenuta spesso dietro e ora possiamo dirlo, con un po’ di fortuna in più - che ai kiwi non è mancata - e anche un maggiore cinismo, avrebbe potuto davvero cambiare le sorti della partita e adesso parleremmo d’altro. Resta da vedere cosa sarà ora di Luna Rossa, se questo bagaglio di esperienza, qualità e capacità, continuerà a essere sviluppato e messo a frutto con una nuova campagna tra quattro anni o meno. Per ora il Patron Prada, Patrizio Bertelli, con le sue 6 sfide lanciate è il miglior perdente di sempre

. Ma la ruggine si sa, non muore mai e come ha già confessato per lui la Coppa finisce solo quando l’hai conquistata.

GIORNALE DELLA VELA

La Coppa America resta nella bacheca del New Zealand Yacht Squadron,

Emirates Team New Zealand

vince 7-3 su

Luna Rossa Prada Pirelli Team

La barca italiana ne esce a testa alta, dopo avere portato avanti una sfida che l'ha vista arrivare dove nessun team tricolore si era spinto.

Ma questa è la vittoria della generazione di giovani fenomeni kiwi: Peter Burling (classe 1991), Blair Tuke (1990), Josh Junior (1990), Andy Maloney (1991), la giovane ingegnere delle performance Elise Beavis (1994). Un gruppo di ragazzi che bissano la vittoria della Coppa del 2017. Onore a loro.


Emirates Team New Zealand è il vincitore della edizione numero 36 della America’s Cup presented by PRADA. In una giornata di grande spettacolo ha battuto per la settima volta Luna Rossa Prada Pirelli, che ha combattuto fino alla fine per non arrendersi. “E’ stata una fantastica esperienza, voglio congratularmi con Team New Zealand, hanno fatto un lavoro fantastico. Congratulazioni anche a Luna Rossa, un team fantastico: abbiamo provato al mondo che potevamo farcela"....

America’s Cup, James Spithill: “I Kiwi erano troppo forti. Spero di esserci ancora con Luna Rossa”

Luna Rossa non è riuscita nell’impresa di conquistare la America’s Cup. L’equipaggio italiano ha tenuto botta contro Team New Zealand fino al 3-3, poi alcuni errori e la proverbiale velocità di Te Rehutai hanno indirizzato la contesa andata in scena nella baia di Auckland. Team Prada Pirelli torna a casa sconfitta per 7-3 e i Kiwi difendono il trofeo sportivo più antico del mondo. Peter Burling e compagni mettono le mani sulla Vecchia Brocca per la quarta volta nella storia del sodalizio neozelandese (i sigilli precedenti arrivarono nel 1995, 2000, 2017), mente l’equipaggio italiano torna purtroppo a casa a mani vuote.

James Spithill, co-timoniere di Luna Rossa insieme a Francesco Bruni, non riesce nella clamorosa rimonta da 3-6 e non ha potuto replicare quanto fatto nel 2013, quando recuperò da 1-8 al timone di Oracle proprio contro i Kiwi. L’australiano ha rilasciato alcune dichiarazioni attraverso i canali ufficiali della formazione tricolore: “Ovviamente non è il risultato che volevamo, oggi siamo andati lì per provare a vincere una gara e per tornare in competizione, ma alla fine della giornata Emirates Team New Zealand era semplicemente troppo forte. A volte sembrava davvero di andare in uno scontro a fuoco armati solo di coltello, abbiamo combattuto più che potevamo ogni giorno. Sono molto orgoglioso del team, sono molto grato a tutti i fan, ai nostri sostenitori, ai nostri familiari, a tutte le persone in Italia”.



Carlo GATTI

Rapallo, 18 Marzo 2021

 


(1)-(2) MANPA' - Pannelli solari ante litteram a Genova

(1) - MANPA'

Curiosità genovese: pannelli solari ante litteram

MAURO SALUCCI

storico genovese

Spulcio talora con invidia gli scritti di Vito Elio Petrucci, un vero conoscitore della genovesità, delle sue stranezze, a volte delle sue estreme stravaganze che rendono questo percorso di conoscenza ancora più accattivante perché a volte originalissimo ed unico.

Solo a Genova l'ingegno si coniugò alla parsimonia rimanendo aguzzo. E' il caso dell'uso dei "manpà", dei rettangoli di tela bianchissima che venivano incorniciati da strutture in legno e posti alle finestre delle abitazioni dei vicoli per riflettere la luce chiara all'interno delle case. Genova ha alcuni fra i vicoli più stretti e privi di luce del mondo e vitale era per i nostri avi sfruttare al massimo l'uso di luce naturale o comunque limitare al massimo l'uso di energia elettrica. Un tempo quasi tutti i piccoli laboratori di artigiani, che normalmente erano situati ai primi piani, avevano il loro manpà, il pannello solare genovese.

 

 

(2) - MANPA'

 

 

Una bella immagine di vico del Duca, un rettilineo che scende precipitoso stretto fra alti palazzi sotto a Strada nuova, l'attuale Via Garibaldi, proprio dinanzi a Palazzo Tursi, sede del Comune di Genova. Da notare l'estrema cura della pulizia della strada, probabilmente carrabile a traino. La gente del luogo si mette in posa per la fotografia, un evento raro e inusuale. I titolari degli esercizi si pongono con cura dinanzi agli ingressi, quasi tutti sulla sinistra, pronti a dare i loro servigi agli importanti personaggi che uscivano dal Municipio, soprattutto alla gente che veniva da fuori. Parrucchiere subito a disposizione e, a destra, mescita di vino buono evidenziato da apposita lanterna. A destra si nota una mampâ. Le mampæ erano dei rettangoli di tela bianchissima che venivano incorniciati da strutture in legno e posti alle finestre delle abitazioni dei vicoli per riflettere la luce chiara all'interno delle case. Vitale era per i nostri avi sfruttare al massimo l'uso di luce naturale o comunque limitare al massimo l'uso di candele e olio. Un tempo quasi tutti i piccoli laboratori di artigiani, che normalmente erano situati ai primi piani, avevano la loro mampâ, il pannello solare genovese. La mampâ, plurale le mampæ deriva da una voce ispanica, mampara, che significa paravento. All'inizio di vico del Duca troviamo oggi due belle edicole prive delle statue, probabilmente trafugate a suo tempo. Da notare inoltre le cornici d'ingresso in legno scolpito che ornavano gli accessi ai negozi. La nomea di centro storico come di una zona degradata, poco raccomandabile nacque solo alla metà del Novecento, quando a Portoria si iniziò a demolire in nome del nuovo e i vicoli vennero additati come luoghi da evitare, sia per viverci che per passeggiare.


Rapallo, Mercoledì 3 Marzo 2021

A cura di Carlo GATTI


LE SCOPERTE GEOGRAFICHE 1488-1522

LE SCOPERTE GEOGRAFICHE

1488 - 1522

autori

Prof. Stefano Facchini

Prof.ssa. Eva Riccò

a.c. Carlo GATTI

Rapallo, 15 Marzo 2021


PILOTI E BARCACCIANTI

AUTORI

Com.te Carlo GATTI – Dir. Macchina Silvano MASINI

LE BARCACCE NEL CUORE è dedicato alla Società Rimorchiatori Riuniti Genova che ha accolto, sostenuto e realizzato questa proposta.

- Ma soprattutto il libro è dedicato agli equipaggi dei rimorchiatori di ogni epoca, alla memoria di chi ha già strappato "l'ultimo cavo da rimorchio"...

- Agli eredi di questa tradizione che più nessuno chiama con il pittoresco nome dibarcassanti”, ma che hanno oggi, la responsabilità e l’onore di tramandarla nel tempo.

LE BARCACCE NEL CUORE

L'amico Silvan è già risalito, nel corso di questo libro, all'etimologia della parola barcacciante e questo ruolo è già emerso qua e là nella vicenda dei rimorchiatori genovesi. A questo punto del nostro viaggio all'interno del porto, approfondiremo il rapporto intercorso tra il Comandante del rimorchiatore e la figura di un altro antico marinaio che spesso è confuso con altri protagonisti di questo affascinate scenario della nostra città: il Pilota portuale.

Chi è quindi il Pilota portuale?


La vecchia Torre Piloti

Le biscagline





Questo interrogativo non solo incuriosisce le migliaia di turisti dell'entroterra quando si affacciano dalle murate dei traghetti per filmare l'arrampicata dell'omino che viene da terra, ma turba da sempre anche molti abitanti della costa che confondono spesso e volentieri il pilota della nave con il comandante del rimorchiatore, con il timoniere, oppure con l'ufficiale di guardia sul ponte di comando, ma a volte anche con l'ormeggiatore portuale. Il personaggio in questione, per la verità, è rimasto chiuso nella sua antica leggenda di “esperto marinaio”, dalla quale non è mai completamente uscito per integrarsi con la gente di terra, tra la quale opera quotidianamente. Le categorie marinare appena accennate e che sono confuse con il pilota del porto, appartengono, di fatto, a rami della nautica ben distinti e gelosi, ognuno della propria identità e tradizione di corpo. Questi servizi sono necessari alla nave che ormeggia o disormeggia da una banchina ed il pilota ne rappresenta il coordinatore e direttore della manovra.

 

PILOTI E BARCACCIANTI

I rapporti tra le persone, in qualsiasi ambito, si modificano nel tempo in funzione di tante cause che lasciamo ad altri il compito d'indagare… In questa sede, a noi interessa soltanto ricordare “quell'angolo del porto” che è stato per trentacinque anni la nostra seconda casa, mio e di Silvan, anzi il cortile dove siamo cresciuti e che oggi, rivisitandolo a distanza di anni, lo ricordiamo popolato d'autentici personaggi che tanto ci hanno dato, sia sul piano umano che professionale. Con tutta sincerità, non sentiamo rimpianti tipo “Via Gluck”, anche perché certe sindromi da “cemento selvaggio” appartengono alla sfera dei “terrestri, i quali si dividono normalmente su tutto…con il risultato che al di là della cinta portuale c'è il caos più o meno riconosciuto da tutti, mentre al di qua, dove entra il mare, ci sono le navi che arrivano, partono e sono le uniche cellule economiche che si muovono sugli oceani, funzionano sempre e non conoscono conflittualità.


Tutto ciò non vi sembra strano? Eppure, oggi, come ieri e sicuramente come 20 secoli fa, le navi continuano a trasportare ricchezza viaggiando sicure anche quando i loro equipaggi, in terra, sono in guerra tra loro.

Ecco! Noi pensiamo che gli “specialisti della politica, della sociologia e d'altro…” dovrebbero indagare su questa cellula inesplorata: il funzionamento della nave e forse scoprirebbero che il mare, come un dio supremo e severo, costringe i suoi “sudditi” al rispetto di poche regole rendendole refrattarie alle ideologie umane, ai partiti politici e persino alle mode passeggere, perchè si basano sui valori dell'autodisciplina e della solidarietà.


Un tempo si diceva: “in mare non ci sono taverne” e s'intendeva che in mare non ci sono rifugi, neppure per i più ricchi e potenti della terra e con i primi colpi di mare in faccia s'imparava ad usare il buon senso, la modestia ed anche la paura. Già! Paura! I veri marinai hanno paura del mare e la maggior parte lo rispetta e lo teme come un dio pagano che usa vendicarsi lanciando fulmini e tempeste; per altri ancora si tratta di un Dio che non va affrontato neppure con le preghiere, ma va aggirato promettendo “voti” alla Vergine.


In terra, l'uomo del terzo millennio, con le sue sicurezze scientifiche, è convinto d'essersi finalmente emancipato dal “Supremo”. In mare le “sicurezze” si chiamano “aiuti alla navigazione” e suscitano diffidenze! In mare c'è qualcosa di mistico e d'irreale che blocca il marinaio nel tempo e lo unisce ai suoi simili più lontani, creando una sola razza che forse, come dice una vecchia leggenda, … “al momento del trapasso li trasforma in gabbiani.”

Ritornando tra le calate, a noi pare che i marinai portuali non siano diversi dai marinai d'altomare perché vivono nello stesso ambiente di “gabbiani” e si distinguono soltanto alla sera, quando ritornano a casa e il mondo piomba nell'oscurità della notte.


Poco più tardi, quando tutti dormono ancora, i piloti e i barcaccianti riprendono le strade dei moli e vanno incontro alle prime navi in arrivo.

Terminata la manovra, rientrano in torretta quando le prime luci dell'alba rivelano il “rush” del traffico cittadino, ma loro sono marinai e non conoscono le code, lo smog, gli isterismi del traffico e non incontrano gli amici terrestri neppure quando vanno in franchigia, perché anche i loro turni appartengono a due emisferi opposti, proprio come il nadir e lo zenit. Mentre sulle strade si litiga e si muore per una “precedenza”, sul ponte di comando di una nave, Master e Pilot uniscono le loro forze a quella dei barcaccianti per portare la nave in banchina, in sicurezza, nel minor tempo possibile ed in grande armonia. Rispetto e disciplina sono quindi le due “ancore di salvezza” alle quali ci aggrappiamo ogni volta che vogliamo rivivere, con gli occhi chiusi, come in un sogno, una qualsiasi delle migliaia di manovre vissute sotto la Lanterna.


 

1939. Una rara fotografia dei Piloti del Porto di Genova a bordo della pilotina Teti-1939, a rare image of the Genoa Pilots

Si raccontava a bassaprora, che nel periodo epico, già illustrato da Silvan, il divario culturale tra i padroni marittimi al comando dei rimorchiatori portuali ed i piloti del porto era veramente notevole. I primi ne venivano dai fumi di una gavetta portuale dura, tra i campi minati della ricostruzione, dai tratti primitivi come gli arrembaggi alle navi e i ganci sicuri soltanto per chi giungeva “primo” sotto le prue, parecchie miglia al largo di Genova e a noi, ancora oggi ci vien fatto di chiederci: “Quanti Marlon Brando s'aggiravano tra le calate nel Fronte del Porto genovese?” C'era la gelosia del mestiere, la difesa estrema della propria professione, la concorrenza e la ripresa della scalata sociale.

I piloti del porto di Genova, a giudicare da quanto si sentiva nello shipping internazionle, lavoravano con molta professionalità ed “il loro miglior maestro” - si diceva allora – “era il vento, che riuscivano a farselo amico, con molta abilità.”

Questo giudizio molto lusinghiero, per la verità, era esteso anche ai comandanti-Rr, che erano nati e cresciuti nel porto della tramontana e prima d'essere utili alla nave, imparavano a governare il proprio mezzo con tutti i venti e con grande maestria. Il mestiere era un oggetto misterioso che andava “rubato” di sottecchi, spiando per lunghi anni le tecniche e le tattiche di chi la sapeva lunga…. e lo faceva giustamente pesare! Nulla di male! L'Arte marinara della manovra, come tutte le grandi tradizioni manuali del mare, si tramandava anche allora oralmente, con un impercettibile e sussurrante passaparola!

Sicuramente, a quei tempi, il tirocinio era molto lungo per i barcaccianti che erano immersi nella vera culla della tradizione, dove non c'erano professori a promuovere…, ma l'unico giudice era l'eventuale pericolo che incombeva sull'equipaggio del rimorchiatore a causa dell'immaturità del nuovo comandante. Per i piloti del porto, lo scenario era meno complesso, tuttavia i candidati erano sottoposti ad una rigida selezione che precedeva il concorso statale, che era in ogni caso molto difficile da superare, sia per le numerose prove d'esame, sia per la fitta schiera di candidati provenienti da tutta Italia.

A dire il vero, il barcacciante non aveva complessi d'inferiorità e nonostante sapesse che soltanto i suoi marinai lo chiamavano con deferenza “Comandante”, ostentava autorità e imponeva disciplina. Per esempio: non tutti potevano salire sul ponte di comando e proprio nessuno durante la manovra. Egli conosceva esattamente la tecnica per raddoppiare la potenza del suo mezzo, perchè la nave doveva essere fermata e piegata ad ogni costo e se non bastavano l'elica e il timone, interveniva di slancio lo scafo con il suo folle peso e quando riusciva a strappare un cavo della nave, non ne era poi tanto dispiaciuto… Il barcacciante difendeva il suo piccolo mondo con la strenua filosofia di “ogni scarrafone è bbello a' mamma suia.

Guai a toccargli l'equipaggio! Guai a criticargli la barca! In fondo in fondo, una piccola parte d'eredità del vecchio detto del tempo velico: “dopo Dio ci sono io”, toccò anche a lui…e ancora oggi non sappiamo quanto la barca appartenesse agli armatori…perché il barcacciante la gestiva come un proprio “feudo” famigliare! Forse l'intendeva come una insostituibile compagna provvista d'anima e di propria personalità che possedeva una propria vita.


barcaccianti erano perfettamente consapevoli di saper ormeggiare in porto qualsiasi nave, anche senza pilota; l'avevano già fatto più volte in quelle non rare occasioni che capitano nei grandi porti, ma il loro metodo era da barcacciante, da uomo senza volto, da operaio capace, ma anonimo, lontano dalla sfera psicologica che coinvolge il comandante di una nave ed il pilota portuale. La sua abilità era tuttavia confermata ogni volta che il pilota taceva e gli affidava per lunghi periodi la nave in manovra.

Il pilota conosceva le lingue, era un diplomatico ed anche un uomo di cultura che portava sul ponte di comando i commenti e le novità internazionali del giorno e godeva di un prestigio personale presso gli armatori, le agenzie di navigazione, le autorità del porto e della città. Il pilota era una sorte d'ambasciatore che riceveva la nave straniera in anteprima e stabiliva con il suo equipaggio, i primi rapporti d'amicizia, talvolta anche di contrasti. I due mestieri erano simili nella sostanza ma diversi nello stile.


REX-CONTE DI SAVOIA-ROMA-GIULIO CESARE

In questa foto d'epoca degli anni ‘30 si possono notare gli esigui spazi vuoti nel porto. Ogni metro è sfruttato per l'ormeggio di navi molto spesso di punta/1930: the just suffiecient spaces of the Genoa harbor.

 

Anni '30 - Il “Rex” in arrivo a Genova sta per essere preso in consegna dal pilota e dai rimorchiatori/The Rex, arriving at Genoa: the pilot is on stand-by.


Negli anni '30, quando le navi si chiamavano “Rex” “Conte di Savoia” ed erano lunghe 250 metri, i barcaccianti operavano con gli stessi risultati dei loro successori degli anni ’60-'70, che ormeggiavano la Andrea Doria” e “Cristoforo Colombo” (nella foto) e, in seguito:


la “Michelangelo”, la “Raffaello”, l’Eugenio C. Di una cosa siamo certi: se si andasse a comparare i tempi di manovra di queste grandi unità nell'arco di 50 anni, saremmo sorpresi della loro similitudine, perché il grande regolatore della manovra è “l'ammiraglio vento” che sa aiutare i marinai più “esperti” che sanno come sfruttare a proprio vantaggio il suo enorme potenziale di cavalli, secondo la scuola che essi stessi si sono tramandati.


Foto n.3 - La M/n “Raffaello” ha compiuto una completa rotazione davanti a Ponte dei Mille e procede all'attracco di Ponte Andrea Doria con l'assistenza di quattro rimorchiatori/The Raffaello at Genoa, assisted by four tugs.

La meravigliosa linea (shape) dell’EUGENIO C. in un quadro del pittore di marina Marco LOCCI



Il Porto Vecchio con il consueto panorama di liners

Di questo notevolissimo fatto n'era consapevole soprattutto il pilota che molto spesso, rientrando in torretta con il rimorchiatore ringraziava il suo comandante con una stecca di Marllboro, dono della nave, per aver lavorato bene e qualche volta per avergli salvato la prua o la poppa...

C'era una volta … quando il pilota aveva il potere di rovinare, con una semplice telefonata di biasimo, un qualsiasi dipendente-RR. Era un'epoca in cui i piloti erano considerati “i signori del porto” e godevano di un meritato prestigio e grande peso politico, perché sapevano vendere bene il loro mestiere, che era fisicamente rischioso e di grande fascino ed alcuni di loro furono anche stimati armatori. Orbene, non ci risulta che tale potere sia mai stato usato dai piloti contro chicchessia. Al contrario sappiamo che i più “chiacchierati” tra i piloti, sono stati i più generosi nel sistemare… figli in tutto l'ambiente portuale.

E' successo, quasi sempre, che i principianti dei due “servizi” ne abbiamo combinate di tutti i colori… durante le loro prime performances, ma in questi comprensibili casi è sempre valsa la legge del buonsenso e della compensazione. Abbiamo vissuto tre periodi lavorativi ben distinti, durante i quali i rapporti tra i piloti e i barcaccianti sono mutati a causa della tecnica, delle misure delle navi e persino da un considerevole livellamento culturale.


Nel primo periodo, quando non esisteva il VHF, il pilota emetteva gli ordini di manovra con il fischietto e indicava con la rotazione più o meno veloce del braccio, la forza del tiro. Era il periodo romantico della manovra: il pilota era in divisa e portava un cappello regolamentare. Il comandante del rimorchiatore indossava la cappotta nera ed in testa aveva il sud-ovest. Girava la ruota sul ponte più alto che era aperto ai fumi ed alle intemperie e si scaldava con la fiaschetta del rhum appoggiandosi alla ciminiera. Il pilota manovrava navi lente, con timoni piccoli e pochi avviamenti di macchina a disposizione. Affrontava la tramontana portandosi a randeggiare le testate dei moli sfruttando al massimo gli spazi a sopravvento. 

Il comandante del Rr, ancora più audacemente, andava a sfiorare letteralmente il cemento delle calate per portare la nave a tiro di heaving-line rischiando di rimanere imbottigliato tra le scie delle smacchinate e i cavi delle altre navi. Spesso s'infilava in posti così angusti e pericolosi dove rischiava danni e quindi sospensioni dal servizio. Il pilota apprezzava sempre il suo coraggio e non mancava di tributargli la propria stima in tutte le sedi. 

L'impossibilità del dialogo tra pilota e barcacciante in manovra, aveva sviluppato il senso del “capirsi al volo” e quando il pilota ordinava di tirare in una direzione, il più delle volte il rimorchiatore era già in lavoro. La conoscenza dell'ambiente nella sua totalità, umana e tecnica, giocava in ogni caso un ruolo decisivo. Mentre ogni pilota aveva il suo stile personale d'ormeggiare la nave e lo imponeva con fermezza, il barcacciante doveva imparare trenta stili diversi per accontentare quel pilota. L'intero capitolo non l'imparava in poco tempo, perché le manovre del porto erano circa duecento e variavano il disegno dinamico con la direzione del vento. Non era certamente un problema per i veri barcaccianti, molti dei quali si erano imbarcati sui rimorchiatori quando avevano ancora le braghe corte ed avevano imparato i trucchi del mestiere dal padre o dallo zio.

Nel secondo periodo


I piloti, nell'immaginario collettivo, appartenevano a stili e comportamenti diversi: Vi erano quelli dalla visione ampiamente “marinara”, in cui il signorile e naturale rispetto era esteso alla nave, al lavoro pericoloso dei barcaccianti e degli ormeggiatori; questi erano sicuramente i piloti più amati e stimati nell'ambiente e sono stati nel tempo, la parte più consistente del Corpo dei Piloti.


La velocità della nave può costituire un momento molto delicato per il rimorchiatore che si trova ad entrare per qualche istante sotto l'arco della prora/The tugboat is in a critic position.


Il cavo della nave sta per essere messo al gancio del M/r “Canada”. In questa fase, la scia della nave tende ad allontanare il rimorchiatore/The ship rope is almost made fast.


Il cavo della nave sta per essere messo al gancio del M/r “Canada”. In questa fase, la scia della nave tende ad allontanare il rimorchiatore/The ship rope is almost made fast.

Per altri invece il tempo stringeva sempre… e la pilotina ed in seguito il taxi appariva sottobordo quando la manovra era ancora in corso … questi piloti non facevano mai perdere il treno “buono” e liberavano presto le barche…ma con loro, dover prendere il cavo di poppa nella scia di un'elica sempre in moto, oppure rimanere nell'attesa del cavo a pochi centimetri dal tagliamare, a otto miglia di velocità, costituiva un azzardo inutile e si pensava quanto fossero distanti le conoscenze delle difficoltà degli altri servizi…
Per altri, infine, la manovra passava da fasi “compassate” ad altre simili alla “rassegnazione”…. Sotto la loro direzione non si rischiava nulla, il convoglio procedeva al ritmo di un “lumassun”, si perdevano i treni e si marcava un'ora di straordinario…. del tutto inutile agli effetti del sonno perduto! Per la verità, questa esigua categoria di piloti tranquilli, ebbe uno scatto d'orgoglio quando, a causa di numerosi e lunghi scioperi degli altri servizi, si adeguarono alla situazione con la stessa audacia di tutti gli altri piloti, ormeggiando navi di qualsiasi tipo, dimensione e con qualsiasi tempo. Si trattava, quindi, soltanto di un fatto caratteriale!


1955 - Sala Operativa della Torre Piloti. Da sinistra: i piloti Caso, Santagata, Longo, Raimondi, Ragazzi, Zoccola, Cavallari, Protti/Operation room of the Genoa Pilots


La smacchinata è partita. Il rimorchiatore si è defilato/The engine started, the tugboat is cleared. Una smacchinata di dieci/ventimila cv, quasi sempre involontaria e senza preavviso, poteva causare il rovesciamento del gozzo degli ormeggiatori, impegnato vicino all'elica, oppure rompere il cavo e far girare il rimorchiatore su se stesso, senza controllo, proprio come una trottola.

Sul tema degli scioperi in porto ritorneremo tra breve, per ricordare che i rapporti tra piloti e barcaccianti attraversarono anche momenti d'angoscia che furono, in ogni caso, superati e ristabiliti nel nome della loro grande professionalità. Consentiteci ora una breve digressione sulla scala dei valori dei nostri eroi: noi pensiamo che ogni manovratore poggia i piedi sui legni di una biscaglina, dove ogni tarozzo è un ipotetico valore stabilito dal buon senso marinaro. Tuttavia, quando si parla del porto di Genova, è necessario riferirsi ad una scala “accademica” molto elevata che, in un primo tempo ha forgiato e selezionato tanti marinai nella dura palestra della tramontana e in seguito ha premiato i suoi migliori “figli del vento” ponendoli ai vertici delle manovre navali del porto. Questi piloti e barcaccianti hanno avuto spesso caratteri diversi, ritmi opposti, ma sono stati tutti eccellenti manovratori.

In quest'ambiente dinamico, in continuo fermento di crescita, “vivere il porto” significava respirare con tutti pori della pelle quelle sfumature sul lavoro che ogni giorno nascevano con nuove linee e che arricchivano di esperienze e conoscenze il bagaglio di ognuno di loro. Il più adesciu tra i barcassanti era quello che per primo raggiungeva l'imboccatura ed occupava il posto “migliore” della manovra. La posizione occupata contava in funzione della “bozza”, del “fuori fascia”, “dell'attesa finale a spingere la nave ormeggiata e ritiro-pilota”, “dell'orario del treno” e quindi tutto variava in funzione del traffico, del vento e delle esigenze personali nelle varie fasi della giornata.


“Felice! se puoi, mandami in su Ragone, Scintilla, Garilli e Vittorio.. ho un lavoro impegnativo senza macchina e c'è vento..”
“Manna! vado all'Italsider per l'arrivo di una turbinaccia, mandami Marietto, Miglio, Pasqualin, Ragonetto, Florindo..”
“Enrico! Vado al Silos, avvertimi appena un “rotore” è libero.


A sinistra il pilota Schiaffino. Al centro Salomone e Maggiolo, anch'essi di recente scomparsi/Other passed out Genoa pilots


Giovanni Santagata ed Ernesto Santagata, due generazioni di piloti che hanno fatto storia/Two generations of pilots.


Il compianto Oddera a sinistra, con Gatti e Bonomi/Other pilots

Con questo tono famigliare, i piloti si raccomandavano alla torretta-RR di Molo Giano, ben sapendo che quei nomi, cognomi o soprannomi erano il paradigma, l'acronimo dell'unità speciale che in quel momento serviva. Con l'uso del VHF, si assisteva ad una strana convivenza tra due stili di lavoro differenti. Gli anziani, tra i piloti e i barcaccianti, continuavano a manovrare in silenzio, mentre i loro giovani colleghi si adeguavano rapidamente agli standard internazionali usando terminologie moderne ed appropriate via radio. In quegli anni, ci furono molti pensionamenti ed altrettanti nuovi innesti sui due fronti e ci fu una novità: il nuovo comandante-Rr non “capiva più al volo”, ma aspettava l'ordine via radio. Non tutti ovviamente avevano perso improvvisamente l'idea del mestiere, ma il dado era tratto.

“ C'è la radio!” – si sentiva dire tra i bordi –
Aspetto l'ordine, perchè se mi prendo un'iniziativa che non va bene, il pilota mi riprende e io faccio la figura del belinone davanti a tutto il porto. Io aspetto sempre l'ordine di tirare!”

Per la cronaca, riscontriamo che questa duplice convivenza di filosofie è tuttora in corso, perché la stessa tendenza è diffusa anche tra i piloti. A nostro parere non esiste una verità assoluta, tuttavia, dovrebbe esistere per ogni manovra, il buon “senso marinaresco” che sempre illumina le posizioni dinamiche via via da occupare con un leggero anticipo, onde poter applicare alla nave l'effetto voluto con una certa rapidità.

Ritorniamo a sfogliare l'album dei ricordi e confessiamo di non avere mai considerato, in quegli anni, il rimorchio ed il pilotaggio, attività molto distanti tra loro e quando si rimorchiava una nave in altura, il più delle volte si pilotava il convoglio sui fiumi e spesso si ormeggiava e disormeggiava in piccole anse dove neppure esisteva il servizio di pilotaggio.

Nel 1970 a New York, in occasione del rimorchio oceanico di due Liberty da Newark alla Spagna, i capitani dei due rimorchiatori della Mc Allisters', che tenevano affiancate le due navi, usavano alternarsi al nostro fianco sul M/r Vortice per pilotare il convoglio dalla Reserve Fleet, sino alla foce dell'Hudson.

Ci trascinammo d'allora la convinzione che le due attività fossero talmente simili e complementari da essere anche intercambiabili, quantomeno lo erano già da lungo tempo nel “nuovo mondo”. Questa idea americana superava, sulla base di una conclamata praticità, antichi stereotipi di scuola anglosassone, importate anche in Italia nell'800.
La famosa “nota” dei lavori emessa di sera dall'Ufficio Accosti del porto, era studiata a memoria dai barcaccianti per prevenire le possibili mosse…del destino, ma durante la giornata intervenivano le aggiunte e le cancellazioni di navi e l'analisi dei lavori in corso… riprendeva daccapo.

Dopo qualche anno d'esperienza, anche il più giovane marinaio in coperta era in grado d'indovinare esattamente il nome del pilota che si stava avvicinando al faro di Punta Vagno; le spie principali erano la rotta e la velocità. Da quel riconoscimento visivo, sul rimorchiatore ci si poteva prefigurare ed organizzare la manovra: dove si sarebbe preso il cavo, a quale andatura, dove la nave avrebbe girato, quante smacchinate avrebbe dato ecc… Lo stile del pilota Cavallari era unico. Pur essendo un appassionato velista, credeva soltanto nella propria potenza di macchina. Tirava per la tangente, accostava in velocità ed attaccava i rimorchiatori a volte nell'ultima fase della manovra.

Ricordiamo, in proposito, una giornata di foschia densa al Porto Petroli di Multedo, agli inizi degli anni '70. Il Porto era chiuso per ovvie ragioni di sicurezza. I rimorchiatori erano tutti legati in banchina. Improvvisamente si udì una serie di fischi. Era la petroliera Praga di 30.000 tonnellate che stava entrando senza i soliti quattro rimorchiatori attaccati ed aveva iniziato a girare in solitario per andare in banchina… Cavallari non fece scuola, tuttavia, in seguito, abbiamo avuto modo di capire che altri piloti preferivano manovrare “ liberi da qualsiasi legame ”, finchè era possibile…
La radio VHF, in effetti, aveva portato sicurezza, rapidità d'esecuzione, informazioni in tempo reale e chiarezza d'intenti, sia in manovra che in tante altre circostanze di lavoro, non solo tra piloti e rimorchiatori, ma anche tra le Autorità, gli Uffici tecnici ed i bordi in servizio, sia nella quotidianità, ma soprattutto nelle emergenze che non mancavano mai.

Tuttavia, mentre da un lato le comunicazioni portavano cultura marinara e maggiore conoscenza reciproca, si assisteva ad un lieve deterioramento dei rapporti umani, a causa più che altro della confusione tra il vecchio e il nuovo sistema di lavoro. L'anziano barcacciante non era abituato a sentirsi riprendere via radio da un giovane pilota ed il giovane comandante Rr aspettava l'ordine dell'anziano pilota che non era abituato a dare. I nomi dei barcaccianti, in definitiva, non rappresentavano più l'estensione della barca di un tempo, non solo, ma l'uscita di scena di tanti “senatori” delle due sponde aveva sballato il vecchio ordine, creando dubbi, incertezze e rivelando inoltre i limiti di una “timida” programmazione dei quadri.
In questo scenario, caratterizzato da un forte movimento sussultorio, si affermava il gigantismo navale dei containers e delle superpetroliere, innescato da quei sette anni di chiusura del Canale di Suez tra gli anni '60 e '70.

Ormai era impensabile riuscire a vedere il braccio del pilota vorticare alla distanza di 300/400 metri, e la radio ebbe la sua giusta celebrazione, anche perché il pilota non riusciva a vedere neppure i rimorchiatori attaccati di prua e di poppa, e doveva mandare un secondo pilota a prua in funzione di telemetro per le distanze dalla piattaforma di Multedo.

Era finita per sempre l'epoca romantica


Cinque generazioni di Capi Piloti, da sinistra: O.Lanzola, A.Baffo, G.Longo, A.Cavallini, A.Maccario/Five generations of pilots 

In questo periodo si riscontarono forti crisi istituzionali, scioperi, cali di traffico e poi finalmente l'assestamento, ed infine la ripresa del nostro porto; questi furono i fatti che caratterizzarono buona parte degli anni '80. I piloti si difesero da queste calamità, diminuendo l'organico da 34 a 22 unità, ma i dipendenti del Corpo Piloti da stipendiare: impiegati, pilotini, tecnici, e gli addetti ad altri servizi, rimasero in ogni caso una quindicina. Questo assillante motivo prettamente economico e legato al “rischio impresa”, poggiava tuttavia sull'antica tradizione del Corpo che era contrario a qualsiasi forma di sciopero e di sindacalismo politicizzato.

Con questi presupposti, i piloti perseverarono sulla loro strada solitaria e non aderirono, neppure per solidarietà agli scioperi degli altri servizi in corso in quegli anni. In quella situazione d'estremo disagio e contrapposizione molto sofferta su entrambi i fronti, i piloti s'assestarono in prima linea, soli sulle navi ed in banchina, durante i ripetuti scioperi del personale dei rimorchiatori. Per la verità furono anche sabotati dagli ormeggiatori, che non erano in sciopero, ma evitavano d'usare i gozzi d'ormeggio per solidarietà con il personale dei rimorchiatori. Non tutti in porto, ovviamente, capirono le necessità di sopravvivenza e rischio-fallimento dei piloti e purtroppo si aprì una ferita che impiegò molti anni a guarire e rimase come una cicatrice-ricordo nella storia portuale.

Abbiamo preso spunto da questi avvenimenti storici per ricordare che, in quelle non facili giornate, i piloti vissero, dal punto di vista professionale, paradossalmente, la fase più brillante della loro storia professionale. E' forse giusto ricordare che dagli scioperi dei dipendenti della Società Rimorchiatori Riuniti, furono esclusi i traghetti e le emergenze, ed è altrettanto utile ricordare che, da parte dei piloti, non si cercarono atti d'eroismo e neppure lavori degni d'encomi, riconoscimenti ufficiali o cose di questo tipo. Tuttavia, escluse le manovre ritenute impossibili, a causa del consueto utilizzo di quattro o più rimorchiatori, tutte le altre navi entrarono ed uscirono regolarmente dal porto, senza il minimo danno.

Da un lavoro di routine, basato sulla velocità e la sicurezza, i piloti passarono ad un sistema più lento e studiato nei minimi particolari. Tutto ciò fu possibile perché il pilota di turno, indipendentemente dall'età e dall'esperienza maturata, s'impegnò strenuamente nella preparazione della “sua” performance, partendo da quella manovra teorica che aveva studiato a scuola e dallo sfruttamento adeguato della tecnologia della “sua” nave.

Il pilota di turno non spinse mai il comandante ad entrare in porto, oppure ad uscire senza l'aiuto dei rimorchiatori. Il pilota, ascoltava le caratteristiche della nave:


•  Effetto elica, eventuale potenza del Bow Thruster (elica di prora).


•  Velocità timone.


•  Potenza macchina alle varie andature.


•  Pescaggio.


•  Superficie velica.


•  Caratteristica dell'ancora per l'eventuale dragaggio, o girata ecc..


Con questi dati, il pilota esponeva al comandante la “sua” soluzione, adattandola, ovviamente, alle condizioni del vento e della corrente di quel momento.

Ogni pilota che rientrava in Torretta ripeteva come un ritornello ciò che il comandante gli aveva appena chiesto:

“Pilota, se te la senti di portarmi fuori (o dentro) senza rimorchiatori, io sono a tua disposizione !”. In quelle giornate d'estrema tensione nervosa, i piloti scoprirono il loro enorme potenziale professionale.
Lasciamo il ricordo di una di quelle giornate al pilota O. Lanzola:

“Di quelle giornate, veramente stressanti, ne ricordo una in particolare. Era un sabato del giugno 1986 e il vento di scirocco soffiò dall'alba al tramonto sui 20/25 nodi. Alla fine del turno giornaliero, contammo 54 lavori eseguiti, tra arrivi e partenze. Tra cui una decina di navi passeggeri: le “vecchie” a turbina, Amerikanis, Britanis, Ellinis, girate tutte sull'ancora davanti a Ponte dei Mille, e poi Eugenio C.- Enrico C.- Ausonia ecc..

Si era così precipitati improvvisamente Nel Terzo Periodo. Le distanze erano aumentate anche sul piano umano. Erano venute a mancare le pacche amichevoli sulle spalle del barcacciante, la stecca di sigarette e quel sorriso che esprimeva stima, amicizia e simpatia. Per necessità di tempo e di traffico, i piloti preferivano rientrare dagli arrivi con il taxi, per ripartire subito dalla torretta verso l'imboccatura.





Potenza, manovrabilità, eleganza. Con l'avvento del “Modello Tractor”, il servizio di rimorchio nel porto di Genova si è allineato allo standard dei maggiori porti del mondo/The new model "tractor".

Ed i giovani comandanti Rr, a bordo dei nuovi “tractors” con le prore alte, evitando di sbarcare i piloti, salvavano volentieri la prora dai danni contro la banchina di molo Giano. Si chiudeva così, per ragioni di servizio, un dialogo che era stato per decenni soprattutto un approfondimento, un commento, una vera lezione reciproca di manovra. I Tractors, pur avendo un nome ed un numero, erano tutti uguali nello scafo ed il pilota, nel dubbio di sbagliare gli ordini preferiva scandire l'ordine così: “ Prora a dritta, voga più in banchina!” – “Poppa a sinistra, allarga bene!” Si era finiti così nel più totale anonimato! Non c'era più tempo e spazio per i rapporti umani di un tempo, quello dei sentimenti vissuti, degli aneddoti, dei revival storici, degli scambi d'idee, degli stessi commenti alla manovra, delle notizie dei figli ecc…

In quella fase transitoria di rinnovamento tutto era trasformato in esasperata robotica, in pause vuote d'umanità, in silenzi freddi che parlavano sempre e solo di tempo perso. Si era aperta, in quella prima metà degli anni '90, una stagione tecnologica sulla quale occorreva ricucire un tessuto nuovo, per una generazione di manovratori computerizzati, tutto sommato, più aperta, più istruita e forse anche più democratica. Anche la parola barcacciante cadeva in disuso, perchè forse neppure gli stessi comandanti-Rr, un buon numero dei quali era uscita dal Nautico, ne conosceva l'etimologia storica.


Simi de Burgis, Pignatelli, Baffo jr. Ruggeri (prematuramente scomparso), Gatti jr, Calcagno, fanno parte della generazione di piloti genovesi del terzo millennio/New generation of pilots.

Qui ci fermiamo e lasciamo ad altri il compito di raccontare le gesta degli attori e testimoni oculari della storia del nostro porto nel nuovo millennio. Ecco! Avevamo parlato all'inizio dei rimpianti della Via Gluck oltre la cinta portuale. Per la verità, mentre scorrono le ultime immagini di questo film del nostro tempo, rivediamo tanti volti di piloti e barcaccianti e sentiamo, all'interno del confine ormai “abbattuto”, una grande nostalgia della loro umanità.

Com.te Carlo Gatti (2/2007)

Rapallo, 14 Marzo 2021

 


DIGA DI GENOVA: thinking outside the box

Ph: sito Autorità di Sistema Portuale Genova https://dpdigaforanea.it/il-progetto/

DIGA DI GENOVA

thinking outside the box

 

BY JOHN GATTI

•8 MARZO 2021•8 MINUTI

 

La diga del porto di Genova!

Un argomento attuale, stimolante e coinvolgente

L’aumento delle dimensioni delle navi, fenomeno noto come “Gigantismo navale” ha reso inadeguati molti porti italiani; le crescenti performance dei rimorchiatori portuali, gli ausili tecnologici alle manovre, le simulazioni e i limiti operativi studiati ad hoc per l’entrata di ogni singola nave destinata a un preciso ormeggio, non sono più accorgimenti sufficienti a risolvere questi problemi. (Ne abbiamo parlato in questo articolo.)

Nel caso del porto di Genova:

· ilL primo tema da affrontare è quello del bacino di evoluzione che, attualmente per le navi di grandi dimensioni, è posizionato in avamporto e ha un diametro di circa 550 metri;

· lL secondo problema lo riscontriamo al terminal Bettolo. La recente costruzione di questa banchina permette (dando per scontata la realizzazione di un bacino di evoluzione e dragaggi adeguati) l’ormeggio delle portacontenitori di ultima generazione, ma lo spazio occupato, una volta affiancate, rende delicato, e a volte impossibile, il transito di altre navi nel canale di Sampierdarena;

· sebbene la fetta più grossa del mercato riguardi il settore dei contenitori, l’insufficienza di spazio coinvolge anche zone del porto che operano su altri rami merceologici; si avverte, ad esempio, una carenza di spazi anche tra le varie banchine a pettine di tutto il canale di Sampierdarena.

Nelle relazioni presentate sulla pagina “Quaderno degli attori”, predisposta  dall’Autorità di Sistema, vengono evidenziati altri aspetti di estrema importanza e di difficile soluzione. Mi riferisco, per esempio, a quanto espresso da Assagenti quando sottolinea l’importanza del potenziamento della linea ferroviaria a scapito della movimentazione delle merci su gomma, al piano dei dragaggi e al consolidamento delle banchine. Così come del resto sottolineato da Confindustria: “riteniamo che la realizzazione della nuova diga deve essere inserita in un contesto di sviluppo più ampio che ricomprenda anche quello infrastrutturale lato “terra”. “Gronda di ponente”, “terzo valico”, “nodo ferroviario”, “opere di ultimo miglio” (soprattutto quelle ferroviarie, cd. piano del ferro in ambito portuale) devono essere realizzati/ultimati senza indugio per consentire, una volta realizzata la diga, la fuoriuscita delle merci dal porto e, soprattutto, di riequilibrare il rapporto tra traffico stradale e ferroviario e garantire un porto più sostenibile anche dal punto di vista trasportistico e ambientale. Gli scenari dei volumi di traffico ipotizzati a seguito della realizzazione della nuova diga impongono importanti investimenti infrastrutturali per un agevole afflusso/deflusso delle merci dal porto al fine di evitare anche commistioni con il traffico cittadino“.

Molti interventi, inoltre, pongono quesiti relativi all’ambiente, all’impatto sull’ecosistema marino, alla compatibilità tra porto e città, ecc.

Insomma, in concreto, decidere quale sia la strada migliore da seguire implica responsabilità oggettive enormi nei confronti degli sviluppi strategici dei commerci marittimi, della città di Genova a 360 gradi – economia, viabilità, posti di lavoro, ecc. -, del futuro di ogni singolo terminalista e, a catena, di tutte le persone che lavorano in porto e per il porto, senza dimenticare l’ambiente e la sicurezza.


Ph: sito Autorità di sistema portuale Genova - https://dpdigaforanea.it/il-progetto/

 

È anche difficile, quando le variabili in gioco sono tante, centrare il segno al primo colpo, come è anche vero che la condivisione delle idee è costruttiva solo fino a un certo punto…

La raccolta di opinioni qualificate diverse, opportunamente vagliate da una mente aperta alla rivalutazione continua, è la strada più diretta per raggiungere un obiettivo così ambizioso.

Sono veramente poche, infatti, le persone che hanno tutti gli elementi, l’imparzialità e le competenze per decidere i giusti compromessi.

È quindi con spirito propositivo che devono essere giudicati gli interventi, anche perché spesso propongono spunti interessanti dal punto di vista tecnico progettuale. Tra quelli che mi hanno colpito per le soluzioni contemplate, ad esempio, cito lo studio dell’Ing. Guido Barbazza, Executive di Wärtsilä Italia, scaturito – come egli stesso afferma – da valutazioni di tipo “thinking outside the box”.


Ph: Ing. G.Barbazza

In particolare ho trovato interessante la creazione di nuove aree operative ottenute sfruttando la “penisola portuale”, piuttosto che il mero spostamento della diga (vedi foto sopra). Addossata al lato nord della nuova diga foranea, che è prevista essere collegata alla terraferma tramite un ponte innestato sul parco ferroviario di GE-Sestri Ponente (attraverso il collegamento su rotaie al servizio dello Stabilimento ILVA di Cornigliano) e su gomma al raccordo autostradale di Genova-Aeroporto. Quest’ultimo servirebbe a decongestionare, o quantomeno a non sovraccaricare ulteriormente, il nodo di Sampierdarena e lo svincolo di GE-Ovest. Buona anche l’idea di sfruttare il naturale sviluppo dei fondali antistanti il porto per realizzare le opere marittime su batimetriche più basse, in modo da ridurre i costi e i tempi di realizzazione.

Con questa impostazione sarebbe eventualmente possibile, in futuro, creare importanti aree con relativi accosti su alti fondali, favorire l’espansione delle attività già presenti nel Bacino Portuale di Sampierdarena, la rilocalizzazione di accosti e depositi petrolchimici, il rifornimento delle navi a GNL ed eventuali nuove attività risultanti dallo sviluppo del settore marittimo-portuale.

Dal punto di vista della manovra navale in porto, trovo adeguato l’ampio bacino di evoluzione in avamporto e gli spazi disponibili nel canale di Sampierdarena. L’eventuale onda di scirocco, e la relativa risacca, potrebbero essere ulteriormente mitigati utilizzando tetrapodi in punti strategici (per rompere la corsa delle onde sulla diga) e variando leggermente il layout dell’imboccatura di levante.

I dubbi e le domande sono tante e spaziano dall’inadeguatezza del retroporto alla viabilità, dal rapporto costi/benefici alla equa distribuzione dei vantaggi, dall’apertura del progetto a sviluppi futuri alla scelta delle priorità d’intervento.

Qualcuno starà pensando che è un po’ tardi per le considerazioni…

Può darsi, ma se penso a tutti i progetti dati per “definitivi” negli ultimi decenni e poi bocciati, riproposti e mai portati a compimento (vedi Torre Piloti di cui parliamo qui), mi viene da pensare che – probabilmente – siamo ancora agli inizi.

P.S.

Alcune pagine del progetto sono visibili sul sito dell’Autorità di Sistema nella sezione dedicata al dibattito pubblico sulla diga foranea del porto di Genova (qui), che consiglio di visitare anche per approfondire i punti menzionati e valutare le priorità delle singole realtà coinvolte.

Rapallo, 12 Marzo 2021

 

 


STUDIARE LA MANOVRA DELLE NAVI

 

STUDIARE LA MANOVRA DELLE NAVI

L'importanza di un programma di studio efficace


https://www.standbyengine.com/studiare-la-manovra-delle-navi/


BY JJOHN GATTI16 FEBBRAIO 20219 MINUTI

 

Per chi vuole imparare a manovrare;

Per chi sa manovrare e vuole migliorare;

Per chi si preparara al concorso da pilota del porto.

 

In questo articolo scriverò di studio e di preparazione, proporrò idee e pensieri.
Il focus sarà centrato sulla preparazione all’esame per diventare aspirante pilota, ma i concetti sono applicabili a chiunque voglia migliorare le proprie capacità.

In SBE stiamo lavorando intensamente a un progetto che prevede la realizzazione di un corso di manovra attentamente bilanciato, secondo la nostra esperienza, tra teoria e pratica. Ad oggi sono usciti 4 video con relativi Ebook, contiamo di proseguire con nuove pubblicazioni ogni 2 mesi.

Siamo nell’epoca dell’informazione!

Anzi, siamo sommersi dalle informazioni.

Sembrerebbe una cosa positiva, almeno per certi versi, se non fosse che…

Ti è mai capitato di cercare materiale di studio ma trovarlo inquinato da troppe nozioni non pertinenti?

Nello specifico, hai mai passato ore e ore alla ricerca di informazioni di qualità utili alla prepararazione del concorso da pilota? Sei rimasto soddisfatto da queste ricerche?

Si trova molto su internet e sui libri, ma spesso lo sforzo si concretizza in un aumento della confusione.

È difficile valutare la qualità e decidere cosa serva veramente.

Gli esami cambiano da porto a porto nonostante il programma sia lo stesso, perché la difficoltà oggettiva varia a seconda di chi vi esamina e della mentalità che ha maturato; ma una cosa è certa, il capo pilota del porto sede di concorso non è un teorico.

L’esperienza accumulata negli anni condiziona inevitabilmente le domande e il giudizio sulla qualità delle risposte. È per questo che diventa importante filtrare le informazioni ottenute dallo studio con un occhio da “pilota”.

È un esame impegnativo, dove i concorrenti hanno raggiunto un certo livello e sono decisi – proprio come te – a lottare per raggiungere il risultato che gli cambierà la vita.

Un punto importante da considerare, è che il pilota è un esperto dell’area presso cui presta servizio. Vuol dire che, al di là della preparazione generica, è un esperto in un porto ben definito.

Se è vero che l’esame non è specifico, è pur certo che chi prepara le domande ha più familiarità con argomenti relativi a situazioni che affronta abitualmente: la nebbia per Venezia e Ravenna ad esempio, il vento per Genova e Livorno, le grandi navi per Gioia Tauro, o l’utilizzo degli Escort Tugs piuttosto che i tradizionali, ormeggi in andana o affiancati, nei canali o in spazi aperti, navi passeggere o petroliere, e così via.

Il punto chiave è che le domande avranno comunque una matrice legata all’esperienza locale, anche se sostenute da evidenze teoriche.


È un lavoro di nicchia, dove la preparazione all’accesso va studiata setacciando i contenuti, scartando il superfluo e studiando quello che resta con occhio marinaresco.

Nella valutazione di una manovra, gli ingredienti da miscelare vanno oltre le formule e gli effetti, coinvolgendo strategie che tengono conto dell’esperienza del comandante del rimorchiatore, della nazionalità dell’equipaggio, dei ridossi offerti dall’orografia locale, dall’abitudine o meno di utilizzare l’ancora… la risposta che si attende dall’interrogato è inevitabilmente “inquinata” dall’aspettativa di un ragionamento pratico, da pilota appunto.

Questo è un aspetto della preparazione difficile da affinare.

Conosco esattamente le sensazioni che prova chi si prepara al concorso, visto che – a suo tempo – è una cosa a cui ho dedicato diversi anni della mia vita.

Libri, quaderni, appunti, formule, regole, esempi.

La vera svolta, nel mio caso, c’è stata quando ho cominciato a studiare con un pilota: disegnava sulla carta e mi spiegava i ragionamenti che portavano alla scelta della manovra da eseguire, al numero di rimorchiatori da utilizzare, a come impiegarli e la via per ottimizzare le opzioni disponibili al raggiungimento del miglior risultato.

Sembrava semplice, lineare, ma il modo di legare i pensieri tra loro era lontano anni luce dalla mia mentalità.

Considerate che – come molti di voi – erano anni che navigavo e, ben prima del passaggio al comando, avevo già maturato il sogno di diventare un pilota del porto. Avevo un obiettivo e non perdevo occasione per studiare e manovrare.

Solo molto tempo dopo mi sono reso conto che fare il comandante – senza nulla togliere a questa professione di grande prestigio e alta professionalità – è un lavoro diverso dal fare il pilota.

La specificità del manovrare navi tutti i giorni per anni, porta a seguire dei ragionamenti selettivi distanti dalla psicologia maturata navigando.

Incertezze, errori, strategie sbagliate, paure, ma anche determinazione, coraggio, scelte giuste, obiettivi realistici (seppure ambiziosi) e una rotta.

Una rotta chiara, precisa, da correggere quando necessario.

Lavorare sui punti deboli.

La natura umana ci porta a sfruttare i nostri punti forti nascondendo quelli limitanti. Motivo per cui troviamo persone con qualità incredibili ridimensionate dall’emergere dei difetti su cui non hanno lavorato.

Io, per esempio, soffrivo di un problema comune a molti giovani: ero impulsivo. Riflettevo poco prima di agire e non prestavo attenzione alle conseguenze. Ero sempre in attesa di un ritorno immediato come risposta ai miei sforzi. Succedeva che, per quanto studiassi, non avvertivo nessun cambiamento, mi sembrava di non progredire mai, di non ricordare le cose. Avevo la sensazione di perdere le giornate a guardare l’erba crescere… non mi rendevo conto che, in realtà, l’erba cresceva, aveva solo bisogno di tempo, di costanza, di impegno.

Piano piano si cambia, si cresce, ci si forma. L’importante è non smettere di studiare, di imparare, di migliorare, di lavorare sui punti critici.

Questa è la base.


Applicato al nostro caso, significa che è inutile dedicarsi allo studio della manovra di una superpetroliera di pescaggio, senza prima aver appreso i fondamentali.

Nel corso SBE questa fase l’abbiamo indicata come l’ABC della manovra: Eliche, Timoni e Ancore.

Si deve imparare la teoria ma, soprattutto, capire come usarla nella pratica; cominciare a ragionare con la mentalità di chi lo fa per mestiere. Per questo abbiamo inserito numerosi esempi ed esperienze realmente vissute.

Dopo aver imparato e digerito la parte essenziale, si è pronti a entrare nel vivo della materia e ad apprezzare le sfumature degli argomenti che seguono. Arriva infatti il momento di parlare dei rimorchiatori: una componente essenziale della manovra, un argomento da padroneggiare, da sfruttare appieno. Seguito dal vento, dalle correnti, dalle interazioni e da tanti altri aspetti, che vanno poi miscelati per arrivare a elaborare ragionamenti concreti supportati da solide basi.

StandByEngine nasce per diradare il fumo delle cose inutili, per concentrare quello che ti serve e per aiutarti a spostare il punto di vista: da spettatore esterno alla manovra a spettatore dentro la manovra.

 

Rapallo, 2 Marzo 2021