La Storia della M/n FAIRSEA

LA STORIA DELLA NAVE PASSEGGERI

FAIRSEA

SITMAR LINE

OGNI NAVE HA LA SUA STORIA. OGGI CI OCCUPIAMO DI UNA NAVE CHE NACQUE NEGLI STATI UNITI COME C-3 Class - FU TRASFORMATA IN ESCORT CARRIER – VISSE A LUNGO COME NAVE PASSEGGERI CON IL NOME FAIRSEA ED EBBE UN TRISTE EPILOGO: SUBI’ UN INCENDIO IN SALA MACCHINE, FU RIMORCHIATA - IN EMERGENZA - A PANAMA DA UNA NAVE DA CARICO. IL SUO COMANDANTE, CAP. S.L.C. CIRO CARDIA SI CARICO’ TUTTO IL PESO DELLA PERDITA DELLA SUA NAVE  E, DA VERO UOMO DI MARE DI VECCHIO STAMPO, SI TOLSE LA VITA NELLA SUA CABINA. POCO TEMPO DOPO, QUALE COMANDANTE DEL RIMORCHIATORE OCEANICO VORTICE, FUI INCARICATO DAI MIEI ARMATORI GENOVESI DI DIRIGERE VERSO LA SPONDA ATLANTICA DEL CANALE DI PANAMA PER PRENDERE A RIMORCHIO LA NAVE PASSEGGERI FAIRSEA CHE SI TROVAVA ANCORATA NELLA RADA DI COLON. IL CANTIERE LOTTI DI  SPEZIA L’ATTENDEVA PER COMPIERE L’ULTIMO ATTO DELLA SUA LUNGA E GLORIOSA CARRIERA: LA DEMOLIZIONE.

Nel primo dopoguerra, si creò negli USA un notevole surplus di navi che diede luogo ad un mercato mondiale dell’usato. Molte nazioni europee in seria difficoltà nel settore dei trasporti marittimi, tra cui l’Italia, colsero la grande opportunità per far ripartire il volano dell’economia. Nel 1938 l’armatore Alexander Vlasov fondò la SITMAR (Società Italiana Trasporti Marittimi) e nel 1947 acquistò dal Governo USA la sua prima nave: Vassar Victory (Cl. Victory) che fu trasformata per il trasporto di 1.132 emigranti e fu ribattezzata Castelbianco. La nave operò con bandiera italiana per la IRO (International Refugee Organisation). Nel 1952 fu parzialmente ricostruita e ritornò in servizio come Castelbianco (vedi foto sotto) con la stazza lorda aumentata da 7.604 a 10.139.

M/n Castelbianco

Dopo alcuni viaggi per l’Australia, prese servizio sulla linea del Brasile-Plata, poi ritornò sulla linea per l’Australia. Nel 1950 fu acquistata dalla SITMAR e fu ribatezzata Castelverde.

M/n Castelverde

Nell’ottobre del 1950 fu acquistata la  nave passeggeri Fairstone di 12.450 t.s.l.

M/n Castelfelice

ribatezzata Castel Felice (nella foto) che fu messa inizialmente sulla linea dell’Australia, poi su quella centro americana e successivamente su quella del Brasile-Plata. La SITMAR introdusse l’alternanza stagionale dei viaggi sulle rotte di maggior traffico: nel periodo invernale, dal Nord Europa per l’Australia e la Nuova Zelanda - via Suez oppure via Panama, e nel periodo estivo dal Nord Europa per il Canada e gli USA. Le due Castelbianco e Castelverde furono trasformate in moderne navi per il trasporto di un migliaio di passeggeri ciascuna e furono messe sulla linea Nord Europa-Centro America.

 


Portaerei di scorta Attacker

Sullo scafo della portaerei Attacker (foto sopra) fu costruita la Castelforte (1950-1960) che divenne Fairsky (1960-1977) che poteva trasportare, con aria condizionata, 1.462 passeggeri. La linea per l’Australia-N.Zelanda fu inaugurata nel 1958 con partenza da Southampton.

Come annunciato all’inizio, ora prendiamo in esame l’ultima nave passeggeri acquistata dalla SITMAR, la FAIRSEA, già portaerei di scorta Charger (foto sotto). Questa nave seguì lo stesso percorso iniziale della Castelbianco. Nel luglio 1958, dopo un refitting che gli consentì il trasporto di 1.412 passeggeri, inalberò la bandiera italiana ed entrò in linea fissa per l’Australia.

Portaerei di scorta HMS Charger

La nave iniziò la sua carriera con il nome: HMS Charger

M/n Fairsea
La nave FAIRSEA terminò la sua carriera con questo “shape” della metà degli anni ‘60.

Una bella immagine portuale del Fairsea a Fremantle (Perth)-Australia

La FAIRSEA nacque come nave della Classe C3, (1)* da carico-passeggeri, con il nome di RIO DE LA PLATA per la Moore-McCormack Lines. Fu costruita dal Cantiere Shipbuilding & Drydock Co, Chester USA. Fu varata il 1 marzo 1941. Aveva un piccolo record, si trattava della prima (con tre gemelle) ad essere propulsa da un potente motore Diesel costruito in USA. Nella sua veste di cargo-passengers ship, era destinata a trasportare merce varia e 70 passeggeri da New York al Sud America. Ma prima di essere completata, fu rilevata dal Governo USA e trasformata in Portaerei di scorta per la US Navy e, infine fu rinominata HMS CHARGER e fu ceduta alla Royal Navy inglese. Entrò in servizio il 3 marzo 1942. La nave fu adibita alla scorta dei convogli in Nord Atlantico e dovette superare numerosi momenti critici, ma ne uscì sempre indenne. Più tardi la nave fu restituita alla US Navy cambiando la sigla iniziale HMS in USS CHARGER e fu impiegata in Pacifico servendo gli S.U. con valore.

La Charger concluse il suo periodo di militarizzazione il 15 marzo 1946 e ritornò presso il Cantiere Moore-McCormack che la costruì. Fu rimosso il ponte di volo e fu convertita in trasporto truppe. Questo servizio fu breve e presto fu inserita nella RESERVE FLEET (Mothball) insieme a molte altre navi della sua stessa classe sul James River e fu messa in vendita sul mercato che in quegli anni era molto attivo a causa delle perdite belliche subite dalle nazioni belligeranti.

La FAIRSEA iniziò la sua carriera con un noleggio di tre viaggi per la IRO (International Refugee Organisation), da Napoli a Melbourne (Australia) via Suez a partire dall’11 maggio 1949. La nave ritornò sempre vuota dall’Australia per questioni contrattuali, quindi, in quel periodo, non era ancora un SITMAR Liner.

Dalla cruda e semplice descrizione di quei tre viaggi della salvezza non emerse mai nulla, almeno in Italia, delle tragedie umane di quei 6.000 profughi europei che si lasciarono alle spalle storie di campi di concentramento, di bombardamenti, di violenze, di fame e miseria. Tutto finì nell’oblio della liberazione per favorire la ripartenza verso una nuova vita ispirata, finalmente, a valori di civiltà e libertà.

L’11 maggio la FAIRSEA partì con 1.896 persone a bordo, inclusi 457 bambini che erano stati liberati da diversi campi europei. La nave passò il Canale di Suez il 18 maggio e dopo una breve sosta a Fremantle diresse a Merlbourne dove attraccò l’8 giugno al Prince’s Pier. Ritornò vuota a Napoli, ripartì nuovamente per l’Australia il 21 luglio con 1.896 persone a bordo. Sebbene sei nazioni fossero rappresentate a bordo, ben 660 erano profughi polacchi. La nave sostò a Fremantle e continuò gli sbarchi a Newcastle (Aust.) il 19 agosto 1949. Il terzo viaggio della FAIRSEA ebbe inizio il 23 settembre a Napoli e si concluse il 19 ottobre a Merlbourne con lo sbarco di 1.890 profughi.

La M/n FAIRSEA, finalmente sotto il controllo della SITMAR e, al comando del Comandante rivierasco Stagnaro, partì il 3 dicembre, arrivò a Sydney il 31 dicembre ed ormeggiò alla banchina N°13 Pyrmont. Ma questa volta la nave potè finalmente imbarcare passeggeri anche per il ritorno in Italia.   Pur restando immutata la destinazione finale: l'Australia, cambiò l’itinerario. Il porto di partenza diventò Bremerhaven.

Lo Stemma sociale riporta la V dell’armatore Vlasov

 


31 dicembre 1949. La M/n FAIRSEA durante il suo viaggio inaugurale come “nave passeggeri di linea” (2)*


Questa cartolina fu stampata nel gennaio 1954

Nel novembre del 1953, mentre si trovava ormeggiata a Merlbourne, scoppio un incendio in sala macchine che presto fu domato con il completo allagamento del locale. Fu svuotata e ripulita e la nave continuò i suoi viaggi.

La FAIRSEA fotografata nel 1954 con una nuova ciminiera ed un nuovo albero (tripode) sul ponte di comando.

Nel dicembre 1953, la FAIRSEA subì alcuni ritocchi estetici alla ciminiera e nell’albero. Avendo navigato regolarmente intorno all’Australia, fu soltanto nel febbraio 1957 che essa intraprese the home voyage navigando, per la prima volta, verso Est compiendo il suo viaggio inaugurale verso la Nuova Zelanda e proseguendo la traversata dell’Oceano Pacifico fino a Panama, che attraversò per la prima volta.

Manifesto Pubblicitario

Nel 1957, la FAIRSEA subì altre trasformazioni nel Cantiere di Trieste. Fu aggiunto un ponte sul deck promenade, una stiva diventò piscina e fu installata l’aria condizionata, furono migliorate le cabine che furono in grado di ospitare 1.460 passeggeri. La stazza lorda fu portata a 13.432 GRT. Gli interni assunsero l’Italian Style e, al suo completamento, risultò un’elegante unità.

Sopra e sotto: La FAIRSEA dopo l’ultimo refitting del 1957. Sebbene lo shape dello scafo ricordasse ancora la Classe C3, le sue linee erano molto migliorate.


La M/n FAIRSEA nel 1961

Essendo ancora sotto 'contratto governativo', la FAIRSEA continuò il trasporto dei passeggeri inglesi verso l’Australia e la Nuova Zelanda. Nel 1961 si sottopose ad un ulteriore refitting per migliorare l’accoglienza dei passeggeri. Nel nuovo progetto di ristrutturazione, la capacità passeggeri diminuì fino a 1.212. Facendo leva sulla popolarità acquisita negli anni da questa nave italiana, la Sitmar decise di impiegarla - in anteprima - come nave da crociera. La FAIRSEA partì da Sydney il 7 luglio 1966, visitando Cairns, la Grande Barriera Corallina (Hayman Island) e Merlbourne. Anche in seguito, nell’intervallo tra due viaggi di linea, era impiegata in crociere occasionali.

Dati Nave:

Costruito dal:       Sun Shipbuilding & Dry Dock Co, Chester USA

Yard Nr:              188

Tonnellaggio:       11,678 GRT (di costruz.)-13,432 GRT come Fairsea dopo refit-1958

Lunghezza:          492ft / 150 mt.

Larghezza:           69.2ft / 21.1 mt.

Pescaggio:            24.ft / 7,20 mt.

Motore:                Doxford Geared Diesels by the builder - 9,000 CV

Screws:               Una Elica

Velocità:              16 nodi – 17 max

Passeggeri:          1,800 Classe Unica

40 in 1° classe e 1400 in Classe Turistica

Fully air-conditioned

La FAIRSEA fotografata a Wellington-New Zealand – 1967

Il 14 gennaio 1969, la FAIRSEA partì da Sydney con 986 passeggeri diretti a Southampton (UK). Il 23 gennaio, quando si trovava 900 miglia a Ovest del Canale di Panama scoppiò un incendio nel locale macchine. La nave rimase in panne, cessò di funzionare la maggior parte dei servizi e degli impianti: motori ausiliari-elettrogeni, cucina, aria condizionata, bagni, acqua distillata ed altro.

SS Louis Lykes vista dal lato dritto della FAIRSEA

Photograph © Peter Bradford

Il primo tentativo di salvataggio fu operato da un rimorchiatore oceanico, ma fallì perché il mezzo rimase senza carburante. Il travaso di nafta (non appropriata) dalla nave mandò definitivamente in avaria il rimorchiatore. Passarono ben sei giorni prima che giungesse la nave da carico SS Louise Lykes che rispose alla chiamata di soccorso e che la rimorchiò felicemente a Balboa. Durante la lunga attesa, il Comandante Ciro Cardia ed il suo equipaggio dovettero fronteggiare la comprensibile reazione di 1000 passeggeri che sentendosi abbandonati dal mondo, reclamavano l’essenziale per sopravvivere in un ambiente per loro diventato ostile e incerto. Le condizioni meteo, per fortuna, si mantennero buone, ma non si può ignorare che la paura fosse ormai diventata la vera responsabile della pesante tensione psicologica che il comandante Cardia dovette fronteggiare con un grande dispendio di energie nervose. Dopo essere entrato in contatto con la nave soccorritrice ebbe, infine, la certezza che tutto si sarebbe risolto per il meglio. Ma l’uomo aveva ormai dato tutto ciò che gli era rimasto dentro per la sua nave, i suoi passeggeri e per il suo amato equipaggio. Al termine di quei sei giorni di grande pena, sentì d’aver assolto il suo compito di uomo di mare e per scusarsi di colpe a lui non imputabili, donò la propria vita pensando di salvare il proprio onore di “antico” capitano.

A questo punto possiamo aggiungere ancora alcuni particolari che mi sono stati descritti da un socio-Comandante di Mare Nostrum che navigò, poco dopo, con un ufficiale del comandante Ciro Cardia. Dalla descrizione di quello sfortunato uomo di mare, emerge la figura di un Capitano molto preparato, coscienzioso, prudente e molto amato dal suo equipaggio. Era un uomo all’antica, di grande prestigio e onore, più simile ai Comandanti di una volta che battevano tutti i mari preferendo rispondere direttamente a Dio del proprio operato, piuttosto che scendere a compromessi con assicurazioni, armatori, banche, autorità varie, raccontando storie più o meno vere tendenti a vendere soltanto la propria dignità. Attenzione quindi ad emettere giudizi o, ancor peggio, sentenze che siano in sintonia soltanto con i noti disvalori di quest’epoca, in cui si muovono tanti marinai “da tempo buono” .... e pochi uomini d’onore!

I danni subiti dalla FAIRSEA, specialmente in macchina, furono giudicati molto gravi; all’armatore non rimase che l’unica scelta possibile, la più triste, venderla ad un demolitore italiano.

RIENTRO ALLA BASE

M/R Vortice - 8.000 CV

Il ritorno in Italia della FAIRSEA a rimorchio del VORTICE fu inondato di sole e di bonaccia, dalla partenza da Colon, avvenuta il 9 luglio 1969, fino all’arrivo a Spezia. La potenza del rimorchiatore oceanico, tra i più “mastini” al mondo di quell’epoca, era di poco inferiore a quella della nave in esercizio, pertanto La velocità fu molto alta, intorno alla 8 miglia di media, con punte di nove miglia/h evitando sforzi inutili. (4)* Il viaggio durò 27 giorni e fu caratterizzato da un’anomala atmosfera di mestizia che toccò ognuno di noi nel profondo del cuore. All’arrivo del convoglio a Spezia, il dott. Lotti, titolare dell’omonimo Cantiere di demolizione e ultimo proprietario della FAIRSEA, mi chiese se poteva omaggiarmi di un ricordo della nave. Insieme ci recammo a bordo e lo condussi nella cabina del Comandante. Aprii un armadio dove avevo messo al sicuro la strumentazione della nave, indicai il SESTANTE di bordo e gli dissi: quello strumento é il simbolo della nave e del suo Capitano, lo vorrei custodire come una reliquia alla memoria di un vero uomo di mare. Sono passati quasi 45 anni e ogni mese ancora lo pulisco come se dovessimo usarlo insieme.

Note:

1*- Nel 1936, con il “Merchant Marine Act”, il Congresso approvò l’istituzione della United States Maritime Commission (USMC), con l’incarico di creare una nuova flotta mercantile moderna ed efficiente, da costruirsi negli Stati Uniti per assicurare i commerci americani via mare. Inoltre, le nuove navi dovevano risultare idonee all’impiego per compiti militari e ausiliari in caso di guerra; al vertice dell’USMC fu nominato l’ammiraglio Emory S.Land. I mercantili progettati dall’USMC vennero contraddistinti dalle sigle C-1, C-2, e C-3, ove “C” indicava il tipo “Cargo” mentre i numeri 1, 2, 3 ne indicavano la lunghezza (rispettivamente inferiore a 400 piedi, tra 400 e 450 piedi e superiore a 450 piedi - < 120m, tra 120 e 135 m, > 135 m. I progetti di altri tipidi unità erano identificati da ulteriori prefissi: T/”Tanker”) per le petroliere, P (“Personnel”) per i trasporti truppa ecc; tutte le nuove costruzioni erano propulse da apparati motore a vapore, in grado di imprimere velocità tra i 14 e i 16 nodi.

2* - La SITMAR (Soc.Italiana Trasp.Marittimi) fu fondata da un emigrato di nazionalità russa, tale Alexandre Vlasov. Egli lavorò nel settore marittimo con navi di diversa nazionalità, da quelle italiane a quelle inglesi e greche, prima, durante e dopo la 2^ guerra mondiale, da non confondere con l'altra Sitmar fondata a Roma nel 1913.

La Sitmar di Vlasov aveva una grande V sui lati dei fumaioli così come la bandiera sociale.

3* - Un discreto numero di navi USA, della classe C-3, furono convertite in navi-trasporto emigranti, inclusa la Mormacma, gemella della FAIRSEA che diventò la German Seven Seas, noleggiata dalla Holland America Line. Essa operò in Canada, US, Australia ed anche in Nuova Zelanda, anche come nave da crociera. Altre diventarono: Flaminia (Cogedar), Roma e Sydney (Flotta Lauro) anch’esse impiegate sulla rotta della Australia e Nuova Zelanda.

4* - Il Vortice disponeva di un cavo da rimorchio da 56 m/m sul winch automatico (troller) della lunghezza di 2.000 metri. Sulla prua della nave approntammo una "patta d’oca di catena" di grande diametro data volta alle bitte. I due penzoli scendevano dai due passacavi fino ad un paio di metri sull’acqua. Tra il cavo del ‘troller’ e la patta d’oca venne ingrillato un gherlino di Perlon (nylon) da 120 m/m per dare elasticità al convoglio. I runners di bordo (personale del Cantiere italiano) provvedevano a ingrassare le parti di frizione dei componenti del rimorchio e controllavano eventuali usure e sforzi anomali. La nave aveva i  fanali di navigazione regolamentari alimentati da bombole di gas provviste di cellule solari che venivano sostituite dai runners permanentemente collegati al Vortice via Walkye-Talkye. Numerose sono state le visite a bordo, tramite lo ‘zodiac’ per il controllo generale dello scafo e delle attrezzature in lavoro.

-  L’intento principale della nostra Associazione é la divulgazione della Storia Navale il più possibile aderente alla verità. Per questo motivo, la storia della FAIRSEA é stata (in parte) liberamente tradotta dal sito ufficiale della SITMAR LINE dal sottoscritto webmaster Carlo Gatti, autore dell’articolo. Ringrazio pertanto la Società per la concessione.

- Ringrazio infine il socio comandante Nunzio Catena per le ricerche storiche effettuate e per i contatti avuti con i testimonials dell’epoca.

Carlo GATTI

Rapallo, 8.1.2013

 


Le NAVI ROMANE di Fiumicino

 

LA PORTUALITA' DI ROMA ANTICA

LE NAVI ROMANE DI FIUMICINO

 

Ostia Antica fu legata a Roma per essere stata a lungo la sua appendice commerciale ed economica. Quel passato operoso svolto lungo lo snodo fluviale del fiume Tevere, rappresenta ancora oggi un microcosmo in grado di rivelarci importantissime testimonianze, non solo della cultura marinara e della vita quotidiana di allora, ma anche della convivenza di etnie molto diverse dal punto di vista religioso, artistico e delle loro specifiche tradizioni. Dal porto fluviale di Ostia transitava, tramite chiatte trainate da animali, il grano depositato nei grandi horrea (silos dell’antichità) che risaliva il Tevere per arrivare a rifornire i depositi della capitale e a soddisfare le esigenze di un milione di abitanti che abitavano nella capitale 2000 anni fa.

 

Perché nacque il grande porto di Claudio?

 

Le grandi navi onerarie dell’epoca, con il carico destinato all’Urbe, non potevano ormeggiare nel porto fluviale per ragioni tecniche molto evidenti, ma dovevano pendolare al largo, oppure ormeggiare a Pozzuoli, da cui le merci venivano poi trasportate ad Ostia, a bordo di navi di piccole dimensioni. L’espansione della capitale ed il suo sviluppo urbanistico, produssero un incremento dei traffici marittimi che il porto fluviale di Ostia non era più in grado di sostenere.

1 - Claudio e  Traiano:  i due veri Porti di Roma

 

L’imperatore Claudio ne prese atto e decise di costruirne un nuovo, ma ebbe in mente, fin da subito, un progetto costosissimo, convinto com'era che Roma, capitale dell’Impero, avesse raggiunto ormai la sua massima ricchezza ed espansione. Il progetto non piacque agli ingegneri dell’epoca. La zona scelta era pericolosa a causa dei venti di traversia e delle frequenti mareggiate invernali che avrebbero favorito un graduale insabbiamento del nuovo scalo portuale. Ma l’imperatore fu inflessibile nelle sue decisioni e ordinò di scavare l'ampio bacino a due miglia a nord della foce del Tevere, con due moli, e fece erigere il faro (vedi Pharos nella cartina sopra). Lo scalo fu completato da Nerone ed intorno a questo cominciò a espandersi il nucleo della città di Porto.

 

L'inaffidabilità del bacino di Claudio era stata confermata già nel 62 d.C. quando una tempesta aveva distrutto non meno di duecento navi tra quelle ancorate nella rada interna e quelle ormeggiate alle banchine. Purtroppo le previsioni degli ingegneri romani si avverarono puntualmente: lo scalo, essendo molto ampio e poco profondo, raccoglieva e accumulava verso le banchine commerciali i detriti ed il fango spinti dal libeccio e dal maestrale. I lavori del Porto di Claudio furono talmente difficili e costosi che l'inaugurazione del Porto avvenne solamente sotto Nerone nel 64 d.C.

 

Toccò infine a Traiano di porre rimedio al fallimento annunciato dello scalo, e lo fece studiando una soluzione ultramoderna per l’epoca.

 

L’imperatore affidò il nuovo progetto all’architetto Apollodoro di Damasco che lo posizionò in una zona più interna e sicura, aveva una forma esagonale ed era provvisto di un sistema di canali di comunicazione tra il porto e il fiume,  (l'attuale canale di Fiumicino-Fossa Traiana), che avevano il duplice scopo sia d’impedire allagamenti e insabbiamenti, sia di alleggerire il traffico alla foce del Tevere.

 

L’eccezionale "sistema portuale" migliorò notevolmente la capacità e l'efficienza del porto di Roma, e determinò l'aumento della comunità di residenti nel territorio circostante e anche il cambiamento della denominazione da Portus Ostiensis a Portus Traiani o anche semplicemente Portus. A ridosso della nuova struttura (Portus Urbis) si sviluppò quindi la città di Porto, grande quanto la vicina Ostia.

 

 

2 - Il bacino traianeo (nella foto aerea), portato alla luce e restaurato negli scorsi anni Trenta, misurava 358 m. di lato, occupava una superficie di circa 33 ettari e consentiva l'attracco contemporaneo di almeno 200 navi di grande tonnellaggio, nonché lo svolgimento di tutte le operazioni connesse con il traffico-merci. Aveva le sponde ‘a scarpa’, una profondità media di 5 metri, era inclinato verso mare ed era lastricato con grandi pietre che ne facilitavano la manutenzione. I lavori terminarono nel 112 - 113 d.C.

Nel IV secolo il porto fu protetto da mura difensive, oggi parzialmente visitabili nel settore che comprende il canale d'ingresso al bacino esagonale con i cospicui resti dei magazzini traianei.

La struttura fu attiva fino al 537 d.C., quando, con l’invasione dei Goti di Vitige, si avviò ad un rapido declino. Nell’arco dei secoli, inoltre, in concomitanza con l’avanzamento della linea di costa, entrambi i bacini portuali subirono un insabbiamento naturale.

Il complesso portuale esagonale del Porto di Traiano é visibile ancora oggi atterrando con l’aereo a Fiumicino, ma l’opera artificiale, di grande fascino e suggestione, é anche interamente visitabile passeggiando tra i suoi immensi magazzini, banchine che ancora oggi parlano lo stesso linguaggio delle  strutture portuali del nuovo millennio.

Il porto di Traiano sostituì  lo scalo di Pozzuoli e furono costruiti imponenti edifici pubblici che disegnarono una nuova città, che inizialmente dipendeva da Ostia, la quale a sua volta divenne ancora più importante come centro di tutta l’attività amministrativa fluviale.

 

3 - Rappresentazione artistica del complesso portuale di Claudio e Traiano

 

Le Navi di Fiumicino - Storia del Ritrovamento

 

Nel 1957 sono stati portati alla luce i resti affioranti del molo destro del porto di Claudio, adiacenti all'attuale MUSEO DELLE NAVI di Fiumicino, insieme con murature di un edificio con tracce degli affreschi originari. Siamo nell’area di Monte Giulio e proprio qui sono emerse altre strutture del 2° secolo che s’affacciavano sul bacino.

 

Durante la costruzione dell’aeroporto L. Da Vinci di Fiumicino vennero alla luce, alla fine degli anni ’50, i relitti di cinque imbarcazioni di epoca imperiale romana, attualmente conservate nel Museo delle Navi Romane, il cui scavo e recupero fu promosso dalla Soprintendenza Archeologica di Ostia sotto la guida di Valnea Santa Maria Scrinari. Il Museo si trova accanto all’Aeroporto di Fiumicino, nell'area corrispondente all'imboccatura dell'antico porto di Claudio. La struttura museale fu inaugurata nel 1979 ed é gestito dalla Soprintendenza Archeologica di Ostia, che dipende dal Ministero per le Attività Culturali.

 

Dopo d'allora furono necessari circa vent'anni di lavoro e di studi, perché i reperti fossero accessibili al pubblico: solo gli scavi per riportarli alla luce durarono dal 1958 al 1968.

 

 

4 – Entrata del Museo delle navi romane di Fiumicino vista di lato

 

Visita al Museo delle Navi Romane

 

 

5 - Cartina che mostra il ritrovamento dei relitti rispetto al Museo

 

Attualmente il Museo è situato a sud dell'Aeroporto Intercontinentale di Fiumicino ed è collegato alla città di Roma dall'autostrada e dalla ferrovia. 
La struttura dell'edificio è molto funzionale: un grande contenitore lungo 33.5 m e largo 22 m costituisce una sorta di ricovero per imbarcazioni. Sul lato sinistro trovano posto uffici e stanze di servizio.

 

In un primo tempo il padiglione espositivo fu usato come rifugio per le imbarcazioni appena recuperate. Qui gli scafi furono trattati con resine e le parti lignee danneggiate vennero restaurate.

 

 

6 - Vista d’insieme del Museo.

 

Oggi entrando nel Museo delle Navi Romane è possibile ammirare, con un unico colpo d'occhio, i resti delle cinque imbarcazioni, i materiali recuperati durante gli scavi, così come altri oggetti archeologici, anche lapidei, provenienti dall'area dei porti imperiali. Le navi sono sorrette da telai in metallo costituiti dal minor numero possibile di pezzi. In questo modo è possibile mantenere in posizione i delicati elementi lignei delle imbarcazioni mantenendo visibili le linee d'acqua. Fiumicino 3 si trova  a sinistra dell'entrata del Museo. Di questa piccola imbarcazione fluviale rimane soltanto il fondo piatto pesantemente ricostruito durante il processo di restauro.

 

Varcata l'entrata, a destra, la prima imbarcazione esposta é Fiumicino 5, la barca da pesca. Si tratta di un ritrovamento unico nel suo genere. Al centro dello scafo è presente un pozzetto (contenitore-vivario), le cui tavole del fondo sono munite di aperture per permettere all'acqua marina di entrare. In questo modo il pesce appena pescato veniva mantenuto in vita e fresco fino al mercato.

 


 

7 - Tornando indietro, è possibile vedere due frammenti di scafi: una parte di murata che conserva anche due cinte tra i corsi del fasciame

 

Un piccolo corridoio separa questa chiatta da Fiumicino 3, un'imbarcazione marittima da carico. Lo scafo, molto ben conservato, si è mantenuto oltre alla linea di galleggiamento. A destra e a sinistra si trovano frammenti di sculture, tra cui quelli di un sarcofago con una scena marittima, elementi architettonici, una bitta d'ormeggio dal porto di Traiano e blocchi di cava.

 

8 - Riproduzione di un rilievo di Porto, ora nella collezione Torlonia, con scena portuale (III sec. d.C.)

Sul muro di fondo si trovano le riproduzioni di un rilievo di Porto (nella foto n.8), ora nella collezione Torlonia, con scena portuale (III sec. d.C.) e di un rilievo del Museo Nazionale Romano con raffigurata una navis caudicaria, uno speciale tipo di imbarcazione che veniva alata lungo la riva destra del Tevere per il trasferimento delle merci dal porto fino a Roma.

La parte centrale del padiglione espositivo è occupato dalle larghe chiatte fluviali a fondo piatto denominate Fiumicino 1 e 2. All'inizio del corridoio che separa le due imbarcazioni si trova un capitello in travertino rinvenuto durante gli scavi del porto di Claudio vicino alla bocca della Fossa Traiana.

L'intera collezione delle navi è collocata su telai metallici che sostengono il delicato ordito di legni senza disturbare il loro profilo architettonico. Sulla parete di fondo, una serie di vetrine ospita oggetti vari, in parte ritrovati all'interno degli scafi e in parte provenienti dalla zona dei moli oppure dall'agro portuense o dai fondali antistanti. Nel Museo delle Navi di Fiumicino sono esposti anche alcuni reperti lapidei provenienti dal territorio di Ostia, quali un frammento di sarcofago, elementi architettonici; una bitta d'ormeggio ed un blocco di cava. Sulla parete di fondo è il calco del rilievo Torlonia, celebre iconografia portuale ricca di elementi simbolici. Nelle vetrine sono inoltre conservati numerosi sigilli di piombo di età antonina, uno scandaglio; un ceppo d'ancora di piombo con iscrizione a rilievo IOVIS - IV; monete, anfore ed altri oggetti.

Per primi si incontrano, sulla destra, due frammenti di fiancata di imbarcazioni non altrimenti conservate. Nel frammento maggiore si nota il doppio parabordo a sezione semicircolare sporgente dal filo delle assi del fasciame

All'interno delle vetrine sono esposti i materiali recuperati durante lo scavo delle imbarcazioni tra cui oggetti in bronzo, ceramica, resti organici e elementi dell'attrezzatura di bordo. Tali reperti sono esposti insieme a materiali rinvenuti durante scavi e recuperi nelle aree vicine.

Sul muro perimetrale che porta verso l'uscita, i visitatori possono trovare pannelli che illustrano i vari momenti degli scavi degli anni 1950-60, oltre a diapositive con esempi di porti romani del Mediterraneo. 
In ultimo, grandi pannelli illustrano le principali rotte antiche, così come i principali rinvenimenti di navi antiche in Europa.

Facciamo ora la loro conoscenza dei relitti:

Fiumicino 1, 2, 3 erano destinate al trasporto fluviale. Fiumicino 4 era destinata al piccolo e medio cabotaggio. Fiumicino 5 é l’unica barca da pesca ritrovata, di epoca romana. I relitti furono ritrovati a ridosso del molo destro del porto di Claudio in una zona soggetta ad insabbiamento. Nell’antichità, quell’angolo non più operativo, probabilmente fu destinato ad accogliere le imbarcazioni obsolete che oggi sono state recuperate e costituiscono dei preziosi reperti che ci parlano della romanità marinara. La collezione di imbarcazioni incrementa pertanto la  conoscenza scientifica delle varie tipologie di “unità” utilizzate nelle attività che si svolgevano tra il “mare aperto” e il porto di Claudio e, tra questi e il porto interno dell’Urbe dopo aver risalito il Tevere. I relitti ritrovati ci offrono la chiave di lettura per capire i metodi costruttivi degli antichi mastri d’ascia.

La loro sistemazione definitiva in Museo. Per favorire il recupero ed il trasporto dei relitti, fu scavato un corridoio anulare attorno al perimetro dei relitti e, a partire da questo, passaggi trasversali al di sotto della chiglia. In questo modo, fu possibile costruire una centinatura lignea per sorreggere le fiancate e poter recuperare, nella loro interezza, le imbarcazioni. Trasportate all’interno del museo in via di allestimento, l’Istituto Centrale del Restauro di Roma procedette al consolidamento delle strutture con una miscela di resine. Infine, dopo la definitiva sistemazione degli scafi sui telai d’acciaio di supporto, il 10 novembre del 1979 il Museo venne aperto al pubblico. Il museo conserva inoltre alcuni oggetti ritrovati in prossimità delle navi od all'interno di esse. I pannelli illustrativi consentono al visitatore di ripercorrere le diverse fasi del recupero, e documentarsi su altri rinvenimenti effettuati nei numerosi siti sommersi nel Mediterraneo.

Nella maggior parte dei casi, si sono conservate le strutture intorno alla chiglia sul fondale marino. Queste parti strutturali sono state sigillate e conservate nel tempo dai depositi portuali. Infatti, in alcune parti sommerse, non ancora ricoperte dal limo, la teredine ha compiuto la sua azione perforatrice e distruttiva. L’aspetto nerastro degli scafi è il frutto, invece, della carbonizzazione attivata dai microrganismi presenti negli strati di sedimentazione.

 

9 - All'inizio del corridoio che separa le due imbarcazioni si trova un capitello in travertino rinvenuto durante gli scavi del porto di Claudio vicino alla bocca della Fossa Traiana.

Dalle fonti scritte e dalle conferme che pervengono dagli oggetti che si rinvengono sui relitti, è possibile conoscere la vita di bordo: resti di attrezzi da cucina, contenitori, pentole e vasellame fanno intuire il tipo di alimentazione; sono stati ritrovati oggetti personali, monete e persino attrezzi di bordo, come bozzelli di legno, frammenti di cime e cordami, ancore e scandagli.

10 - All'interno delle vetrine sono esposti i materiali recuperati durante lo scavo delle imbarcazioni tra cui oggetti in bronzo, ceramica, resti organici e elementi dell'attrezzatura di bordo. Tali reperti sono esposti insieme a materiali rinvenuti durante scavi e recuperi nelle aree vicine.

11 - Reperti marmorei. Sul muro di fondo si trovano le riproduzioni di un rilievo di Porto, ora nella collezione Torlonia, con scena portuale del III sec. d.C.(vedi foto n.8) e, sulla sua destra si vede un rilievo del Museo Nazionale Romano con raffigurata una navis caudicaria, uno speciale tipo di imbarcazione che veniva alata lungo la riva destra del Tevere per il trasferimento delle merci dal porto fino a Roma.

Tra gli altri reperti del Museo possiamo elencare:
del materiale lapideo ritrovato ad Ostia , tra cui un sarcofago; una bitta d'ormeggio, un calco del rilievo di Torlonia, delle vetrine mostranti dei sigilli di età antonina, uno scandaglio, un ceppo d'ancora, delle anfore, il calco di un'iscrizione trovata presso il porto, dei pannelli mostranti tra l'altro le fasi di scavo per il recupero delle navi e le tecniche della costruzione degli scafi.

Le imbarcazioni di maggiore stazza tra le cinque ritrovate, sono denominate "Onerarie minori" e "Onerarie maggiori" e sono databili nella media e tarda età imperiale.

12 - Nave Oneraria Maggiore II

Fiumicino 2 (Oneraria Maggiore II) risale al 1958. Questa unità é stata fortemente danneggiata durante le manovre successive al recupero, ma soprattutto per incresciosi atti di vandalismo, ma anche di furti.

13 - Fiumicino 1 (nella foto 14) (Oneraria Maggiore I), risale al 1959, di cui ha restituito dei corredi, è sconosciuto il suo periodo di sfruttamento. l’Oneraria maggiore I fu utilizzata durante il IV secolo. Sotto la poppa sono stati trovati tracce del mastice originale e tracce di una verosimile decorazione in bronzo. Al suo interno è stata ritrovata una lucerna con il Chrismòn (Cristogramma)


14 - Il Chrismon é un antico simbolo religioso cristiano. Esso rappresenta il nome di Cristo, il termine proviene dalle parole latine “Christi Monogramma” che significa monogramma di Cristo. Il simbolo é formato nella sua versione base da due lettere, una X e una P, che in greco corrispondono a “chi” e “rho”, il monogramma di Cristo é denominato pure Labarum, o “Chi Rho”, da cui si deduce facilmente il motivo della scelta delle due lettere X e P. Inoltre le suddette lettere contengono un secondo significato, la P e' impostata in modo tale da somigliare ad un bastone da pastore, e la X una croce, a testimonianza del fatto che Gesu' Cristo e' un buon pastore per il suo gregge, e cioè' per la Chiesa Cattolica.


Durante i lavori di restauro e consolidamento, all'interno della nave sono state rinvenute tracce di un'iscrizione, sul dorso di un madiere, che riportava il nome di Trituta, Tutelata o salvata-ricostruita per tre volte, con il legname costruttivo di altre imbarcazioni.

Fiumicino 3 (barca fluviale) risale al 1959 – Questa imbarcazione, la prima sulla sinistra, non ha restituito elementi di corredo se si eccettua un frammento identificato come parte del pennone esposto in vetrina.

15 -  Ritrovamento della Barca del Pescatore

16 - Barca del Pescatore. Particolare del POZZETTO destinato a conservare il pesce fresco

Fiumicino 5 (Barca del Pescatore) (nella foto) scoperta nel 1959 - Questa imbarcazione con il pozzetto al centro per conservare fresco il pescato é, al momento, considerata un unicum non essendo stati rinvenuti altri esemplari natanti simili a questo, per tipologia e soluzioni di allestimento. Nella barca sono stati trovati alcuni oggetti esposti nelle vetrine: un sandalo da ragazzo, di cuoio, un anello con sigillo, un conio greco e qualche frammento di terra sigillata italica.

Fiumicino 4 (Oneraria Minore II) fu ritrovata nel 1965. Utilizzata tra il III° ed il IV° secolo, la nave ha lo scafo quasi perfettamente conservato, fino alla linea di galleggiamento e permette di osservare numerosi dettagli del fasciame e del sistema di connessione delle assi, dei resti del pagliolato di stiva e della scassa dell'albero All'interno sono state ritrovate una Venere i n bronzo, delle lucerne tra cui una africana recante un simbolo cristiano del chrismon un gioco di dadi . Nello scafo della Oneraria minore II. Sono stati trovati: un bozzello e una rotella di carrucola, un bussolotto di legno per dadi da gioco, oltre a resti di vegetali commestibili.

 

Dettagli tecnici, costruttivi ed architettonici delle Navi Romane di Fiumicino.


 

 

17 – Disegno con Glossario in italiano di una imbarcazione romana d’epoca imperiale

Ci si accorge immediatamente che l’eccezionale ritrovamento ci permette di valutare alcune tra le differenze tra il sistema costruttivo antico e le attuali metodologie in uso nel Mediterraneo. Oggi s’inizia la costruzione su scheletro partendo dalla chiglia, con l’ossatura interna (ordinate) e il suo rivestimento con le tavole del fasciame. In età greco-romana, dopo aver sistemato la chiglia, s’iniziava la costruzione su guscio esterno, ossia il fasciame, mentre l’ossatura (le ordinate) era inserita successivamente con la funzione di rinforzo interno. Il collegamento tra le tavole del fasciame era assicurato dai tenoni, sottili linguette in legno duro, inserite in appositi incassi detti mortase nello spessore delle tavole. I tenoni, infine, erano bloccati da spinotti. In questo modo, le tavole del fasciame potevano mantenere la forma desiderata e il guscio acquistava  solidità tramite i numerosi collegamenti interni.

 

Le cinque navi di Fiumicino sono state costruite secondo il sistema della costruzione su guscio, esemplificato dall’imbarcazione Fiumicino 4 (II-III sec.d.C.) che presenta una grande omogeneità nei collegamenti a mortase e tenoni. Invece, Fiumicino 1 e 2, imbarcazioni gemelle, ci mostrano importanti differenze costruttive. Oltre al notevole utilizzo di chiodi in ferro per collegare il fasciame allo scheletro, si nota la lunghezza dei chiodi stessi per collegare alcuni madieri alla chiglia e la distanza tra i tenoni o, addirittura, la totale assenza di tali collegamenti. Tecniche che dimostrano l’evoluzione costruttiva in atto nei secoli successivi cui si riferiscono le imbarcazioni (IV-V sec. d.C.).

 

Le linee e le caratteristiche costruttive indicano i diversi utilizzi delle unità. La Fiumicino 4, 15 metri di lunghezza, rivela linee penetranti e idrodinamiche adatte ad una navigazione marittima di piccolo e medio cabotaggio. Il robusto alloggiamento del piede dell’albero dimostra che la nave era propulsa da  un’unica vela quadra. Sul fondo dello scafo, era alloggiata una pompa di sentina, fissata tra i paramezzali intorno al blocco dell’albero, mentre il fasciame interno dava robustezza longitudinale alla struttura a protezione dei movimenti del carico. Fiumicino 5, come si é già detto, è invece una piccola barca da pesca, un ritrovamento unico d’età romana (II sec. d.C.), con al centro un pozzetto per conservare vivo il pescato, grazie all’acqua di mare che poteva entrare dai fori, muniti di tappi, praticati sulle tavole del fondo.

 

 

Fiumicino 1, 2 e 3, sebbene abbiano dimensioni diverse, evidenziano tecniche costruttive simili per la loro forma piatta e allargata, con poco pescaggio, adatta soprattutto al trasporto fluviale, con scarso moto ondoso. Esse erano rimorchiate da animali dalla riva destra del fiume secondo un sistema di propulsione, quello dell’alaggio, ancora in uso sul Tevere fino al XIX secolo. La loro forma originale viene rappresentata su mosaici, rilievi, affreschi ed appartengono al gruppo navale definito: naves caudicariae.

Curiosità sulle navi e sulla navigazione

 

 

18 - Terminologia nautica latina della nave oneraria romana

 

Ci sono giunti molti esempi di iconografia navale, da cui è stato possibile ricavare interessanti notizie. Marinai, armatori e costruttori amavano infatti far scolpire le loro navi sul proprio monumento funebre; spesso gli imperatori fecero coniare monete con raffigurazioni navali per ricordare una battaglia vittoriosa o la floridità del commercio.


19 - Costruzione ipotetica di nave da carico romana (Oneraria)

 

Grazie alle rappresentazioni di navi su mosaici sappiamo che queste venivano solitamente colorate, in particolare con il porpora, il blu, il bianco, il giallo e il verde; alcune navi da guerra venivano dipinte con un colore “mare” per non essere individuate troppo facilmente.

 

Le navi romane non potevano navigare senza zavorra, poiché altrimenti il pescaggio non sarebbe stato sufficiente; la zavorra o saburra era costituita soprattutto da sabbia e pietre o dalle stesse merci (macine, lingotti, anfore, anche rottami, ...).

 

Ogni nave aveva un suo nome, generalmente maschile se nave romana, e femminile se nave greca; i nomi potevano essere luoghi geografici, divinità marine o protettrici della navigazione e anche nomi astratti. Solitamente tutte le imbarcazioni portavano con sé una statua evocativa del loro nome, che quasi mai era scritto sulla nave.

 

ll personale nei porti era molto vario e per lo più di umili origini. Vi erano fabri navales, i carpentieri e i costruttori; velarii, che fabbricavano e riparavano vele; vari tipi di scaricatori; mensores, che controllavano i carichi e i contenuti delle navi; tabularii, una sorta di ragionieri che registravano ciò che veniva misurato; horrearii, custodi dei magazzini.

Per quanto riguarda il personale della nave, oltre a rematori e marinai, le personalità più importanti erano: il gubernator, capitano e spesso anche timoniere; il proreute o pausarius, secondo e nostromo; il thoicharkos, una sorta di commissario di bordo che si occupava anche dei rapporti con i passeggeri; il diaetarius, che occupava la cabina della nave ed era forse lo scrivano; l’exercitor, l’armatore, che non era quasi mai a bordo.

 

Coloro che volevano viaggiare per mare si servivano delle navi da carico, perché erano più veloci e tendevano a fare un minor numero di scali rispetto a quelle da guerra. Le condizioni dei passeggeri erano molto spartane, poiché le cabine di poppa erano assegnate solamente ai più abbienti e non sempre le navi commerciali disponevano di questa comodità. Il resto delle persone dormiva all’aperto sul ponte, solo con qualche stuoia e qualche tenda come riparo, considerato che il clima era comunque mite. I passeggeri che si trovavano peggio erano quelli alloggiati nella stiva, tra il carico di merci. L’approvvigionamento di cibo era a carico dei passeggeri ed era costituito per lo più da pesce secco, carne e farinacei; solo l’acqua era messa a disposizione dalla nave.

 

La religione era un elemento molto importante per coloro che andavano per mare; i marinai erano molto superstiziosi ed osservavano precise consuetudini che avevano come fine il buon esito del viaggio. Sulla prua della nave erano generalmente dipinti due occhi con significato apotropaico, per allontanare gli spiriti maligni. Si cercava di avere a bordo un uomo pio e allontanare gli empi, per propiziarsi gli dei; si era molto diffidenti verso le donne. Ci si affidava alle divinità protettrici della navigazione, tra cui le principali erano Castore e Polluce, Iside e Serapide. Sacrifici e preghiere venivano effettuati prima della partenza, durante la navigazione e prima di entrare in un nuovo porto; accadeva anche che si compissero riti sacri nel passare vicino ad un famoso tempio o nel momento del pericolo.

 

 

Carlo GATTI

Rapallo, 16.1.2013



Il Sommergibilista AMEDEO CACACE

Com.te AMEDEO CACACE

MBVM

E' il testo di un'intervista che abbiamo realizzato con il comandante Cacace nella primavera 2007, durante la preparazione del volume "Marinai Savonesi" che il Gruppo ANMI "V. Folco" di Savona ha dato alle stampe nel settembre dello stesso anno, in occasione del 50° anniversario della sua fondazione.

di Maurizio Brescia

(Vicepresidente Associazione Mare Nostrum)

(in collaborazione con Carlo Cipollina e Luca Ghersi)

Descrivere la figura del comandante Cacace, rivisitare e commentare gli episodi di guerra sottomarina di cui è stato protagonista nel corso del secondo conflitto mondiale e – in ultima analisi – ritornare più in generale sulle azioni dei nostri sommergibili (in particolare in Atlantico) tra il 1940 e il 1943 è, per chi scrive, un fatto estremamente piacevole e gratificante.

E’ questa l’occasione non soltanto per ricordare questi fatti riferendoci (come in altri saggi del volume) a persone che non sono più tra noi e che ci hanno lasciato, da un tempo più o meno lungo… Il comandante Cacace è un personaggio “reale” anche agli effetti della sua presenza nel nostro Gruppo A.N.M.I. di cui – insieme a pochi altri – rappresenta quella “vecchia guardia” che è uno dei numerosi aspetti (se non il più importante) dell’attività dell’Associazione che spingono noi “giovani” a perseverare nella nostra attività e nel nostro “servizio” verso la Forza Armata, e verso chi di essa ha fatto parte, soprattutto negli anni difficili e drammatici dei conflitti cui essa ha partecipato.

Nel tempo, data anche la mia attività pubblicistica su riviste storico-navali e in collaborazione con varie case editrici, ho avuto modo di incontrare personalità, ufficiali, tecnici o semplici militari che avevano preso parte al secondo conflitto mondiale. Riferendomi poi al più specifico campo navale, i miei studi e le mie ricerche mi hanno portato in contatto con un grande numero di persone delle quali ho potuto apprezzare il valore e le capacità nel più ampio senso di questi termini.

Forse, a tutto ciò non è estraneo il ricordo di mio nonno materno che – da C1cl “E” (1)  – durante la “Grande Guerra” imbarcò sulla Regia Nave portaidrovolanti Europa (una delle prime unità a capacità aerea italiane) e che, durante la mia infanzia, ebbe modo di far nascere dentro di me quella grande passione verso le navi, la Marina Italiana e i suoi uomini che nel tempo è sempre cresciuta ed è diventata un elemento importante e insostituibile della mia vita…

Durante le varie “interviste” che il comandante Cacace ci ha concesso (ma è più giusto pensare a questi momenti come a incontri allo stesso tempo profondi e assolutamente amichevoli), ho rivissuto i miei personali ricordi di quando – già al tempo delle scuole elementari – ascoltavo i ricordi di mio nonno quasi rivivendo attimi di vicende che all’epoca, anche se inconsciamente, sentivo già in qualche modo che era giusto non far andare perduti perché parte della nostra vita e della nostra storia.

Oggi, trascorsi quattro decenni, ho avuto nuovamente l’occasione – ai giorni nostri sempre più rara – di immergermi una volta ancora in un’atmosfera ricca di eventi di grande rilevanza storica ed umana, spesso drammatici, talvolta più leggeri o distensivi, ma tutti permeati dal racconto a viva voce di chi ha preso parte a queste vicende in prima persona. L’emozione suscitata dall’ascoltare il racconto di Amedeo Cacace nasce anche dal fatto che nulla ci è stato narrato con toni epici o grandiosi, talvolta pareva di ascoltare riferimenti a fatti avvenuti pochi giorni prima, in tempo di pace e durante tranquille navigazioni: è questo un aspetto spesso comune a quanti hanno vissuto la storia con la “S” maiuscola, non c’è bisogno di esagerare quando si è stati parte di qualcosa di grande, e la “modestia” del racconto contribuisce, al contrario, a farne apprezzare la grandiosità.

Il comandante Cacace, insieme alla consorte sig.ra Leda, ci riceve nella sua casa di Savona. Una casa da cui la vista spazia sul mare, con la costa di Savona, Capo Noli e tutto il Mar Ligure sin verso il confine francese: sin da subito l’uomo si presenta, legato al mare che in guerra e in pace è stato il suo ambiente di lavoro e di vita e che ne ha forgiato il carattere schietto, forte, concreto ma al tempo stesso modesto e quasi schivo. Tutte qualità che – a ben vedere – hanno contraddistinto tutti i Marinai che ricordiamo in questa pubblicazione…

Nella casa del comandante Cacace abbondano i ricordi e le testimonianze di quella che è una vera e propria tradizione: il padre, il nonno e altri ancor prima facevano parte di una famiglia sorrentina da sempre legata alle attività marinare e, già a partire dal secolo XIX, numerosi “antenati” navigarono con navi a vela, brigantini e “vapori” in Mediterraneo e in Atlantico, prima con la bandiera borbonica e poi con quella italiana. Ed ecco quindi un altro aspetto, profondamente umano, di Amedeo Cacace, e cioè il forte legame e l’ancor più forte ricordo di quanti, nella sua famiglia, lo hanno preceduto sul mare in tempi ormai lontani: quadri di velieri, diplomi, fotografie d’epoca non sono solamente una “galleria di ricordi”, ma costituiscono anche un insieme dal grande valore storico e documentale che – a sua volta – meriterebbe un altro ciclo di interviste e l’opportuna valorizzazione sulla stampa specializzata…

Ma torniamo a Amedeo Cacace che nasce, per l’appunto a Sorrento, il 2 febbraio 1919; nella medesima cittadina campana frequenta tutte le scuole dell’obbligo e, successivamente, il locale Istituto Tecnico Nautico “Nino Bixio”, uscendone diplomato nel 1938 per il settore “coperta”.

Era quello il periodo in cui, appena concluso il conflitto civile spagnolo, si stavano addensando sull’Europa le nubi che avrebbero portato allo scoppio della seconda guerra mondiale. La Regia Marina stava perseguendo da tempo un notevole programma di potenziamento per il quale erano richiesti uomini e mezzi, e fu quindi quasi “d’obbligo” per Amedeo Cacace fare domanda per l’ammissione ad uno dei corsi per la nomina a ufficiale di complemento. Arruolato come marinaio semplice il 26 ottobre 1939, fu ammesso all’Accademia Navale di Livorno il successivo 1° novembre e ottenne la nomina a guardiamarina di complemento (Corpo di Stato Maggiore) il 7 giugno 1940.

Il nostro comandante, con arguzia e senso della fatalità tutti partenopei, ricorda i pochi giorni successivi al 7 giugno:

“Subito dopo la nomina a guardiamarina, per me e per tanti altri giovani ufficiali, iniziò l’attesa – quasi spasmodica – della destinazione: attesa destinata ad una breve durata perché ricevetti ben presto il telegramma “per lista imbarchi” in base al quale appresi che dovevo raggiungere il sommergibile Maggiore Baracca. Era il 10 giugno 1940, e non fu questa l’unica volta in cui una data storica per l’Italia si incrociò con le mie personali vicende in Marina…”

Il sommergibile Maggiore Baracca era uno dei sei nuovi battelli appartenenti alla classe “Marconi”: da poco varato dai cantieri OTO del Muggiano, stava completando le ultime fasi dell’allestimento in attesa della consegna alla Regia Marina. Amedeo Cacace imbarcò sul Baracca, alla Spezia, il 12 giugno e partecipò alle numerose attività (imbarco di viveri e dotazioni, controllo e calibrazione di armi e apparecchiature) che coinvolsero l’equipaggio prima della consegna dell’unità alla Regia Marina, avvenuta il 10 luglio 1940.

Seguì un breve ma intenso periodo di addestramento al termine del quale – insieme ad altri sommergibili, il Baracca ricevette l’ordine di trasferirsi in Atlantico alle dipendenze del "Comando Superiore delle Forze subacquee italiane in Atlantico", che sarebbe diventato pienamente operativo a Bordeaux dal settembre 1940

Il sommergibile Maggiore Baracca verso la fine di giugno del 1940, nel golfo della Spezia, nell’imminenza della consegna alla Regia marina che avverrà il successivo 10 luglio. (Coll. M. Brescia)

Gli accordi tra la Kriegsmarine e Regia Marina, infatti, prevedevano la partecipazione di quest'ultima alla guerra sottomarina in Atlantico, e la scelta italiana per una base logistico-operativa per i propri sommergibili cadde sul porto fluviale di Bordeaux, ubicato sulla Garonne, a una cinquantina di chilometri a monte della via fluviale d'accesso al Golfo di Biscaglia, originata dalla confluenza della Garonne e della Dordogne nell'ampio estuario della Gironde.

Dalla "B" ("Beta"), lettera iniziale di Bordeaux, venne tratta la denominazione di "Betasom" (Bordeaux - Comando sommergibili) che, da allora, non soltanto nei documenti ufficiali – ma anche nell'immaginario collettivo – avrebbe contraddistinto la base atlantica dei battelli della Regia Marina.

“Ricordo i momenti, emozionanti, del passaggio in immersione dello stretto di Gibilterra… All’epoca la sorveglianza a/s britannica non era pressante e continua come sarebbe stata nei mesi successivi e, partiti dalla Spezia il 31 agosto, forzammo Gibilterra il 7 di settembre… Raggiungemmo subito la zona d’agguato cui eravamo stati destinati, a Nord-Ovest di Madera, ma non incontrammo alcun traffico. Il 1° ottobre, mentre già stavamo facendo rotta verso Bordeaux, venne avvistato un mercantile nemico di medio tonnellaggio. Fermatolo ed appreso che si stava dirigendo verso Belfast con un carico destinato all’Inghilterra, demmo tempo all’equipaggio di mettersi in salvo sulle scialuppe, dopodichè affondammo la nave a cannonate. Si trattava del mercantile greco Agios Nikolaos, che venne affondato in posizione 40° N – 16°55’ W…”

Dopo alcune settimane trascorse a “Betasom”, al comando del capitano di corvetta Enrico Bertarelli il Baracca fu destinato a una nuova missione in Atlantico e raggiunse la sua zona di agguato, a Ovest delle coste scozzesi tra i meridiani 15° e 20° W, ove si trattene tra il 1° e il 17 novembre 1940.

Il Baracca attaccò, senza tuttavia affondarli, un piccolo mercantile (il 31 ottobre, durante la navigazione di trasferimento) e una petroliera (il 9 novembre). Il 16 novembre, ricevuto un segnale di scoperta di un convoglio diretto a ponente, ne tentò l’avvicinamento; durante la navigazione di rientro, la sera del 18 novembre, il battello italiano intercettò il piroscafo da carico britannico Lilian Moller che venne affondato con due siluri. Ma, sull’affondamento del Lilian Moller, lasciamo la parola al com.te Cacace:

“Mi trovavo di servizio sulla falsatorre e, con il binocolo, avvistai il fumo di un piroscafo all’orizzonte. Passai subito tutte le informazioni al Comandante, che si trovava dabbasso in camera di manovra, e il Baracca si mise ben presto all’inseguimento del mercantile nemico. La cosa risultò parecchio difficile, perché eravamo ormai all’imbrunire e – in quelle latitudini – l’oscurità cala presto ed è subito molto fitta… non persi quindi mai di vista il fumo del piroscafo continuando a segnalarne la posizione… Alla fine raggiungemmo la distanza utile per il lancio e, con due siluri, colpimmo il Lilian Moller che affondò in posizione 52°57’N – 18°05’W. Purtroppo non vi furono sopravvissuti…”

Il Maggiore Baracca rientrò nuovamente a Bordeaux, dove Amedeo Cacace trovò ad attenderlo gli ordini che lo trasferivano nel teatro operativo del Mediterraneo; tuttavia, sono numerosi i ricordi delle due missioni in Atlantico:

“Ogni volta che uscivamo o entravamo dall’estuario della Gironde venivamo attaccati da velivoli britannici, e fummo sempre molto fortunati a non essere colpiti e affondati; questi momenti erano forse i più drammatici di ogni missione… La vita a bordo non era delle più facili, al fine di non intasare l’unico WC presente a bordo l’equipaggio utilizzava la coperta per l’espletamento delle proprie necessità “corporali” ma – se non altro – nella nostra permanenza all’esterno potevamo avvalerci di capi di abbigliamento pesanti forniti dagli alleati germanici… Infatti, eravamo stati destinati in Atlantico avendo in dotazione il normale vestiario previsto per le consuete missioni in Mediterraneo, e il freddo si era fatto sentire sin da subito durante la nostra prima navigazione oceanica. Al rientro da questa missione i tedeschi   ci fornirono così di cappotti, impermeabili in tela cerata, maglioni ecc. che consentivano di proteggerci dal freddo durante il servizio in falsatorre e in coperta…"

Il guardiamarina Cacace imbarcò sul sommergibile Zoea (uno dei tre battelli posamine della classe “Foca”) il 2 febbraio 1941, e il battello iniziò subito a venire impiegato per il trasporto di rifornimenti verso il fronte dell’Africa settentrionale. La scelta dello Zoea (e di altri sommergibili) per questo particolare ruolo era dovuta al fatto che gli ampi spazi presenti a bordo per il trasporto delle mine potevano essere utilizzati per stivare viveri, munizioni e combustibili.

Un’immagine prebellica (1938) del sommergibile posamine Zoea, in manovra nel Mar Piccolo a Taranto. (Coll. A. Fraccaroli)

Fu questa una particolare attività che coinvolse numerosi battelli italiani durante tutto il conflitto, e testimonia non soltanto le difficili condizioni (e le missioni spesso “impossibili”) in cui operavano i sommergibili adibiti a questo compito, ma soprattutto la precarietà della situazione “trasporti” verso il fronte libico, precarietà che rendeva necessario l’impiego di unità militari, anche di superficie. Ad esempio, come ricordato nel capitolo sull’amm. Marabotto, nel corso di una di queste missioni andarono perduti gli incrociatori Alberto di Giussano e Alberico da Barbiano, e durante le ultime fasi della campagna di Tunisia furono numerosi i cacciatorpediniere (diversi dei quali furono affondati da mine e nel corso di attacchi aerei) impiegati per il trasporto veloce di truppe e rifornimenti.

L’importanza dell’attività dello Zoea e degli altri battelli impiegati per il rifornimento dell’Africa settentrionale è testimoniata da questo episodio che Amedeo Cacace ricorda ancora con orgoglio:

“Eravamo appena giunti a Bardia al termine di una missione di rifornimento nel maggio 1941 e l’equipaggio stava procedendo allo sbarco del carico, costituito da 80 tonnellate di benzina in fusti da 40 litri. All’improvviso, giunsero sottobordo allo Zoea alcune autovetture “Horch” tedesche con le insegne del Deutsche Afrika Korps, e da queste discesero diversi ufficiali che indossavano la classica divisa khaki dei militari germanici destinati in Africa. Subito non facemmo caso alla presenza degli ufficiali, ma la nostra sorpresa fu grande quando a bordo si presentò il generale Erwin Rommel, comandante dell’Afrika Korps! Il generale Rommel, come ci disse l’interprete, aveva voluto venire personalmente a bordo dello Zoea per ringraziare l’equipaggio che aveva trasportato del prezioso combustibile, in assoluto il rifornimento più importante per i suoi reparti corazzati che, nella mobilità e nella rapida dislocazione sul fronte, individuavano la loro arma vincente…"

Bardia (Libia), maggio 1941. Il generale tedesco Erwin Rommel in visita a bordo dello Zoea per ringraziare personalmente l’equipaggio del battello che aveva trasportato 80 tonnellate di benzina per la sua armata corazzata. L’allora guardiamarina Cacace è il primo a destra, con il binocolo al collo. (g.c. com.te A. Cacace)

Alcune settimane dopo, durante un’altra missione di rifornimento, lo Zoea abbatté, con le sole mitragliere di bordo, un quadrimotore “Sunderland” della RAF: fu questo uno dei pochi casi di tutto il conflitto in cui un nostro sommergibile riuscì ad abbattere uno di questi micidiali idrovolanti utilizzati dall’aviazione britannica proprio per la caccia ai battelli italiani e tedeschi, tanto nel Mediterraneo quanto nell’Atlantico.

Il 14 ottobre 1941 Amedeo Cacace sbarcò dallo Zoea che, qualche giorno prima, era “affondato” all’ormeggio della banchina sommergibili di Taranto a causa di un’errata manovra delle valvole di presa a mare, durante un ciclo di lavori in arsenale.


Taranto, esatte 1941. Le camicie dei periscopi e l’antenna del radiogoniometro dello Zoea emergono parzialmente dalle acque del Mar Piccolo, dove il battello è accidentalmente affondato, probabilmente per un‘errata manovra degli sfoghi d’aria dei doppifondi o delle valvole di presa a mare. (Coll. E. Bagnasco, da: In guerra sul mare, op. cit. in bibliografia)

Poiché i lavori di recupero e ripristino del battello avrebbero richiesto diverse settimane, con il “pagato” del 18 novembre 1941 il g.m. Cacace ricevette ordini per un “temporaneo imbarco” sul nuovo, grande sommergibile Ammiraglio Cagni, entrato in servizio nell’aprile precedente. Amedeo Cacace rimase a bordo del Cagni sino al 3 gennaio 1942, ma in un futuro a lui ancora sconosciuto avrebbe nuovamente imbarcato, e per lungo tempo, su questo battello…

Il 4 gennaio 1942 ripresero le navigazioni con lo Zoea, e Amedeo Cacace partecipò anche a una missione di trasporto rifornimenti a Lero: partito da Taranto lo Zoea diede fondo a Porto Lago, sulla costa meridionale di Lero (Dodecaneso italiano), rientrando subito dopo alla base di partenza. Ripresero quindi le “consuete” missioni di trasporto carburanti e munizioni in Africa settentrionale, e nel corso di una di queste…

“… fummo avvicinati da un velivolo sconosciuto che iniziò una serie di manovre sospette, manovrando come se si stesse preparando ad attaccarci con bombe o siluri. In considerazione della forte superiorità aerea britannica nella zona, e visti i movimenti del velivolo ritenuto nemico, venne battuto il “posto di combattimento” e gli armamenti delle nostre mitragliere fecero fuoco più volte contro l’aeroplano, tuttavia senza colpirlo. Dopo aver circuitato parecchio sopra lo Zoea, il velivolo si avvicinò (sempre con movimenti “sospetti”) e solo allora potemmo osservare le insegne tedesche sulle ali e sulla fusoliera. Cessammo immediatamente il fuoco, ma i piloti germanici – evidentemente quasi per vendicare l’ “affronto” subito – fecero fuoco contro lo Zoea a distanza e senza colpirlo, quando sapevano benissimo che il mancato rispetto da parte loro delle procedure per l’identificazione era stato la causa della nostra reazione. Fummo lieti, qualche tempo dopo, quando giunse a bordo una lettera proveniente dal comando del X° CAT , con la quale venivano rivolte scuse ufficiali allo Zoea per l’errato comportamento dell’equipaggio di quel loro velivolo…"


Un dettaglio della falsatorre dello Zoea, mimetizzato, nel 1942. (Coll. E. Bagnasco)

Il sommergibile posamine Marcantonio Bragadin (qui in una fotografia scattata a Venezia sul finire degli anni Trenta), a bordo del quale Amedeo Cacace imbarcò temporaneamente nell’aprile del 1942. (Coll. E. Bagnasco)

La permanenza di Amedeo Cacace a bordo dello Zoea, interrotta da un “temporaneo imbarco” (1° / 22 aprile 1942) sul Marcantonio Bragadin (2), si concluse il 5 settembre 1942.

Monfalcone, 20 luglio 1940. Il sommergibile oceanico Ammiraglio Cagni è appena sceso in mare dallo scalo di costruzione dei cantieri Riuniti dell’Adriatico. (Coll. M. Brescia)

Una fase della cerimonia della consegna alla Marina dell’Ammiraglio Cagni, avvenuta il 1° aprile 1941 a Monfalcone. A bordo del battello, già mimetizzato, oltre all’equipaggio imbarcano autorità civili e militari e dirigenti del cantiere di costruzione. (Coll. E. Bagnasco, da: In guerra sul mare, op. cit. in bibliografia)

Amedeo Cacace, nel frattempo promosso sottotenente di vascello, ricevette ordini per raggiungere a La Maddalena il sommergibile oceanico Ammiraglio Cagni con l’incarico di ufficiale di rotta. Al comando del c.f. Carlo Liannazza (3), il Cagni lasciò la base sarda il 6 ottobre, e sei giorni dopo forzò lo stretto di Gibilterra.

Il 3 novembre 1942, all’interno della propria zona di operazioni nel Golfo di Guinea, con un attacco diurno in immersione, il Cagni silurò e affondò il mercantile britannico Dagomba (di 3.845 t.s.l.), Si trattava di un piroscafo isolato, disperso dal convoglio TS 23 che aveva lasciato Takoradi (Ghana) diretto nella Sierra Leone. Dell’equipaggio del Dagomba sopravvissero 23 uomini, e a bordo del Cagni si pensò di soccorrere i marinai britannici, che apparivano in difficoltà a bordo delle scialuppe di salvataggio, a causa delle cattive condizioni meteorologiche. Ricorda con semplicità il comandante Cacace:

“Portammo il Cagni in emersione tra i detriti dell’affondamento, nelle vicinanze delle scialuppe di salvataggio. Facemmo comprendere, a gesti e a parole, le nostre intenzioni e, una volta affiancate le due scialuppe, passammo ai superstiti viveri, acqua, generi di conforto e anche una carta nautica ove segnammo la rotta che avrebbero dovuto seguire per raggiungere la costa più vicina. Si trattava di uomini come noi, e c’era solo da sperare che – se ci fossimo dovuti trovare nelle loro condizioni – ci potesse venire riservato il medesimo trattamento…”

Un’immagine risalente ai primi anni Trenta del mercantile britannico Dagomba. Il Dagomba sarà affondato in Atlantico dal Cagni il 3 novembre 1942, durante la prima missione oceanica del battello italiano. (Coll. Mike Cooper, via Naval Photograph Club)


Alcuni superstiti dell’equipaggio del Dagomba in due immagini scattate – probabilmente – durante il rientro in Inghilterra dal Senegal. I naufraghi del Dagomba erano stati riforniti di viveri e altri generi di conforto dall’equipaggio del Cagni, successivamente al siluramento della nave. (Coll. Mike Cooper, via Naval Photograph Club)

Il comportamento dell’equipaggio del Cagni trova riscontro in quella che è sempre stata una norma di comportamento degli equipaggi italiani in generale, e di quelli dei nostri sommergibili destinati in Atlantico in particolare. Tutti conoscono la vicenda del Cappellini che, al comando del c.c. Salvatore Todaro, la notte sul 15 ottobre 1940, intercettò in Atlantico il piroscafo armato belga Kabalo, che venne affondato a cannonate. Dopo l’affondamento, il comandante Todaro decise di rimorchiare la lancia di salvataggio della nave vicino a terra, e quando quest’ultima cominciò a fare acqua, trasferì l’equipaggio del piroscafo sul sommergibile. I 26 naufraghi trovarono sistemazione nella falsatorre, e dopo tre giorni di navigazione, furono sbarcati in una insenatura dell’Isola Santa Maria delle Azzorre.

L’umanità e il coraggio del comandante Todaro (che in seguito avrebbe comandato i reparti d’assalto di superficie della Xa Flottiglia MAS, cadendo in combattimento il 13 dicembre 1942) sono passati alla storia e non necessitano di ulteriori commenti: l’equipaggio del Cagni, il 3 novembre 1942, seppe ugualmente tenere alto l’onore della Regia Marina in circostanze del tutto analoghe (4).

Il 29 novembre 1942, durante la navigazione verso il Capo di Buona Speranza, il Cagni attaccò col siluro il piroscafo greco Argo, affondandolo in posizione 34°53’S – 17°54’E.

Un’immagine prebellica (1928) del mercantile San Josè, all’epoca appartenente alla compagnia norvegese “A/S Bonheur”. Nel 1939 venne ceduto ad una compagnia greca che ne mutò il nome in Argo; il piroscafo verrà colato a picco dal Cagni il 29 novembre 1942, al largo delle coste dell’Africa australe. (Coll. Mike Cooper, via Naval Photograph Club)

Continuano i ricordi del com.te Cacace:

Era previsto che il Cagni, grazie alle sue grandi dimensioni e all’elevata autonomia, si dirigesse verso l’Oceano indiano per continuare la lotta al traffico mercantile alleato nelle acque ad Est dell’Africa meridionale. Tuttavia, a Sud del capo di Buona Speranza non fu possibile incontrare un’unità ausiliaria tedesca che avrebbe dovuto rifornirci di nafta; facemmo quindi rotta verso nord e nella zona dell’equatore ci incontrammo con il sommergibile Tazzoli. Purtroppo, le avverse condizioni meteo impedirono di trasferire a bordo di quel battello otto siluri che aveva ancora in dotazione; iniziammo quindi la navigazione di rientro verso Bordeaux e, il 15 febbraio 1943, fummo attaccati da un “Sunderland” britannico nel Golfo di Biscaglia. I danni non furono gravi, ma le raffiche di mitragliera partite dal quadrimotore uccisero un Sergente armaiolo e ferirono un cannoniere…”

Anche se il Cagni non poté completare la sua missione, questa crociera durò 136 giorni ed è quindi la più lunga navigazione di guerra eseguita da una nave militare italiana nel corso del secondo conflitto mondiale. Come riporta la storia ufficiale della Marina, “… nel corso di questa missione … il Cagni diede prova di essere comandato ed equipaggiato da uomini di grande capacità professionale e di possedere un elevatissimo grado di efficienza; non ebbe infatti a lamentare avarie di alcun genere …”.

Il Cagni partì da Bordeaux per la sua ultima missione il 29 giugno 1943, al comando del c.f. Roselli Lorenzini (5): questa volta gli ordini erano ancora più complessi perché era previsto che il battello italiano, dopo aver attaccato il traffico nemico in Atlantico e nell’Oceano Indiano, raggiungesse Singapore. Una volta giunto nel porto asiatico, il Cagni avrebbe dovuto imbarcare un carico di rame e stagno (metalli fondamentali per l’industria bellica dell’Asse) e fare rientro a “Betasom” in navigazione occulta, senza esplicare attività offensiva durante la navigazione di rientro.

Il 25 luglio 1943, nel Golfo di Guinea alle ore 01.45 locali, il Cagni avvistò un convoglio britannico composto da una grande nave da guerra scortata da alcuni cacciatorpediniere e corvette. L’ufficiale di rotta (si trattava proprio dell’stv Cacace…) diresse con perizia il battello nella manovra di attacco al convoglio e, in breve tempo, il Cagni lanciò una salva di siluri contro la nave più grande della formazione nemica, identificata come una portaerei ausiliaria. Due siluri giunsero a segno, e a bordo del Cagni (immersosi nel frattempo per sfuggire alla reazione a/s delle unità di scorta), furono udite due distinte esplosioni. Il comandante Roselli Lorenzini ritenne pertanto di aver affondato l’unità inglese, e manovrò con perizia il battello sino alle ore 17.00, quando cessò finalmente il lancio di bombe di profondità da parte dei caccia e delle altre navi scorta britanniche.

Il “liner” Asturias nel 1938: poco prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale fu requisito dalla Royal Navy e armato come incrociatore ausiliario. Sarà danneggiato gravemente dai siluri del Cagni nel Golfo di Guinea il 25 luglio 1943. (Coll. M. Brescia)

L’unità attaccata era in realtà l’incrociatore ausiliario HMS Asturias, una grande nave passeggeri armata con numerosi pezzi di artiglieria ed equipaggiata con una catapulta e due idrovolanti. Ancorché gravemente danneggiato dai siluri del Cagni, l’Asturias – assistito da una corvetta e rimorchiato da una nave salvataggio olandese, riuscì a raggiungere Freetown il 1° agosto. I danni furono tuttavia gravissimi, e l’Asturias poté rientrare in servizio solamente parecchi mesi dopo la fine del conflitto.

Per la perizia, il coraggio e la freddezza dimostrate nell’azione, Amedeo Cacace fu in seguito decorato con una Medaglia di Bronzo al V.M., ma il nostro comandante preferisce rimarcare che

“L’attacco all’Asturias ebbe luogo proprio il 25 luglio 1943, quando il Gran Consiglio del Fascismo depose il Capo del Governo dando avvio a quella drammatica serie di eventi che avrebbero portato all’8 settembre… Captammo difatti alla radio le trasmissioni provenienti dall’Italia che ci informavano su questo evento, ma tutti a bordo del Cagni avevano fatto il loro dovere e avevano l’intenzione di continuare a farlo: certo, lo spirito dell’equipaggio era ben diverso da quello delle missioni precedenti, poiché da tempo sapevamo tutti che la guerra aveva preso una brutta china e poteva ormai essere considerata perduta. Ma lo spirito di corpo, l’attaccamento alla Regia Marina e l’amor di Patria ci consentivano di continuare le nostre attività e di portare avanti la nostra missione con abnegazione e senso del dovere…”.

Il 28 agosto 1943 il Cagni entrò nell’Oceano Indiano, facendo rotta verso Singapore alla massima velocità consentita dai suoi motori diesel quando, l’8 settembre, vennero ricevute a bordo alcune trasmissioni radio provenienti dall’Inghilterra che comunicavano l’avvenuta firma dell’armistizio; nei giorni successivi, queste notizie furono confermate anche da Radio Roma, insieme alle istruzioni di raggiungere porti alleati dirette a tutte le navi italiane.

“Il comandante Roselli Lorenzini seppe gestire, al tempo stesso con ‘democrazia’ e fermezza, la situazione: alcuni uomini dell’equipaggio intendevano proseguire la navigazione, altri avrebbero preferito rientrare a Bordeaux… Alla fine il comandante seppe convincere tutti che il nostro dovere era quello di eseguire gli ordini impartiti da S.M. il Re. Probabilmente aveva già capito che – solo così facendo – la Regia Marina poteva mantenere quanto più possibile intatte la sua forza e la sua credibilità, e ben presto tutti convennero con Roselli Lorenzini che questa era la via da seguire… Facemmo quindi rotta verso Durban (costa orientale del Sud-Africa), ed entrammo in quel porto alle 23.30 del 19 settembre 1943…”.


20 settembre 1943. Il sommergibile Ammiraglio Cagni in manovra nelle acque del porto di Durban, in Sud Africa, dove verrà internato. (Coll. E. Bagnasco, da: In guerra sul mare, op. cit. in bibliografia)

I rapporti con le locali autorità britanniche non furono subito dei migliori: agli iniziali sospetto e diffidenza fecero seguito anche veri e propri atti di prevaricazione:

“Un giorno verso la fine di settembre alcuni ufficiali della Royal Navy salirono a bordo e cominciarono a impadronirsi di binocoli, sestanti, strumentazione varia e altri elementi dell’allestimento… (ciò – tra l’altro – in contrasto con le clausole armistiziali in base alle quali le Regie Navi non avrebbero mai dovuto ammainare la bandiera, mantenendo quindi inalterate le proprie prerogative e sovranità – n.d.r.). … Il comportamento di Roselli Lorenzini fu, come in tutte le altre occasioni, fermissimo ed esemplare: “sbarcò” senza tanti complimenti gli ufficiali della Royal Navy e comunicò al locale Comando britannico che era pronto anche ad autoaffondare immediatamente il Cagni se simili episodi si fossero ripetuti. La durezza e la chiarezza con cui il nostro comandante si rivolse agli inglesi consentirono di sbloccare ben presto la situazione e, dopo i primi di ottobre, l’equipaggio del Cagni (che viveva in condizioni disagiate a bordo del battello), fu trasferito a terra in un campo ove – con svariate comodità – erano alloggiati numerosi ufficiali della Marina britannica…”

La situazione era mutata completamente, e gli italiani del Cagni seppero ben presto acquisire una posizione di “preminenza”:

“Una volta giunti nel campo a terra, il personale di cucina del Cagni avviò subito un “servizio mensa” che – con le non molte risorse disponibili – consentiva tuttavia di disporre di un “menù” ottimo e abbondante, secondo le migliori tradizioni della cucina italiana. La fama dei nostri cuochi fu anzi tale che gli ufficiali inglesi che alloggiavano insieme a noi facevano la fila (e pagavano regolarmente il conto…) pur di poter pranzare e cenare alla nostra mensa…”

Il Cagni fu sottoposto ad un ciclo di lavori di raddobbo nell’Arsenale di Durban, e l’8 novembre 1943 iniziò la navigazione di rientro verso l’Italia. Dopo aver sostato a Mombasa e Aden, il battello transitò nel Canale di Suez giungendo ad Haifa, ove l’equipaggio trascorse le festività natalizie. Ricorda ancora il comandante Cacace:

“Durante la nostra permanenza ad Haifa salirono a bordo ufficiali del genio navale delle Marine britannica e americana; tutti rimasero stupiti dalle caratteristiche tecniche del nostro battello, le cui prestazioni ed armamento ne facevano una vera e propria unità “oceanica” paragonabile alle migliori realizzazioni della Kriegsmarine, della Royal Navy e dell’U.S. Navy. In particolare, il possente armamento (14 tubi lanciasiluri, con una dotazione massima di 42 armi, e due cannoni da 100/47) facevano dei battelli della classe “Cagni” delle unità potenti e ben equilibrate, contraddistinte da ottime doti di velocità e autonomia. E’ un vero peccato che gli altri tre battelli della classe (Ammiraglio Caracciolo, Ammiraglio Millo e Ammiraglio Saint-Bon) siano andati perduti poco dopo l’entrata in servizio, anche perchè impiegati in ruoli diversi da quelli per cui erano stati progettati e costruiti… il solo Ammiraglio Cagni sopravvisse al conflitto e fu demolito nel 1948…”

Il 4 gennaio 1944 il Cagni ormeggiò a Taranto, alla banchina sommergibili dell’Arsenale, concludendo una missione iniziata più di sei mesi prima a Bordeaux nel corso della quale erano state affondate due navi alleate, danneggiata una terza, con il periplo dell’Africa e durante la quale erano avvenute le drammatiche vicende – navali, militari e politiche, ma soprattutto umane – che avevano coinvolto le vite e le coscienze degli uomini dell’equipaggio successivamente alla proclamazione dell’armistizio l’8 settembre 1943.


Il Cagni nell’Arsenale di Taranto, nel 1945, all’ormeggio tra un altro sommergibile e una corvetta tipo “Gabbiano” (coll.E.Bagnasco)

Poche settimane dopo, Amedeo Cacace si congedò dalla Regia Marina che – in seguito alle riduzioni di mezzi e personale dovute alla nuova posizione di co-belligeranza assunta dall’Italia – favoriva l’ “esodo” di talune aliquote di personale, ormai eccedente le proprie necessità.

L’stv Cacace prese quindi servizio a bordo del mercantile Sfinge che, sin dalle prime settimane successive all’armistizio, era impiegato nel cabotaggio tra i porti dell’Italia meridionale. La permanenza del nostro comandante a bordo dello Sfinge si protrasse sino al 1946, quando entrò a far parte dei cinquanta equipaggi italiani che, a bordo della m/n Sestriere, furono inviati negli Stati Uniti per prendere in carico i primi “Liberty” destinati all’Italia, in base al “Piano Marshall”, per la ripresa dei traffici mercantili nazionali. Per un certo tempo, Amedeo Cacace navigò anche su una di queste unità: il Sirena (ex Alexander Mitchell), sbarcando nel 1952.

Sul finire del 1952 Amedeo Cacace ebbe notizia che il Corpo dei Piloti del Porto di Savona bandiva un concorso per coprire alcune nuove posizioni: con lo spirito di intraprendenza che lo aveva caratterizzato negli anni di guerra, il nostro comandante partecipò al concorso risultando vincitore e – dal 1953 al 1984 – fece parte dei Piloti della nostra città. Anzi, dal 1972 e sino alla pensione, ricoprì l’incarico di Capo dei Piloti del Porto di Savona, meritando la stima di tutti gli operatori dello “shipping” (e non solo savonese…) per le sue doti professionali e di profonda umanità.

1973: Amedeo Cacace a Livorno riceve l’abbraccio dell’amm. sq. Giuseppe Roselli Lorenzini, Capo di Stato Maggiore della Marina, già suo comandante sul Cagni nel 1943. (g.c. A. Cacace)

Nel frattempo, transitato alla forza “ausiliaria” della Marina Militare, Amedeo Cacace venne promosso più volte, sino a raggiungere il suo attuale grado di capitano di fregata del Corpo di Stato Maggiore.

Uno solo è oggi il rammarico di Amedeo Cacace, e le sue parole sull’argomento sono forse la migliore conclusione di queste note:

“Nel 1986, per il tramite dell’Ufficio Storico della Marina Militare, ricevetti la copia di una lettera inviata da un ex-marittimo inglese, Mr. David Mac Connell, imbarcato sull’Asturias all’epoca del siluramento da parte del Cagni il 25 luglio 1943. Mr. Mac Connell richiedeva notizie sul sommergibile che aveva silurato la sua nave in Atlantico, e i responsabili dell’Ufficio Storico mi avevano inviato la lettera in quanto – già all’epoca – ero uno dei pochi ufficiali “superstiti” dell’equipaggio del Cagni… Ancora oggi sono veramente dispiaciuto di non aver avuto la possibilità di organizzare un incontro con questo ex-nemico che, prima di tutto, era un uomo e un marinaio come me e che, anche se su un fronte opposto al mio, aveva condiviso le mie medesime esperienze di mare e di guerra negli anni ormai lontani del secondo conflitto mondiale…”


Una recentissima immagine del comandante Amedeo Cacace scattata nel corso di una manifestazione organizzata dal Gruppo A.N.M.I. di Savona, di cui è uno dei Soci più anziani e rappresentativi. (Foto L. Ghersi)

Note

(1) C1Cl “E” – ovvero “comune di prima classe”, categoria Elettricisti

(2) Il Bragadin era un altro sommergibile posamine, che costituiva una classe con il gemello Filippo Corridoni. Questi due battelli (entrata in servizio: novembre 1931) erano più vecchi rispetto allo Zoea e furono impiegati principalmente per il rifornimento di basi avanzate durante tutto il corso del conflitto. Vennero entrambi radiati nel 1948.

(3) A bordo del Cagni imbarcava anche il c.c. Giuseppe Roselli Lorenzini, destinato a sostituire il c.f. Liannazza al termine della missione.

(4) I “casi” delle vicende belliche sono tuttavia molto più complessi… I fatti che seguono sono stati narrati all’autore dal segretario del Naval Photograph Club, Mr. Mike Cooper, nell’ambito di uno scambio di e-mail che ha permesso di reperire alcune fotografie che illustrano l’articolo. Mr. Cooper, che nel dopoguerra navigò con la compagnia britannica Elder Dempster (cui apparteneva il Dagomba), riporta che conobbe uno steward di nome James Cowan, imbarcato sul Dagomba al momento dell’affondamento,: mentre Mr. Cowan conservava un ottimo ricordo dell’equipaggio del Cagni (che, ricordiamolo, aveva affondato la sua nave!), aveva invece una pessima opinione – che rasentava l’odio – nei confronti dei francesi che avevano raccolto i naufraghi del Dagomba su una spiaggia del Senegal (all’epoca colonia francese), trattandoli con estrema rudezza. Questo è il testo inglese della testimonianza raccolta da Mr. Cooper: “The survivors were badly treated by the French in Senegal.  I can remember even in my time in the Company a Chief steward named Jimmy Cowan who loathed and detested the French and wouldn't have a good word to say about them… he was a Dagomba man!”.

(5) Giuseppe Roselli Lorenzini, nel dopoguerra, avrebbe ricoperto importanti incarichi nella ricostituita Marina Militare, sino a diventarne il Capo di Stato Maggiore nel periodo 1970-1973.

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Bibliografia

- E. Bagnasco, I sommergibili della seconda guerra mondiale, Parma Albertelli, 1973

- E. Bagnasco, In guerra sul mare, Parma, Albertelli, 2005

- E. Bagnasco, E. Cernuschi, Le navi da guerra italiane 1939-1945, Parma, Albertelli, 2003

- E. Bagnasco, A. Rastelli, Sommergibili in guerra, 2a edizione, Parma, Albertelli, 1994

- G. Fioravanzo, La Marina dall’8 settembre 1943 alla fine del conflitto (vol. XV della serie “La Marina Italiana nella seconda guerra mondiale”), Roma, USMM, 1962

- A. Hague, The allied convoy system – 1939/1945, Annapolis, USNI, 2000

- R. Jordan, The world’s merchant Fleets 1939, Annapolis, USNI, 1999

- F. Mattesini, Betasom, la guerra negli oceani 1940-43, Roma, USMM, 1993

- U. Mori Ubaldini, I sommergibili negli Oceani (vol. XII della serie “La Marina Italiana nella seconda guerra mondiale”), Roma, USMM, 1976

- J. Rohwer, G. Hummelchen, Chronology of the war at sea 1939-1945, (2 voll.), Londra, Ian Allan, 1974

- A. Turrini, O. Miozzi, Sommergibili italiani, (2 voll.), Roma, USMM, 1999

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I sommergibili del comandante Cacace

Sommergibile Maggiore Baracca

Cantiere OTO, Muggiano

Impostazione: 1-III-1939   -   Varo: 21-IV-1940   -   e.i.s.: 10-VII-1940

Dislocamento: 1.171 tonn (in superficie), 1.406 tonn (in immersione)

Dimensioni: lunghezza 76 m, larghezza 6,7 m, pescaggio 5,21 m

Apparato motore: due motori diesel (3.500 hp) e due motori elettrici (1.500 hp)

Velocità max: 17,5 nd in superficie, 8 nd in immersione

Autonomia: 10.550 mg a 8 nd, 2.900 mg a 17 nodi (110 mg a 3 nodi in immersione)

Armamento: 1-100/47 – 4 mg da 13,2 mm (II x 2) – 8 tls (4AV e 4AD) da 533 mm (16 siluri)

Equipaggio: 7 ufficiali e 52 tra sottuficiali, sottocapi e comuni

Classe composta da:

Maggiore Baracca, Michele Bianchi, Leonardo da Vinci, Alessandro Malaspina, Guglielmo Marconi e Luigi Torelli

Sommergibili di grande crociera a scafo semplice con controcarene, furono tutti varati dal cantiere OTO del Muggiano tra il 1939 e il 1940. Impiegati esclusivamente in Atlantico e nell’Oceano Indiano, furono battelli innovativi, i primi realizzati in Italia con scafo saldato eletricamente anziché chiodato. Il Torelli fu catturato dai giapponesi a Singapore il 10 settembre 1943, ceduto alla Kriegsmarine e nuovamente catturato dai giapponesi nel maggio 1945; fu rinvenuto danneggiato a Kobe nel settembre 1945 e demolito l’anno successivo. Gli altri cinque battelli andarono tutti perduti in Atlantico tra il 1941 e il 1943. Il Baracca, in particolare, fu affondato l’8 settembre 1941 dal cacciatorpediniere britannico HMS Broome.

Sommergibile Zoea

Cantiere Tosi, Taranto

Impostazione: 3-II-1936   -   Varo: 5-XII-1937   -   e.i.s.: 12-II-1938

Dislocamento: 1.333 tonn (in superficie), 1.659 tonn (in immersione)

Dimensioni: lunghezza 82,8 m, larghezza 7,1 m, pescaggio 5,3 m

Apparato motore: due motori diesel (2.900 hp) e due motori elettrici (1.300 hp)

Velocità max: 15 nd in superficie, 7,4 nd in immersione

Autonomia: 9.880 mg a 8 nd, 3.500 mg a 15 nodi (84,5 mg a 4 nodi in immersione)

Armamento: 1-100/43 (1-100/47 dal 1941) – 4 mg da 13,2 mm (II x 2) – 6 tls (4AV e 2AD) da 533 mm (8 siluri) – 2 tubi posamine (16 armi); camera centrale per la posa di mine (20 armi)

Equipaggio: 7 ufficiali e 53 tra sottuficiali, sottocapi e comuni

Classe composta da:

Atropo, Foca e Zoea

Battelli posamine e siluranti a doppio scafo parziale tipo “Cavallini”, furono progettati e costruiti dai cantieri Tosi sulla base dell’esperienza fatta con il precedente Pietro Micca. La Regia Marina li utilizzò per tutto il corso del conflitto per il trasporto rifornimenti, e le missioni di posa di mine cui presero parte furono – nel complesso – molto poche. Nel corso di una di queste missioni, a ottobre del 1940, il Foca andò perduto al largo di Haifa. Atropo e Zoea, sopravissuti alla guerra, furono radiati e demoliti nel 1947.

Sommergibile Ammiraglio Cagni

Cantieri Riuniti dell’Adriatico, Monfalcone

Impostazione: 16-IX-1939   -   Varo: 20-VII-1940   -   e.i.s.: 1-IV-1941

Dislocamento: 1.703 tonn (in superficie), 2.185 tonn (in immersione)

Dimensioni: lunghezza 87,9 m, larghezza 7,76 m, pescaggio 5,8 m

Apparato motore: due motori diesel + un gruppo elettrogeno (4.370 + 600 hp) e due motori elettrici (1.280 hp)

Velocità max: 16,5 nd in superficie, 8,5 nd in immersione

Autonomia: 19.500 mg a 7,5 nd, 10.700 mg a 12 nodi (107 mg a 3,5 nodi in immersione)

Armamento: 2-100/47 (I x 2) – 4 mg da 13,2 mm (II x 2) – 14 tls (8AV e 6AD) da 450 mm (38 + 4 siluri)

Equipaggio: 7 ufficiali e 71 tra sottuficiali, sottocapi e comuni

Classe composta da:

Ammiraglio Cagni, Ammiraglio Caracciolo, Ammiraglio Millo, Ammiraglio Saint-Bon

Battelli di grande crociera a semplice scafo con controcarene, furono i più grandi battelli “oceanici” della Regia Marina. Concepiti per la lotta al traffico, erano armati con tubi lanciasiluri da 450 mm, un calibro ritenuto più che sufficiente per l’utilizzo contro il naviglio mercantile (il calibro ridotto, tuttavia, può essere una delle cause del mancato affondamento dell’Asturias). Il Cagni, unica unità della classe impiegata in Atlantico, passò in disarmo nel 1948: la falsatorre fu salvata dalla demolizione ed è conservata a Taranto, come monumento ai sommergibilisti Caduti. Gli altri tre battelli, impiegati per il trasporto di rifornimenti verso l’Africa settentrionale, furiono tutti affondati tra il dicembre 1941 e il febbraio 1942.

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I successi in Atlantico

Agios Nikolaos

(greco – affondato a cannonate dal sommergibile Baracca il 1° ottobre 1940 in posizione 40°00’N – 16°55’W)

Appartenente alla compagnia “Ioannis, Adamantios e Hadjipateras” del Pireo

Costruito nel 1915 dal cantiere Napier & Miller di Glasgow – 3.687 t.p.l., lunghezza 109 m

Lilian Moller

(britannico – silurato e affondato dal sommergibile Baracca il 18 novembre 1940 in posizione 52°57’N – 18°05’W)

Appartenente alla compagnia “Moller Line Ltd” con bandiera inglese e sede a Shanghai

Costruito nel 1917 dal cantiere Sir James Laing & Sons Ltd. di Sunderland – 4.866 t.p.l., lunghezza 117 m

Dagomba

(britannico – silurato e affondato dal sommergibile Cagni il 3 novembre 1942 in posizione 02°29’N – 19°00’W)

Appartenente alla compagnia “Elder Dempster Lines Ltd.” Di Liverpool

Costruito nel 1928 dal cantiere A mCmillan & Son Ltd. Di Dumbarton – 3.845 t.p.l., lunghezza 110 m

Argo

(greco – silurato e affondato dal sommergibile Cagni il 29 novembre 1942 in posizione 34°53’S – 17°54’E)

Appartenente alla compagnia “Argonaut Shipping Co. (E. Eugenides)” del Pireo

Costruito nel 1920 dal cantiere Wood, Skinneer & Co. di Newcastle-upon-Tyne – 3.100 t.p.l., lunghezza 90 m

Asturias

(britannico – silurato e gravemente danneggiato dal sommergibile Cagni in posizione 06°40’N – 21°00’W)

Requisito dal Ministry or War Transport e reimmesso in servizio come HMS Asturias il 28 agosto 1939

Costruito nel 1925 dal cantiere Harland & Wolff Ltd. di Belfast – 22.048 t.p.l., lunghezza 199 m

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Motivazioni delle decorazioni conferite al Comandante Amedeo Cacace

Medaglia di bronzo al V. M. - Sottotenente di vascello

"Imbarcato su Sommergibile Oceanico che durante la lunga missione negli Oceani Atlantico ed Indiano affondava una grande Portaerei Ausiliaria attaccata all'interno delle Siluranti di scorta, recava all'efficienza dei servizi il contributo delle proprie elevate qualità militari e professionali e con la pronta e precisa esecuzione degli ordini assicurava il successo del vittorioso attacco".

Oceano Atlantico e Oceano Indiano, 29 giugno 1943 -2 gennaio 1944.

Croce di guerra al V. M.  - Aspirante Guardiamarina

"Sottordine alla rotta di un sommergibile oceanico, nel corso di due lunghe missioni di guerra nell'Oceano Atlantico dimostrava profondo entusiasmo e continuo attaccamento al servizio; in particolare, durante l'affondamento col siluro di un grosso piroscafo armato nemico, era di ausilio al Comandante dimostrando alto senso del dovere e sereno

sprezzo del pericolo".

8 gennaio 1941.

Croce di guerra al V. M.  - Guardiamarina

"Imbarcato su un sommergibile, impiegato in una serie di dure missioni di rifornimento, si prodigava con entusiasmo senza misurare fatica e rischio, dimostrando dedizione al dovere, sereno coraggio ed alto senso di amor di Patria".

Maggio - agosto 1941.

Croce di guerra al V. M.  - Guardiamarina

"Imbarcato su sommergibile, impiegato in una serie di dure missioni di rifornimento, si prodigava con entusiasmo

senza lisurare fatica e rischio, dimostrando dedizione al dovere, sereno coraggio ed alto senso di amor di Patria"

Ottobre - dicembre 1941

Croce di guerra al V. M.  - Guardiamarina

"Imbarcato su sommergibile, in una missione di guerra coadiuvava con serenità e ardimento il Comandante nella

efficace reazione ad attacchi di aerei nemici, contribuendo all'abbattimento di un grosso apparecchio da bombardamento".

14 novembre 1941.

Croce di guerra al V. M.  - Sottotenente di Vascello

"Imbarcato su Unità subacquea partecipava con entusiasmo alla preparazione del battello per lunga missione atlantica. Durante detta missione collaborava col Comandante per 137 giorni spiegando nella quotidiana durisssima fatica spirito di sacrificio. Durante il passaggio dello Stretto di Gibilterra, l'affondamento di due mercantili e durante attacco aereo avversario esplicava con calma ed entusiasmo il proprio compito.

Oceano Atlantico, 6 ottobre 1942 - 20 febbraio 1943.

Croce di guerra al V. M.  - Sottotenente di Vascello

"Ufficiale di rotta di Sommergibile durante il terzo anno della guerra 1940-43, partecipava a numerose missioni di guerra, in acque contrastate dal nemico, assolvendo in ogni circostanza il proprio incarico con coraggio, abnegazione ed elevato sentimento del dovere".

Mediterraneo Orientale -Atlantico, 10 giugno 1942 -8 settembre 1943.

La scuola di Amedeo Cacace:

Nel 1782 furono fondate le Scuole Nautiche a Meta e Piano e quindi nel 1784 anche ad Alberi.

Nel 1863 veniva istituita la “Scuola Nautica e di Costruzione Navale” che veniva elevata poi nel 1865 ad “Istituto di Marina Mercantile” di Piano di Sorrento. Fu dal 1° Gennaio 1864 che il Prof. Sebastiano Enrico De Martino ne fu il Preside fino al 1905.

Nel 1884 la scuola assunse il nome di Nino Bixio “. Dal 1866, primo anno, e fino al 1966 – cioè in cento anni – si sono diplomati:1698 Capitani di Lungo Corso – 1350 Macchinisti Navali – 143 Capitani di Gran Cabotaggio – 2 Costruttori Navali di 1^ Classe.

1937 – CACACE Amedeo, in seguito Ufficiale di Rotta su Sommergibili Oceanici di base a Bordeaux –    pluridecorato nella 2^ Guerra Mondiale - Capo Pilota del Porto di Savona

A cura di

Carlo Gatti

Rapallo, 12.1.2013


BIAGIO ASSERETO, L'Ammiraglio che catturò due Re

Biagio ASSERETO

L’AMMIRAGLIO CHE CATTURO’ DUE RE

NATIVO DI RECCO, SUO NONNO VENIVA DA RAPALLO

Statua di Biagio Assereto

Veduta di Genova verso la metà del 1400. Xilografia tratta dalle “Cronache di Norimberga”

Il grande poeta Francesco Petrarca così descriveva Genova nel lontano 1358:

“Arrivando a Genova vedrai una città imperiosa, coronata da aspre montagne, superba negli uomini e per mura, signora del mare”.

Sintesi mirabile delle caratteristiche principali della città ligure, del suo glorioso passato, delle sue forti tradizioni. L’orgoglio di Genova si ritrova ovunque, nella ricchezza dei monumenti e dei musei, nello splendore dei palazzi maestosi e dei parchi, nel carattere e nella lingua dei genovesi, nei “caruggi” del suo centro storico, nel grande e variopinto porto, ove regna il movimento de traffici.

Un’iscrizione in latino, posta sul pilastro meridionale di Porta Soprana, recita:

“In nome dell’Onnipotente Dio Padre e Figlio e Spirito Santo, Amen. Sono munita di uomini, circondata da mura mirabili, col mio valore tengo lontane le ostili armi. Se porti pace ti é lecito toccare queste porte, se chiederai guerra triste e vinto ti ritirerai. A mezzogiorno e a occidente, a settentrione e a oriente é noto quanti moti di guerre ho superato, io, Genova!”.

In questo superbo contesto nasce e si muove Biagio Assereto

“Biagio Assereto, generale delle galee della Serenissima Repubblica di Genova, fece prigionieri due re, in Infante, trecento cavalieri. Morì l’anno 1456”.

Questa iscrizione si trova su un busto marmoreo nella Chiesa arcipresbiteriale di Serravalle Scrivia. S'ignora la data della sua nascita, ma da un documento del 1408, si ritiene che egli sia nato non dopo il 1383. Si conosce invece il luogo di nascita, Recco. Di suo padre si sa che non era un marinaio, ma un rispettato artigiano. Sua madre era una Ghisolfi, una donna appartenente a una potente famiglia di mercanti genovesi. Il nonno veniva da Rapallo, la sua famiglia era di tendenza politica filo-milanese. Aveva svolto i primi studi presso i religiosi e avrebbe dovuto essere orafo. Era di bell'aspetto, aitante nel fisico ed allo stesso tempo intellettuale, ma amava soprattutto il mare. Per queste doti entrò nelle simpatie di Francesco Spinola, allora padrone di Recco, che lo fece diplomare notaio. Iniziò, quindi, la carriera da scrivano a Porto Maurizio nel 1408 per conto del locale podestà. Un posto ottenuto dalla Repubblica di Genova. Un impiegato quindi, non un navigatore.

GALEA SOTTILE: Il nome "galera", diffusosi solo nel XII secolo, deriva dal greco γαλέoς (galeos), cioé "squalo", perché la forma assunta in quest'epoca dalla principale esponente di questo tipo di navi, la galea sottile, richiamava tale pesce: essa infatti era lunga e sottile, con un rostro fissato a prua che serviva a speronare ed agganciare le navi avversarie per l'arrembaggio. La propulsione a remi la rendeva veloce e manovrabile in ogni condizione; le vele quadre o latine permettevano di sfruttare il vento.

La forma lunga e stretta delle galee, ideale soprattutto in battaglia, la rendeva però poco stabile, e le tempeste e il mare grosso la potevano facilmente affondare: perciò il loro utilizzo era limitato alla stagione estiva, al massimo autunnale. Era obbligata a seguire una navigazione di cabotaggio, ossia vicino alle coste , in quanto la sua stiva poco capiente imponeva diverse tappe per il rifornimento soprattutto di acqua; i rematori, per il continuo sforzo fisico, ne consumavano molta. Per queste ragioni la galea era inadatta alla navigazione oceanica.

Le più famose battaglie combattute da queste navi furono quella di Salamina , nel 480 a.c. , e quella di Lepanto, nel 1571 . A entrambe queste battaglie presero parte diverse centinaia di galee.

I combattimenti tra galee si risolvevano di solito in abbordaggi, nei quali gli equipaggi si affrontavano corpo a corpo e, a partire dal XVI secolo, a colpi di archibugio; in genere si univano alla lotta anche i rematori.

Nel XV secolo le galee cominciarono ad imbarcare a bordo dei cannoni : generalmente un cannone di corsia centrale più alcuni pezzi di calibro inferiore sulla rembada. La potenza di questi cannoni, specie di quelli laterali, era però limitata perché le sollecitazioni derivanti dallo sparo scuotevano e danneggiavano la nave. Inoltre verso la fine del Medioevo si inventò il sistema di remo a scaloccio, in cui 4-5 rematori facevano forza sul medesimo remo. I rematori potevano essere uomini liberi stipendiati o (in caso di guerra) reclutati per sorteggio, schiavi e prigionieri condannati per un certo numero di anni al remo; dal termine galea deriva infatti il termine italiano galera.

Nella battaglia di Lepanto i veneziani sperimentarono con ottimi risultati le galeazze, galee molto più grandi e stabili che potevano imbarcare batterie di cannoni di grosso calibro e sparare in tutte le direzioni; tali navi, tuttavia, erano impossibili da manovrare a remi, tanto che dovettero essere trainate da due galee ciascuna.

Galea Bastarda: Galea dalle forme poppiere più piene rispetto alla galea sottile e murate più alte, era utilizzata con funzioni di nave capitana o patrona, cioè ammiraglia. Il nome derivava dal fatto che tale tipo di nave risultava essere un incrocio tra la galea sottile e la galea grossa. Ne esisteva anche una versione ridotta nota come bastardella, di dimensioni intermedie tra la galea sottile e la galea bastarda

Galeazza

Bastimento a vela e a remi, che prese forme definitive nella seconda metà del Cinquecento. Era d'alto bordo, con casseretto e castello, attrezzato con tre alberi a vele latine e il bompresso . Aveva il ponte di coperta e il suo palamento consisteva in 32 banchi sottostanti a quel ponte, con remi a scaloccio. Pertanto il ponte di coperta era libero per la manovra delle vele e poteva portare una batteria di grossi cannoni (circa 36) e altri minori installati sui fianchi. La galeazza, imitazione della galea da traffico con la sua attrezzatura e l'alto bordo, fu il coronamento degli sforzi per mettere le galee in grado di meglio opporsi al crescente predominio della nave a vela.

Dal 1423 Biagio Assereto diventa armatore e noleggiatore di galee al servizio della Repubblica e nel 1425 lo si ritrova in città, capo dei cancellieri. Uno strano cancelliere. Proprio nel 1425, eccolo capitano di una nave della Serenissima contro il ribelle Antonio Fregoso; poi comandante d’una galea nel 1427, nella flotta di Antonio Doria che restituì il reame di Napoli a Giovanna II.

Renato d’Angiò, re di Napoli, stette in carica dal 1435 al 1442

Suo predecessore fu Giovanna II, suo successore Alfonso I

Infine, sempre nel 1427, viene inviato nella zona delle Cinque Terre al comando di una galea che costringe alla resa Ferruccio Verro e lo porta prigioniero a Genova. Il fiorentino era partito da Pisa a sostegno di Tommaso di Campofregoso, che in quella regione si era fatto capo del malcontento genovese contro il duca di Milano.

Biagio Assereto

Improvvisamente, codici, rogiti e pandette vengono accantonati e nasce un nuovo ammiraglio, un vero uomo di mare: Biagio Assereto che sarà presto inserito nell’albo d’oro d’una città come Genova, già così ricca di capitani e di navigatori famosi.

Contemporaneamente l'Ammiraglio, non pago delle forti somme di danaro ricevute per le sue prestazioni in qualità di “patrono di navi”, mirava ad ottenere altri incarichi, ancora più redditizi, nell'amministrazione della Repubblica. Nel 1428 fu nominato podestà di Recco, nel 1429 commissario nel territorio di Portofino e sempre nel 1429 rappresentò Genova nel trattato di alleanza con Lucca, la quale aveva abbattuta da poco la tirannide di Paolo Guinigi, contro i Fiorentini.

La sua fama varca tutti i confini di allora quando nelll’agosto 1435 gli viene affidata una flotta ridotta di appena 12 Galee, con la quale giunse a Gaeta in soccorso di Francesco Spinola assediato da Alfonso d'Aragona. La battaglia decisiva avvenne a largo di Ponza il 5 agosto e Biagio Assereto riportò la vittoria.

Quello che segue é certamente il racconto più importante della sua più significativa impresa da AMMIRAGLIO.

Antica Stampa del porto di Gaeta

L'assedio di Gaeta e la conseguente battaglia di Ponza sono due eventi storici accaduti nel 1435. In quell'anno Alfonso il Magnanimo (Alfonso d'Aragona), nella lotta per impossessarsi del trono napoletano di Renato d'Angiò, si rivolgeva contro la roccaforte di Gaeta che ancora gli resisteva. Nel corso degli eventi veniva sconfitto e catturato dal genovese Biagio Assereto, e poi liberato dal Duca di Milano Filippo Maria Visconti.

Sotto: Il re spagnolo sconfitto

Alfonso d’Aragona

L’antefatto é il seguente: morta la regina Giovanna, il re spagnolo Alfonso d’Aragona mise in atto una strategia per riprendersi il reame di Napoli. La tattica militare scelta era la seguente: stringere d’assedio Gaeta con una armata navale per sbarcarvi le truppe, e di là muovere verso la capitale campana. Ma Gaeta fece in tempo a chiedere aiuto a Genova, che mandò un contingente, al comando di Francesco Spinola, per costruire opere di difesa.

Genova non intendeva mettersi contro potentissima Spagna, ma il presidio di Spinola finì invece a sua volta assediato, e la Repubblica di Genova dovette decidersi, o rinunciare alla propria dignità di Stato, o intervenire in soccorso delle sue truppe di Gaeta. Fu scelta una via di mezzo: armare una flotta e  inviarla in appoggio degli assediati, ma solo allo scopo di liberarli, senza arrivare a scontrarsi con gli spagnoli. La mini-Armata genovese era composta di 12 galee soltanto, e 2400 armati al comando di Biagio Assereto che era il principale sostenitore dei “falchi” genovesi. Appena giunse in vista Gaeta, seppe che Spinola, il nobile di cui era stato paggio, era ferito e che gli spagnoli stavano per occupare la città. Era il 3 agosto 1435. Proprio in quel giorno, l’ammiraglio genovese si vide venire incontro l’imponente flotta spagnola comandata da re Alfonso d’Aragona: 31 navi da guerra su cui erano imbarcati oltre 6.000 uomini. Nonostante la disparità di forze, B. Assereto accettò lo scontro, dopo aver inviato la dichiarazione scritta al sovrano spagnolo che egli intendeva soltanto soccorrere i suoi compatrioti genovesi  e riportarli in patria.

La superiorità militare aragonese era fin troppo evidente, l’arroganza del re spagnolo fece il resto, ma l’esito dello scontro fu per loro una tremenda umiliazione.

La battaglia avvenne al largo di Ponza e fu una dimostrazione d’arte militare e navale da parte di Assereto. Alla sera, gli spagnoli erano sconfitti, il bottino enorme: undici navi nemiche vennero catturate, due sole fuggirono, tutte le altre furono bruciate o affondate. Assereto prese prigionieri il re Alfonso d’Aragona, il re di Navarra, l’Infante di Aragona, il Gran Maestro di Alcantara, il vice re di Siviglia, il principe di Taranto e una lunga schiera di baroni e di gentiluomini. Assereto diede notizia della vittoria a Genova e a Filippo Maria Visconti con una relazione caratterizzata da moderazione e modestia. A Genova fu festa grossa per tre giorni. Il bottino era di dimensioni mai viste, e venne, come promesso, distribuito ai membri dell’equipaggio.

Dal  poema celebrativo delle gesta di Biagio Assereto (ammiraglio della flotta genovese)

O Ponza, tu sempre sarai ricordata per questa crudele tenzon sanguinosa, avrai rinomanza d’eterna durata, fra l’isole tutte sarai tu famosa. Fu in te che gridaro con voce paurosa entrambi gli stuoli “Battaglia, battaglia!” La vista che senza l’orror che attanaglia poter contemplarla fu maschia e animosa.

Antonio Astesano (poeta di Corte) 1436

Ma come si svolse la battaglia? Quale fu la strategia messa in atto da Biagio Assereto per potersi imporre su un avversario così potente e per l’occasione così superiore in numero di navi e di uomini armati?

Per rispondere a questa domanda ci siamo affidati ad alcune pagine del libro

“La Battaglia navale di Ponza del 1435. Alfonso il Magnanimo (1416-1458)”

di Alan Ryder(Traduzione di Silverio Lamonica)

Sul tardi Alfonso decise di assaltare Gaeta, piuttosto che rischiare di subire la rottura del suo blocco. Quindici barche con scale d’assalto appese agli alberi, si unirono alla flotta di galee che attaccava le difese marittime; a terra puntò le sue speranze su una grande torre d’assedio in legno che doveva aprire la strada a tre colonne assaltatrici comandate da lui stesso, da Enrico e da Giovanni. Pedro, a capo delle forze navali, manovrava sotto un assiduo fuoco di frecce e palle di cannone, nel tentativo di portare la nave a riva, solo per scoprire, con rammarico, che le scale d’assalto non riuscivano a raggiungere le mura che si affacciavano sul mare. Il paranco in tensione che li sosteneva cedette, gettando a mare i soldati posizionati sulle scale a pioli; tutti annegarono, tranne due che riuscirono a liberarsi dell’armatura e a nuoto raggiunsero la salvezza. Non essendo riuscita la medesima manovra ad una seconda barca, le altre si tenevano alla larga dalla linea di fuoco. A terra né uomini, né macchine da guerra potevano tener testa ad una difesa tanto determinata, quanto abile. Riconoscendo che l’attacco era fallito, Alfonso richiamò i suoi.

Ora tutto dipendeva dalla flotta genovese, le cui galee perlustravano il tratto di mare  trenta miglia al largo di Terracina, se ciò poteva essere deprecabile, Gaeta ridusse i rifornimenti di due settimane, assolutamente necessari ad evitare la capitolazione. Invece di lasciare l’iniziativa al nemico, come aveva fatto a Bonifacio, Alfonso decise di tenere i genovesi ben lontani da Gaeta, dando battaglia in mare aperto. Aveva fiducia nei suoi vascelli catalani e siciliani i quali, numericamente in vantaggio, avrebbero messo alla prova i genovesi in più di uno scontro. Così a riprova della sua notevole mancanza di fiducia, prese personalmente il comando della flotta ed invitò ad accompagnarlo una moltitudine di nobili, amministratori, e perfino spettatori, come pure una coppia di ambasciatori di Barcellona. Si dice che soltanto la nave del re, un enorme vascello comandato da Jofre Mayans, avesse preso a bordo oltre ottocento di questi passeggeri superflui (Nota 53). Anni dopo si sostenne che lui prese il comando per mettere fine ad una lite tra Giovanni ed Enrico che si contendevano quel ruolo e che tutti gli altri avrebbero seguito il re che si era messo a rischio (Nota 54). Comunque appare evidente che acquisì un certo gusto per le operazioni navali e potrebbe aver confidato nella speranza di una vittoria spettacolare, la quale avrebbe consolidato la sua reputazione di condottiero reale di operazioni anfibie. La moltitudine festante si imbarcò il 3 agosto 1435. I fratelli reali presero ciascuno il comando dei maestosi vascelli che in tutto erano nove.

Nota 53 - Si imbarcarono più di 800 persone della casa e della corte reale, come se andassero a festeggiare una vittoria certa (Zurita, Annales, VI 93).

Corona d'Aragona (o Impero aragonese) fu il nome dato all'insieme dei regni e territori soggetti alla giurisdizione dei Re d'Aragona dal 1134 al 1714. Nata dall'unione dinastica tra il Regno d'Aragona e la Contea di Barcellona, la Corona d'Aragona venne accresciuta nei secoli di altri territori: i regni di Maiorca, Valencia, Napoli, Sicilia, Sardegna, Contea di Provenza, nonché i ducati di Atene e di Neopatria.

Cinque altre navi ed 11 galee completarono la flotta che il mattino successivo presero il largo alla ricerca dei genovesi. Li avvistarono mentre si avvicinavano provenienti dalla parte di Terracina, li inseguirono verso l’isola di Ponza e si sarebbero impegnati senza ulteriori difficoltà, poiché il Comandante genovese, Biagio Assereto inviò un araldo con una bandiera bianca per chiedere di non ostacolare il passaggio, in modo che potessero consegnare le provviste destinate a Gaeta. Gli scambi di notizie conseguenti si protrassero per tante ore diurne che la battaglia dovette essere rinviata al mattino successivo (55).

L’alba li sorprese a circa quattro miglia da Ponza, un’isoletta distante trentacinque miglia dalla terraferma. Il re provò una fiducia superba, specie quando vide tre navi genovesi fuggire verso il mare aperto. Col vento che gonfiava le vele, diresse lo squadrone principale direttamente sull’ammiraglia di Assereto; in una situazione simile qualsiasi altro comandante avrebbe preferito pregare. Ma quando le navi stavano per collidere, con una bordata improvvisa Assereto fece ruotare la sua nave, urtando violentemente la poppa del vascello reale, liberandola della zavorra e facendola sbandare paurosamente. (Alfonso) non gioì a lungo dell’altezza (della sua nave) appena i due vascelli si uncinarono, né il suo equipaggio avrebbe potuto manovrare le armi con un certo effetto su un ponte inclinato. Altrove la battaglia infuriava perfino con maggior fortuna. Alcune navi genovesi si trovarono abbordate da entrambi i lati a causa del maggior numero di navi aragonesi, mentre le galee della retroguardia si lanciavano in avanti, favorite dal mare calmo e centrando il bersaglio con colpi d’arma da fuoco e con frecce. Da parte loro i genovesi fecero ampio uso di frecce infuocate, olio bollente e calce viva che la brezza soffiava sui loro avversari con un effetto devastante. Ma fu nell’abilità del combattimento che i genovesi godettero di un vantaggio schiacciante: tutti i loro uomini erano temprati dai combattimenti navali, mentre i marinai aragonesi erano fatalmente impediti da una frotta di marinai d’acqua dolce, metà dei quali in preda al mal di mare e per nulla capaci di combattere con efficacia sui ponti delle navi in preda al rollio.

Quel che decise la battaglia fu la ricomparsa, nel pomeriggio, di quei tre velieri genovesi che ebbero l’ordine di allontanarsi quando cominciò l’attacco. Ora piombavano nel mezzo del combattimento su un nemico sfibrato. Anche sulle navi ammiraglie i genovesi avevano la meglio. Cinque loro velieri circondarono la nave ammiraglia, spingendosi in avanti da prua, da babordo e da tribordo, presero il castello di prua, irruppero attraverso una barricata a mezza nave e spinsero indietro il re ed il suo seguito verso il castello di poppa, dove Alfonso trovò rifugio dalla grandine di frecce, concentrate ora sull’ultimo fortino.

Nota 55 - Rispondendo ad Assereto, Alfonso chiese di conoscere in base a quale diritto Genova aveva la presunzione di interferire nel suo regno, in soccorso dei suoi nemici. Inoltre chiese la resa della flotta genovese.

pag.  204 - Per porre fine alla loro resistenza, Assereto fece tagliare il sartiame provocando la caduta dei pennoni che fu tanto rovinosa e violenta che si aprirono i fianchi della nave. Appena l’acqua cominciò a penetrare all’interno, una freccia infuocata, scoccata da una balestra, piombò sul ponte ai piedi di Alfonso; attorno a lui i nobili caddero in ginocchio scongiurandolo di salvare la vita. Ma a chi avrebbe dovuto arrendersi? Il suo principale avversario, Assereto, di mestiere notaio, non aveva le qualità per prendere prigioniero un re. Invece egli scelse tra i capitani genovesi un certo Iacopo Giustiniano, la cui famiglia resse la Signoria di Chio e a lui consegnò la spada, dichiarando di considerarsi prigioniero del Duca di Milano, Signore di Genova. Un piccolo frammento di onore fu salvato dal naufragio della sua fortuna.

Vedendo catturato il loro re, gli equipaggi delle altre navi, già col morale a terra, si scoraggiarono del tutto. Molti si arresero senza un ulteriore combattimento. Solo Pedro, con due navi prese a rimorchio dalle galee, riuscì a fuggire nella notte. Furono catturate dodici navi, una galea bruciata ed un’altra affondata. Alfonso, Giovanni, Enrico, il Principe di Taranto, il Duca di Sessa, il Conte di Campobasso, Lope Ximenez de Urrea, il governatore di Aragona, Ramon Boyl, Guglielmo Ramon de Monteada, il Signore di Alcantara, Diego Gomez di Sandoval, con oltre cento altri nobili di alto rango di Aragona, Castiglia, Valencia, Catalogna, Sardegna, Sicilia e Napoli furono presi prigionieri. Esclamò un cronista napoletano: “Mai rete gettata in mare per una volta, non foro presi tanti pisci” ( Faraglia, Diurnali, 94).

*** A completare il disastro, i soldati della guarnigione di Gaeta, il giorno dopo, avendo saputo del trionfo dei loro compatrioti, uscirono improvvisamente dalla città, schiacciando i loro assedianti demoralizzati, portarono come trofeo le prede,  rivaleggiando con quelle catturate in mare. Assereto, arrivando poco dopo a consegnare il tanto atteso soccorso, in compagnia dei suoi prigionieri, trovò lo stato di assedio in frantumi e l’esercito reale sparso al vento. Immediatamente scaricò le merci, rilasciò migliaia di prigionieri di poco valore ai fini del riscatto e bruciò alcune navi catturate. Si dice che due giorni dopo, temendo che Spinola, nella sua qualità di ammiraglio genovese potesse sostituirlo nel comando, fece di nuovo vela alla volta di Ischia, con l’intento apparente di espellere gli Aragonesi dalle loro ultime roccaforti napoletane. Zurita (Anales VI, 98) riferisce un episodio: quando Assereto invitò Alfonso a liberare Ischia, ricevette la seguente risposta: “Neanche se pensassi di essere gettato in mare, cederei una sola pietra dei miei domini”.

pag. 205 - Comunque sia, prima che potessero raggiungere Ischia, si scatenò una tempesta che disperse le navi di Assereto. Dopo un’altra breve visita a Gaeta, abbandonò l’idea di ulteriori azioni e si diresse invece verso il porto della sua nazione. Appena fece sosta con l’Aragonese a Portovenere, vennero ordini direttamente dal Duca di Milano di non portare Alfonso a Genova, ma a Savona con Enrico e pochi nobili sbarcati il 28 agosto. Gli altri prigionieri furono sbarcati a Genova dove Giovanni, assieme a Ruiz Diaz de Mendoza, Menicuccio dell’Aquila e i figli del Conte di Castro, trovarono alloggio nel castello, i meno fortunati furono rinchiusi in una comune prigione insalubre, la Malapaga (58).

Per Alfonso era già iniziata una metamorfosi sorprendente: da prigioniero di guerra a principe trionfatore. Perfino nei giorni immediatamente successivi alla sua sconfitta, i genovesi, i quali mai potevano immaginare che un prigioniero tanto illustre potesse finire nelle loro mani, “lo trattarono con gran rispetto e deferenza, nemmeno fosse stato il Duca di Milano in persona” (59). Dato il carattere atomizzato della classe politica genovese, non c’è da sorprendersi che alcuni avessero già cominciato a considerare il vantaggio personale che avrebbero potuto ricavare da uno straordinario cambiamento degli eventi. Alcuni anni dopo, uno dei comandanti, Giovanni de Fredericis, ancora raccoglieva ricompense per essersi offerto a prendere Alfonso a bordo della sua nave  e metterlo in libertà, non ci sarebbe stato alcun attentato nel portarlo a Genova. Assereto che doveva incontrarsi con Filippo Maria, appariva ugualmente desideroso di  rispettare il desiderio del suo prigioniero reale, tanto da mettersi nelle mani del duca anziché della repubblica. L’atteggiamento del Duca di Milano fu adombrato dal suo governatore di Savona che ricevette il re con una tale deferenza da sembrare che fosse venuto non come prigioniero, ma per prendere possesso della città (60).

Alfonso trascorse dieci giorni nel castello di Savona, aspettando la prossima mossa del Duca e rifornendo il suo guardaroba, essendo arrivato coi soli indumenti che indossava. L’8 settembre, in compagnia di Enrico, il principe di Taranto, il Duca di Sessa. Inigo Davalos ed Inigo di Guevara, partì per Milano. Viaggiando con calma e percorrendo tre leghe al giorno, la compagnia attraversò Pavia per raggiungere la capitale di Filippo Maria, il 15 settembre.

Note:
58) I prigionieri che capitarono peggio furono Franci de Bellvis e Gutierre de Nava; i  loro saccheggi ai danni della flotta, infuriarono i genovesi a tal punto che furono gettati nella prigione comune e furono gli ultimi a riacquistare la libertà.

59) Zurita (Anales VI 98)

60) “il quali ricevette il Re con tanta venerazione che parea che fosse venuto non prigione, ma pigliare possessione di quella città” ( Costanzo, Historia – III 31)

Medaglia di Filippo Maria Visconti

- Terminiamo la rievocazione storica di quell’avvenimento bellico con una sintesi storica un po’ amara per l’ammiraglio Biagio Assereto. Gli avvenimenti, purtroppo, presero un’altra piega come ci racconta lo storico Giovanni Balbi:

“I prigionieri non furono condotti a Genova, che non ebbe così il suo atteso trionfo. Li volle dirottati a Milano Filippo Maria Visconti, a cui allora la Repubblica era soggetta. Alfonso d’Aragona e i suoi, una volta a Milano, furono subito rimessi in libertà e il re spagnolo sottoscrisse con il Visconti un accordo in base al quale quest’ultimo lo avrebbe addirittura aiutato nella conquista del reame di Napoli. I genovesi si ribellarono a questo voltafaccia dei milanesi e ne fecero colpa ad Assereto, accusandolo di tradimento e vietandogli il ritorno in patria: e forse un po’ di responsabilità l’ammiraglio doveva avercela, se lo ritroviamo remuneratissimo governatore di Milano al servizio di Filippo Maria Visconti e conte di Serravalle Scrivia. Infine, nel 1437, eccolo anche commissario ducale di Parma e comandante dell’armata milanese nella guerra contro Venezia. Riuscì a mostrare ancora di che tempra egli fosse. Passato al servizio di Francesco Sforza sconfisse infatti prima a Chiusa d’Adda e poi a Casalmaggiore l’ammiraglio veneziano Querini e lo costrinse a ripiegare sulle lagune. Ma si sentiva stanco di gloria e di battaglie: e così si ritirò nel suo castello di Serravalle Scrivia, ospitando amici, cacciando, dilettandosi di studi letterari, intrattenendo corrispondenza con artisti e pittori. Era amico anche di Enea Silvio Piccolomini, divenuto Pio II dal 1458. Di lui, anagraficamente, l’unica data certa é quella della sua morte: a Serravalle Scrivia, il 25 aprile 1456”.

Rapallo, 26 gennaio 2013
Carlo GATTI

Bibliografia:

- Storia di Genova – Federico Donaver

- Navi e Marinai – Compagnia Generale Editoriale

- La Battaglia navale di Ponza del 1435. Alfonso il Magnanimo (1416-1458)”

di Alan Ryder – (Traduzione di Silverio Lamonica)

- La Mia Gente – IL SECOLO XIX