LA MAGIA DEL TINO - SPEZIA

LA MAGIA DEL TINO 

SPEZIA

 

Il TINO fa da sfondo alla Fregata antisom Luigi RIZZO F 596

Il golfo della Spezia è noto anche come il

GOLFO DEI POETI

A definirlo così, il 30 agosto del 1910, fu il commediografo Sem Benelli  che in una villa sul mare di San Terenzo  lavorava alla sua Cena delle Beffe   e che, in occasione dell'orazione funebre per lo scienziato e scrittore Paolo si espresse con queste parole: "Beato te, o Poeta della scienza, che riposi in pace nel Golfo dei Poeti. Beati voi, abitatori di questo Golfo, che avete trovato un uomo che accoglierà degnamente le ombre dei grandi visitatori."

 

 

Un po’ di storia ...

Scavi eseguiti nel 2021 hanno individuato reperti di un edificio di epoca romana e risalenti al primo insediamento nell’isola.

San Venerio, nato nell’isola della Palmaria e patrono  del Golfo della Spezia, si ritira in eremitaggio sull’isola sino alla sua morte, avvenuta nel 630.  Narra la leggenda che accendesse dei fuochi per indicare la rotta ai naviganti. Per questo motivo è patrono dei fanalisti e il suo esempio continua ancora oggi, come testimonia il faro che si erge sulla sommità della scogliera. In sua memoria sulla sua tomba viene costruito dapprima un piccolo santuario nel VII  da Lucio, vescovo di Luni. 

Più tardi, nell’XI secolo, presso l’antico romitorio edificato dove era stato ritrovato il corpo del santo, dai monaci benedettini viene fondato il monastero di San Venerio e Santa Maria del Tino, destinato a godere di ampia fama e ricevere frequenti donazioni dai nobili dei paesi circostanti. 

Nell’estate del 1242, davanti all’isola del Tino, Genova  si prende la rivincita della battaglia del Giglio sconfiggendo la flotta Pisana  alleata dell’imperatore FedericoII. 

Nel 1435,  pontifice Eugenio IV, ai monaci Benedettini succedono gli Olivetani  che vi rimangono fino al 1466,  quando devono abbandonare il luogo, troppo esposto alle incursioni turche.  I ruderi del monastero sono tuttora visibili sulla costa settentrionale dell’isola.

Probabilmente nei primi anni del XVII secolo la Repubblica di Genova  vi erige una torre-fortezza di avvistamento.

Dalla seconda metà del XIX secolo l’isola è interessata dalle ingenti opere di del Golfo della Spezia  ancora oggi di proprietà militare.

Importanti lavori di restauro dell’antica abbazia sono stati eseguiti intorno alla metà del XX secolo. 

 Archeologia subacquea

Ricerche subacquee condotte nel 2012 e 2014 a 17 miglia a sud dell'isola del Tino hanno scoperto due relitti romani. Le navi naufragate trasportavano carichi di anfore vinarie di tipo greco-italico e costituiscono la testimonianza delle rotte di traffico marittimo tra Roma, la Gallia e la Spagna.

Un primo relitto, denominato Daedalus 12, è a una profondità di circa 400 m ed è gravemente danneggiato dai solchi delle reti a strascico che hanno ridotto le anfore ad un ammasso caotico di frammenti, sparsi su un’area molto vasta.

Un secondo relitto, più profondo a 500 m, denominato Daedalus 21, si è conservato sostanzialmente intatto, con il suo carico di oltre duemila anfore vinarie Dressel 1 (di cui 878 visibili in superficie) e vasi, databili intorno al II sec. a.C. Il relitto è lungo circa 25 metri e reca ancora quattro ceppi d’ancora che hanno permesso di definire la posizione della prua.

Il relitto del cpt VINCENZO GIOBERTI, affondato il 9 agosto 1943, è stato localizzato a 600 m di profondità a ponente dell'isola del Tino.

 

Ambiente

Flora

Mirto

La flora prevalente nell’isola è costituita dalla macchia mediterranea e del bosco di leccio. Altre importanti formazioni vegetali sono la macchia ad euforbia e, sulle scogliere più vicine al mare, quelle caratterizzate dal finocchio di mare. Inoltre molto presenti sono anche: la cineraria marittima, il papavero cornuto, la ginestra, il fico degli ottentotti, la centaurea veneris, la valeriana rossa. (Sono presenti anche alcune piante aromatiche come il timo il mirto il rosmarino e l’ampelodesma mauritanica.

Fauna

Gabbiano Reale l'uccello più diffuso nell'isola del Tino

La fauna del Tino è molto simile a quella della Palmaria, a motivo della vicinanza tra le due isole. Sull'isola si trovano alcune delle maggiori emergenze faunistiche rettili, quali il tarantolino, il più piccolo dei gechi europei, facilmente riconoscibile per l'assenza di tubercoli sul lato dorsale. Oltre che sulle isole del Tino e del Tinetto questo geconide è presente in pochissimi altri siti liguri. 

Tra gli uccelli ricordiamo il gheppio, il falco pellegrino, lo sparviero, la pernice, i gabbiani il corvo imperiale, il passero solitario, il cormorano o marangone dal ciuffo. Nell'isola l'elevata presenza di uccelli è dovuta alla quasi totale assenza dell'uomo. Questo ha fatto sì che gli uccelli (in particolare i gabbiani) nidificassero indisturbati anche nei posti più impensabili dell'isola.

Edifici nell'isola

L'isola non è mai stata veramente abitata e le strutture presenti sono quindi poche e quasi tutte a carattere militare. Tra quelle che si sono conservate fino a noi sono: i ruderi del monastero di San Venerio, la batteria G. Ronca, il faro, la vecchia casamatta trasformata in piccolo museo.

 Strutture militari

A causa forse del suo isolamento nell'isola del Tino prima del 1920 non erano presenti installazioni difensive (né durante il dominio genovese né durante quello napoleonico venne presa in considerazione questa possibilità anche se Napoleone Bonaparte lo ritenesse utile). 

La prima struttura difensiva ad essere costruita risale a dopo gli anni '20 ad opera della Regia Marina a nord-ovest dell'isola ed è stata la Batteria G.Ronca, a cui in seguito ci sono aggiunti altri edifici secondari per il funzionamento della batteria cioè: la Casamatta, la Casermetta, i convertitori, i proiettori di tiro e di scoperta, il deposito benzina.

Tutto questo complesso per garantire maggiore sicurezza in caso di possibile attacco via mare (all'epoca dell'edificazione non erano ancora impiegati gli aerei per i bombardamenti) era dislocato in tutta l'isola per garantire maggiore sicurezza ai singoli settori. Inoltre la dislocazione delle quattro torrette di tiro in alture in diverse posizioni garantiva una copertura di tiro molto elevata (la zona interna del porto era coperta solo dal "pezzo" n.4 perché comunque c'era già un numero sufficiente di batterie in tutto il golfo a garantire un'efficiente copertura di tiro.

Strutture religiose

Scavi condotti nel 1962 dalla Soprintendenza ai monumenti della Liguria hanno rivelato gli avanzi delle fondamenta e dell'abside un'antichissima ecclesia databile tra il V  e il VI secolo  e quindi contemporanea agli oratori del vicino Tinetto. 

Presso questi rilevamenti più antichi, ma distinta da essi, è l'antica Abbazia di San Venerio.

In origine in questo luogo era solo una cappella edificata già nel VII secolo sul luogo di sepoltura di San Venerio, santo eremita nativo della Palmaria, isola maggiore dell'arcipelago spezzino.
Per l'insicurezza provocata dalle continue devastazioni dei Saraceni sulle coste liguri, il venerato corpo del santo nell’860 fu traslato in un luogo più sicuro, presso il nascente borgo di Spezia  e i monaci abbandonarono il luogo.

 La vita religiosa poté riprendere quando la potenza di Genova e di Pisa, ai primi dell’XI secolo, sconfitti i saraceni riportò una relativa sicurezza sul Tirreno: i Signori di Vezzano, che della marca Obertenga erano i valvassori sul borgo di Portovenere, fecero rifiorire le istituzioni monastiche con donazioni di terre ai Benedettini. 

Un'abbazia venne edificata dai monaci come trasformazione architettonica della prima cappella.

Il complesso venne poi abbandonato dai successivi monaci Olivetani nel XV secolo, quando questi dovettero trasferirsi in un più sicuro insediamento monastico nella zona del Varignano e quindi andò incontro ad un lento decadimento strutturale. 

Dell'antico edificio medievale rimangono oggi visibili la facciata della chiesa, i suoi muri perimetrali e quelli del chiostro, in stile romanico. 

Nel convento degli Olivetani ha sede il museo archeologico dell'isola del Tino che conserva anfore e monete romane e manufatti dei monaci come boccali in graffita policroma e un catino in maiolica. 

Un altro importante edificio è il Cenotafio di San Venerio.

Strutture civili

 

Il faro dell'isola

Altre strutture sono il porticciolo ed il faro, entrambi direttamente controllati e gestiti dal Comando Militare. 

L'edificio del faro è stato costruito nel 1840 sulla piazza d'armi della seicentesca fortezza di avvistamento genovese  per decisione di re Carlo Alberto.  Il primo combustibile utilizzato per il funzionamento del faro era l’olio vegetale, successivamente sostituito dal carbone. 

Nel 1884 venne costruita una seconda torre, più alta della prima torre, alla cui sommità vennero poste delle lenti ottiche ad incandescenza, alimentate elettricamente da due macchine a vapore. Poiché questo sistema forniva eccessiva potenza al fascio di luce prodotto, nel 1912 l'impianto venne sostituito con uno a vapori di petrolio. Grazie all'arrivo dell’energia elettrica il faro venne elettrificato, mentre la completa automazione avvenne nel 1985. 

Il faro è controllato e gestito dal Comando di Zona Fari della Marina Militare che ha sede alla Spezia  e che soprintende tutti i fari dell'Alto Tirreno.

Di notte da Lerici (che si trova dal lato opposto del golfo della Spezia) o dalle Cinque è possibile vederne i lampi nell'oscurità del mare.

 La ricorrenza di San Venerio

Ogni anno, il 13 settembre, all'isola del Tino si celebra festa di San Venerio.  In questa ricorrenza si svolge una processione in mare che trasporta la statua del santo dalla Spezia all'isola del Tino e viene impartita la benedizione sai fedeli e alle imbarcazioni. 
Poiché il territorio dell'isola è di norma inaccessibile in quanto zona militare, questa giornata e la domenica successiva sono le uniche occasioni per poterlo visitare.

Inoltre viene esposto il reliquiario di San Venerio che ne contiene il teschio (infatti il Santo è sepolto a Reggio Emilia, ma questa parte del suo corpo nel 1959 venne restituita alla Diocesi della Spezia  per disposizione di papa Giuovanni XXIII). 

 

I fari Italiani, gestiti dalla Marina Militare dal 1911, sono sempre stati al passo con ogni innovazione tecnologica sia nel campo della luce, sia nella ricerca e nell’utilizzo di fonti di energia sempre più sicure e performanti, sia, negli ultimi tempi, con l’impiego dell’informatica per garantire sempre un servizio di pubblica utilità, rivolto alla sicurezza della navigazione e strutturato e idoneo al variare delle esigenze e delle tecnologie disponibili.

Il faro del Tino ne è un esempio “lampante” in quanto in esso sono state testate nel tempo moltissime innovazioni tecnologiche. Fu il primo faro, nel 1840, ad essere alimentato da due generatori a corrente alternata a magneti permanenti azionati da due macchine a vapore, ma è stato anche il primo a testare, nel 2016, i nuovi led a lunga portata di ultimissima generazione.

I fari ad ottica fissa, ossia con luce intermittente, e quelli ad ottica rotante, dove la luce è sempre accesa, con la caratteristica data dalla rotazione delle lenti di Fresnell, sono stati alimentati, a partire dal 1800 con vapori di petrolio, con l’acetilene, per poi essere elettrificati o dotati di fonti di energia alternative nel dopoguerra.

Sono stati istallati bruciatori di vario genere a seconda del gas combustibile utilizzato, scambiatori acetilene/elettrici e scambiatori di lampade di vario tipo.

Anche le lampade hanno avuto un’evoluzione nel tempo diventando sempre più piccole ed affidabili.

Le strutture architettoniche dei fari si sono adeguate alle esigenze dei tempi diventando sempre più alte ed articolate, permettendo la vita in pianta stabile dei faristi e delle loro famiglie.

Solo le lenti di Fresnell sono rimaste immutate nel tempo, dall’Ottocento a oggi mantenendo al faro un tocco di antica signorilità e romanticismo.

Nel percorso didattico museale del Tino vedrete questa evoluzione e questa metamorfosi di luci e di tecnologia sia della componente tecnica che infrastrutturale.

Nelle varie sale del bastione Napoleonico potrete ammirare pezzi concessi dal Museo Tecnico Navale di La Spezia, dall’Ufficio Tecnico dei Fari, dal Comando Zona Fari di Spezia e da privati. Pezzi storici, componenti di un lontano e recente passato, che potevano funzionare (“DEVE FUNZIONARE” è il motto dei faristi) solo grazie alla preparazione del personale Farista (personale civile della Difesa), ma anche grazie all’abnegazione e allo spirito di sacrificio di una categoria di persone veramente eccezionali… le loro famiglie.

 

ALBUM FOTOGRAFICO DEL FARO

 

 

Stella Maris (Stella del mare) è un titolo, fra i più antichi, per la Vergine Maria,  madre di Gesù. Il titolo è utilizzato per enfatizzare il ruolo di Maria come segno di speranza e come stella polare per i cristiani; con questo titolo, la Vergine Maria è invocata come guida e protettrice di chi viaggia o cerca il proprio sostentamento sul mare, titolo simile a quello di Odigitria

STELLA MARIS

https://discoverportovenere.com/it/isola-del-tino-san-venerio/

Se prendete il traghetto per la Palmaria da Spezia, mentre state per raggiungere l’isola, potrete anche accorgervi della presenza di una terza “isola”.... forse uno grande scoglio “isolato”, degno quindi d’avere un nome: IL TINETTO emerso in tempi lontani dagli abissi del mare, come nelle favole...

Il Tinetto è ben famoso ai naviganti cosí come agli appassionati di Nautica locale, infatti è presente intorno ad esso una secca capace di provocare danni anche a piccoli natanti.

In tutte le calate dei porti del mondo circolano sempre sia le favole che gli aneddoti a volte anche mescolati con la Fede, come questo che noi abbiamo ascoltato dal vivo:

quello di un piccolo motoscafo esibizionista che, a tutta velocitá e inconsapevole del pericolo, è passato sopra la secca perdendo per completo i due motori. Per questo “gli anziani” del posto hanno rinominato questi scogli sommersi come lo “scoggio do Diao”. Tradotto: lo scoglio del Diavolo.

A protezione dello scoglio e dei turisti della domenica, i nostri avi posizionarono in quella zona una suggestiva Madonnina che si erge sulle acque del mare dedicata a Maria, la “Stella Maris” dei marinai.

Un perimetro di circa due chilometri racchiude i 127.000 mq dell'isola del Tino, lussureggiante per il bosco misto di pini e lecci che nei secoli ha soppiantato le precedenti colture a olivo e vite, risalenti all'epoca degli insediamenti dei monaci benedettini. Un'impervia ed elevata falesia cinge l'isola da occidente rendendola inaccessibile e, al tempo stesso, strategica. Punta estrema della Liguria di levante, faro naturale proteso verso il Mediterraneo, dirimpettaio di Capraia, Gorgona e Corsica.

Dal 1997 l'isola del Tino, insieme alle altre isole Palmaria e Tinetto,  Portovenere e le Cinque Terre  è stata inserita tra i Patrimoni dell’Umanità dell’UNESCO. 

Descrizione

L'isola del Tino (Tyrus mayor nei testi medievali, nome probabilmente di origine fenicia).  La superficie dell'isola, che si erge fino a 117 metri s.l.m., è di 0,13 Km2 e il suo perimetro di quasi 2 km.

 

LA STORIA DI SAN VENERIO 

Scavi eseguiti nel 2021 hanno individuato reperti di un edificio di epoca romana e risalenti al primo insediamento nell'isola.

San Venerio, nato nell'isola della Palmaria e patrono  del Golfo della Spezia, si ritira in eremitaggio sull'isola sino alla sua morte, avvenuta nel 630.  Narra la leggenda che accendesse dei fuochi per indicare la rotta ai naviganti. Per questo motivo è patrono dei fanalisti e il suo esempio continua ancora oggi, come testimonia il faro che si erge sulla sommità della scogliera. In sua memoria sulla sua tomba viene costruito dapprima un piccolo santuario nel VII  da Lucio, vescovo di Luni. 

Più tardi, nell’XI secolo, presso l'antico romitorio edificato dove era stato ritrovato il corpo del santo, dai monaci benedettini viene fondato il monastero di San Venerio e Santa Maria del Tino, destinato a godere di ampia fama e ricevere frequenti donazioni dai nobili dei paesi circostanti. 

Nell’estate del 1242, davanti all’isola del Tino, Genova  si prende la rivincita della battaglia del Giglio sconfiggendo la flotta Pisana  alleata dell'imperatore FedericoII. 

Nel 1435,  pontifice Eugenio IV, ai monaci Benedettini succedono gli Olivetani  che vi rimangono fino al 1466,  quando devono abbandonare il luogo, troppo esposto alle incursioni turche.  I ruderi del monastero sono tuttora visibili sulla costa settentrionale dell'isola.

Probabilmente nei primi anni del XVII secolo la Repubblica di Genova  vi erige una torre-fortezza di avvistamento.

Dalla seconda metà del XIX secolo l'isola è interessata dalle ingenti opere di del Golfo della Spezia  ancora oggi di proprietà militare.

Importanti lavori di restauro dell'antica abbazia sono stati eseguiti intorno alla metà del XX secolo. 

 Chi era San Venerio, patrono del Golfo dei Poeti e dei guardiani dei fari?

 

Il monaco San Venerio nacque sull’isola della Palmaria nel 560 circa e visse in eremitaggio sull’Isola del Tino, dove morì nel 630. 

Nelle notti più buie era solito accendere un falò per aiutare le navi ad orientarsi nel Golfo dei Poeti. 

Oggi è il patrono del Golfo della Spezia e dei guardiani dei fari.

Venerio entra nel Monastero benedettino di Palmaria e diventa monaco. Poi, però, si trasferisce a Tino, un altro isolotto vicino, perché vuole vivere da solo. Egli fugge da un ambiente dove non si rispetta abbastanza la Regola benedettina, basata solo sulla preghiera e sul lavoro. Così, pensando che «è meglio stare da soli che male accompagnati», va a fare l’eremita. In questo isolotto Venerio prega e si rende utile a tutti, soprattutto ai poveri. Per gli umili pescatori, con i suoi consigli da esperto marinaio, l’eremita trova ingegnose soluzioni come quando costruisce una vela per migliorare la navigazione. Quando si fa sera, Venerio raccoglie rami e arbusti e accende un grande falò nel suo isolotto per illuminare la notte e rendere più sicura la rotta dei pescherecci.

[testo di Mariella Lentini su santiebeati.it]

Ogni anno, il 13 settembre, all'isola del Tino si celebra festa di San Venerio.  In questa ricorrenza si svolge una processione in mare che trasporta la statua del santo dalla Spezia all'isola del Tino e viene impartita la benedizione sai fedeli e alle imbarcazioni. 
Poiché il territorio dell'isola è di norma inaccessibile in quanto zona militare, questa giornata e la domenica successiva sono le uniche occasioni per poterlo visitare.

Inoltre viene esposto il reliquiario di San Venerio che ne contiene il teschio (infatti il Santo è sepolto a Reggio Emilia, ma questa parte del suo corpo nel 1959 venne restituita alla Diocesi della Spezia  per disposizione di papa Giovanni XXIII). 

 

Su questo scoglio sarebbe vissuto tra VI e VII secolo San Venerio, eremita e poi riferimento dei marinai, dato che era solito accendere fuochi per segnalare il pericolo notturno dell’isola ai naviganti. Fu lui, secondo la leggenda, ad aver introdotto a La Spezia la pratica dell’armo latino, la vela triangolare con l’antenna, ideale per risalire il vento assai più degli armi precedenti. Santo conteso, controverso, multiplo nelle sue valenze, che scelse il Tino per la sua bellezza naturale, per il romitaggio che garantiva, e su cui, nel tempo, venne eretto il faro attivo tutt’oggi, a centocinquant’anni dall’invenzione di Fresnel, quella che con lenti diagonali alternate consente a una piccola lampadina alogena di essere visibile fino a ventotto miglia. 

Ieri abbiamo assistito da lassù, dalla torre oltre 110 metri sul livello del mare, a un tramonto mozzafiato e all’accensione del faro. Affascinante. Guardare la Corsica, Capraia, Gorgona, le Cinque Terre, il Golfo, Montemarcello, la Versilia in quel tripudio di colori credo sarà indimenticabile.

 

I fari Italiani, gestiti dalla Marina Militare dal 1911, sono sempre stati al passo con ogni innovazione tecnologica sia nel campo della luce, sia nella ricerca e nell’utilizzo di fonti di energia sempre più sicure e performanti, sia, negli ultimi tempi, con l’impiego dell’informatica per garantire sempre un servizio di pubblica utilità, rivolto alla sicurezza della navigazione e strutturato e idoneo al variare delle esigenze e delle tecnologie disponibili.

Il faro del Tino ne è un esempio “lampante” in quanto in esso sono state testate nel tempo moltissime innovazioni tecnologiche. Fu il primo faro, nel 1840, ad essere alimentato da due generatori a corrente alternata a magneti permanenti azionati da due macchine a vapore, ma è stato anche il primo a testare, nel 2016, i nuovi led a lunga portata di ultimissima generazione.

I fari ad ottica fissa, ossia con luce intermittente, e quelli ad ottica rotante, dove la luce è sempre accesa, con la caratteristica data dalla rotazione delle lenti di Fresnell, sono stati alimentati, a partire dal 1800 con vapori di petrolio, con l’acetilene, per poi essere elettrificati o dotati di fonti di energia alternative nel dopoguerra.

Sono stati istallati bruciatori di vario genere a seconda del gas combustibile utilizzato, scambiatori acetilene/elettrici e scambiatori di lampade di vario tipo.

Anche le lampade hanno avuto un’evoluzione nel tempo diventando sempre più piccole ed affidabili.

Le strutture architettoniche dei fari si sono adeguate alle esigenze dei tempi diventando sempre più alte ed articolate, permettendo la vita in pianta stabile dei faristi e delle loro famiglie.

Solo le lenti di Fresnell sono rimaste immutate nel tempo, dall’Ottocento a oggi mantenendo al faro un tocco di antica signorilità e romanticismo.

Nel percorso didattico museale del Tino vedrete questa evoluzione e questa metamorfosi di luci e di tecnologia sia della componente tecnica che infrastrutturale.

Nelle varie sale del bastione Napoleonico potrete ammirare pezzi concessi dal Museo Tecnico Navale di La Spezia, dall’Ufficio Tecnico dei Fari, dal Comando Zona Fari di Spezia e da privati. Pezzi storici, componenti di un lontano e recente passato, che potevano funzionare (“DEVE FUNZIONARE” è il motto dei faristi) solo grazie alla preparazione del personale Farista (personale civile della Difesa), ma anche grazie all’abnegazione e allo spirito di sacrificio di una categoria di persone veramente eccezionali… le loro famiglie.

 

Il pittoresco Faro dell’Isola del Tino [foto di Elisabetta Cesari

 

ASSOCIAZIONE AMICI DEL TINO 

Riportiamo:

Il Tino, piccola isola dell'arcipelago di Portovenere nel golfo della Spezia, è un triangolo roccioso che raggiunge i 97 metri s.l.m. Isola di natura pressoché incontaminata, di storia e leggende, sito archeologico e zona sacra, perla di luce, con il suo faro, luogo di sperimentazione tecnica, il Tino è isola della Marina Militare e, dal 1997, Patrimonio dell'Umanità. Far conoscere e creare reti di cultura attorno a questo immenso patrimonio è l'obiettivo dell'Associazione Amici dell’isola del Tino odv. Tutti possono entrare a far parte di questa storia millenaria e contribuire a scriverne una nuova pagina.

Attracco di Fenici e Greci, l’isola del Tino fu abitata dai Romani, come testimoniano i ritrovamenti di cisterne, monete e navi onerarie al largo delle sue coste. 

Il Tino entra nel mito sul finire del VI secolo d.C., divenendo l'isola del Santo marinaio Venerio, che qui visse da eremita accendendo fuochi notturni per guidare i naviganti. 

In seguito, per quasi un millennio, fu abitata e coltivata dai monaci, divenendo meta di pellegrinaggi europei e preda di pirati ed eserciti. Infine, divenne bastione di difesa, cava di marmo Portoro e luogo militarizzato.

Da ben prima del 1839 risplende la luce del faro di San Venerio. Costruito dalla Regia Marina,  oggi gestito dal Comando MARIFARI La Spezia. 
Gli antichi fuochi notturni del Santo marinaio trovano così un'ideale continuazione per la cura della gente di mare, grazie ai tre lampi e all'eclissi, che il faro, generosa sentinella, ogni notte fa brillare nell'Alto Tirreno, portando la luce fino a 25 miglia marine. Presidiata da guardiani, palestra addestrativa del Comando Subacquei e Incursori Teseo Tesei, il Tino è l'isola più segreta della Liguria che  ora apre i suoi tesori al mondo.

IL FUTURO

Un ambiente naturale e antropico unico, sopra e sotto il mare, sentieri e terrazzamenti, fondali straordinari, fossili, rarità botaniche e faunistiche, archeologia e spiritualità, reperti risalenti dal II sec a. C., caverne, gallerie e installazioni militari, il faro e le sue sale storiche: il Tino è l'isola dei tesori da condividere, salvaguardare e custodire. 

 

l Tino è un’isola ricca di storia e di vegetazione. Arrivando dal mare la si nota per il verde della macchia mediterranea che la ricopre e per la sua forma singolare. I bagliori di luce che emana dopo il tramonto sono un altro suo tratto inconfondibile. 

Al Tino visse a lungo il monaco Venerio, originario della Palmaria, che qui si ritirò in eremitaggio fino alla morte. Primo farista della storia, a sua volta patrono dei faristi, è protettore di tutto il golfo dal 1960. La sua memoria è palpabile sull’isola come in tutta la zona. Esponente del monachesimo insulare fu legato ai monaci di San Colombano che in suo onore edificarono una cappella nei pressi del luogo della sua sepoltura. 

Sono numerosi i resti  archeologici presenti sull’isola e per questa ragione da pochi giorni la Sovrintendenza ha ricominciato a scavare per fare chiarezza sulla sua  storia più antica.

 

Cessate le incursioni saracene, sotto il controllo delle potenze di Genova e Pisa, la ritrovata pace nel golfo riportò i Benedettini prima e gli Olivetani poi a prendersi cura del Tino.

Più recentemente la vocazione militare ha prevalso su quella religiosa. Il faro fu edificato per volere di Re Carlo Alberto nel 1840. Le strutture militari vennero invece costruite a partire dai primi del ‘900.

Visitare l’isola del Tino con l’Associazione “Amici dell’Isola del Tino”

Le persone hanno chiesto anche: Come posso visitare l'isola del Tino?

AI Overview

L'Isola del Tino si può visitare solo due volte l'anno in occasione della Festa di San Venerio, il 13 settembre e la domenica successiva, data in cui l'isola viene aperta al pubblico per una speciale celebrazione legata al santo patrono del golfo. L'accesso è interdetto in altre occasioni perché l'isola è una zona militare di proprietà della Marina Militare.

Da qualche tempo però visitare l’isola del Tino con più frequenza  è diventata la missione di un’Associazione che si occupa di valorizzare, proteggere e tutelare al massimo questo angolo di paradiso ligure.

Si chiama “Amici dell’Isola del Tino”

l’organizzazione di volontariato che dall’autunno 2020 si occupa di promuovere, tutelare e preservare l’insieme dei valori storici, culturali ed ambientali che caratterizzano questo lembo di terra che emerge dai flutti.

 

Per questa sua attuale natura l’isola del Tino è di esclusivo  appannaggio della Marina Militare che presenzia il faro e tutto il suo perimetro ogni giorno dell’anno. L’accesso a cittadini e turisti è consentito solo il 13 settembre quando si celebra San Venerio.

Il faro del Tino

13 settembre 2019

L'Isola del Tino è un sito assegnato alla Marina Militare, proclamato patrimonio dell'UNESCO con la convenzione WHC97/CONF.208/17 in data 27.02.1998 e che fa parte del Parco Naturale Marino di Portovenere. Sull'isola si può visitare l'edificio del faro, con la sua lanterna, esempio di costruzione fortificata neoclassica su basamento medioevale, successivamente ampliato in epoca napoleonica. La struttura del faro, è oggi l’edificio principale dell'isola, risalente al periodo delle Repubbliche Marinare, ospita, oltre al segnalamento marittimo, una Sala Storica del Servizio Fari (che illustra l'evoluzione e una Sala Archeologica tecnologica dei fari) contenete i reperti degli scavi effettuati negli anni 50 e 80. Entrambe le sale sono state aperte di recente. Il faro posto su una torre cilindrica bianca su torrione è ad ottica rotante ed ha le seguenti caratteristiche:

Numero nell'Elenco Fari: 1708

Portata nominale: 25 Mn;

Altezza della torre: 24 m;

Altezza luce sul livello medio del mare: 117 m;

Caratteristica: 3 lampi -periodo 15 sec;

Colore della luce: bianco;

Anno di costruzione: 1840.

Dalle sue finestre poste ai piani intermedi si gode di una vista meravigliosa su l’isola della Palmaria, Punta Mesco, e il golfo di La Spezia, mentre salendo ancora per la scala a chiocciola in marmo si arriva alla stanza cilindrica dell’ottica rotante dove una vista a 360 gradi tra cielo e mare toglie il fiato. Il mare liscio e verde come le prime foglie dei fichi, aprie le porte dell’immaginazione. Da questo punto d’osservazione e facile fantasticare, velieri fantasma, vascelli pirata, mostri marini e magari all’orizzonte scorgere la nave di Papà Lucerna e chiedersi se veramente l’origine di quest’isola e la sua figlia sono da attribuire alla sua abilità e non del succedersi di eventi geologici.

 

UNO STUPENDO YouTube

Per vedere il filmato apri il seguente LINK  

https://discoverportovenere.com/it/isola-del-tino-san-venerio/

 fai scorre la pagina del sito: “Video Visita Isola Del Tino” verso l’alto fino ad incontrare l’immagine sotto, cliccala su “riproduci” in basso a sinistra

 

 

Chiudiamo con l’informazione più importante

L'Isola del Tino può essere visitata solo in due occasioni all'anno, in concomitanza con la Festa di San Venerio, il 13 settembre e la domenica successiva. L'isola è una zona militare e l'accesso è interdetto al pubblico, quindi è fondamentale verificare le date precise di apertura e organizzare la visita con largo anticipo, prenotando i posti disponibili sui traghetti speciali.

TINO - SAN VENERIO

 L’accesso all’Isola del Tino sarà possibile esclusivamente attraverso un servizio di battelli con partenza dalla Spezia e da Porto Venere alle 9 e imbarco dal Tino alle 13.30 e con partenza dalla Spezia e Porto Venere alle  13 e imbarco al ritorno alle 17.30. Le prenotazioni sono effettuabili solo ed esclusivamente dal portale messo a disposizione dal Cai della Spezia. I visitatori saranno accolti dal personale della Marina Militare, dai volontari del Club Alpino Italiano e dall’Associazione Amici dell’isola del Tino Odv che forniranno il necessario coordinamento per agevolarne la permanenza sull’isola. Di conseguenza non saranno consentiti approdi e accessi a imbarcazioni private e visitatori occasionali.

 L’Isola del Tino è di proprietà della Marina Militare ed è solitamente chiusa al pubblico. Ma ogni anno, in occasione della Festa di San Venerio del 13 settembre, è possibile visitare quest’isola che è patrimonio UNESCO insieme a Portovenere, le Cinque Terre e le isole Palmaria e Tinetto.

Festa di San Venerio 2025: come e quando visitare l’isola del Tino

Il 13, 14 e 15 settembre 2025 sarà possibile visitare l’Isola del Tino partendo da Portovenere e da La Spezia. Questo evento offre un’opportunità rara di esplorare questo angolo di natura incontaminata, scoprire i suoi panorami mozzafiato e godersi la bellezza del luogo!

Sono state organizzate corse giornaliere con prenotazione obbligatoria e per un numero limitato di partecipanti. 

Corse speciali per il Tino dalla Spezia

Orari – venerdì 12 settembre
1° turno, sabato mattina: partenze ore 09:00 con rientro obbligatorio alle ore 13:30 dall’Isola del Tino.

2° turno, sabato pomeriggio: partenza ore 13:00 con rientro obbligatorio alle ore 17:30 dall’Isola del Tino.

Orari – sabato 13 settembre
Turno unico, sabato pomeriggio: partenza ore 13:00 con rientro obbligatorio alle ore 17:30 dall’Isola del Tino.

Orari – domenica 14 settembre
1° turno, domenica mattina: partenza ore 09:00 con rientro obbligatorio alle ore 13:30 dall’Isola del Tino.

2° turno, domenica pomeriggio: partenza ore 13:00 con rientro obbligatorio alle ore 17:30 dall’Isola del Tino.

Corse speciali per il Tino da Portovenere

Orari – sabato 13 settembre
Turno unico, sabato pomeriggio: partenza ore 13:30 con rientro obbligatorio alle ore 17:45 dall’Isola del Tino.

Orari – domenica 14 settembre
1° turno, domenica mattina: partenza ore 09:30 con rientro obbligatorio alle ore 13:45 dall’Isola del Tino.

2° turno, domenica pomeriggio: partenza ore 13:30 con rientro obbligatorio alle ore 17:45 dall’Isola del Tino.

Per più informazioni e per acquistare i biglietti, visita www.navigazionegolfodeipoeti.it.

 

Ringraziamenti:

- Andrea Bonati  storico

- Mariella Lentini scrittrice

- Elisabetta Cesari fotografa

- Serena Borghesi giornalista

- ASSOCIAZIONE AMICI DEL TINO

Bibliografia

 

  • Ossian De Negri,Storia di Genova, Firenze, Giunti Martello, 1986

  • Braudel,Mediterraneo. Lo spazio e la storia, gli uomini e la tradizione, Milano, Bompiani, 1986.

  • Caselli,La Spezia e il suo Golfo – Notizie storiche e scientifiche, ristampa anastatica, La Spezia, Luna Editore, 1998

  • Faggioni,Fortificazioni in provincia della Spezia – 2000 anni di architettura militare, Milano, Ritter Ed., 2008

 

 

 Carlo GATTI

Rapallo, martedì 21 ottobre 2025

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


TROFEO DELLE ALPI (LA TURBIE)

 

TROFEO DI AUGUSTO

 Detto anche

IL TROFEO DELLE ALPI

Detto anche

TROFEO DI LA TURBIE

 

Il Trofeo di Augusto è un monumento romano elevato a emblema dei trionfi e quindi dei trofei di Augusto, posto su un'altura a 480 m s.l.m nel comune di La Turbie, nel dipartimento delle Alpi Marittime, molto vicino al Principato di Monaco.

Il monumento fu costruito per celebrare la

“pax romana” 

ottenuta nella regione e per glorificare la vittoria del futuro Imperatore Augusto sulle tribù Liguri ribelli, come vedremo in seguito.

 

 

Trofeo delle Alpi di La Turbie

INTRODUZIONE

Eravamo con la famiglia di ritorno dall’abituale  viaggio in Scandinavia che ogni anno arricchivamo con deviazioni insolite, alla scoperta di città e strade mai percorse prima. I miei figli, allora studenti di storia dell’arte alle superiori, mi avevano spesso incuriosito con le pagine dei loro manuali scolastici, ed è proprio lì che lessi per la prima volta del Trofeo delle Alpi di La Turbie, l’imponente monumento romano che domina, a 500 metri d’altezza, un panorama capace di togliere il fiato.

Fu naturale lanciare la proposta ai miei “passeggeri”: forse non tutti interessati al tema, ma certamente entusiasti di allungare di un giorno il viaggio verso casa, rinviando così il pensiero dell’imminente anno scolastico.

LA TURBIE

 

Dall’alto verso il basso: La Provençale, La Turbie e la “Tête de Chien” (testa di cane)- Freccia rossa dall’alto verso il basso.

 

Giunti a La Turbie, la sorpresa fu grande. Il monumento si erge in una posizione incantevole: la sua mole parla ancora oggi di potenza e di eternità. Purtroppo lo si può gustare nella sua totale bellezza soltanto grazie alla ricostruzione in scala custodita nel vicino museo, dove l’immaginazione può ricomporre le parti mancanti e restituire la grandiosità originaria.

 Il Trofeo delle Alpi, innalzato da Augusto per celebrare la vittoria sui popoli alpini, non è solo un segno di conquista: è un manifesto di volontà, quasi un atto di fede nella permanenza della grandezza di Roma.

Gli Antichi non smettono mai di sorprenderci: nei materiali impiegati e nell’architettura riconosciamo la maniacale precisione con cui pensarono opere destinate a sfidare i millenni. È come se volessero parlare ai posteri, scolpendo nella pietra un messaggio di potenza, ordine e civiltà.

Non è forse casuale che questi monumenti venissero spesso circondati da cipressi, alberi che da sempre evocano il silenzio e la solennità della memoria. Ed è curioso notare come noi moderni, quasi istintivamente, abbiamo conservato e tramandato questa tradizione.

Ma c’è un’altra suggestione che nasce spontanea: da quella terrazza naturale, lo sguardo non si ferma ai monti, ma scivola verso il blu del Mediterraneo. Lì sotto, da secoli, le navi hanno tracciato le loro rotte, portando merci, soldati, idee, lingue e culture. È come se il Trofeo stesso, pur piantato saldamente sulla roccia alpina, trovasse compimento nel mare che si apre davanti a lui.

Roma celebrava le sue vittorie sulle montagne, ma guardava sempre al Mediterraneo come al vero cuore del suo impero: Mare Nostrum, via di dominio e di scambi, spazio di guerre e di civiltà. Così il Trofeo di La Turbie non è soltanto un monumento alla vittoria sulle Alpi, ma anche un faro simbolico che unisce le vette alla distesa marina, ricordandoci come la storia di Roma – e forse la nostra stessa identità – sia intrecciata indissolubilmente con il mare.

 

COME DOVEVA APPARIRE ORIGINARIAMENTE

 

 

La replica in scala del monumento si trova all’interno del Museo

 

 

Si entra a piedi nel piccolo villaggio medievale di La Turbie, costruito in cima al promontorio sopra la “testa del cane”. Attraverso la Porta Ovest si percorre la via romana Iulia Augusta (il proseguimento dell’antica via Aurelia che da Roma arrivava in Liguria). La strada è lastricata e affiancata da case di pietra.

Poi d'improvviso, sulla sinistra, seminascosto sul retro da altissimi cipressi che fanno da corona, in omaggio all'antica abitudine romana di porre cipressi attorno ai mausolei o ai trofei, compare il Trofeo delle Alpi o Trofeo di Augusto

 L’imperatore romano, dopo aver sconfitto la quarantacinquesima tribù celto-ligure ribelle dell’arco alpino, decise di far costruire il Trofeo, alto 49 metri, compresa la gigantesca statua di Augusto.

Come sempre, Roma aveva colto il suo trionfo!

Per molti secoli nell’antichità ha suscitato, sui viaggiatori che percorrevano la strada consolare, ammirazione e rispetto per la potenza di Roma, incarnata da un Imperatore che fu un mito nei secoli dei secoli.

Questo trofeo nel tempo segue, nelle Gallie: il trofeo di Pompeo, in Summum Pyrenaeum: quello di Briot (ora al museo di Antibes), i Trofei di Mario e altri.

 

LA TURBIE NEL SUD DELLA FRANCIA

480 mt. s.l.m. - 3.053 abitanti

 

 La Turbie è un luogo sconosciuto in Italia, soprattutto da quando esiste l’autostrada che passa per l’interno e porta in mezz’ora da Ventimiglia a Nizza. Dall’alto di questo promontorio a picco sul Mediterraneo, si gode il panorama più bello della Costa Azzurra. Si chiama Tête de Chien” (testa di cane).

ROMANO IMPERO

 Quello che rimane per i nostri occhi....

 

Elementi di Architettura

L'ISCRIZIONE ORIGINALE IN LATINO

 “All'imperatore Augusto, figlio del divino Cesare, pontefice massimo, nell'anno 14° del suo impero.

17° della sua potestà tribunizia, il senato e il popolo romano poiché sotto la sua guida e i suoi auspici tutte le genti alpine,
che si trovavano tra il mare superiore e quello inferiore sono state assoggettate all'impero del popolo romano”.

La gigantesca iscrizione posta sulla facciata occidentale, di cui rimanevano solo alcuni frammenti, è stata ricostruita completamente durante il restauro del monumento curato da Jules Formigé, avendone letto la citazione di Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia. Essa è la più lunga iscrizione latina scolpita conosciuta nella storia antica.

 

Genti alpine sconfitte

IMP . CAESARI . DIVI . FILIO . AVG . 
PONT . MAX . IMP . XIIII . TRIB . POT . XVII 
S . P . Q . R 
QUOD . EIUS . DVCTV . AVSPICIISQVE . GENTES . ALPINAE . 
OMNES . QVAE . A . MARI . SVPERO . AD . INFERVM . PERTINEBANT . 
SVB . IMPERIVM . P . R . SVNT . REDACTAE 
GENTES . ALPINAE . DEVICTAE . TRIVMPILINI . CAMVNI . 
VENNONETES . VENOSTES . ISARCI . BREVNI . GENAVNES . 
FOCVNATES . VINDELICORVM . GENTES . QVATTVOR . COSVANETES . 
RVCINATES . LICATES . CATENATES . AMBISONTES . RVGVSCI 
SVANETES . CLAVCONES 
BRIXENTES . LEPONTI . VBERI . NANTVATES . SEDVNI . VARAGRI . 
SALASSI . ACITAVONES . MEDVLLI . VCENNI . CATVRIGES . BRIGIANI 
SOGIONTI . BRODIONTI . NEMALONI . EDENATES . VESVBIANI 
VEAMINI . GALLITAE . TRIVLLATI . ECTINI 
VERGVNNI . EGVITVRI . NEMETVRI . ORATELLI . NERVSI . VELAVNI . 
SVETRI  

Traduzione

I Trumpilini -   I Camunni - I Venosti -  I Vennoneti -   Gli Isarci -  I Breuni -  I Genauni -  I Focunati - Le quattro nazioni dei Vindelici: Cosuaneti  Rucinati  Licati  Catenati -  Gli Ambisonti -  I Rugusci
- I Suaneti -  I Caluconi -  I Brixeneti -  ILeponzi -  Gli Uberi -  I Nantuati -  I Seduni - I Veragri -  I Salassi -  Gli Acitavoni -  I Medulli -  Gli Ucenni -  I Caturigi -  I Brigiani -  I Sogionti - I Brodionti -  I Nemaloni -  Gli Edenati -  I Vesubiani -  I Veamini -  I Galliti -  I Triullati -  Gli Ecdini -  I Vergunni -  Gli Eguituri -  I Nematuri -  Gli Oratelli -  I Nerusi - I Velauni -  I Svetri »

Il testo riporta i 45 nomi delle tribù sconfitte in ordine cronologico ed è affiancato da due bassorilievi della Vittoria alata. C'è poi l'immagine del "trofeo", una raffigurazione delle armi conquistate ai nemici e appese ad un tronco d'albero. Ai due lati del trofeo sono raffigurati coppie di prigionieri galli in catene.

 

L'iscrizione riportata sul monumentale trofeo di Augusto, TROPAEUM ALPIUM

Il Trofeo delle Alpi, eretto per volontà del Senato nel 7-6 a.c. in onore delle vittorie riportate da Augusto sulle popolazioni alpine. Sulla base del monumento c'era una lunga iscrizione celebrativa con lettere in bronzo, oggi ricostruita, che riportava l'elenco dei 44 popoli alpini e galli sottomessi dall'Imperatore.

 

 

 

Plinio il Vecchio (23-79 d.c.) scrisse invece dei Camunni come di una delle tribù euganee assoggettate dai Romani:

« Voltandoci verso l'Italia, i popoli euganei delle Alpi sotto la giurisdizione romana, dei quali Catone elenca trentaquattro insediamenti. Fra questi i Triumplini, resi schiavi e messi in vendita assieme ai loro campi e, di seguito, i Camuni molti dei quali assegnati ad una città vicina. »

Citati nel Trofeo di Augusto.

 

CONCLUSIONE

 Ripensando oggi a quella deviazione improvvisata lungo la Provençale, sento una profonda soddisfazione: i miei quattro figli, divenuti adulti, hanno voluto portare a loro volta i propri figli a visitare il Trofeo di La Turbie. È una gioia che mi commuove: quel monumento, così vicino a noi eppure così poco conosciuto, ha trovato nuova vita negli occhi delle generazioni più giovani.

Forse questo è il senso più autentico di opere come il Trofeo: non solo pietra e architettura, ma messaggi di continuità, capaci di superare i secoli e di unirci in una catena senza fine. Guardandolo dall’alto, sospeso tra le Alpi e il Mediterraneo, mi sembra quasi di sentire che questo dialogo tra monti e mare non è mai interrotto. Le navi che solcano il blu sottostante, le strade che serpeggiano verso l’entroterra e i monumenti che vegliano dall’alto sono tutti parte di una stessa storia: la nostra.

E così, come il mare porta in sé la memoria di mille viaggi, anche un giorno di vacanza con la famiglia si è trasformato in eredità. Un’eredità che oggi continua, più viva che mai, nel cuore e negli occhi dei miei nipoti.

 

 

Carlo GATTI

Rapallo, lunedì 29 Settembre 2025

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


TRE RACCONTI DAL MARE ....

TRE RACCONTI DAL MARE....

Dal gatto di Boccadasse al rimorchiatore Pietro Micca, fino al garum romano: tre piccole storie che il mare continua a custodire.

Introduzione:

Non sempre il mare racconta di battaglie, di navi leggendarie, di relitti o di eroiche imprese marinare.

Talvolta, il mare diventa cornice silenziosa di storie più semplici, quasi secondarie, ma non per questo meno affascinanti.

Sono “chicche di mare”, episodi che nascono in riva, tra i moli e le spiagge, dove l’onda arriva stanca ma carica di memoria, quasi desiderosa di consegnarci capitoli di pace e di bellezza.

In queste tre piccole storie non troviamo l’eco delle guerre o il fragore delle tempeste, ma piuttosto il sorriso ironico di un gatto che ha fatto di Boccadasse la sua scena quotidiana, il respiro antico di un rimorchiatore a vapore che ancora porta con sé l’orgoglio del lavoro marittimo, e infine il sapore remoto di un condimento romano che ha viaggiato per mari e imperi.

Tre racconti diversi, uniti da un filo comune: il mare, che sa essere non solo teatro di grandi imprese, ma anche custode di emozioni discrete, di memorie tecniche, di affetti verso gli animali e di tradizioni gastronomiche che arrivano da lontano.

(1)

IL GATTO SEPPIA

Boccadasse

Nel porticciolo di Boccadasse (Bocadâze)  è diventato ormai una vera e propria attrazione turistica.

Chi si ferma per una carezza, chi per una foto o un selfie, chi per dargli qualcosa da mangiare (anche se su richiesta dei padroni meglio evitare), tutti comunque cercano Seppia

il gatto assurto, per la sua ingrugnita e infastidita espressione, a ironico simbolo dell’accoglienza ligure.

Curiosa anche la sua singolare somiglianza con Machiavelli il gatto scontroso e sospettoso del celebre film del regista genovese Enrico Casanova del 2021 della Pixar -Luca- ambientato nel levante della nostra regione.

Così a Boccadasse alla romantica gatta con “una macchia nera sul muso” di Gino Paoli si è aggiunto il burbero gatto disneyano.

In Copertina: Foto di Stefano Eloggi

 

Il gatto Seppia, adottato da Boccadasse, è ormai un'icona. Ingrugnito e solitario, come un vero genovese. I gatti, nella storia della marineria ligure, hanno sempre avuto un ruolo speciale.

Seppia è diventato famoso per il suo aspetto caratteristico, un bianco e nero con un'espressione un po' corrucciata, e per la sua presenza costante nel pittoresco borgo di Boccadasse. 

Seppia è diventato un'attrazione turistica e un simbolo ironico dell'accoglienza ligure, tanto da essere anche menzionato nel film d'animazione "Luca" della Pixar, ambientato proprio nel levante genovese. 

Benvenuti a Zena, són mi Seppia, il gatto di Bocadâze! Belin pure a Pixar mi métte nella sua pelìcola!

Aregordâ che mi mangio solo péscio frésco, mica i tuoi pacûghi, bezûgo!

Mi non râgnâ, mogógno!

Ecco alcune curiosità su Seppia:

Aspetto e personalità:

Il suo sguardo è spesso descritto come quello tipico dell'accoglienza ligure, un po' burbera, ma in realtà è molto amato dai genovesi e dai turisti.

Celebrità social:

Seppia ha una sua pagina Instagram e una su Facebook, dove viene descritto come un gatto che "non miagola, ma mugugna" e che mangia solo pesce fresco. 

Rischio per la salute:

A causa della sua popolarità, alcuni turisti gli offrono cibo non adatto, mettendo a rischio la sua salute, in particolare la cistite cronica.

Riconoscimenti:

È stato anche raffigurato in una linea di gioielli artigianali. 

Simbolo di Boccadasse:

Seppia è ormai considerato un'icona del borgo marinaro di Boccadasse, e i visitatori lo cercano per fare una foto o una carezza. 

Alcuni si chiederanno: ma cosa c’entra Seppia con il nostro sito?

Ve lo spiega Mauro Salucci

Nel Consolato del Mare del 1719 si legge, all'articolo 65 che il padrone della barca ha il dovere di procurarsi dei gatti per impedire ai topi di rovinare il carico.

A bordo era previsto un addetto chiamato "penese" che si occupava di questi animali e aveva il compito, prima di attraccare in porto, di radunarli e metterli al sicuro, perché, richiamati dagli amori, non andassero in terraferma alla ricerca di avventure...

Anche nell'Archivio di Stato di Genova la presenza dei gatti era obbligatoria per preservare la documentazione dai roditori.

Questa attenzione per i felini è testimoniata a Genova da molti cognomi ricorrenti, come Gatti, Gatto, Pellegatto, Pellegatti e sullo stemma della famiglia nobiliare De Pelegatis è presente un felino.

E noi aggiungiamo:

I gatti erano una presenza comune e molto utile a bordo delle navi nel passato, non solo per ragioni scaramantiche, ma soprattutto per il loro ruolo nel controllo dei roditori che potevano danneggiare merci e attrezzature.

Venivano spesso imbarcati regolarmente e avevano persino documenti ufficiali, diventando a tutti gli effetti dei "gatti di bordo". 

Cos'è il "buco del gatto" sulla nave?

Il “BUCO DEL GATTO” è il nome dato all'apertura nella coffa, la piattaforma situata sulla parte alta di ogni albero, usata dai marinai addetti alle vele e dalle vedette.

UN PO' DI STORIA 

I gatti di bordo accompagnano per mre i marinai fin dall'antichità

Quella di tenere i gatti sulle navi è stata per lungo tempo una tradizione dei marinai, per via della loro efficienza nel tenere a bada le infestazioni, e grazie alla credenza che portassero buona fortuna alle navi.

Si pensa che i gatti si siano diffusi nel mondo grazie agli esploratori degli Antichi Egizi, dei Vichinghi e dell'Età delle Esplorazioni. Offrivano una buona compagnia e facevano sentire i marinai a casa.

Fin dai tempi antichi, innumerevoli navi di diverso tipo hanno ospitato uno o più gatti. I felini si occupavano dei topi, che potevano danneggiare le funi e il legno e minacciavano le riserve di cibo e le merci.

I gatti, che hanno una buona capacità di adattamento, sono perfetti per servire su una nave. Inoltre, i gatti di bordo facevano sentire i naviganti a casa. Erano particolarmente importanti in periodo di guerra, quando le provviste erano limitate, e gli uomini erano costretti a stare lontani da casa per lunghi periodi. La compagnia dei felini era la benvenuta e scaldava gli animi.

Alcune navi avevano più di un gatto, oppure ospitavano eventuali cuccioli nati in mare. I gatti potevano anche “salire di grado” e diventare mascotte di una particolare parte della nave, come la sala motore o il ponte, per diventare addirittura la mascotte ufficiale di tutta l’imbarcazione.

Lo scoppio della Seconda guerra mondiale, con la diffusione delle comunicazioni di massa, portò anche alcuni gatti di bordo a diventare celebrità a pieno titolo.

Ancora oggi si ricordano alcuni di loro, tra cui l’inaffondabile Sam, che servì su tre navi da guerra, una tedesca e due britanniche. Un altro è Blackie, gatto di bordo sulla HMS Prince of Wales della Royal Navy britannica.

Nella foto sotto, invece, potete vedere Tiddles, che servì su diverse portaerei britanniche.

 

FOTO FAMOSE....

Il capitano A. J. Hailey col suo gatto sulla Empress of Canada, anni venti // UBC Library Digitization Centre / Wikimedia

 

Gatto di bordo sulla Encounter durante la prima guerra mondiale

Churchill saluta il gatto Blackie prima di risalire sulla Prince of Wales

 

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LO STORICO RIMORCHIATORE

PIETRO MICCA

Immagina un piroscafo di fine Ottocento che respira vapore, sbuffa come un antico drago marino e continua a navigare, sfidando gli anni e la sorte. Costruito in Inghilterra nel 1895 nei cantieri Rennoldson & Son di South Shields, nacque con il nome Dilwara, lungo poco più di trenta metri, con motore a triplice espansione e una struttura in acciaio robusta. Era progettato per l’epoca con tecnologie avanzate, tra le più moderne nel campo dei rimorchiatori portuali.

Fu battezzato, col tempo, come rimorchiatore d’alto mare a vapore: una creatura ibrida, dotata di vele (armata a goletta) per sfruttare il vento e ridurre il consumo di carbone o olio pesante. L’armo a due alberi aggiungeva stabilità e autonomia: se il vento era favorevole, la nave avanzava senza consumare vapore, una concezione intelligente nel tramonto della navigazione a vela.

Nel 1905, dopo aver prestato servizio nei porti britannici, il Dilwara fu venduto all’Italia e ribattezzato Pietro Micca, diventando parte del registro del compartimento marittimo di Napoli.

La sua carriera italiana fu intensa: trascorse decenni al servizio delle società armatrici Merlino-Fagliotti, impegnato nel rimorchio di pontoni carichi di massi per la costruzione di moli, frangiflutti e porti lungo la costa.

La sua Sala macchine respirava vapore e sudore mentre spostava carichi colossali con una lentezza voluta, affidabile e inesorabile.

Durante le due guerre mondiali, il Pietro Micca fu reclutato come nave ausiliaria militare e dragamine. La sua potenza - una macchina da 500 cavalli vapore con compressore a 90 giri/minuto - lo rese prezioso per compiti di supporto logistico, trainando pontoni pesanti sotto le bombe o rifornendo flotte navali. Rimase operativo anche come supporto della flotta americana di stanza a Napoli fino ai primi anni Novanta del Novecento.

Nel 1996, quando il porto di Napoli fu abbandonato dalle forze americane e molte navi storiche rischiarono la demolizione, il Pietro Micca era in pericolo. Ma fu allora che intervenne la volontà dei pochi che ancora credevano nella sua storia.

Pier Paolo Giua, direttore del cantiere nautico Tecnomar di Fiumicino, scrisse una pagina determinante: fondò l’Associazione Amici delle Navi a Vapore G.L. Spinelli, raccolse fondi, convinse la famiglia Spinelli di Monte di Procida e avviò il salvataggio.

La nave fu trasferita a Fiumicino, ormeggiata nei cantieri Tecnomar, e sottoposta a un restauro lungo e paziente. Ogni lamiera, ogni vite, ogni condotta di vapore fu revisionata. Il ponte, la sala macchine, la ciminiera a strisce rosse e nere: tutto tornò a respirare storia. Il risultato fu un miracolo: il Pietro Micca, a oltre 100 anni dalla sua nascita, rimaneva la più antica nave commerciale a vapore ancora navigante d’Italia.

In quel momento, non era più solo un rimorchiatore: era un monumento vivente.

Oggi, il Pietro Micca è ancora pronto a prendere il mare. Partecipa a eventi culturali, attività didattiche, campagne ambientali e crociere storiche. Spesso diventa parte di progetti come la “Goletta Verde” di Legambiente, simbolo di un ritorno all’esperienza autentica del mare.

Il suo ponte racconta storie di lavoro portuale, di guerra, di partenze mattutine ad arco basso sul mare. È un narratore silenzioso di rivoluzioni tecnologiche e mutamenti sociali.

Sul ponte si respira tensione e precisione: una cima spezzata può valere una vita, un rimorchio mal fatto può provocare il capovolgimento.

Eppure, tra quelle lamiere e cuciture di acciaio, si percepisce il rispetto per una meccanica semplice ma robusta, fatta per durare. La sala macchine, con caldaia originale, condotte di vapore e rubinetterie antiche, conserva l’incanto di una tecnologia ottocentesca che ancora pulsa.

Il valore del Pietro Micca non è solo tecnico o estetico: è il ricordo tangibile di un’Italia marittima che sapeva costruire, innovare e navigare.

È il simbolo della cultura del lavoro portuale, della fatica manuale, ma anche della visione imprenditoriale e della volontà tenace di preservare la memoria.

TAG:

#PietroMicca

#NaviStoriche

La straordinaria storia del "Pietro Micca" 1895

Di Emilio Parenti

https://www.barchedepocaeclassiche.it/marineria/navi/550-la-straordinaria-storia-del-pietro-micca-1895.html

 

ALBUM FOTOGRAFICO

 

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RICETTA DEL GARUM

SVELATA.....

 

Per gli antichi ROMANI il pesce era una fonte essenziale di proteine. Inoltre era molto utilizzato perché poteva essere facilmente conservato sotto sale oppure grazie alla fermentazione. Uno dei prodotti più richiesti, nato da questi processi di conservazione del pesce, era il garum. Le varietà si differenziavano in base agli ingredienti aggiunti al composto: pepe (garum piperatum), aceto (oxygarum), vino (oenogarum), olio (oleogarum) o acqua (hydrogarum).

Il garum era molto apprezzato perché si conservava a lungo: veniva esportato in tutto l'Impero Romano, viaggiando per lunghe distanze. Per questo motivo, lungo le coste atlantiche della Hispania (l'attuale penisola iberica) e della Tingitana (oggi Marocco) sorsero numerosi impianti "industriali" di salagione del pesce, chiamati cetariae. Il più ricercato veniva dall'Andalusia, ma grandi stabilimenti si trovavano anche sulla costa nordafricana, da Cartagine all'attuale Algeri.

MA QUALI PESCI? I resti di pesce trovati nelle vasche di salagione sono difficili da identificare: spesso sono in condizioni pessime, frammenti piccolissimi e sbriciolati, perché, durante la produzione della salsa, le materie prime venivano schiacciate e lasciate fermentare per settimane.

 

 

Il garum romano era una salsa liquida di pesce fermentato, ricavata da interiora e pesci piccoli (come alici e sgombri), che veniva usata dagli antichi Romani come condimento onnipresente per insaporire carne, verdure e altri piatti. La preparazione, che coinvolgeva la salatura e un processo di idrolisi enzimatica, conferiva al garum un sapore umami intenso e salato,* diventando un ingrediente fondamentale della gastronomia romana, tanto da essere considerato anche un simbolo di prosperità e avere un valore nutrizionale grazie alle proteine idrolizzate.

*Sapore Umami: Il sapore umami (dal giapponese "saporito" o "delizioso") è il quinto gusto fondamentale percepito dalle nostre papille gustative, accanto a dolce, salato, amaro e acido. È caratterizzato da una sensazione di pienezza e ricchezza negli alimenti, ed è causato principalmente dalla presenza di glutammato, un amminoacido libero. Il glutammato si trova naturalmente in alimenti ricchi di proteine come formaggi stagionati, carni, alghe e pomodori maturi, e viene rilasciato.

 

Sardine: era questo l'ingrediente base del pregiato garum iberico, la salsa che faceva impazzire gli antichi Romani

Un recente studio condotto da archeologi e genetisti ha svelato la ricetta del garum, la celebre salsa di pesce fermentato molto amata nell’antica Roma.

Analizzando il DNA dei resti di pesci trovati in una vasca di salagione del sito romano di Adro Vello in Galizia (Spagna), risalente al III secolo d.C., gli studiosi hanno identificato la sardina europea (Sardina pilchardus) come ingrediente principale del garum iberico.

La fermentazione del pesce, resa possibile dall’uso del sale, produceva una salsa ricca di sale e glutammato, simile ai moderni insaporitori. Esistevano diverse varianti a seconda degli ingredienti aggiunti (es. pepe, aceto, vino, olio, acqua). Il garum era molto richiesto e veniva esportato in tutto l’Impero, soprattutto dalle coste dell’Andalusia e del Nord Africa, dove si trovavano grandi impianti di produzione.

Come abbiamo già detto, la salsa veniva prodotta attraverso un processo di decomposizione del pesce, ciò ha reso molto difficile il riconoscimento delle specie ittiche trovate nelle vasche di salagione, in quanto i processi di fermentazione accelerano il degrado del materiale genetico.

Nonostante tutto, grazie alle moderne tecnologie, gli studiosi sono riusciti ad individuare il tipo di pesce utilizzato quale ingrediente base; e non solo. In altri siti di produzione di garum sono stati trovati anche resti di altre specie, come aringhe, merluzzi, sgombri e acciughe.

Lo studio del Centro Interdisciplinare di Ricerca Marina e Ambientale (CIIMAR) dell'Università di Porto, pubblicato su Antiquity, ha anche evidenziato una maggiore purezza genetica delle sardine antiche rispetto a quelle moderne. Inoltre, l’uso del DNA antico apre nuove possibilità per approfondire le abitudini alimentari e i commerci del mondo romano.

 

Domande e risposte

Dove veniva conservato il garum?

Nelle ANFORE: i container dell'antichità

Quando la parte liquida si era molto ridotta, s'immergeva in un recipiente pieno di liquamen un cestino; il liquido che vi filtrava dentro era garum, e veniva conservato in anfore nelle cantine.

 Come era fatto il garum romano?

 Il secondo prodotto che usciva dalle cetariae erano le salse, la più popolare delle quali era il garum. Per la sua produzione, le vasche venivano riempite di pesci piccoli (ciò che oggi chiamiamo minutaglia), acciughe, sgombri e le parti rimanenti dei pesci di dimensioni maggiori.

Cosa vuol dire garum?

Il garum era un'antica e diffusa salsa romana a base di pesce fermentato e sale, con origini ancora più antiche in Grecia e Fenicia. Era preparato con interiora, sangue e a volte piccoli pesci, che venivano messi a macerare al sole e salati per lunghi periodi. Oggi, il garum è stato riscoperto e reinterpretato, con moderne versioni che utilizzano tecniche di fermentazione più sostenibili per creare una salsa sapida e ricca di umami, impiegata in varie preparazioni culinarie. 

Dove posso acquistare il garum dei Romani?

Il Garum dei Romano è disponibile sul nostro sito ufficiale e presso punti vendita selezionati come gastronomie, epicerie, boutique del gusto, enoteche. Visita il nostro shop online per scoprire le offerte e le promozioni dedicate agli amanti della cucina gourmet.

Che cos'è il garum moderno?

 Il garum moderno viene fatto fermentare a 60° per più di due mesi con l'aiuto del koji; il risultato è una salsa densa che può essere utilizzata in molti modi in cucina, e anche gli avanzi di parmigiano e pancetta possono essere utilizzati in modo ottimale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


LA VIA APPIA - UNA ROTTA DI PIETRA TRA DUE MARI

LA VIA APPIA 

UNA ROTTA DI PIETRA TRA DUE MARI

La Via Appia non fu solo una strada: fu una rotta di pietra tra due mari, dove Roma incontrò altri mondi e scrisse pagine di storia che ancora oggi ci parlano.

 

Introduzione

La mia passione per Roma e per la sua storia nacque quando, ancora ragazzo, mio padre mi fece ascoltare per la prima volta il poema sinfonico di Ottorino Respighi (1924): I Pini della Via Appia.

Quelle note mi trascinarono dentro un sogno: sentivo la terra tremare sotto i passi delle legioni, le buccine chiamare all’avanzata, le trombe aprire la strada al trionfo sul Campidoglio. Era come trovarsi davanti a un film grandioso, che la mia fantasia di studente – allora immerso nello studio della potenza di Roma – trasformò in un ricordo indelebile. Da quel giorno, la musica e la storia divennero per me due vele gemelle gonfiate dallo stesso vento.

Con gli occhi del marinaio, oggi rivedo la Via Appia non solo come una strada di pietre, ma come una grande rotta tracciata sulla terra: una via che, come una corrente marina, univa due mari e apriva Roma verso due continenti. Era la sua autostrada d’acqua e di terra insieme, il corridoio che permise all’Impero di salpare verso l’Oriente. Su quella via si consumò l’incontro e lo scontro di civiltà diverse che, come onde provenienti da opposte direzioni, finirono per mescolarsi, generando nuove correnti di cultura, arte e pensiero.

La Via Appia fu dunque più di una strada: fu una rotta di vele e di triremi che proseguiva nel Mediterraneo, un porto sempre aperto dove le genti si incontravano come navi in rada. E ancora oggi, percorrendola con la memoria, si può sentire lo stesso vento che spingeva le legioni a terra e le flotte sul mare: il vento della storia, che non smette mai di soffiare.

 

Un po’ di storia...

Nel 2024, la 46a sessione del Comitato del Patrimonio Mondiale, svoltasi a New Delhi in India ha iscritto il sito “Via Appia - Regina Viarum” nella Lista del Patrimonio Mondiale UNESCO, per le tecniche ingegneristiche innovative grazie a cui fu costruita che ne fanno un sorprendente esempio di edilizia e architettura capace di illustrare una fase significativa nella storia umana. Inoltre, le prime 12 miglia, costellate da numerosi e celebri monumenti, costituiscono uno dei tratti dell’itinerario più celebrati nell’arte attraverso i secoli.

 

Era chiamata Regina Viarum, la regina delle strade.

Un appellativo quanto mai meritato visto che la via Appia antica era la principale arteria di comunicazione del mondo mediterraneo. Nel 312 a.C. fu il console Appio Claudio a dare il nome alla nuova arteria per costituire un asse viario che collegasse velocemente Roma ai Colli Albani, utile prima di tutto per il movimento delle truppe verso sud durante la Seconda Guerra Sannitica (326-304 a.C.).

Nel tempo, la strada seguì l’espansione del dominio romano e si estese prima a Capua, poi a Maleventum - trasformato, dopo la vittoria nel 268 a.C. su Pirro, in Beneventum, secondo la tradizione - e, successivamente, a Taranto e infine, per volere di Traiano, nel 191 a.C. avrebbe raggiunto Brindisi, il principale porto per la Grecia e l’Oriente.

Quando fu tracciata era un miracolo di innovazione tecnologica, migliore e soprattutto molto più duratura rispetto alle dissestate strade romane di oggi.

 

Il segreto?

Destinata ad essere percorribile in tutte le condizioni meteorologiche e con ogni mezzo, l’Appia aveva una pavimentazione realizzata con grandi pietre levigate e perfettamente combacianti, posate su uno strato di pietrisco capace di garantire tenuta e drenaggio.

 

 

Al di là del chiaro impiego militare, una volta completata, la strada divenne uno strumento di pace e di comunicazione per collegare Roma con le sponde dell’Adriatico, da dove non era poi difficile partire per quello che era ritenuto il faro culturale dell’Impero, ossia quella Grecia, protettorato romano dal 146 a.C. e tredici anni più tardi provincia della Roma imperiale.

Una funzione, quella dell’Appia, che non si esaurì con la fine della mastodontica struttura statale romana, ma ebbe vita lunga nelle epoche successive, assicurando facilità di movimento prima ai Crociati, poi a Federico II di Svevia e pure ai pellegrini che andavano a pregare a Gerusalemme.

Questa efficienza, mantenuta per oltre quindici secoli, era dovuta alla tecnica costruttiva della Regina viarum.

Larga quattordici piedi romani, ossia poco meno di quattro metri e mezzo, la strada prevedeva uno scavo che seguiva l’andamento dei bordi, indispensabili per dare il verso alla direzione. All’interno dello scavo si collocavano tre strati.

Il primo strato, detto statumen, era costituito da pietre grezze e grandi collocate nella sede stradale.

Il secondo strato consisteva nella messa in opera della malta e del pietrisco che assicurava il drenaggio sia dell’acqua meteorica (la pioggia), sia di quella di eventuali alluvioni.

Era detto glareatum oppure rudus e veniva battuto con cura.

Il terzo strato, l’ultimo, era formato da una miscela di malta, sabbia e puzzolana (detto nucleus) nel quale si affogavano i basoli di pietra lavica che costituivano il pavimentum. 

Si capisce, allora, perché l’Appia sia sopravvissuta a ogni prova del tempo atmosferico e di quello della Storia. Oggi, come un fiume carsico, la Regina viarum s’inabissa nella modernità per riemergere inaspettata portando con sé la memoria del passato, ma anche una speranza per il futuro. Infatti, se l’Appia sopravviverà alla sciatteria degli uomini, avremo un mondo migliore.

Questo pare essere il tacito messaggio contenuto nei sorprendenti “scatti” del fotografo Giulio Ileardi, pubblicati nell’elegante catalogo edito da Gangemi, arricchito dai contributi di Luigi Oliva a Simone Quilici, curatori dell’esposizione.

Qui ci accoglie un video che raccoglie i momenti salienti di questo viaggio nel lontano passato e, come ovvio, le fotografie che documentano, per esempio, l’opus reticulatum del Capitolium di Terracina, ma pure i resti di un sepolcro di età romana che convivono con l’insegna di un 'Pizza- Point' a Formia, oppure gli archi dell’anfiteatro di Santa Maria Capua Vetere che hanno per sfondo anonimi edifici di edilizia popolare.

E’ un’esperienza unica perché per arrivarci bisogna camminare su quello stesso 'basolato' che era stato calcato da Orazio e da Augusto, da Mecenate e da Costantino.

I nostri piedi, incredibile a dirsi, vivono quelle medesime esperienze e registrano le stesse sensazioni sebbene siano diverse le calzature. Solo che tutto questo non è teoria, ma sta nella memoria dei nostri piedi.

Allargate questa cartina Che sintetizza, la Via Appia antica con tutte le località: Capua, Benevento, Venosa, che collegavano Roma a Brindisi, attraversando quattro regioni: Lazio, Campania, Basilicata e Puglia. Il tracciato si snoda per circa 630 chilometri.

 

 

LE SUE FUNZIONI variarono col tempo:

Da via militare e commerciale di grande importanza, che collegava Roma con l’Italia meridionale, divenne nel tempo anche la strada dove transitavano i pellegrini per imbarcarsi per Gerusalemme.

Non è la via Francigena del sud che non è mai esistita e non esiste, oggi viene chiamata così per solo lucro turistico.

La vera ed unica Via Francigena parte dalla Cattedrale di Canterbury e termina alla Città del Vaticano.

 

LE PIU’ BELLE IMMAGINI DELLA VIA APPIA

 

La costruzione della Via Appia fu un’impresa monumentale che rifletteva secoli di straordinaria abilità artigianale.

 

 ROMA – BRINDISI

Regina Viarum (Appia Antica)

UN APPROFONDIMENTO DEL TRACCIATO

Per comodità Riportiamo la cartina che evidenzia i nomi delle località più conosciute.

 

Percorso

I tracciati: in bianco la via Appia, in rosso la via Traiana

Il percorso originario dell'Appia Antica, partendo da Porta Capena, vicino alle Terme di Caracalla, collegava l'Urbe a Capua (Santa Maria Capua Vetere) passando per Ariccia, Forum Appii, Anxur (Terracina) nei pressi del fiume Ufente, Fundi, Itri, Formiae, Minturnae  e Sinuessa (Sessa Aurunca). 

Da Capua  proseguiva poi per Vicus Novanensis (Santa Maria a Vico) e, superando la stretta di Arpaia, raggiungeva, attraverso il ponte sul fiume Ischero, Caudium (Montesarchio).

 Da qui, costeggiando il monte Mauro, scendeva verso Apollosa  e il torrente Corvo,  su cui, a causa del corso tortuoso di questo, passava tre volte, utilizzando i ponti in opera pseudo isodoma di Tufara Valle di Apollosa e Corvo, i primi due a tre arcate e l'ultimo a due. Essi furono distrutti durante la Seconda guerra mondiale,  e solo quello di Apollosa è stato ricostruito fedelmente.

È dubbio quale percorso seguisse l'Appia da quest'ultimo ponte fino a Benevento; rimane però accertato che essa vi entrava passando sul Ponte Leproso o Lebbroso, come indicato da tracce di pavimentazioni che conducono verso il terrapieno del tempio della Madonna delle Grazie.

Da cui poi proseguiva nel senso del decumano, cioè quasi nel senso dell'odierno viale San Lorenzo e del successivo corso Garibaldi, per uscire dalla città ad oriente e proseguire alla volta di Aeclanum (presso l'attuale Mirabella Eclano),  come testimoniano fra l'altro sei cippi miliari conservati nel Museo del Sannio. 

Superata Aeclanum (nota anche come Aeculanum), la strada giungeva nella Valle dell’Ufita  ove, presso la località Fioccaglie di Flumeri,  si rinvengono i resti di un insediamento graccano  denominato probabilmente Forum Aemilii.

Da tale centro abitato si dipartiva infatti una diramazione, la via Aemilia  diretta ad Aequum Tuticum  e probabilmente nell’Apulia adriatica.

L'Appia raggiungeva invece il mar Ionio a Tarantum  passando per Venusia (Venosa) e Silvium (Gravina). 

Poi svoltava a est verso Rudiae (Grottaglie) (transitando per una stazione di posta presente nella città di Uria (Oria) e, da qui, terminava a Brundisium (Brindisi), nell'allora Calabria) dopo aver toccato altri centri intermedi.

In epoca imperiale la Via Appia Traiana  avrebbe poi collegato, in maniera più lineare, Benevento con Brindisi passando per Aequum Tuticum  (presso Ariano Irpino Aecae  (Troia) Herdonias (Ordona), Canusium (Canosa)  e Barium (Bari). 

 

Monumenti e luoghi d'interesse storico lungo la Via APPIA, nei dintorni di Roma.

 

Nel tratto incluso nei confini di Roma Capitale  (I-IX miglio)

 

 

I° miglio

La via partiva originariamente da Porta Capena,  in seguito da Porta Appia. 

ARCO DI DRUSO

L’Arco di Druso, che ancora oggi si attraversa percorrendo la via Appia in uscita dalla città, si trova a pochi passi da Porta S. Sebastiano.
Si tratterebbe in origine dell’arco trionfale dedicato, nel 9 a.C., a Druso Maggiore, figliastro di Augusto, e successivamente inserito nel tracciato dell’Acquedotto Antoniniano.

Viandanti sull'Appia Antica. Dipinto del 1858 di Arthur John Strutt. 

 

  • Area archeologica del viadotto di via Cilicia

  • Fiume Almone 

  • Santuario di Marte Gradivo

      .  Tomba di Geta

 

Sepolcro di Priscilla

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il sepolcro di Priscilla è una tomba  monumentale eretta nel I Secolo a Roma sulla Appia antica, situata di fronte alla Chiesa del Domine quo Vadis.

 

Chiesa del Domine quo vadis

La chiesa del "Domine quo vadis", o Santa Maria in Palmis, è un piccolo luogo di culto cattolico che si trova a Roma, al bivio tra l’Appia Antica e la via Ardeatina, nel quartiere Appio-Latino. 

 

L'impronta del Quo Vadis

 

Villa dei mosaici dei tritoni

 

 

Cappella di Reginald Pole

 

Questo piccolo edificio di culto sorge all'inizio del II miglio della via Appia Antica, proprio all'incrocio con via della Caffarella. 

 

Colombario dei liberti di Augusto

Incrocio con via della Caffarella

 

Ipogeo di Vibia

L’ipogeo di Vibia è una catacomba di Roma  di diritto privato, sull'antica via Appia,  nel quartiere Appio-Latino. 

 

Catacombe di San Callisto

«Le catacombe per eccellenza, il primo Cimitero ufficiale della Comunità di Roma, il glorioso sepolcreto dei Papi del III secolo»

([Giovanni Battista de Rossi])

 

Le catacombe di San Callisto fanno parte del cosiddetto complesso callistiano, un'area di circa 30 ettari compresa tra la via Appia Antica, la via Ardeatina e la via delle Sette Chiese, a Roma, che ospita diverse aree funerarie e catacombali.

 

Mausoleo delle Fosse Ardeatine

 

A pochi metri dalle catacombe di S. Callisto si trova il mausoleo delle Fosse Ardeatine, che rendere omaggio alla memoria delle vittime dell'eccidio delle Fosse Ardeatine.

Su questo luogo, lungo la via Ardeatina, sorgevano storicamente alcune cave di materiali vulcanici utilizzati a scopi edili, conosciute come Fosse Ardeatine. Durante l’occupazione tedesca di Roma, il 24 marzo del 1944, un gruppo di soldati tedeschi uccise qui 335 civili, nascondendone i corpi all’interno della cava, per rappresaglia nei confronti di un attentato del giorno prima da parte dei partigiani. A cinque anni dal tragico evento, il 24 marzo 1949, fu inaugurato un solenne mausoleo, in eterna memoria dei martiri romani.

 

Incrocio con via Appia Pignatelli

 

Basilica di San Sebastiano fuori le mura e catacombe di San Sebastiano

La basilica di San Sebastiano fuori le mura è un luogo di culto cattolico di Roma, nel quartiere Ardeatino, sulla via Appia Antica al numero 136. Fa parte delle sette Chiese visitate dai pellegrini in occasione del Giubileo. 

 

Complesso della Villa di Massenzio  (con palazzo, circo e mausoleo) e sepolcro dei Servilii

Casale di Romavecchia

 

Mausoleo di Cecilia Metella e Castrum Caetani

Il mausoleo di Cecilia Metella è un grandioso monumento funerario romano, situato nei pressi della via Appia.  Costituisce con il Castrum Caetani un continuum archeologico, che sorge a Roma, poco prima del III miglio della Via Appia Antica,  subito dopo il complesso costituito dal Circo,  dalla Villa,  e dal sepolcro del figlio dell'imperatore Massenzio, Valerio Romolo. 

      .  Chiesa di San Nicola a Capo di Bove

  •      Forte Appia Antica

 

Mausoleo di Sant’Urbano martire

Il Mausoleo di Sant'Urbano, situato sulla Via Appia Antica, è una monumentale tomba in laterizio databile al IV secolo d.C. Si trova non lontano dal Mausoleo di Cecilia Metella e deve il suo nome alla tradizione cristiana secondo cui la matrona Marmenia avrebbe qui trasportato le spoglie del vescovo e martire Sant'Urbano. 

 

Sepolcro di Hilarus Fuscus

 

 

Tumuli cosiddetti degli Orazi e Curiazi

 

Villa dei Quintili

La Villa dei Quintili è un sito archeologico situato a Roma,  tra il V miglio di via Appia Antica e il settimo chilometro di via Appia Nuova. 

 

Casal Rotondo

Casal Rotondo è un mausoleo romano in rovina sito al VI miglio della via Appia Antica.  

 

Acquedotto dei Quintili

L'acquedotto dei Quintili è uno dei monumenti in consegna al Parco Archeologico dell’Appia Antica. Un lungo tratto si conserva tra la via Appia Antica e la via Appoia Nuova  in prossimità di via del Casale della Sergetta e il Grande Raccordo Anulare.

. Sepolcro del vaso di alabastro (VII miglio

. Tempio di Ercole (VIII miglio)

.  Berretta del prete

.  Mausoleo di Gallieno (IX miglio)

 

Torre Leonardo

Torretta innestata su un antico sepolcro romano a Frattocchie di Marino (m. XI Appia Antica, km. 19 Appia Nuova).

I comuni interessati sono Ciampino e Marino  (nelle sue località Santa Maria delle Mole e Frattocchie). 

  • Sepolcro a tumulo "Monte di Terra"

  • Mausoleo circolare "La Mola" (a Santa Maria delle Mole,  non molto lontano dalla stazione ferroviaria) 

  • Sepolcro con torretta a Frattocchie  (XI miglio)

All'XI miglio, presso Frattocchie, questo primo tratto superstite dell'Appia antica si unisce alla Via Appia Nuova. 

 

 

 

Mausoleo della Conocchia - Via APPIA

Il *Mausoleo della Conocchia* o semplicemente la Conocchia, è il principale monumento di Curti CE: si tratta di un monumento funerario che si erge imponente e maestoso sul percorso dell'antica Via Appia; il nome popolare deriva dalla forma che ricorda la conocchia (o fuso), oggetto usato per filare.

Risalente probabilmente al II secolo d.C., il sepolcro è dotato di undici nicchie ove si posavano le urne cinerarie.

Secondo la tradizione vi fu sepolta anche Flavia Domitilla, la matrona romana nipote di Vespasiano, perseguitata da Domiziano perché era di religione cristiana.

Altre fonti, invece, affermano che in questo mausoleo furono depositate le ceneri di Appio Claudio Cieco, politico e letterato romano, che realizzò proprio la Via Appia nel 312 a.C.

 

VIA APPIA ANTICA - PARCO ARCHEOLOGICO - MINTURNO (LATINA)

 

 

VIA APPIA – Catacomba di PRETESTATO

La catacomba di Pretestato sorge al secondo miglio della via Appia Antica. Qui vediamo:

Fronte di sarcofago di bambino con due navi onerarie, contenenti sei anfore ciascuna, affrontate ad un faro.

Circa III sec. d.C.

[ Catacomba e Museo di Pretestato , Via Appia Pignatelli, 11, Roma ]

 

Imbarcazioni e marinai di Tempi Remoti

 

VIA APPIA - TERRACINA

Terracina 1910 - Porta Napoletana e il Pisco Montano che Traiano fece tagliare per agevolare il transito sulla Via Appia evitando la grande salita sul Monte Giove Anxur.

 

TORRE DEL FOGLIANO

 

TORRE DEL FOGLIANO - I laghi del Fogliano e di Paola furono usati già in antichità come porti naturali. Erano adiacenti al mare e da esso separati da lunghe dune costiere. Fu con il passaggio della Via Appia che merci e passeggeri poterono essere trasbordati su navi d'alto mare verso l'Oriente, con grande beneficio economico per le città pontine. Questa torre e quella di Paola proteggevano gli ingressi al mare.

 

 

BRINDISI

 

La "ricostruzione" dell'epoca romana a Brindisi, intesa come l'insieme di elementi e strutture che caratterizzano la città nel periodo romano, include la presenza di un importante porto commerciale, l'istituzione della via Traiana che la collegava a Roma, la costruzione di infrastrutture come acquedotti e terme, e la definizione di un impianto urbanistico ortogonale. Il porto era un caposaldo per le rotte commerciali verso Oriente e sede di eventi storici e intellettuali, e tutt'oggi resti di domus, tracciati viari e strutture pubbliche sono testimoniati da scavi archeologici nel centro storico.

 

Le due colonne che attestano la fine della Via Appia al porto di Brindisi

 

 

Potenti mura di fortificazione racchiudevano l'abitato che era rifornito da un imponente acquedotto attraverso un Castellum Aquae ubicato presso le mura. Rimangono resti di tracciati viari, edifici abitativi, domus con pavimenti a mosaico, edifici pubblici e tombe identificati all'interno dell'attuale centro storico, attraverso rinvenimenti occasionali e scavi stratigrafici. 

Un ampio quartiere abitativo, attraversato da uno dei quattro cardini della città romana, è visibile nell'area di S. Pietro degli Schiavoni, a breve distanza dall'area in cui doveva sorgere il Foro (attuale Piazza Vittoria). In questo settore della città era ubicato anche un complesso edificio termale pubblico. 

Brindisi divenne così il principale porto romano verso l'Oriente, sia come base navale per tutte le guerre con la Macedonia, la Grecia e l'Asia minore, sia come importante centro commerciale, in sostituzione di Taranto, la cui importanza era assai diminuita dopo la conquista romana.

Brindisi rimase una florida e attiva città per tutto il periodo imperiale romano, Plinio la menziona per la produzione di specchi in bronzo, Varrone per la coltivazione della vite e Cassio Dione ne ricorda i venditori ambulanti di libri in lingua greca.

Resti di domus romane sono nella chiesa del Santo Sepolcro e palazzo Granafei. Sparsi ai margini delle strade s’incontrano rocchi di colonne, macine, capitelli; inseriti o murati sugli edifici sussistono puttini e busti.

 

L’ultima curiosità....

L'origine della parola italiana "brindisi” (nel senso di fare un brindisi) non ha a che fare con la città di Brindisi, ma deriva dallo spagnolo "brindis", che a sua volta deriva dalla formula tedesca "bring dir's", un invito a portare il calice come saluto augurale che risale a pratiche antiche, come lo scontro dei calici per verificare la presenza di veleno, un gesto che poi si è evoluto in un rito conviviale per esprimere amicizia, affetto e augurio di benessere, con diverse espressioni come "Salute!" che derivano dal latino. 

 

 Conclusione

Oggi la Via Appia ci appare come un segno antico inciso nella terra, ma agli occhi del marinaio rimane soprattutto una rotta. Una rotta che univa mari e continenti, che dava a Roma la forza di gettare ancore in porti lontani e di spiegare vele verso nuovi orizzonti.

Ogni pietra di quella strada racconta il passo di un legionario, ma anche il respiro del Mediterraneo che l’accompagnava. La Via Appia fu, ed è ancora, un ponte tra terra e mare: un viaggio che non finisce mai, perché continua ogni volta che percorriamo le sue pietre con la memoria o navighiamo sulle sue rotte con l’immaginazione.

Così come un marinaio sa che il mare non ha confini, Roma seppe che la sua via più celebre non era soltanto un cammino: era il mare stesso trasformato in strada.

 

 

Carlo GATTI 

Rapallo, lunedì 22 settembre 2025

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


FREJUS (Francia) - UN PONTE TRA LIGURIA E PROVENZA

FREJUS

CITTA’ ROMANA -  53.000 abitanti

 UN PONTE TRA LIGURIA E PROVENZA

Da Genova a Frejus (Francia):

3 ore 13 min (261,9 km) passando per A10/E80 e A8

Fréjus si trova a metà strada tra Cannes e Saint-Tropez, nel cuore della Costa Azzurra. Situata su un contrafforte di arenaria del massiccio dell'Estérel, che domina le valli dell'Argens e del Reyran, Fréjus ha l'aspetto di una piccola città provenzale i cui nuovi quartieri si estendono fino al mare.

Spigolando tra i ricordi più o meno lontani ...

Per noi nati, cresciuti e vissuti nel cuore dell’arco ligure, Nizza, città natale di Garibaldi e passata alla Francia nel 1860, continua a rappresentare un’estensione naturale della nostra amata regione. Nonostante i confini politici, i legami culturali, storici e persino affettivi con quella parte di costa mediterranea restano fortissimi, tanto da farci sentire “a casa” ogni volta che vi mettiamo piede.

Nizza divenne ufficialmente francese il 14 giugno 1860, a seguito del Trattato di Torino del marzo dello stesso anno, con il quale il Regno di Sardegna cedette la Savoia e la Contea di Nizza alla Francia, in cambio del sostegno militare di Napoleone III al Risorgimento italiano. La decisione fu ratificata da un plebiscito popolare, tenutosi il 15 aprile. Non era la prima volta che Nizza entrava nell’orbita francese: tra il 1792 e il 1814 era già stata parte della Francia rivoluzionaria e napoleonica.

Per questa ragione, la mia generazione – e forse anche quella successiva – ha guardato con naturalezza alla Costa Azzurra come a un prolungamento delle proprie abitudini di viaggio. Escursioni e vacanze ci hanno portato spesso a scoprire località entrate nel mito: Monaco, Antibes, Cannes, Saint-Tropez… luoghi che hanno fatto la storia del turismo d’élite, grazie anche alla frequentazione di artisti, attori e personaggi celebri del dopoguerra.

Eppure, tra le tante perle della Riviera francese, una città rimane spesso in ombra rispetto alle più celebrate: Fréjus. Situata non lontano da Cannes, questa cittadina possiede un fascino particolare che la rende degna di una visita approfondita. Non si tratta soltanto di una località di mare, ma di un vero e proprio scrigno di storia, capace di abbracciare oltre duemila anni di vicende umane.

Ricordo con chiarezza la prima volta che, da giovane, passeggiai per le vie di Fréjus. Rimasi colpito dalla presenza discreta di rovine romane disseminate qua e là, quasi dimenticate, prive di segnalazioni o spiegazioni. Erano gli anni successivi alla guerra, un periodo in cui la voglia di leggerezza e di modernità prevaleva su ogni altra considerazione. Quelle pietre antiche sembravano allora appartenere a un passato troppo lontano per suscitare interesse, in un’epoca che correva veloce verso la ricostruzione e il rinnovamento.

Fréjus, dunque, non era la solita città mondana legata ai riflettori del cinema o del jet-set, ma un luogo che conservava in sé un’anima diversa, fatta di tracce silenziose di civiltà passate.

Oggi, tornandoci dopo molti anni, ho avuto il piacere di constatare che la città ha saputo riappropriarsi del suo patrimonio storico e valorizzarlo con cura e orgoglio. Oggi Fréjus è spesso chiamata la “Pompei di Francia”, grazie all’eccezionale eredità archeologica che custodisce: l’anfiteatro romano, l’acquedotto, le mura, senza dimenticare le testimonianze medievali e il suo bel centro storico.

Ma Fréjus non è solo storia: le sue spiagge dorate, il porto vivace e il clima mite la rendono una meta ideale per chi desidera unire relax e cultura, arte e natura. È una città che sa sorprendere, capace di parlare sia agli amanti dell’archeologia che a chi cerca semplicemente un angolo mediterraneo autentico, lontano dalle eccessive mondanità.

Per chi, come noi liguri, sente ancora la Costa Azzurra come parte della propria memoria collettiva, Fréjus rappresenta una tappa speciale: un ponte tra Liguria e Provenza, tra radici e scoperte, tra passato e presente.

 

UN PO’ DI STORIA...

Verso il 49 a.C. Giulio Cesare fondò sul territorio degli Oxubii l'insediamento Forum Iulii con l'obbiettivo di creare uno scalo portuale alternativo a Massalia (Marsiglia).

Un fatto notevole nella storia: nel 31 a.C., il porto di Fréjus ospitò le navi da guerra catturate dall'imperatore romano Ottaviano-Augusto al militare Marco Antonio, allora alleato della regina Cleopatra, durante la famosa battaglia di Azio.

Questo aneddoto testimonia l'importanza del porto di Fréjus in epoca romana. Per questa ragione la località venne aggiunto il titolo di colonia Octavianorum.

Nel 22 a.C.  Augusto la proclamò capitale provinciale della Gallia Narbonense. La sua importanza era dettata dal fatto che oltre ad essere l'unica base della flotta militare romana in Gallia era anche attraversata da importanti arterie della regione: la Via Iulia Augusta. Durante il regno di Tiberio fu realizzata la maggior parte dei monumenti romani tuttora esistenti.

Nel IV secolo fu istituita la Diocesi di Frejus e nel 374 fu costruita la prima chiesa.

Tra il VII ed il IX secolo fu ripetutamente razziata dai saraceni.

Nel 940 i musulmani del vicino Frassinetto attaccarono e saccheggiarono la città.

Il 9 ottobre 1799 vi sbarcò Napoleone Bonaparte di ritorno dalla Campagna d’Egitto. 

Il 2 dicembre 1959  Fréjus fu colpita dalla rottura della diga di Malpasset,  quando 50 milioni di m³ d'acqua raggiunsero l'abitato provocando 423 morti e distruggendo gran parte delle case.

 

Monumenti e luoghi d'interesse

 

La Cattedrale di Fréjus

La Cattedrale di Saint-Léonce è un altro gioiello storico. Costruita tra il V e il XII secolo, la cattedrale combina elementi di architettura romana e gotica. È divisa in due navate che un tempo erano due diverse strutture: una dedicata a Notre Dame, su resti dell’antica chiesa paleocristiana, e l’altra a Santo Stefano, risalente all’XI-XII secolo. Meritano uno sguardo più approfondito l’abside con i sepolcri dei vescovi, le antiche statue, le pale d’altare e il magnifico crocifisso in legno del XVI secolo. Il chiostro a due piani del XII secolo è un gioiello architettonico, dichiarato monumento storico di Francia, con le coperture delle gallerie tutte in legno e arcate dipinte decorate con figure di santi, personaggi storici e animali veri e fantastici. Accanto, si trova l’antico battistero paleocristiano del V secolo, forse il più antico di Francia, e il campanile del XIII secolo.

 

Chiostro della Cattedrale

 

Villa Aurelia a Fréjus

La Villa Aurelia a Fréjus si trova in un bellissimo parco di 24 ettari. Dove ci sono antichi resti di un acquedotto romano, che ha portato l’acqua nella città di Fréjus per circa 250 anni.

Il parco ospita una flora mediterranea davvero molto interessante ed è una riserva inestimabile di biodiversità.

Presenta infatti il 90% di tutte le tipologie di piante tipiche della regione Provence-Alpes-Côte d’Azur. Come ad esempio il pino marittimo e l’orchidea.

La Villa Aurelia è la più bella residenza di villeggiatura costruita a Fréjus durante il XIX° secolo per la borghesia dell’epoca che apprezzava il clima mite invernale tipico della Costa Azzurra.

La villa prende il suo nome dalla vicina strada romana “Via Aurelia” che collegava Roma alla Spagna.

L’architettura dell’edificio ha una forte influenza di Andrea Palladio, architetto italiano del 1500. Lo si nota soprattutto dalla facciata esterna che, con le sue colonne in marmo, ricorda molto il Palazzo Chiericati a Vicenza.

Acquistata e restaurata dal comune di Fréjus nel 1988, oggi viene utilizzata per mostre, concerti ed eventi culturali di ogni genere.

 

Acquedotto – 43 Km di lunghezza

Un altro esempio dell’ingegneria romana è l’Acquedotto di Fréjus, che un tempo forniva acqua alla città. I resti di questo impressionante sistema idrico si estendono per oltre 40 chilometri, fino al villaggio di Mons a 520 metri di altezza sul livello del mare, e possono essere ammirati in vari punti intorno alla città. Victor Hugo commentava:

“L’acquedotto nuovo e completo di 2000 anni fa era sicuramente bello, ma non certamente più bello di queste gigantesche macerie crollate su tutta la piana, che corrono, cadono, si rialzano. L’edera e i rovi si arrampicano su tutte queste meraviglie di Roma e del tempo”.

 

Anfiteatro

Interni dell’Anfiteatro Romano

Parte storica dell’Anfiteatro Romano rimasta fino a oggi

Uno dei siti più emblematici di Fréjus è il suo Anfiteatro Romano, risalente al I secolo d.C. Progettato per ospitare combattimenti tra gladiatori e tra uomini e animali, l’anfiteatro è stato costruito vicino alla porta di accesso della città. Questo maestoso anfiteatro poteva ospitare fino a 10.000 spettatori ed è ancora utilizzato oggi per eventi culturali e concerti. Passeggiare tra le sue antiche mura offre un viaggio nel tempo, immaginando le grandi celebrazioni dell’epoca romana. Nei secoli la struttura è stata notevolmente rimaneggiata, e l’attuale versione, assai discussa, è il frutto di un restauro effettuato intorno al 2010. Per visitare l’anfiteatro è bene verificare gli orari di apertura, che cambiano a seconda della stagione.

 

Lanterna di Augusto

L'ingresso al porto era segnato da una costruzione nota come la "Lanterna di Augusto", che si può vedere ancora oggi.

 

L'antico porto di Fréjus, i cui resti sono classificati come Monumenti Storici dal 1886, è prima di tutto un bacino artificiale scavato nelle paludi che delimitavano lo sperone roccioso su cui si è insediata la città. Si trova quindi nell'entroterra, a circa 1200 metri dal mare.Il canale che collegava il porto al mare è percorribile per 460 metri, grazie ad un muro merlato che un tempo delimitava il lato occidentale. Il bacino aveva la forma di un poligono irregolare di circa diciassette ettari. Era circondato da banchine e delimitato a sud da un parapetto lungo 560 m.

Sul lato nord-ovest del bacino, gli archeologi hanno trovato una spianata che serviva una darsena tramite scali di alaggio (o piani inclinati, situati sotto il parcheggio Porte d'Orée). Questo porto, rimasto praticamente intatto fin dall'antichità, fu utilizzato durante il Medioevo e fino al XVII secolo. Era conosciuto come "Lo stagno" perché la sua area si era ridotta notevolmente.Il mare aggiunse le sue ricchezze a quelle della terra. In particolare, la pesca veniva utilizzata per preparare l'allec, una varietà di "garum", una sorta di condimento a base di carne di pesce decomposta.

Più di duemila anni fa, i Romani chiamavano Fréjus "Forum Julii". È uno dei porti più importanti del Mediterraneo: più grande, più trafficato e più vivace di Marsiglia (Massilia). Fréjus ha resistito alle ingiurie del tempo: la città si sta riprendendo dall'insabbiamento del Medioevo e continua a prosperare grazie al commercio. L'antico porto ha conservato i resti dei suoi giorni di gloria: ora si ergono fieri nel cuore della città.

 

IL PORTO ANTICO

 

L'antico porto di Fréjus, i cui resti sono classificati come Monumenti Storici dal 1886, è prima di tutto un bacino artificiale scavato nelle paludi che delimitavano lo sperone roccioso su cui si è insediata la città. Si trova quindi nell'entroterra, a circa 1200 metri dal mare.

Il canale che collegava il porto al mare è percorribile per 460 metri, grazie ad un muro merlato che un tempo delimitava il lato occidentale. Il bacino aveva la forma di un poligono irregolare di circa diciassette ettari. Era circondato da banchine e delimitato a sud da un parapetto lungo 560 m.

L'ingresso al porto era segnato da una costruzione nota come la "Lanterna di Augusto", che si può vedere ancora oggi.

Sul lato nord-ovest del bacino, gli archeologi hanno trovato una spianata che serviva una darsena tramite scali di alaggio (o piani inclinati, situati sotto il parcheggio Porte d'Orée).

Questo porto, rimasto praticamente intatto fin dall'antichità, fu utilizzato durante il Medioevo e fino al XVII secolo.

Era conosciuto come "Lo stagno" perché la sua area si era ridotta notevolmente.

Il mare aggiunse le sue ricchezze a quelle della terra. In particolare, la pesca veniva utilizzata per preparare l'allec, una varietà di "garum", una sorta di condimento a base di carne di pesce decomposta.

 

LA PORTA D’ORÉE

Non si tratta di una porta ma di un arco, appartenente alle terme monumentali (risalenti al II secolo), situate ai margini dell'antico porto.

 

 

IL TUMULO SAINT-ANTOINE 

La Butte Saint-Antoine è un'escrescenza rocciosa a sud della città romana; Si affaccia sul mare e un tempo dominava l'antico porto che si affacciava immediatamente ad est.Sono state rinvenute rovine di grandi palazzi, probabilmente costruite al tempo dell'imperatore Ottaviano Augusto. Costruiti su grandi terrapieni trattenuti da mura, questi edifici, per le loro dimensioni, ricordano piuttosto i grandi edifici pubblici e residenziali. Sulle loro pareti si trovano piccole macerie di arenaria rosa, caratteristiche degli edifici del "Forum Julii".

 

LE BANCHINE 

Il tracciato delle banchine sud e parte delle banchine levanti sono le uniche ancora chiaramente identificabili. Il Chemin des Quais Sud collega la Butte Saint-Antoine e la Lanterne d'Auguste; Da qui, troviamo il muro che protegge il canale di accesso al mare.

 

 

LA LANTERNA D’AUGUSTE 

Questa torre, alta 10 metri, è visibile ancora oggi. Molto probabilmente si tratta di un punto di riferimento che segnalava l'ingresso al porto romano (un punto di riferimento è un punto di riferimento fisso, inequivocabilmente identificabile, utilizzato dai navigatori, di solito un edificio).

 

PISCINE 

Per molto tempo, il porto di Fréjus ha ospitato navi per uso militare o della guardia costiera (probabilmente nel 1° e 2° secolo).

Trovandosi ai margini di una trafficata rotta marittima che collegava l'Italia, Marsiglia, Narbona e la Spagna, le navi mercantili trovarono un grande specchio d'acqua di diciassette ettari, diviso in diversi bacini protetti da mura, e che comunicava con il mare tramite un canale.

 

L’HERMÈS DI FRÉJUS 

Nel 1970, durante gli scavi archeologici nel sito di una casa romana, fu scoperta una statua a due teste di Hermes, realizzata in marmo bianco. Risale probabilmente alla metà del I secolo. Oggi arricchisce la collezione del Museo Archeologico di Fréjus. Il busto a due teste divenne quindi il simbolo della città di Fréjus e ispirò l'artista incaricato della creazione della fontana che adorna la Porte d'Hermès. 

Segue l’estratto di un articolo che ci aggiorna sull’avanzamento dei lavori archeologici nel “recupero ambito portuale”.

Autore: Federico Bernardelli Curuz

Fontewww.stilearte.it, 22 dic 2023

SCOPERTE E SCAVI

FREJUS (F). C’è un porto romano sotto il prato.

 

Sotto il prato c’è un porto, insomma. Consistenti depositi alluvionali lo hanno interrato, ma i muri dell’infrastruttura romana sono intatti, quanto i legni dei pali d’attracco.

Gli archeologi hanno così scavato non solo per riportare alla luce e consegnare alla città importanti vestigia, ma per verificare in modo ravvicinato le modalità costruttive dei nostri antenati e i segni del cantiere di realizzazione del porto.

Fréjus è un comune francese dalle profonde radici romane. Era una città-porto, per la flotta militare romana. Originariamente abitato da popolazioni celto-liguri dislocate nell’area circostante la baia di Aegytna, il territorio vide in seguito la fondazione di un avamposto da parte dei focesi di Massalia (Marsiglia).

Ed ecco la svolta, che porta con sé le aquile delle legioni e la malta romana. Nel 49 a.C., Giulio Cesare istituì l’insediamento di Forum Iulii tra gli Oxubii con l’obiettivo di creare un porto alternativo a Massalia (Marsiglia). Ottaviano Augusto successivamente ampliò il porto, includendo qui, a livello di flotta, le navi di Marco Antonio catturate nella battaglia di Azio. Tra il 29 a.C. e il 27 a.C., il luogo fu scelto come insediamento per i veterani della Legio VIII, guadagnando così il titolo di colonia Octavanorum.

 Nel 22 a.C., Augusto lo designò come la capitale provinciale della Gallia Narbonense.

La sua rilevanza era dovuta al fatto che non solo era la principale base della flotta militare romana in Gallia, ma era anche attraversata da importanti vie della regione, tra cui la via Iulia Augusta.

Durante il regno di Tiberio, furono realizzati la maggior parte dei monumenti romani ancora presenti nella zona.

Pierre Excoffon (Direttore dell’Archeologia e del Patrimonio della città di Fréjus), Emmanuel Botte (CCJ/CNRS/AMU) e Nicolas Carayon (IpsoFacto), hanno guidato la squadra di scavo, composta da agenti della Direzione dell’Archeologia e del Patrimonio della città e studenti in formazione nell’ambito di stage.

Abbiamo scoperto la parte superiore dei cassoni, o casseri in legno, che venivano calati in mare e che venivano riempiti di calcestruzzo pozzolanico (calce, sabbia e frammenti di tufo vulcanico, che assicurano la tenuta al mare e l’indurimento continuo), necessario per costruire le parti sommerse delle banchine. – dice l’archeologo Pierre Excoffon – Sapevamo che questo sistema di casseforme esisteva a Fréjus. Ai tempi dei romani, in questo punto dello scavo, saremmo stati in mare aperto”. Quindi per realizzare il porto furono utilizzate casseforme per fare le colate sulle quali, poi, murare. “Abbiamo trovato i segni delle casseforme, in negativo, nella muratura. Finalmente abbiamo le prove materiali della tecnica utilizzata dai romani. Siamo orgogliosi di questa scoperta importante per l’archeologia di Fréjus, per il bacino del Mediterraneo e per la storia delle costruzioni romane in Francia”.

Altri elementi lignei potrebbero corrispondere a moli o punti di approdo dell’antico porto romano di Forum Julii. Il loro stato di conservazione è davvero notevole ed eccezionale.

“Il tutto si trova in una parte di cui non conoscevamo lo stato di conservazione, dall’altra parte del bacino portuale. Questi elementi lignei potrebbero datare alla fine del I secolo d.C. La datazione in corso mediante dendrocronologia (analisi degli anelli di crescita annuali al fine di ottenere informazioni sugli eventi passati) e C14 (carbonio 14) permetterà di affinare questa ipotesi” - spiega ulteriormente Pierre Excoffon.

Il Journal of the American Ceramic Society ha pubblicato uno studio condotto dai ricercatori del Massachusetts institute of technology (Mit) di Boston, guidati da Admir Masic e Marie Jackson. Il segreto per costruzioni eterne e sicure sta nel materiale vulcanico, inserito in un miscuglio che, peraltro, era stato indicato da Vitruvio e forse non compreso, dopo i tempi dell’antica Roma.

 

 

SINTESI

Il Porto Romano di Fréjus

  • Fondazione: il porto fu costruito sotto Augusto (I sec. a.C.) come scalo strategico della colonia di Forum Julii, che prese il nome proprio da lui.

  • Funzione: serviva sia per il commercio che come base navale. Fréjus divenne sede della flotta romana del Mediterraneo occidentale (Classis Narbonensis).

  • Struttura: il bacino portuale era collegato al mare da un canale e protetto da lunghi moli; includeva darsene, magazzini e un faro (oggi scomparso).

  • Declino: progressivamente interrato nei secoli a causa dei depositi fluviali e del ritiro del mare, il porto rimase in uso fino al Medioevo, quando si ridusse a palude.

  • Oggi: restano visibili alcuni tratti dei moli e del canale portuale, inglobati nell’urbanizzazione moderna. Gli scavi archeologici hanno permesso di identificarne le linee, ma non esistono ricostruzioni grafiche complete.

 

CONCLUSIONE:

Una mancanza che fa riflettere...

Se Fréjus è giustamente chiamata la “Pompei di Francia” per l’eccezionale ricchezza di testimonianze romane, resta però sorprendente constatare la scarsità di ricostruzioni grafiche o pittoriche del suo antico porto. Eppure questo scalo ebbe un ruolo fondamentale: qui approdavano le flotte romane, qui si intrecciavano commerci e rotte mediterranee, qui si sviluppava la vita marittima della colonia.

Altri porti romani ci vengono restituiti da disegni e modelli che aiutano a immaginarne la vitalità; per Fréjus, invece, restano soprattutto descrizioni archeologiche e resti poco valorizzati. È come se mancasse un tassello fondamentale per “vedere” con gli occhi della mente quel luogo che fu crocevia di uomini, merci e culture.

Per chi, come noi di Mare Nostrum Rapallo, sente il mare non solo come paesaggio ma come spazio di memoria e identità, questa assenza iconografica è un invito a riflettere. Forse proprio il silenzio delle immagini rende ancora più affascinante il compito di immaginare quel porto, affidandoci ai frammenti rimasti e alla forza evocativa del Mediterraneo, che da sempre custodisce più di quanto riveli.

 

 

Carlo GATTI

Rapallo, 17 Settembre 2025

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


AIGUES MORTES - GENOVA, UN VIAGGIO NELLA STORIA

AIGUES MORTES – GENOVA

UN VIAGGIO NELLA STORIA

5 ore 51 min (488,1 km) passando per A10/E80 e A8

 

GRAU DU ROI

Aigues-Mortes è un comune francese situato nel dipartimento del Gard nella regione dell’Occitania vicino alla foce del Rodano. È una città fortificata medievale costruita su un terreno paludoso e collegata al Mar Mediterraneo tramite il canale chiamato Grau-du-Roi.

Il suo nome significa “acque morte” e deriva dalle paludi e dagli stagni che circondano il territorio. Aigues-Mortes è famosa per le sue mura medievali, la sua produzione di sale e la sua storia legata alle crociate.

Le origini di Aigues-Mortes risalgono al Medioevo, quando il villaggio era sotto il controllo dei monaci dell’abbazia di Psalmodie. Nel 1240, il re Luigi IX di Francia ottenne il villaggio e le terre circostanti in cambio di altri beni, con l’obiettivo di creare uno sbocco sul Mediterraneo per il suo regno.

Luigi IX fece costruire una strada tra le paludi, una torre di vedetta (la Tour Carbonnière), una torre di difesa (la Tour Constance) e un castello (oggi scomparso). Da Aigues-Mortes partirono due crociate: la settima nel 1248 e l’ottava nel 1270.

Aigues-Mortes conserva ancora oggi il suo aspetto medievale, con le sue mura intatte che cingono il centro storico. Le mura sono larghe 6 metri e alte 11 metri e si possono percorrere per tutta la loro lunghezza di circa 1,6 km. All’interno delle mura si trovano la chiesa di Notre Dame des Sablons, la piazza Saint Louis con la statua del re crociato, il porto canale e numerosi edifici storici.

Aigues-Mortes è anche nota per la sua produzione di sale marino, che avviene in numerose saline situate lungo la costa. Le saline sono caratterizzate da un colore rosa dovuto alla presenza di un’alga microscopica che produce un pigmento rosso. Le saline si possono visitare a bordo di un trenino o in bicicletta e offrono uno spettacolo naturale unico. Tra le saline si possono osservare anche diverse specie di uccelli, tra cui i famosi fenicotteri rosa.

Aigues-Mortes è una meta turistica molto apprezzata per la sua bellezza, la sua cultura e la sua gastronomia. Tra le specialità locali si possono citare il toro della Camargue, i vini delle Costières de Nîmes, i dolci a base di mandorle e i biscotti salati chiamati fougasses (di indubbia provenienza).

Aigues-Mortes offre anche diverse attività e attrazioni per i visitatori, come giri in quad, immersioni subacquee, escursioni a cavallo, musei tematici e feste tradizionali.

I rapporti storici tra Genova e risalgono al XIII secolo, quando Guglielmo Boccanegra, un illustre genovese e amico di re Luigi IX di Francia, fortificò e sviluppò il porto francese di Aigues-Mortes, trasformandolo in un importante centro strategico e commerciale. Questa collaborazione non si limitò a una singola opera, ma consolidò l'influenza genovese e la presenza di suoi uomini in terre francesi, legando le due città attraverso un'alleanza commerciale e politica significativa.

 

Bouches du Rohne (Estuario del fiume Rodano)

Colore marrone nella cartina

 

CAMARGUES

Notare Aigues Mortes a sinistra e la Camargue tra il Petit Rhone e Grande Rhone

 

AIGUE MORTES una delle icone turistiche della Provenza

 

Le salins du Midi, il lago rosa dele saline di Aigues Mortes

 

La storia di Aigues-Mortes è segnata dalla sua fondazione nel XIII secolo da San Luigi come porto e centro di potere per il Regno di Francia, dallo sfruttamento del sale e, tragicamente, dal Massacro di Aigues-Mortes del 1893, quando lavoratori italiani furono vittime di un linciaggio, causando tensioni diplomatiche tra Italia e Francia.

 

Massacro di Aigues-Mortes

https://it.wikipedia.org/wiki/Massacro_di_Aigues-Mortes

La fondazione e il ruolo nel Medioevo

Conosciuta anticamente con il nome di EAUX MORTES per via delle Lagune e delle acque stagnanti, questo suggestivo borgo della Provenza fu fondato da San Luigi IX re di Francia che fra il 1240 e il 1249 fece costruire la tour de Constance (foto sotto) e un porto in acque profonde da dove partirono la 7° e 8° crociata.

 

All’interno della città si snodano caratteristici vicoli che portano alla centrale place St.Louis guardata dall’omonima statua realizzata nel 1849 da Pradier.

 

Cinta muraria

 

Torre di guardia delle mura

 

Borgo e canali di Aigues Mortes

 

Canale e tipiche case della Camargues

 

All’interno del borgo provenzale: Chapelle des Penitents Gris  1607-1611 di Aigues Mortes

 

Giochi taurini nella fortezza di Aigues Mortes

 

Porta d’ingresso nella cittadella di Aigues Mortes, Francia

 

Le imponenti fortificazioni di Aigues Mortes

 

Panorama e bastioni

 

Le mura di Aigues-Mortes sono una testimonianza impressionante della storia medievale della città, costruite sotto il regno di Luigi IX nel XIII secolo per proteggere la città e il suo porto strategico. Edificate per fronteggiare le minacce esterne e rafforzare la posizione della città come punto di partenza delle Crociate, le mura hanno attraversato i secoli e rimangono uno degli esempi più belli di fortificazioni medievali in Francia.

 

Strada nella città fortificata di Aigues Mortes

 

Veduta aerea delle mura di Aigues Mortes

 

 I lavori di costruzione delle mura si estendono su diverse decadi. Sebbene siano iniziati sotto San Luigi, continuarono sotto i suoi successori, Filippo III il Temerario e Filippo IV il Bello. L’uso di pietre locali e il lavoro degli artigiani chiamati “tacherons” permisero di creare fortificazioni di una solidità e di una maestosità eccezionali.

I “tacherons”, questi operai specializzati provenienti da diverse regioni, svolsero un ruolo cruciale nella costruzione delle mura. Una testimonianza affascinante della loro maestria si trova nei segni lasciati sulle pietre scolpite. Questi simboli, spesso di ispirazione religiosa, non solo servivano per identificare l’artigiano responsabile del lavoro, ma anche per garantire la qualità dell’opera. Oltre a facilitare il conteggio delle mansioni quotidiane, questi segni permettevano di assicurare una remunerazione equa per gli operai, rafforzando così un codice di riconoscimento tra artigiani.

 

 

 

+ Figun (Alpes-Maritimes) a Escragnolles, Biot, Vallauris

+ Figun (Var) a Mons

Roiasco a Fontan, Saorge e Breil Sur Roya

Con il termine (ligure) intemelio si definisce l'insieme delle diverse varietà della lingua ligure parlate e diffuse tra il Principato di Monaco e la cittadina ligure di Taggia. Gli studi scientifici più accurati in merito sono stati realizzati dal professor Werner Forner, dell'Università di Siegen, in Germania.

Tendasco (subvarietà del roiasco) a Tende

dialétto tendasco dove è una variante del dialétto rojasco, facente parte del gruppo ligure alpino.

Brigasco (subvarietà del roiasco) a La Briuge

Il brigasco (nome nativo brigašc, in francese brigasque) è una varietà del dialetto roiasco, parlata nelle Alpi Liguri nella Terra Brigasca, a cavallo del confine italo-francese nella zona del Monte Saccarello.

Monegasco a Monaco

frutto dell'esportazione di una varietà originaria della zona di Ventimiglia nella roccaforte di Monaco, dove la popolazione si insediò al seguito della famiglia Grimaldi nel XIII secolo. Malgrado la grave crisi nell'uso, al monegasco sono riconosciute prerogative di lingua nazionale.

Bonifacino a Bonifacio in Corsica

A partire dal 1195 e, specialmente, dopo la battaglia della Meloria, del 1284, in cui sconfisse la rivale Pisa, la Repubblica di Genova insediò a Bonifacio coloni della Riviera di Ponente, soprattutto della zona di Savona, Varazze e Albenga. Nonostante diverse occupazioni o tentativi di occupazione, il dialetto venne conservato.

Dopo il passaggio della Corsica alla Francia nel 1768, per quasi un secolo, fino al 1860, le lingue più parlate nella cittadina furono il dialetto ligure bonifacino e l'italiano; dopo il 1860 cominciò un lento decadimento della lingua, con l'uso sempre maggiore del còrso e, soprattutto negli ultimi cinquant'anni, del francese. Il bonifacino ha mantenuto degli arcaismi ed è inoltre stato influenzato molto dal còrso e, negli ultimi anni, anche dal francese (ad esempio greva che vuol dire sciopero che deriva dal francese grève).

 

Un po’ di Storia

Quando Guglielmo Embriaco* nel 1097 salvò ad Antiochia l'armata Crociata francese Raimondo, conte di Tolosa e della Provenza, per gratitudine gli concesse lo sfruttamento delle saline di Aigues Mortes. L'Embriaco, tornato a Genova, inviò subito nella località francese due membri della Compagna per dirottare in città l'intera produzione salina della località francese. Iniziò così una concorrenza con Pisa, fino ad allora capitale del commercio salino italiano.

Fu costruito un primo magazzino del sale alla calata Mandraccio (porto di Genova), destinato in seguito a divenire il primo porto franco del mondo (29 febbraio 1532). Il sale all'epoca era preziosissimo. Il vescovo Airaldo pagava tutti i mesi con un sacchetto di sale i canonici di San Lorenzo. Anche i soldati romani, che venivano pagati ogni 10 giorni (la decade) ricevevano come compenso del sale. Questa forma di pagamento ha dato origine al termine "salario", parola tuttora usata per definire lo stipendio della classe operaia o "salariata".

* I Boccanegra a Aigues-Mortes 

Rappresentano il legame tra la famiglia genovese Boccanegra e la fortificazione di quella città, in particolare attraverso Guglielmo Boccanegra. Nel 1262, dopo la sua deposizione come Capitano del Popolo a Genova, Guglielmo si rifugiò in Francia e fu nominato da Luigi IX governatore ad Aigues-Mortes, dove si occupò della costruzione e dell'organizzazione delle sue fortificazioni e del suo porto. 

 Boccanegra furono una delle più celebri famiglie nobili della Repubblica di Genova fin dal medioevo.  Si distinsero fin dal XIII secolo alla guida della fazione ghibellina  e dei popolares nel governo della Superba, e subito dopo nelle grandi campagne navali genovesi all'estero, essendo nobilitati dai sovrani di Castiglia e dal senato genovese. Donarono alcuni dei più importanti capi dello stato genovese come Guglielmo Boccanegra, primo capitano del popolo nel XIII secolo, e Simone Boccanegra, primo DOGE della Repubblica nel XIV secolo e, insieme ai celebri ammiragli di Castiglia Egidio e Ambrogio Boccanegra, ed altri. Furono ascritti agli Alberghi dei Franchi e dei Grilli. 

 - Simon Boccanegra – Opera Lirica di Giuseppe Verdi di respiro wagneriano.

- Nel Medioevo genovese, un "ALBERGO" era una consorteria di famiglie nobili che si univano per scopi politici, economici e sociali, formando un clan legato da vincoli di parentela o interessi comuni. Queste istituzioni erano tipiche di Genova e del Piemonte e miravano a proteggere i membri, conciliare le dispute e rafforzare la propria influenza all'interno della Repubblica di Genova, in particolare partecipando alle cariche di Stato dopo le riforme di Andrea Doria nel 1528.

 

Le mura del Barbarossa

A Genova sono un sistema di fortificazioni medievali, completate tra il 1155 e il 1159, costruite per difendere l'autonomia della città dalla minaccia dell'imperatore Federico Barbarossa. Di questa imponente opera difensiva, restano visibili le porte monumentali di Porta Soprana, che domina il piano di Sant'Andrea, e Porta dei Vacca, a occidente. Un tratto significativo delle mura è percorribile, partendo da Porta Soprana e arrivando nel parco di piazza Sarzano.

 

PORTA DEI VACCA detta anche Porta Sottana

 

PORTA SOPRANA detta anche PORTA DI SANT’ANDREA

 

Porta Soprana e Porta dei Vacca, hanno a che fare con la Repubblica di Genova (Comunita Comunis), poiché furono costruite durante il suo periodo di splendore medievale e rappresentavano il sistema di difesa e di accesso della città, che all'epoca era governata dalla Comunita Comunis, un'organizzazione di cittadini che mirava all'autogoverno e alla difesa dei propri interessi. 

Le torri di Porta dei Vacca, dette anche di porta Sottana, in contrapposizione con quelle di Porta Soprana, vennero costruite durante l'opera di fortificazione muraria nel XII secolo. In quegli anni Federico Barbarossa minacciava la Repubblica di Genova e la popolazione si era decisa a difendere la città costruendo mura altissime e possenti. Le denominazione Porta di Santa Fede la deve alla vicina chiesa, sconsacrata nel 1926 e oggi sede degli uffici comunali.

 

 

LA COMPAGNA

- LA COMPAGNA COMUNIS –

 

Nel Medioevo, si può già scrivere del 1143, il precipuo intento di un gruppo di illuminati in Genova fu quello dell'istituzione della Compagna, che dovette vedersela con altri gruppi di potere all'interno delle mura della città che volevano ottenere il primato ed il dominio. La Compagna seppe emergere in questo contesto per un assieme di concretezza, estrema lucidità e determinazione negli obiettivi da raggiungere. Come sempre, quando si scrive di storia genovese, si scrive di praticità, di obiettivi che rendano più forte la città e distolgano chi ha esclusivi interessi personali dal provarsi a danneggiarne il tessuto economico politico.

E' il desiderio di stabilità che trasformerà la Compagna nel Comune tramite l'emanazione di "brevia" che regolamentano assiduamente l'evolversi della situazione dell'ordine pubblico e di tutti i comportamenti che possono ledere, anche solo a livello economico, la Repubblica.

Basti pensare che per il falso nummario (denaro falsificato) la pena venne convenuta con il taglio della mano per il colpevole. La Compagna aveva come suo principio quello di espandersi fino a divenire governo della città.

Questa chiarezza d'intenti lentamente richiamò l'attenzione della classe capitalistica genovese e dei potentati mercantili che in quel periodo, come in tutti quelli a seguire fino ai giorni nostri, chiedevano stabilità politica.

Una stabilità politica che, nonostante gli enormi squilibri di benessere presenti, garantì una progressiva crescita di quello che prima rappresentò una serie di borghi, poi un'organizzazione di quartieri, infine un Comune.

 

- LA COMPAGNA COMUNIS –

Origine del nostro libero COMUNE

 

A differenza di quasi tutte le altre città occidentali Genova non possedeva una piazza principale sede dei poteri pubblici, ma un groviglio di vicoli e piazzette che rappresentavano altrettante delimitate zone di potere delle singole famiglie.

Si formarono così delle libere associazioni di marinai  e mercanti con scopo di solidarietà corporativa dette, appunto, Compagne.

 

In Copertina: Genova a metà del XV sec.”.

Da notare oltre alla Torre dei Greci, sorella minore della Lanterna a destra dell’ingresso del porto, sul Molo Vecchio, le due torri della Darsena, il castelletto, e la particolare copertura piramidale di S. Lorenzo.

Incisione in legno realizzata nel 1493 dalla bottega di Michael Wolgemut e successivamente colorata a mano.
Per il “Liber Chronicarum” (Cronache di Norimberga) di Hartmann Schedel, stampato a Norimberga il 12 luglio 1493 da Anton Krobergerl.

 

In origine LE COMPAGNE  furono tre:

1) di Castello da Sarzano a Ravecca

2) di Macagnana da S. Ambrogio a Canneto

3) di Piazzalonga da S. Bernardo e S.  Donato a Giustiniani,

poi aumentarono a sette;

4) di S. Lorenzo dalla Cattedrale alle zone circostanti

5) Della Porta S. Pietro ai quartieri limitrofi

6) di Sussilia dai macelli alla zona di Banchi

7) di Prè da Fossatello a S. Agnese

In ultimo, divennero nel 1134, otto, con l’aggiunta di

8) Portanuova  da S.Siro alla Maddalena.

Quattro dentro e quattro fuori le Mura.

Ciascuna veniva rappresentata da Consoli che erano ad un tempo giudici, governatori e generali.

Il Caffaro racconta come, probabilmente già da prima ma, certamente  dal 1099, queste costrinsero la nobiltà feudale a giurare fedeltà alla Compagna Comunis e ad eleggere la propria dimora all’interno delle mura, dando origine alla nuova organizzazione del libero Comune.

 

Abbiamo parlato di Guglielmo Embriaco

Ma lo conosciamo davvero?

Ce lo racconta

A Mae Zena

 

 

La storia di tutte le storie…

“Affresco secentesco, parte del ciclo dedicato al condottiero all’interno della Cappella di Palazzo Ducale, opera di Giovanni  Battista Carlone”.

 

… di un guerriero impavido le cui gesta riecheggiano nell’eternità… di un Sepolcro, di ingegno e di coraggio… di Crociati… tesori e onori.

Nel 1099 Guglelmo Embriaco, detto Testa di Maglio (“Caput mallei”) per la sua prestanza fisica e per il suo indomabile carattere (era alto un metro e novanta centimetri, per l’epoca un gigante e piuttosto irascibile) insieme a suo fratello Primo arma due galee, l’Embriaga, la Grifona e, con circa duecento (secondo alte fonti fino ad un massimo di 500) uomini fra marinai, soldati e balestrieri, salpa alla volta di Giaffa.

Accortosi dell’arrivo di una numerosa flotta musulmana, sbarca nel porto della città, fa smontare letteralmente le navi, si traveste da mercante e in carovana percorre i sessanta chilometri che lo separano da Gerusalemme.

Giunto al campo crociato si fa ricevere da Goffredo di Buglione, comandante delle forze cristiane e, in cambio di un cospicuo bottino, promette di conquistare la città con i suoi duecento uomini laddove non erano riusciti gli alleati in diecimila.

Fra l’ilarità generale con il legname delle navi fa alzare delle torri alte quaranta metri., le ricopre di pece e pellame per renderle impermeabili e ignifughe e le posiziona sul lato sud della cerchia, da lui ritenuto il più debole.

Sopra le torri, mentre le catapulte devastavano le mura, i Balestrieri scagliavano i loro terribili dardi.

Embriaco guida l’assalto decisivo scalando per primo le mura e terrorizzando i nemici.

Gerusalemme è conquistata il Genovese consegna le chiavi della città a Baldovino di Fiandra futuro primo re cristiano del Regno latino.

Goffredo di Buglione mantiene le promesse e i genovesi hanno un fondaco, un pozzo, una piazza, una chiesa, trenta case e un terzo del bottino.

Sull’architrave del Santo Sepolcro viene inciso a lettere d’oro “Praepotens Genuensium Praesidium” (“Grazie allo strapotere dei genovesi”).

Tra i numerosi tesori che Guglielmo porterà in patria il Sacro Catino, per secoli ritenuto erroneamente il Graal e le ceneri del Battista, entrambi conservati in S. Lorenzo.

A riconoscimento del prestigio acquisito, per decreto consolare, tutte le torri cittadine verranno mozzate, in modo che nessuna superi in altezza quella del condottiero.

Così sono nati i Crociati e da allora la Croce di S. Giorgio è ufficialmente divenuta simbolo di Genova.

 

 

 

Carlo GATTI

Rapallo, 14.9.2025

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


NOTE STONATE SULL’OCEANO - 1962 Il vero giustiziere della notte

NOTE STONATE SULL’OCEANO ...

1962

Il vero giustiziere della notte

 

LE GEMELLE "VULCANIA" E "SATURNIA" A GENOVA

 

La traversata oceanica Gibilterra-New York a bordo dell’iconica SATURNIA - Gemella della  VULCANIA inizia cullandosi nella bonaccia. La luna è una enorme lanterna magica che illumina la nostra rotta.

Il mio capoguardia Vittorio, passate le consegne agli Ufficiali della notte fonda (24h-04h), decide di fare un’ispezione sui ponti alti simulando il gesto di farci un whisky nel Bar di 1a classe.

Dentro di noi prevale il senso di gratitudine verso gli dei del mare per averci donato un placido notturno in cui ogni marinaio dimentica i colpi di mare ricevuti sul muso lungo quella rotta piuttosto infida, anche nei mesi considerati i migliori dalle statistiche.

 

Attratti dalle note dell’orchestra di bordo mentre abbassa la saracinesca sul sesto giorno di navigazione, entriamo facendoci largo tra le luci soffuse del fascinoso Salone delle Feste intriso di sapore orientale, un azzardo di paradiso tra i più celebrati nel mondo internazionale dei Liners.

 

Quel sano senso di orgoglio nazionale che ci prende ogni volta che varchiamo il supremo Santuario della bellezza, dura fino a quando veniamo rapiti, a causa delle le nostre divise, da un folto gruppo di turisti americani che sventolano le insegne del Nebraska.

Alcuni di loro gesticolano con vigore invitandoci a far parte del loro gruppo che ci sembra vistosamente avvinghiato alle membra di Bacco...

Il semplice popolo di vaccari che si para davanti ai nostri occhi ondeggia, sbanda, barcolla e si regge in piedi aggrappandosi l’un l’altro per non cadere e ferirsi su quei pregiati tappeti persiani sui quali ogni notte incombe una grigia nuvola di vetri frantumati: bicchieri da Museo colmi di Burbon e ghiaccio... destinati a ferire anche gli abissi dell’oceano.

Visto l’ambiente fortemente alterato, vorrei scappare..., ma l’esperto Vittorio sa come gestire certe situazioni sentendosi per altro sempre in servizio di guardia permanente!

 

Mi piego visibilmente contrariato sulla tastiera del pianoforte a coda (in alto nella foto sopra) assumendo l’atteggiamento di sfida all’OK-CORRAL che non passa inosservato agli stralunati americani che intendono qualcos’altro: forse sperano nel secondo tempo di un notturno musicale, un fuori programma da vivere alla grande.

Urlano come i coyote delle vaste pianure del Nebraska battendo ritmicamente le mani per invitarmi a suonare al pianoforte una qualsiasi canzone che possa allungare il sogno e la magia di quella notte.

Incrocio lo sguardo di Vittorio, lo vedo teso e rifletto: “in questo strano frangente, il più alto in grado è lui, quindi rappresenta il padrone di casa: la Compagnia di Navigazione.

La decisione di sgomberare il Salone delle Feste col supporto forzuto dei pompieri e dei marò-capi stiva, potrebbe avere una coda di cattiva propaganda in quel mondo di fantasia.

Vittorio ha molta esperienza e presto trova una soluzione che mi convince:

“La compagnia del Nebraska si comporta in modo più pazzerello che pericoloso. Sono pur sempre clienti di 1° classe, diamogli un’altra chance!”

Il mio superiore s’avvicina al pianoforte, mi mette una mano sulla spalla e sbotta in un laconico:

                      “E mo’ sono c... tuoi”

Per farmi coraggio respiro profondamente e scarico sui tasti dell’incredulo pianoforte le dieci dita a ritmo infernale con la sfacciataggine di un ventenne che ha deciso d’inviare un clamoroso VAFFA al Nebraska e a tutto il mondo insensibile all’arte e alle cose belle di cui noi siamo ambasciatori, e in quel momento anche protettori.

 

A questo punto il lettore si farà un po' di domande! Prendo ancora un po’ di fiato e procedo umilmente verso una doverosa confessione:

- suono discretamente l’armonica a bocca, ma solo a orecchio.

- non so leggere uno spartito musicale

- sono privo delle più elementari nozioni del pentagramma

 

Provo quindi un senso di vergogna! Ma ormai sono in ballo e ....

Tuttavia l’effetto scenico che segue è straordinario: gli americani, inzuppati totalmente di Burbon, da vicino profumano anche di stalle del Nebraska, un effluvio che mi è rimasto a lungo nel naso.

Brutalmente i cowboys s’ammucchiano come giocatori di football americano intorno al pianoforte per toccarmi e applaudirmi. Alcuni di loro, convinti d’aver scoperto un pianista Jazz dallo stile innovativo e affascinante, mi invitano ad esibirmi a casa loro negli USA.

 

In quella imbarazzante situazione in cui mi vengo a trovare, mi soccorre il ricordo del mitico Adriano Celentano quando si scatenava con movenze da contorsionista in un celebre film "Yuppi Do" in cui recita il ruolo di pianista eccentrico e sperimentale  con sequenze oniriche e surreali, una pellicola unica nel suo genere, spesso definita folle e geniale allo stesso tempo.

Provo ad imitarlo agitandomi abbondantemente e raggiungo subito l’apice del gradimento.

Alcuni di loro, i meno impegnati in quell’assurdo baccanale, durante una fase di apnea, mi chiedono, taccuino alla mano, i nomi dei brani da me suonati non sapendo che questo è il mio campo preferito...!

Faccio uno sforzo di fantasia e sciorino un’improbabile lista di brani legata al mio territorio:

L’elenco di puttanate è lungo, ma vi concedo soltanto l’inizio...

- CONSCENTI LA NUIT...

- A SUMMER AT MOCONESI...

- WALKING IN THE "NESCI" GULF

- DANCING A NIGHT AT PENTEMA

- LA MONA (anzichè ) RAMONA

 

Con gli occhi sgranati dalla curiosità, mi giro a dritta e a babordo per godermi quell’incredibile presa per il culo... che va in onda con estrema naturalezza, complici l’estasiate “damine del Nebraska” che si trovano immerse in quell’indimenticabile concerto sull’oceano cullando il sogno della vita da deporre nello scrigno segreto di famiglia: un diario destinato ai posteri nel regno delle vacche del Nebraska.

Nel frattempo l’esibizione prosegue con lo sfinimento progressivo degli ospiti che si trasformano in vacui fantasmi che si agitano sempre meno, senza fare rumore.

Il livello di Burbon nelle loro cisterne ha raggiunto il massimo livello concesso dal loro rispettivo piano di costruzione...

 

L’astuto Sommo Sacerdote che ha celebrato lo spettacolo non è ovviamente Nettuno, neppure Eolo, il folletto di quella scoppiettante offesa alla musica si chiama Zagallo, l’unico barman che non soffre il sonno, una specie di gnomo incosciente e bastardello che vive ormai nella ricchezza...avendo capito che il mondo del mare e quello di terra convivono nell’eterna collisione esistenziale:

“Vivere per lavorare O lavorare per vivere”

Ripete spesso:

Chi ti manda a navigare è l’unico soggetto che passa sempre all’incasso...!”  E spiega: “Allora quando navigo mi rifaccio... Attuo la mia vendetta vendendo acqua ghiacciata con poche gocce di Burbon fino alla resa dello sfidante che perde sempre per KO tecnico”.

E conclude il suo vanto: “Non importa chi sia il cliente, ma so che mi ama perché ritorna sempre da chi lo tiene in piedi e qualche volta lo porta sulle spalle in cuccetta.

 

Il mondo è dei furbi... gli altri brucano come umili capre erranti sugli altipiani del monte Fasce alle spalle della Superba”!

Gli accompagnatori del gruppo, ossia i capi-allevatori del Nebraska, non sono appassionati di Jazz e per tempo hanno infilato l’alveo della propria stalla pensando da sbronzi nell’unico modo che conoscono:

Negli ampi spazi di mare intorno alla nave, ci sono sempre mandrie da pascolare all’alba”!

Ne godono le “Damine del Nebraska” che si sentono finalmente incustodite... e si lasciano andare a movenze lente e aritmiche facendo saltellare le “antiche grazie” su un davanzale sgargiante color arcobaleno, ma ormai in disarmo inoltrato.

 

             Sullo sfondo le "carrette dimenticate"

A pensarci bene sono tutte al guinzaglio da almeno 20/30 anni e mi ricordano le “carrette dimenticate” che, ormeggiate di punta sulla diga Duca di Galliera del porto di Genova, si stirano avanti e indietro nella risacca forzata dalle navi in entrata e in uscita, per farsi meglio notare da possibili acquirenti.

 

In effetti, la somiglianza tra i due contesti esiste:

- le ballerine del Nebraska e le navi in disarmo sprigionano la stessa triste speranza di risorgere vergini all’improvviso da una magica conchiglia di mare come la Venere del Botticelli.

 

 

A tal proposito e senza cattiveria ci soccorre un detto genovese:

LA BELLA DI TORRIGLIA – Tutti la vogliono e nessuno la piglia!

 

Il baccano che esce sordo e fastidioso dal Salone di 1° classe  fa eco ai sbuffanti stantuffi della Sala Macchina che salgono potenti dalla vicina ciminiera del transatlantico: un muggito vaccino che ricorda le vaste pianure del Nebraska inebriate di creature a quattro zampe lente e pesanti, odori forti di fieno e  stallatico!

 

Giunti ormai alle ore piccole della notte fonda, quel poco di cervello che si è salvato dal Burbon   annacquato sapientemente da Zagallo, il barman del “mare a fuera”, dà alle “damine del Nebraska” la speranza d’irretire qualche giovane “besugo” che si è perso come loro nel buio di una notte ruffiana tra le romantiche cineserie e arazzi preziosi di una nave precipitata nel ruolo di grande puttana.

 

Nel mondo femminile di quel gruppo ormai disinibito e pronto a tutto, si scorgono lunghe e ampie gonne issate a riva con rara destrezza che invitano a prendere il largo. Ricordano le vele a pallone che guarda caso portano GENOA come nome.

 

Soltanto chi sogna vede possibili amanti nella notte in cerca d’amore!

E’ tardi, le damine indugiano ancora per poco sugli ultimi impavidi saltelli prima di cadere in una arrendevole e sconcia ammucchiata tra le braccia di Morfeo:

“Il vero giustiziere della notte”

 

Buona notte a tutti !

Fine

 

 

 

Carlo GATTI

Rapallo, lunedì 21 luglio 2025

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


IL POLPO DI RAPALLO CE LO SIAMO IMMAGINATI?

 

Il Polpo di Rapallo ce lo siamo immaginati?

 

Mi venne in mente di scrivere questo articolo a Pasqua, nel ronzìo di quel traffico che ancora mi gorgoglia in testa; fuori dalla finestra, si spianavano cofani fino al tappo di Via Rosselli, e tutt’intorno si intasava. Dall’autostrada scendevano dritti fiumi di automobili, e le persiane delle seconde case, chiuse da ottobre, sbocciavano per il primo tepore di maggio, puntualissime. è la stagione dei mugugni, che arrivano a nugoli con l’afa.

Adesso è giugno, e la viabilità è di nuovo chiamata ad affrontare le sfide del turismo, e quelle dei cantieri, che si moltiplicano come funghi infiniti in tutti gli sbocchi: a me viene il dubbio che in tutti questi lavori non ci sia nulla di transitorio, ma che essi stessi siano oggetto definitivo della nostra conformazione cittadina. E mi viene proprio in mente guardando Via Rosselli, che poche settimane fa, goffamente si è tappata e stappata due volte, perché i lavori (non conformi al progetto iniziale) hanno necessitato di altri settantamila euro per venir realizzati. E quindi noi Rapallini siamo nel traffico a guardarci negli occhi, ed insultarci fra di noi, anche se pregni d’un nervosismo che proliferando collettivamente davanti a murate di turisti e transenne, diventa quasi gregario; ma contro chi? Forse alla fine vincerà la pigrizia di quei cantieri e le loro proroghe esauste; ricordo di quasi tutte le volte in cui provarono a dare una data al ritorno della fontana del Polpo alla rotonda davanti al Castello, che balzava di anno in anno, sino a farmi passare la voglia d’interessarmene. “Il polpo di Rapallo” (riportato in foto) è una statua in bronzo che risale al 1954, per la mano di Italo Primi

 

Foto TRIPADVISOR

La scultura, caricatasi della responsabilità di simbolo cittadino, è sparita ed il ricordo in cui ingombrava la rotonda pare ormai quasi un miraggio allucinato; sono passati otto anni. In tanto tempo scoprii il famoso dilemma di Schrodiger, in cui un gatto, chiuso dentro una scatola, diventa dopo poco tempo potenzialmente vivo quanto morto. Mi ricorda un po’ il polpo della rotonda; rimane da chiedersi come nel famoso dilemma fisico, questo polpo, è o non è? Esiste, non esiste o è tutta teoria? È nei magazzini comunali?

Perché poi girò anche quella voce, condita di foto e testimonianze; il polpo sin dallo scorso 2024 è nei magazzini comunali. Eppure, stando al Secolo XIX, nell’ottobre 2019 è addirittura andato a cercare il restauro in un laboratorio bolognese, dove le spese hanno raggiunto l’ammontare di trentamila euro, e la stampa aveva già perso l’ottimismo con cui il GenovaToday, a maggio 2017, riferiva di “un’estate senza il polpo”; Rapallo aspetta l’ottava estate senza polpo, e io ho impressione che non me lo vogliano far scoprire bloccando tutte le strade per arrivarci; ormai, il simbolo cittadino, è il cantiere stesso. E poi cos’è e dov’è nato questo antico culto dei cantieri? Pochi giorni fa ritrovai quella rotonda nuovamente recintata di reticolati grigi, a spezzare il passaggio delle corriere per Via Milite Ignoto, e con quella ritrovai la mia idea pasquale di scrivere questo articolo; un’ispirazione suggeritami da quegli autobus, costretti nuovamente ad ingombrare la passeggiata mare, e ad isolare la fermata principale davanti alla stazione. Adesso lì staziona un nuovo mucchio di cartelli a schermare il passaggio, dopo mesi che quella rotonda, (anch’essa Schrodigeriana) era aperta, ed anni che intermitte quei cantieri. Delle volte ha coperto il fiume, ed altre ha lasciato il suolo spalancare la bocca di cemento e acqua del San Francesco. Tutto intrattenimento d’ammirare attraverso i reticolati, quello sgorgare di fango e polvere, sotto la strada spaccata, e dove cavi e tubi rimanevano strappate al pari di erbacce. Proprio lì alle radici di Rapallo, alla base di tutto, si nasconde la profondissima coerenza d’una soprintendenza che in realtà non si è mai contraddetta e a cui quando viene posta una domanda sul polpo, risponde fedele a sé stessa nel 2017, con le medesime parole – Dopo l’estate -.

 

Leonardo D’ESTE

Rapallo, Lunedì 30 Giugno 2025

 

 

Dello stesso autore (Classe 2006)

- SALE MAGNETICO 

https://www.marenostrumrapallo.it/14166-2/

 

Rapallo, 24 Novembre 2023

 

- LE CARTOLINE DI LEO

https://www.marenostrumrapallo.it/leo-2/

Rapallo, 17 Dicembre 2020

 

 

- MARY CELESTE - Un Mistero Mai Svelato

https://www.marenostrumrapallo.it/mary/

Rapallo, 9 settembre 2020

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


NOLI - GROTTA DEI FALSARI

 

NOLI - GROTTA DEI FALSARI

Escursioni nella Storia...

 Si narra che la Grotta dei Falsari, fosse la sede dei traffici di contrabbandieri che in tempi passati tenevano nascosta  la propria merce in quel "buco" nella roccia. Di qui, la nascita del nome.

 

 

La Grotta dei Falsari, nota anche come Grotta dei Briganti o Antro dei Falsari, si trova tra Noli e Varigotti, lungo la “Passeggiata Dantesca” e il “Sentiero del Pellegrino, ed è una delle più belle escursioni del Ponente Ligure. Si tratta di un percorso che sale dolcemente, con lieve dislivello che regala panorami mozzafiato sulla costa Ligure, alternando il verde della macchia mediterranea e il blu zaffiro del mare. L’origine della Grotta dei Falsari è dovuta ad una lenta e costante azione erosiva esercitata dal mare milioni d’anni fa, quando le terre oggi emerse si trovavano al di sotto del livello del mare.

 

NOLI

NOLI - L’Antro o Grotta dei Falsari o dei Briganti è una spettacolare “finestra sul mare” di Capo Noli.

La Grotta dei Falsari a Noli, oltre ad essere nota per la sua bellezza naturale, è legata ad una storia di pirateria ed altre attività illegali che erano protette dalla natura impervia e difficile da raggiungere.  Si narra quindi che fosse un luogo di incontro e deposito per i contrabbandieri che la usavano per nascondere la loro merce. La grotta, conosciuta anche come "Grotta dei Briganti", testimonia questo passato, rendendola un luogo affascinante in cui si respira aria di mistero che attraversa secoli di storia ancora da raccontare...

Qui decise di fare anche il suo “eremo” il famoso Capitano “lupo di mare” Enrico Alberto d’Albertis: una bella casa in stile coloniale a forma di cabina di nave con l’albero per l’alzabandiera, piante esotiche, voliera di uccelli rari…) ed oggi è uno dei Luoghi abbandonati in una delle posizioni più belle di tutta la Liguria…(foto sotto).

 

Genova - Castello D'Albertis

Museo delle Culture del Mondo

 

Genova

D’ALBERTIS – Marinaio gentiluomo

 https://www.museidigenova.it/it/castello-dalbertis-museo-delle-culture-del-mondo

 

 

Sentiero del Pellegrino:  Chiesa di San Lorenzo Medievale. Della primitiva struttura altomediovale sopravvivono frammenti di età bizantina murati nelle pareti. Una parte molto antica, forse di età preromana, è costituita dall'abside quadrata con monofore di mattoni ad arco ribassato. Il fronte verso il mare, con le due porte principali a sesto acuto è di epoca gotica.

Torre delle streghe

Eretta nel 1582 come torretta di guardia per arginare gli sconfinamenti di Varigotti nei territori di Noli, fedele a Genova. Varigotti protestò con gli spagnoli chiedendone la demolizione che non fu eseguita. In seguito la torre prese il nome di "Torre delle streghe" come scherno nei confronti delle donne di Varigotti.

 

Sentiero del Pellegrino: Varigotti - Monte di Capo Noli (Semaforo) - Grotta dei Briganti (Antro dei Falsari) - Noli

 

Il sentiero che porta alla Grotta si snoda  pure lungo una delle Vie della Fede dei Pellegrini in Liguria sul quale si trovano alcune chiese dalle quali si hanno spettacolari scorci panoramici sulla costa.

Nella filosofia greca la grotta è considerata come metafora del mondo materiale. Nel “mito della caverna”, Platone la identifica come il mondo dell'ignoranza, in cui le anime degli uomini sono imprigionate e percepiscono la luce riflessa di una realtà raggiungibile solo attraverso la mente e lo spirito.

L'origine della Grotta dei Falsari è dovuta ad una lenta e costante azione erosiva esercitata dal mare milioni d'anni fa, quando le terre oggi emerse si trovavano al di sotto del livello del mare. Il panorama è da togliere il fiato.

 

 Il mare dell'ammiraglio Nelson 

NOLI, in Liguria, è storicamente collegata all'ammiraglio inglese Horatio Nelson grazie alla battaglia di Capo Noli, combattuta nel 1795. Questa battaglia segnò la prima vittoria navale di Nelson, e un tesoro recuperato recentemente potrebbe essere collegato a una delle navi francesi sconfitte.

 

 

La fin du Ca-Ira, par Pierre Villié, directeur de fouille

 

Possiamo anche qui ricordare che La battaglia di Capo Noli fu uno scontro navale combattuto nel 1795 al largo della costa di Noli, tra le navi da guerra francesi comandate dall'ammiraglio Pierre Martin e le navi da guerra britanniche e napoletane comandate dal contrammiraglio William Hotham. La battaglia si concluse con la vittoria degli anglo-napoletani sui francesi. Le navi francesi Ça Ira e Censeur furono catturate dai britannici, la nave britannica Illustrious fu gravemente danneggiata e distrutta dopo la battaglia.

Il mare dell'ammiraglio Nelson: Capo Noli e la Grotta dei Falsari, escursione panoramica.

 

Malpasso, falesia a picco sul mare

Questo è l'orizzonte ricorrente che contraddistingue per tutta la giornata la vista lungo il Sentiero del Pellegrino, splendido itinerario che sale verso le alte pareti calcaree del Malpasso. Dopo la visita del singolare borgo saraceno di Varigotti, si guadagna quota verso Punta Crena e la Chiesa di San Lorenzo, appartenuta all’ordine benedettino.

Questo gioiellino ha un'abside con lunghe monofore dell’VIII secolo; la sacrestia e il piccolo campanile a vela risalgono invece al periodo compreso tra il XII e il XIV secolo.

 

IL MAUSOLEO CERISOLA

Ritornati sul sentiero principale, si incontra il Mausoleo Cerisola, dove il mare è il tema ricorrente di curiose decorazioni.

 

Sul sentiero del Pellegrino, poco prima di giungere a Varigotti, si costeggia un muretto colorato, con salvagenti, scritte e ritagli di giornali, in italiano e in inglese: il Mausoleo Cerisola.
Giuseppe Cerisola, detto Beppino, nacque a Varigotti nel 1914. Imbarcato  a Singapore, fu fatto prigioniero dagli Inglesi nella Seconda Guerra Mondiale e fu trasportato in Australia nei campi di lavoro. 

Terminata la guerra, rientrò a Varigotti ma, scoprendo l’amata fidanzata sposata con figli, tornò nel continente australiano dove rimase per trent’anni.

 

Cerisola o il Carnera

Amante del mare e provetto nuotatore, salvò molte persone dal mare in burrasca, tanto che gli valse il soprannome di Uomo dei Sette mari, inoltre per questa sua abilità e coraggio ricevette una medaglia d’oro a Noli nel 1976.

Fu soprannominato Carnera invece per la sua prestanza fisica.

Giunta l’epoca della pensione, ritornò a Varigotti stabilendosi dalla madre.

Di carattere cupo, ombroso, coltivò le sue passioni. Il mare, innanzitutto, nuotando fino alla fine e sempre a scrutare tra le onde alte se c’era qualche nuotatore incauto in difficoltà, e l’orto.

Una seconda breve deviazione consente di ammirare dall'alto la spiaggia della poderosa colonna calcarea del Malpasso, alta più di 250 metri, su quel mare dove un tempo si trovava il porto naturale di Varigotti, interrato dai genovesi ai tempi delle lotte con i marchesi Del Carretto.

Superata la torretta genovese del 1582 si raggiunge un altro suggestivo scorcio sul mare.

Tappe successive sono la protoromanica chiesetta di Santa Margherita, una delle più antiche della Liguria (sec. X-XI), alla quale era annesso un ospizio dove i monaci Lerinensi offrivano rifugio e conforto a pellegrini e viandanti.

 

Altro elemento architettonico di rilievo, seppure caduto in rovina, è San Lazzaro e l'annesso lazzaretto, fondato nel XII secolo dai Cavalieri di Rodi (Foto sopra). Qui venivano curati i naviganti appestati di ritorno dagli scali di Levante (dalla fine del 1600 venivano messi in quarantena nel castello Ursino). Nella tappa finale del nostro itinerario escursionistico lo spazio è concesso solo alla storia: Noli ricorda il profilo glorioso della V Repubblica Marinara.

 

 

NOLI 

REPUBBLICA MARINARA DAL 1192 AL 1797

https://www.marenostrumrapallo.it/noli/


Carlo GATTI Rapallo, 4 Dicembre 2014

 

 

 

 

Carlo GATTI

Rapallo, Mercoledì 11 Giugno 2025

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


GIORNATA MONDIALE DEGLI OCEANI 2025

 

GIORNATA MONDIALE DEGLI OCEANI 2025

 

Introduzione di Carlo Gatti

 "L'8 Giugno celebriamo la Giornata Mondiale degli Oceani, un evento cruciale per ricordare l'importanza vitale degli oceani per l'umanità e il pianeta.  Gli oceani, veri e propri polmoni blu del nostro pianeta, producono il 50% dell'ossigeno che respiriamo, regolano il clima e ospitano una biodiversità straordinaria. 

Tuttavia, sono sottoposti a una crescente pressione antropica: inquinamento da plastica, surriscaldamento, acidificazione delle acque e perdita di biodiversità minacciano seriamente questo ecosistema fondamentale.  

La Giornata Mondiale degli Oceani ci ricorda l'urgenza di agire per proteggere gli oceani, non solo per la loro intrinseca bellezza, ma per la nostra stessa sopravvivenza. 

Il loro valore economico è immenso – dal turismo alla pesca, all'assorbimento di CO2 – ma è a rischio.  Dobbiamo promuovere politiche di gestione sostenibile delle risorse marine e contrastare gli impatti negativi dell'attività umana, per garantire un futuro sano per gli oceani e per le generazioni a venire."

Riteniamo che l’argomento “OCEANI” sia troppo importante per essere sottovalutato o addirittura ignorato. Questo è il motivo per cui riportiamo interamente il testo ufficiale che è stato diffuso in tutto il mondo!

 

Giornata Mondiale degli Oceani 2025: il valore del mare tra ambiente, economia e futuro. La Giornata Mondiale degli Oceani si celebra l'8 giugno.

 

LA GRANDE BELLEZZA

 

 

Promossa dalle Nazioni Unite, l’edizione di quest’anno ha come tema Wonder: Sustaining What Sustains Us (Meravigliarsi di ciò che ci sostiene, per imparare a proteggerlo). L’iniziativa vuole richiamare l’attenzione sull’importanza vitale degli oceani per il nostro pianeta: regolano il clima, producono oltre la metà dell’ossigeno che respiriamo, assorbono anidride carbonica, proteggono le coste e offrono cibo e lavoro a più di tre miliardi di persone nel mondo.

L’edizione 2025 della Giornata Mondiale degli Oceani vuole proporre un cambio di prospettiva: nessun allarme, ma un invito a riconoscere il valore reale dell’ecosistema oceano. Se gli avvertimenti non servono a invertire la rotta, la consapevolezza del ruolo che l’oceano svolge per la vita sul pianeta può essere invece il punto di partenza per un impegno più concreto. E quindi per un cambiamento reale.

Sicurezza alimentare e biodiversità sotto pressione

La tutela degli oceani è strettamente legata alla disponibilità di risorse alimentari e alla conservazione della biodiversità marina. Gli ecosistemi oceanici forniscono cibo a miliardi di persone e ospitano una parte significativa delle specie viventi del pianeta. Il loro degrado, causato da inquinamento, pesca eccessiva e riscaldamento delle acque, mette a rischio sia la capacità degli oceani di sostenere la produzione alimentare sia l’equilibrio degli habitat naturali da cui dipende la varietà delle forme di vita marine.

Secondo il rapporto State of World Fisheries and Aquaculture 2024 della Fao, 3,2 miliardi di persone nel mondo dipendono in modo diretto dal pesce come fonte primaria di proteine animali. I prodotti ittici rappresentano il 17% delle proteine animali consumate nel mondo con punte molto più alte in alcune regioni dell’Asia e dell’Africa. Il Living Planet Report 2024pubblicato dal Wwf documenta una riduzione media del 73% delle popolazioni di vertebrati marini negli ultimi cinquant’anni. Inquinamento, sovrasfruttamento delle risorse e aumento delle temperature oceaniche sono le principali cause di un degrado che colpisce non solo gli equilibri ecologici, ma anche le catene di approvvigionamento alimentare.

Ad essere compromessa non è soltanto la varietà biologica, ma anche la capacità degli ecosistemi di rigenerarsi e mantenere funzioni essenziali. Dati Fao indicano che il 35,4% degli stock ittici globali è oggi sfruttato oltre livelli sostenibili, una quota più che raddoppiata rispetto al 1974, quando era pari al 10%. Il Mediterraneo è una delle aree più critiche: qui oltre il 60% degli stock è sovrasfruttato. In assenza di misure efficaci le conseguenze saranno irreparabili non solo per l’ambiente, ma anche per l’occupazione e la sicurezza alimentare di intere fasce di popolazione.

 

Composizione della plastica negli oceani per area geografica

  • Oceano Pacifico

    46% della plastica totale

    → Principali rifiuti: bottiglie, reti da pesca

  • Oceano Atlantico

    24% della plastica totale

    → Principali rifiuti: microplastiche, sacchetti

  • Oceano Indiano

    15% della plastica totale

    → Principali rifiuti: contenitori, frammenti

  • Oceano Artico

    8% della plastica totale

    → Principali rifiuti: microplastiche

  • Oceano Antartico

→ 7% della plastica totale
→ Principali rifiuti: reti abbandonate

La Blue Economy continua a crescere

La protezione degli oceani riguarda anche la tenuta economica di settori strategici per numerosi Paesi. Secondo l’EU Blue Economy Report 2024, nel 2023 l’economia legata al mare (Blue Economy) dell’Unione Europea ha impiegato 3,6 milioni di persone, registrando una crescita del 17% rispetto al 2020. Il valore complessivo generato ha raggiunto i 623,6 miliardi di euro, con un incremento del 21% nello stesso periodo. Le attività principali comprendono pesca, acquacoltura, cantieristica navale, turismo costiero e produzione di energia rinnovabile da fonti marine.

In questo scenario è facile capire perché siano così diffusi i blue bond, strumenti obbligazionari emessi per finanziare progetti legati alla conservazione degli oceani e all’uso sostenibile delle risorse marine. Nel 2024, le emissioni di blue bond sono aumentate del 10,6% rispetto all’anno precedente, e oggi rappresentano lo 0,24% del totale delle obbligazioni sostenibili globali, secondo i dati dell’Intercontinental Exchange (Ice).

 

Innovazione e tecnologie al servizio della sostenibilità 

L’integrazione tra innovazione tecnologica e sostenibilità ambientale risponde sempre più ai criteri Esg (Environmental, Social, Governance) e diventano un fattore distintivo per investitori istituzionali e soggetti pubblici. La disponibilità di dati accurati e tempestivi consente di migliorare la gestione delle risorse oceaniche e di definire politiche più efficaci in materia di conservazione. Inoltre, tecnologie meno invasive riducono l’impatto delle attività di ricerca sull’ambiente marino e contribuiscono concretamente alla tutela della biodiversità.

L’applicazione dei criteri Esg in ambito “oceanico” si traduce in un vantaggio competitivo per le imprese perché riduce i rischi ambientali e reputazionali, migliora l’accesso a capitali e finanziamenti, favorisce l’innovazione sostenibile e rafforza il posizionamento sul mercato, rispondendo alla crescente domanda di responsabilità ambientale nel settore marittimo.

 

L’impegno di Etica Sgr per la tutela degli oceani

In occasione della Giornata Mondiale degli Oceani 2025, Etica Sgr riafferma il proprio impegno nella salvaguardia degli oceani, con particolare attenzione alla lotta contro l’inquinamento da plastica, che rappresenta una delle minacce più gravi per la salute degli ecosistemi marini. Non a caso Etica Sgr ha aderito all’iniziativa globale A Line in the Sand – The New Plastics Economy, promossa dalla Ellen MacArthur Foundation, sostenendo la transizione da un modello economico lineare a uno circolare, in cui i prodotti siano progettati per essere riutilizzati, riparati e riciclati, con l’obiettivo di ridurre la produzione di rifiuti e l’impatto sull’ambiente marino.

Etica Sgr è anche tra i firmatari della Plastic Pollution Financial Declaration, sottoscritta da 160 istituzioni finanziarie a livello internazionale. La dichiarazione chiede ai governi l’adozione di un trattato globale e vincolante sull’inquinamento da plastica e promuove misure per affrontare l’intero ciclo di vita dei materiali plastici.

Attraverso il proprio impegno in ambito Esg, Etica Sgr punta a favorire politiche pubbliche e investimenti orientati alla tutela degli oceani, sostenendo la definizione di obiettivi comuni e strumenti finanziari capaci di contribuire concretamente alla riduzione dell’inquinamento e alla protezione della biodiversità marina.

 

Inquinamento nel Mediterraneo, un “mare di plastica” - Inquinamento da plastica nel mar Mediterraneo: le causa e le soluzioni

 

L’inquinamento del mare da plastica è una delle emergenze ambientali più gravi dell’epoca moderna. Mari e oceani sono invasi dalla plastica, al punto che si sono formate delle vere e proprie isole: le cosiddette Plastic island o il Great Garbage Patch. Ne esistono cinque: due fluttuano nel Pacifico, due nell’Atlantico e una nell’Oceano Indiano. Enormi piattaforme di inquinamento che galleggiano tra le onde in un’area più estesa di quella di Stati Uniti e India.

L’inquinamento da plastica è un problema globale, tanto che le Nazioni Unite hanno inserito la tutela dei mari tra gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile: è il Goal 14 – Vita sott’acqua. Nell’Agenda 2030 si legge che occorre “conservare e utilizzare in modo durevole gli oceani, i mari e le risorse marine per uno sviluppo sostenibile”.

 

Inquinamento del mare da plastica nel Mediterraneo

 

 

Nel Mediterraneo non esistono vere e proprie isole di plastica, ma la situazione non è affatto rosea. Il nostro mare è la sesta grande zona per inquinamento da plastica al mondo. I numeri descrivono una vera emergenza: la plastica rappresenta il 95% dei rifiuti nel Mediterraneo e proviene principalmente da Turchia, Spagna, Italia, Egitto e Francia. Nel complesso l’Europa, secondo maggiore produttore di plastica al mondo dopo la Cina, riversa in mare ogni anno tra le 150 e le 500 mila tonnellate di macroplastiche e tra le 70 e 130 mila tonnellate di microplasticheIl Mar Mediterraneo rappresenta l’1% delle acque ma contiene il 7% delle microplastiche marine a livello mondiale.

Gli effetti negativi dell’inquinamento si vedono anche sulla fauna. La maggior parte delle specie marine ingeriscono plastiche o microplastiche. Non c’è una sola specie di tartaruga marina che nuoti nel Mediterraneo senza plastica nello stomaco. Ogni anno un milione e mezzo di animali marini sono vittime della plastica scaricata nei mari.

 

 

In Italia cattiva depurazione delle acque e troppa pesca

Nel nostro Paese la situazione è statica da anni: non si vede alcun cambiamento né dal punto di vista legislativo né degli indicatori. La denuncia arriva dal Rapporto ASviS 2018 (Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile). In cima alla lista delle cause dell’inquinamento dei nostri mari c’è la cattiva depurazione delle acque e lo scarico illecito di rifiuti sulle nostre spiagge, che riguarda un abitante su quattro.

Ma il Mediterraneo è impoverito anche dalla pesca eccessiva che, sottolinea ASviS, “ha ridotto la produzione in campo alimentare, danneggiato gli ecosistemi e colpito la biodiversità”. Anche in Italia il sovra sfruttamento degli stock ittici ha raggiunto una quota dell’88% secondo i dati 2014. In altre parole, il pesce nel Mediterraneo è in diminuzione.

Nota positiva: le aree protette

In Italia, fortunatamente, non mancano le aree protette. ASviS rileva la notevole ampiezza: oltre 3 mila chilometri di cui il 75% si trova in Sardegna, Sicilia e Toscana. Diversi studi dimostrano che le aree protette sono l’unico modo per rallentare la bio-invasione, che si lega al fenomeno del cambiamento climatico e in particolare all’innalzamento della temperatura delle acque.

 

 

Etica Sgr, protagonista nella lotta all’inquinamento da plastica

Anche il sistema finanziario può fare qualcosa per ridurre l’inquinamento da plastica. In Etica Sgr abbiamo deciso di fare la nostra parte promuovendo la blue economy e il progetto “A line in the sand – The New Plastic Economy“. Un accordo globale per eliminare il problema della plastica e salvaguardare la vita negli oceani. Come? Sostenendo il passaggio dalla cosiddetta economia lineare – produco, uso e getto – all’economia circolare, dove ogni prodotto viene prodotto per essere usato, riutilizzato e riciclato, riducendo così al minimo i rifiuti.

Nello specifico le aziende che aderiscono alla campagna si impegnano a eliminare gli imballaggi in plastica problematici o non strettamente necessari attraverso l’innovazione, la riprogettazione e lo studio di nuovi modelli di consegna. Si impegnano inoltre ad applicare modelli di riutilizzo, laddove possibile, per eliminare la necessità di imballaggi monouso. Tra i firmatari dell’accordo, ricordiamo, ci sono numerose aziende multinazionali che producono il 20% di tutti gli imballaggi di plastica prodotti nel mondo.

 

Giornata mondiale degli Oceani 2024: il polmone blu della Terra

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Giornata mondiale degli Oceani 2024, gli oceani rappresentano il polmone del nostro Pianeta. Producono il 50% dell’ossigeno presente sulla Terra e hanno contribuito ad arginare, fino a ora, i cambiamenti climatici estremi, fungendo da equilibratore naturale. Negli ultimi vent’anni hanno assorbito enormi quantità di anidride carbonica, pari a circa il 25% di quella prodotta, e il 90% del calore immesso in atmosfera.

 

Che cos’è la Giornata mondiale degli Oceani?

La Giornata mondiale degli Oceani si celebra l’8 giugno ed è un evento che vuole portare all’attenzione di cittadini, enti e istituzioni l’importanza degli oceani e il ruolo fondamentale che svolgono negli equilibri della vita sulla Terra. Gli oceani sono infatti ecosistemi straordinariamente ricchi e ancora parzialmente inesplorati, soggetti tuttavia a una forte pressione antropica che rischia di metterne a repentaglio la biodiversità.

Gli oceani sono fonte di cibo, energia e lavoro per gli esseri umani. Coprono tre quarti della superficie terrestre dando ospitalità alla più grande biodiversità di specie animali e vegetali. Regolano anche la temperatura terrestre rendendo possibile la vita sulla Terra. La nostra salute e i cambiamenti climatici sono indissolubilmente legati alle grandi distese marine: per questo occorre salvaguardarle.

 

Come nasce

L’8 giugno del 1992 il vertice sull’ambiente di Rio de Janeiro decise di istituire questa giornata come monito sui rischi legati allo sfruttamento dell’ambiente marino e come auspicio per interventi mirati sul medio e lungo periodo. Dal 2008 la Giornata è riconosciuta anche dalle Nazioni Unite. Vi partecipano oltre 140 Paesi che si impegnano a considerare l’importanza degli oceani e a studiare opportune iniziative a loro tutela.

 

Perché è importante

Il 70% della superficie terrestre è costituita da acqua. Sono migliaia le specie di animali e di piante che vivono in ambienti marini e che richiedono tutela, alla stregua delle specie terricole. Non solo, gli oceani regolano la temperatura terrestre rendendo possibile la vita sulla Terra. La nostra salute e i fenomeni climatici sono quindi legati alle grandi distese marine, che oggi soffrono dei danni causati dall’inquinamento e dalla dispersione di plastiche e microplastiche.

 

Il tema del 2024 | Awaken New Depths (Risvegliare nuove profondità)

L’oceano sostiene l’umanità e tutta la vita sulla Terra. Anche se sappiamo poco dell’oceano rispetto alla sua immensa vastità – abbiamo esplorato solo circa il 10% delle sue profondità – conosciamo le conseguenze delle azioni antropiche sulla salute dei mari. Ogni anno l’umanità continua a prendere decisioni rischiose e miopi che aumentano il rischio di rovina per l’oceano (abbiamo visto la campagna di Etica contro l’estrazione dai fondali marini, per fare un esempio) e, di conseguenza, per noi stessi. Per dare vita ad un ampio movimento a favore dell’oceano, la Giornata vuole risvegliare nuove profondità di consapevolezza e azione.

Promossa da un Consiglio consultivo dei giovani composto da 25 leader giovanili provenienti da 21 paesi, la Giornata mondiale degli oceani 2024 unisce il mondo per celebrare il ‘Pianeta blu’ e intraprendere azioni collettive per un oceano sano e un clima stabile. Sono previste decine di migliaia di attività, celebrazioni e altri eventi. Insieme, queste azioni coinvolgeranno milioni di persone in oltre 150 paesi. 

La leadership giovanile è una caratteristica fondante di questa giornata. “Come giovani sostenitori del clima, possediamo la chiave per la sua protezione. Attraverso la nostra azione collettiva, passione e dedizione, possiamo proteggere i nostri oceani e combattere il cambiamento climatico per un futuro più sostenibile. Abbiamo il potere di potenziare e amplificare le nostre voci come giovani in tutto il mondo per influenzare e creare un impatto per la risorsa più preziosa del nostro pianeta blu: il nostro oceano! ” – ha affermato Leena Joshi(India), durante il lancio della giornata di quest’anno.

Ha aggiunto Maria Jose Rodriguez Palomeque (Messico): “i giovani, soprattutto quelli provenienti da comunità vulnerabili, sono voci essenziali nella creazione di soluzioni climatiche per proteggere l’oceano. Ignorare le loro voci significa ignorare il nostro futuro. I giovani meritano di essere riconosciuti come soggetti politici”.  

Per la Giornata Mondiale degli Oceani 2024 in Italia si svolgeranno conferenze, dibattiti, proiezioni cinematografiche, mostre fotografiche, eventi sportivi, pulizie delle spiagge e delle coste, laboratori educativi per tutte le età e molto altro ancora.

 

 

L’importanza degli oceani

Gli oceani producono metà dell’ossigeno che respiriamo e sono una fonte diretta di cibo per un miliardo di persone, oltre a rappresentare anche un’importante fonte di energia e di lavoro. Ma i vantaggi per l’uomo non si fermano qui. Il legame è così stretto che stupisce non sia mai stato messo abbastanza in rilievo: se il mare è vivo vive anche l’uomo, se il mare è in sofferenza lo siamo anche noi.

 

Il valore economico degli oceani 

Come tutte le risorse anche gli oceani hanno un “valore economico”. Secondo un report del WWF (Reviving the Ocean Economy: The case for action – 2015) gli oceani – con la pesca, il turismo, le rotte di navigazione e le attività costiere – sono un soggetto economico da 24 mila miliardi di dollari, al settimo posto tra le principali economie mondiali.

Nel 2010, il prodotto economico delle industrie marittime e oceaniche era di circa 1,5 miliardi di dollari, rappresentando il 2,5% del valore aggiunto lordo mondiale e impiegando circa 31 milioni di persone. Entro il 2030, si prevede che questo valore potrebbe raddoppiare, con un aumento significativo nei settori dell’acquacoltura marina, dell’energia eolica offshore e della cantieristica navale.

Nel 2016 gli scienziati del NOAA, ente governativo statunitense per le risorse oceaniche e atmosferiche, si sono spinti a calcolare il valore di alcune aree marine. Quella, immensa, compresa tra la costa occidentale degli Stati Uniti, le isole Hawaii e il Perù, è stimata in 17 miliardi di dollari. E gli introiti da pesca commerciale rappresentano solo una quota marginale, dovendosi conteggiare nel valore complessivo anche le altre attività e, soprattutto, il naturale assorbimento di carbonio da parte delle acque, che da solo vale circa 13 miliardi di dollari.

La “Blue Economy” offre anche opportunità di investimento sostenibile, come i Blue Bond, strumenti finanziari che raccolgono capitale per progetti marini e oceanici, mirati a migliorare la salute degli oceani e a promuovere pratiche ecologiche.

Perché gli Oceani sono a rischio

Insomma, una ricchezza enorme. Che però viene messa sempre più a rischio dallo sfruttamento intensivo e dai cambiamenti climatici. L’inquinamento, il riscaldamento dei mari e l’acidificazione delle acque, insieme alla perdita di biodiversità (crollata del 39% tra 1970 e 2010) sono i principali rischi a cui è sottoposto il grande involucro liquido che ricopre gran parte della Terra.

Plastica e inquinamento

È stato calcolato che ogni anno in tutto il mondo vengono riversati in mare dai 4 ai 12 milioni di tonnellate di plastica. Come segnala l’Unione Mondiale per la Conservazione della Natura, nel solo mare Mediterraneo vengono gettati più di 200.000 tonnellate di plastica all’anno, cioè il contenuto di oltre 500 container. Il risultato è che a livello mondiale la plastica rappresenta l’80% dei rifiuti presenti negli oceani, dalle acque superficiali giù giù fino ai fondali marini. Tra le fonti di inquinamento non mancano gli scarichi urbani e industriali, che immettono nell’ambiente sia sostanze organiche sia materiali non degradabili come metalli pesanti e particelle radioattive. Si stima che entro il 2040 ci saranno circa 700 milioni di tonnellate di plastica negli oceani.

Surriscaldamento 

Per il settimo anno consecutivo nel 2022 il riscaldamento degli oceani ha registrato temperature in costante aumento, con il Mediterraneo a fare da capofila tra i bacini in cui il fenomeno è più evidente. Incrementi che, uniti a livelli sempre più elevati di salinità e a una maggiore separazione dell’acqua in strati, possono compromettere il naturale scambio tra la superficie e le zone più profonde, alterando così gli spostamenti delle specie ittiche.

Acidificazione delle acque

L’acidità degli oceani è un fenomeno naturale dovuto all’assorbimento dell’anidride carbonica atmosferica. Ma se le concentrazioni di CO2 aumentano, anche l’acidificazione subisce un incremento, con conseguente riduzione di altre sostanze minerali necessarie alla sopravvivenza degli organismi marini.

L’acidità media superficiale, rimasta stabile per milioni di anni, ha subito un’accelerazione del 26% negli ultimi 150 anni. In assenza di interventi specifici, il dato potrebbe aumentare del 150% entro il 2100.

Le principali politiche per preservare gli oceani

Una gestione sostenibile delle risorse marine richiede un radicale cambiamento di approccio, che coinvolga le politiche dei Paesi rivieraschi e le numerose industrie di settore.

Nel febbraio 2022 il vertice One Ocean, tenutosi a Brest, è stato uno degli eventi più importanti nell’ambito del decennio ONU delle scienze oceaniche per lo sviluppo sostenibile. La Commissione Europea ha fornito il suo contributo presentando tre iniziative:

  • una coalizione internazionale per proteggere la biodiversità marina nelle zone non soggette a giurisdizione nazionale;

  • un progetto informatico che consenta ai ricercatori di creare simulazioni digitali degli oceani del mondo;

  • una missione di ricerca UE per migliorare le condizioni degli oceani entro il 2030.

L’approccio è stato ribadito nel corso della successiva Conferenza delle Nazioni Unite sugli Oceani, tenutasi a Lisbona, che ha condotto nel marzo di quest’anno alla sottoscrizione del cosiddetto Trattato d’alto mare, un fondamentale accordo che prevede la creazione di aree marine protette in acque internazionali e l’obbligo di valutazione di impatto ambientale per le attività in alto mare.

 

Scopri l'impegno di Etica per la salvaguardia degli oceani 

 

Per salvaguardare i nostri oceani dall’inquinamento da plasticaabbiamo sottoscritto, insieme a 160 istituzioni finanziarie internazionali provenienti da 29 Paesi, un accordo per invitare i governi di tutto il mondo a sostenere il settore finanziario nell’adozione di misure per combattere l’inquinamento da plastica e creare un trattato storico e ambizioso che tenga conto delle sfide e dei costi associati a questo problema globale. Il Finance Statement on Plastic Pollution sollecita i governi a concordare uno strumento internazionale giuridicamente vincolante (ILBI – International Legally Binding Instrument), supportato da regole vincolanti e obblighi per gli Stati per gestire l’intero ciclo di vita della plastica e porre, fine all’inquinamento derivante da questo materiale.

La Blue economy è decisiva per un futuro sostenibile

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La Blue economy, l’economia che ruota intorno agli oceani, ai mari e ai fiumi, è decisiva per un Green Deal europeo all’insegna della sostenibilità. Il settore della finanza e l’economia blu a basso impatto ambientale sono indispensabili per raggiungere gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG) dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite e per contrastare i cambiamenti climatici

È quanto emerge dall’ultimo rapporto della Commissione Europea, il quarto “Blue Economy Report” pubblicato nel mese di giugno.

 

Oceani e mari in salute sono la precondizione per la blue economy sostenibile

Preservare l’ambiente marino è indispensabile per la blue economy secondo Frans Timmermans, vicepresidente esecutivo per il Green Deal.

«L’inquinamento, la pesca eccessiva e la distruzione degli habitat, insieme agli effetti della crisi climatica, minacciano la ricca biodiversità marina da cui dipende la blue economy. Dobbiamo cambiare rotta e sviluppare un’economia sostenibile in cui la protezione dell’ambiente e le attività economiche vadano di pari passo».

 

 

Blue economy in Europa, 4,5 milioni di persone occupate e 650 miliardi di euro di fatturato

I dati pre-pandemia raccolti da Eurostat ed elaborati dalla Commissione Europea ci dicono che la blue economy impiega almeno 4,5 milioni di persone nella sola Europa. Il comparto genera ben 650 miliardi di euro di fatturato e 176 miliardi di euro di valore aggiunto lordo, con un utile lordo 68 miliardi di euro. In Italia, trainata dal turismo costiero, dà già lavoro a oltre 390.000 persone e genera circa 19,7 miliardi di euro di valore aggiunto al PIL nazionale.

I settori coinvolti nella blue economy, individuati dalla UE, riguardano la preservazione delle risorse marine viventi e non viventi, l’energia rinnovabile ricavata dal mare, le attività portuali. Ma anche tutto il comparto navale, dalla costruzione ai trasporto marittimo. Fino al turismo costiero, alla pesca e all’acquacoltura. Negli ultimi anni, all’interno dei vari settori industriali, secondo il report della Commissione UE, tutto ciò che è sviluppato all’insegna della totale sostenibilità ambientale, è in forte crescita. L’energia delle onde e delle maree, la produzione di alghe, lo sviluppo di attrezzi da pesca innovativi, il ripristino degli ecosistemi marini creeranno nuovi posti di lavoro e imprese verdi nell’economia blu.

Quali sono i settori produttivi della blue economy?

Tra i principali comparti emergenti e innovativi ci sono proprio quelli legati alla produzione di energia rinnovabile marina. Cioè l’energia ricavata in oceano. Dall’eolico offshore ai pannelli fotovoltaici galleggianti, il cosiddetto “solare flottante”. Tecnologie che permettono di raccogliere in modo pulito l’energia necessaria per gli elettrolizzatori, in grado di scindere le molecole di idrogeno e ossigeno e quindi produrre l’idrogeno verde, quello prodotto a partire da fonti esclusivamente rinnovabili. Rientrano nell’economia blu, di conseguenza, la ricerca e lo sviluppo delle infrastrutture marine legate alle comunicazioni e all’energia, come la posa dei cavi sottomarini che richiede, a sua volta, lo sviluppo della robotica. All’energia rinnovabile marina l’UE ha già dedicato una vera e propria strategia di sviluppo. Insieme a quella per l’energia rinnovabile offshore, che dovrebbe portare ad un aumento della capacità eolica offshore da 12 GW a 300 GW entro il 2050.

Altrettanto fondamentale resta la bioeconomia, legata soprattutto alle produzioni biologiche ittiche e algali, le biotecnologie. Solo il settore biologico ha ottenuto profitti lordi per 7,3 miliardi nel 2018, un aumento del 43% in più rispetto al 2009, con un fatturato che ha raggiunto i 117,4 miliardi di euro, il 26% in più rispetto al 2009. Da solo, il nuovo settore delle alghe marine si è rivelato davvero notevole. Anche se i dati socio-economici recenti sono disponibili solo per un numero limitato di Stati membri (Francia, Spagna e Portogallo), il fatturato registrato nel 2018 ammonta a 10,7 milioni di euro. Poiché il cambiamento climatico sta portando a estati più calde e secche, alcuni Paesi devono garantire l’approvvigionamento idrico e quindi hanno investito nella desalinizzazione. Attualmente ci sono 2.309 impianti di desalinizzazione operativi nell’UE che producono circa 9,2 milioni di metri cubi di acqua potabile al giorno.

 

L’energia degli oceani e la formazione indispensabili per la transizione ecologica

Ma non bastano solo le soluzioni tecnologiche. Per guidare il processo al cambiamento occorre investire in formazione. La blue economy richiede nuove competenze. A oggi già il 17-32% delle aziende sta registrando carenze di competenze e di personale tecnico adeguatamente formato, specie nell’ambito dell’energia rinnovabile offshore. Fattore che richiede l’intervento degli Stati membri e di investimenti sia in ricerca ma anche nella formazione dei futuri giovani lavoratori. O per riqualificare coloro che sono ancora impiegati nel comparto fossile.

 

Il valore del capitale naturale: i servizi ecosistemici

Per la Blue Economy è fondamentale quantificare i costi e l’impatto dell’inquinamento, che rischia di esaurire il capitale naturale blu, così come di calcolare i benefici economici, ambientali e di benessere derivanti dalla loro conservazione. Sono le aree naturali che presentano vantaggi per la qualità della vita dei cittadini, che assicurano, attraverso la cura dei residenti, la salvaguardia della natura nonché la tutela della terra, della costa, del mare e la conservazione del paesaggio. L’insieme di queste esternalità positive per l’ambiente, corrisponde ai cosiddetti “servizi ecosistemici“.

 

Il valore dei servizi ecosistemici in Europa è stimato pari a migliaia di miliardi di euro l’anno.

Un patrimonio inestimabile che va protetto e curato ma che, per esempio, con l’innalzamento del livello dei mari e l’erosione delle coste, comporta una perdita stimata di almeno 15 miliardi di euro ogni anno. Gli esperti della Commissione UE hanno calcolato che la perdita dell’1-1,3% di terra e acque interne sommerse porterebbe al declino del 4,3-5,4% del valore dei loro servizi ecosistemici. Dai 360 a 341-344 miliardi di euro all’anno.

Attualmente, però alcuni settori importanti non sono ancora a impatto zero. Vero è che le emissioni di CO2 provenienti dalle flotte pescherecce dell’UE sono diminuite del 18% dal 2009 e il 2018. E l’impatto del pesce e dei prodotti del mare in relazione al cambiamento climatico, rispetto alle altre fonti proteiche nella dieta dei cittadini europei, ha un impatto inferiore rispetto alla carne. Ma ciò non è ancora sufficiente.

 

Per la UE, l’economia blu è indispensabile per raggiungere gli obiettivi del Green Deal

La Commissione Europea, anche alla luce delle conclusioni del “Blue Economy Report”, ha condiviso un approccio ancora più radicale, aggiornando la road map pubblicata nel 2012 e ribadendo come lo sviluppo di “un’economia blu sostenibile è essenziale per raggiungere gli obiettivi del Green Deal europeo e garantire una ripresa verde e inclusiva dalla pandemia”.

Per raggiungere gli obiettivi di neutralità climatica, le linee di indirizzo della Commissione Europea indicano, oltre che sviluppare l’energia rinnovabile offshore, la decarbonizzazione del trasporto marittimo. Il mix di energia oceanica sostenibile che includa l’energia eolica, termica, quella prodotta dalle onde e dalle maree, potrebbe generare un quarto dell’elettricità dell’UE nel 2050. I porti, sottolineano gli esperti della UE, sono cruciali per la connettività e l’economia delle regioni e dei paesi europei e potrebbero essere utilizzati come hub energetici: porti più verdi, completamente slegati dall’economia fossile.

 

Investire in natura: investire in economia sostenibile

Non ci può essere una vera blue economy senza un’economia circolare e una riduzione dell’inquinamento, ribadiscono gli esperti. Servono, quindi, standard rinnovati per la progettazione degli attrezzi da pesca, per il riciclaggio delle navi, per lo smantellamento delle piattaforme offshore. Azioni concrete per ridurre l’inquinamento da plastica e microplastica. Occorre “investire sulla natura”: preservare almeno il 30% della superficie marina dell’UE invertirà la perdita di biodiversità, aumenterà gli stock ittici, contribuirà alla mitigazione del clima e alla resilienza, e genererà significativi benefici finanziari e sociali.

L’innalzamento del livello del mare e degli oceani, il surriscaldamento particolarmente aspro per il continente europeo, pongono la sfida dell’adattamento climatico per tutte le aree costiere. Attività di tutela che passano attraverso la protezione dei litorali dal rischio di erosione e inondazioni attraverso infrastrutture verdi, indispensabili per tutelare turismo e l’economia costiera. Con l’adozione delle linee guida strategiche dell’UE per l’acquacoltura sostenibile, la Commissione si è anche impegnata a far crescere linee di produzione alimentari a minor impatto sull’ambiente. La tutela del mare passa, ricordano gli esperti europei, anche attraverso la gestione degli spazi marittimi, conseguenza dei piani nazionali di ciascun Stato membro. Un rapporto sull’attuazione della direttiva UE sulla pianificazione dello spazio marittimo sarà pubblicato nel 2022, rende noto la Commissione.

Con un valore economico annuale stimato in 2,5 trilioni di dollari, equivalente alla settima economia più grande del mondo, l’economia blu sta attraendo sempre più investitori, assicuratori, banche e politici come nuova fonte di prosperità.

Gli oceani, i mari, l’ambiente e gli uomini non si possono permettere altre perdite di capitale naturale che corrisponderebbero ad ingenti perdite anche economiche. Anche per questo il ruolo della comunità finanziaria è ancora più importante, oggi, ricorda ancora la Commissione Europea, individuando linee guida per la finanza blu, nel guidare gli investimenti davvero sostenibili.

 

Blue deal europeo, come l’Europa combatte la povertà idrica

L’acqua, risorsa indispensabile per la vita e per l’economia, rappresenta una delle sfide sul fronte della sostenibilità e della transizione green che maggiormente dovrebbe attrarre l’attenzione degli investitori. Per questo motivo, da tempo, si parla della realizzazione di un Blue Deal che, alla stregua del Green Deal e in stretta correlazione con esso, dovrebbe regolamentare e pianificare a livello europeo tutte le iniziative per la salvaguardia dell’oro blu.

 

I punti chiave del progetto Blue Deal fra etica ed economia

Alla fine del 2023 il CESE, Comitato economico e sociale europeo, ha redatto 15 principi guida e 21 azioni che sono contenute nella Dichiarazione per un Blue Deal europeo. L’attenzione è rivolta in particolare alle perdite d’acqua nelle reti e agli sprechi in agricoltura, industria e famiglie. L’obiettivo dichiarato è quello di anticipare i bisogni, di preservare e gestire adeguatamente le risorse idriche comuni nel breve, medio e lungo termine.

Il CESE invita le istituzioni europee e gli Stati membri a riconoscere l’acqua come una priorità strategica nel periodo di programmazione 2028-2034. Il documento, però, oltre a mettere nero su bianco la necessità della realizzazione di una vera e propria politica europea dell’acqua, pone l’accento sullo stretto legame fra risorse idriche e diritti sociali dimostrando una particolare attenzione per gli aspetti di sostenibilità sociale nel combattere la povertà idrica. 

Inoltre, nella consapevolezza del valore economico di questa risorsa, il Blue Deal riconosce l’importanza che questo progetto sia accompagnato da un “piano di finanziamento altrettanto ambizioso”, attraverso un Blue Transition Fund che finanzi infrastrutture idriche resilienti e sostenibili, la ricerca e l’adozione di tecnologie innovative e iniziative che puntino a ridurre le disuguaglianze nell’accesso a servizi idrici e igienico-sanitari. È forte la necessità di trovare un “mirabile equilibrio”, esattamente come nel Green Deal, fra sostenibilità ambientale e interessi economici, “in quanto le diverse industrie hanno esigenze e opportunità diverse in materia di acqua”.

 

Questi i principi guida del “Patto Blu” dell’UE:

  • Tutte le politiche dell’UE devono essere allineate con la nuova politica idrica europea, basandosi su dati idrici aggiornati, accurati e accessibili.

  • La protezione e il ripristino degli ecosistemi, delle zone umide e della biodiversità devono essere parte essenziale del Patto Blu.

  • L’UE deve adottare un approccio basato sull’acqua come diritto umano e combattere la povertà idrica, riconoscendo il diritto a un ambiente sano come diritto umano fondamentale.

  • servizi di acqua, igiene e sanificazionedevono essere sostenibili, equi, di alta qualità e accessibili a tutti, con priorità ai bisogni fondamentali in caso di crisi idrica.

  • Tutti gli utenti devono essere incentivati ad adottare soluzioni sostenibiliper l’uso e il consumo dell’acqua.

  • L’UE deve sostenere lo sviluppo di tecnologie per l’efficienza idrica, il riciclo e la riduzione dell’inquinamento.

  • Le perdite d’acquadovute a perdite nelle reti e sprechi devono essere significativamente ridotte.

  • L’agricoltura, essendo sia causa che vittima della scarsità d’acqua, deve avere accesso a risorse idriche di qualità e una gestione sostenibile per una produzione alimentare adeguata nell’UE

  • Dato il legame tra energia, acqua e materie prime critiche, l’acqua deve essere considerata un elemento fondamentale della strategia industrialedell’UE.

  1. È necessario un approccio settoriale poiché le diverse industrie hanno esigenze idriche specifiche. Il principio di non danneggiamento (no-harm principle)  deve essere combinato con il diritto delle attività economiche di consumare acqua.

  2. Deve essere garantita la disponibilità di lavoratori qualificatie specializzati, preservando la competitività delle aziende europee.

  3. Una politica idrica ambiziosa richiede un piano di finanziamentoaltrettanto ambizioso. Prezzi, costi e tasse dell’acqua devono essere equi e trasparenti, basati sul principio del recupero totale dei costi.

  4. L’UE deve intensificare gli sforzi in diplomazia blu e integrare l’acqua nella politica esterae nelle relazioni esterne, compresi vicinato, commercio e sviluppo. Uno degli obiettivi principali della diplomazia blu dovrebbe essere migliorare il quadro dei trattati ONU sulle questioni idriche e implementare rapidamente gli accordi internazionali.

  5. È essenziale sviluppare politiche internazionali per promuovere l’uso parsimonioso ed efficiente dell’acqua in tutti i settori, ridurre l’inquinamento delle acque sotterranee e superficiali e ripristinare le acque inquinate.

  6. Il Patto Blu dell’UE richiede una governance adeguatadelle risorse idriche dolci, comprese le acque sotterranee. Il CESE chiede un approccio di bacino idrografico che coinvolga tutti gli stakeholder rilevanti.

 

Il mare, una risorsa strategica per la transizione verde

Mentre si parla di come tutelare la risorsa “acqua dolce”, l’Europa sembra aver ben chiara l’importanza economica del suo mare. Il dato emerge dall’ultima edizione del Blue Economy Reportla ricerca che l’UE dedica alle attività economiche basate o collegate all’oceano, ai mari e alle coste. L’economia del mare in Europa impiega 3,6 milioni di persone (+17% rispetto al 2020), garantisce un fatturato di 624 miliardi di euro l’anno (+21% rispetto al 2020) e rappresenta 171 miliardi di euro di Val, ovvero di Valore aggiunto lordo (+35% rispetto al 2020)

Il report ha messo in evidenza che l’Europa si conferma una meta turistica marina per definizione tanto che proprio questa voce risulta la più importante e pesa per il 29% sul totale del valore aggiunto occupando il 54% dell’intera forza lavoro della blue economy. Al secondo posto si conferma il trasporto marittimo che in termini di fatturato genera quasi un quarto dell’intero valore del comparto. Spicca negli ultimi anni il settore delle energie rinnovabili marine con un trend di crescita costante e profitti lordi stimati nell’ordine dei 2,4 miliardi di euro.

Infine, ottime performance anche nel settore delle risorse biologiche marine (pesca, acquacoltura, lavorazione e distribuzione dei prodotti ittici), che ha registrato un incremento del 24% rispetto al 2020.

 

 

La blue economy alla ricerca di resilienza

La nuova edizione del rapporto illustra anche i potenziali impatti dei cambiamenti climaticisull’economia blu lungo le coste dell’UE. In particolare, emerge che se i livelli attuali di protezione costiera non verranno aumentati, i danni economici annuali derivanti dalle inondazioni costiere potrebbero essere compresi tra 137 e 814 miliardi di euro entro il 2100. Lo studio, inoltre, mette in evidenza il contributo che l’economia marina è in grado di offrire concretamente alla strategia di transizione energetica grazie ai passi avanti compiuti nello sviluppo dell’energia derivante dalle onde, dalle maree e dall’energia eolica offshore.

Notizie meno positive per la flotta peschereccia dell’UE poiché il rapporto mostra come, nonostante una diminuzione del 25% del consumo di carburante e delle emissioni di CO2 registrata tra il 2009 e il 2021, l’efficienza del carburante sia peggiorata negli ultimi anni a causa dell’aumento dei prezzi dei combustibili. Su questo fronte, però, si segnala il “varo” a fine 2023 del Regolamento marittimo FuelEU, parte integrante del pacchetto “Fit for 55” che punta a ridurre le emissioni di gas serra nell’Unione del 55% rispetto al 1990 entro il 2030.

Italia, il contributo allo sviluppo della blue economy

All’interno dell’Unione Europea, cinque Stati membri rappresentano il 70% del valore aggiunto lordo dell’intera economia blu della regione: Germania, Francia, Spagna, Italia e Paesi Bassi in questo ordine. In termini di occupazione, questi Paesi rappresentano un contributo combinato del 67% del totale dei posti di lavoro dell’economia blu dell’Unione.

 

Scopri l'impegno di Etica per la salvaguardia dei mari - Etica Sgr, insieme a 160 istituzioni finanziarie internazionali provenienti da 29 Paesi, ha sottoscritto un accordo globale per la creazione di uno strumento internazionale giuridicamente vincolante per porre fine all’inquinamento da plastica.

 

 

A cura di 

Carlo GATTI

 

Rapallo, Mercoledì 4 Giugno 2025