Un Divisore fatto in Casa (modellismo)

 

Un DIVISORE fatto in casa

Capita spesso di dover praticare lavorazioni o applicare dettagli equidistanti su parti circolari.

Chi ha provato a costruirsi un timone mi capisce bene.

In meccanica, l’operazione di suddividere un cerchio in parti uguali si effettua con un apparecchio che si chiama, per l’appunto, “divisore”.

Con l’avvento dell’elettronica tale apparecchio tende a scomparire, sostituito da un “posizionatore a controllo numerico”, ma se il primo rappresenta una spesa cospicua, per il secondo la spesa è addirittura proibitiva.

Per noi modellisti un “divisore” serio è di troppo lusso, ci basta molto meno, anche perché quelli industriali sono concepiti per pezzi di dimensioni discrete e per un uso frequente e prolungato nel tempo.

Al modellista hobbista è sufficiente un “accrocco” da usarsi con cautela e in rare occasioni.

L’averne a disposizione uno è in ogni caso utile.

Io me ne sono costruito uno molto semplice usando un ingranaggio a vite senza fine, di quelli che sono rintracciabili nei negozi di modellismo.

L’idea è semplice: la vite senza fine ha la caratteristica che ad ogni giro completo della vite, la ruota si muove esattamente di un solo dente.

Avendo a disposizione una ruota a 100 denti sarà dunque possibile avere con facilità divisioni di 100 e sottomultipli di 100: 2, 4, 5, 10, 20, 25, 50. Usando un po’ più di attenzione, operando su porzioni di giro è possibile ottenere anche suddivisioni diverse, anche se meno precise.

L’attrezzo che ho costruito altro non è che un alberino supportato da cuscinetti a sfere (contenuti nella parte posteriore nera) e sul quale è calettata una ruota a 100 denti.

Il diametro della ruota è di circa 50 mm.

La ruota, come si vede chiaramente dalla foto, è vincolata ad una vite tenuta in posizione da un pezzo sagomato a “U” che, a sua volta, è incastrato nella base.

La base è costituita da due quadri di plastica da 5mm di spessore accoppiati con quattro viti angolari.

La dimensione della base è di 90 x 80 mm.

L’importante è che tra vite e ruota il collegamento sia stretto, in modo da evitare “giochi”: movendo l’asta, alla fine della quale è stata ricavata una manovella per semplice deformazione, sia in avanti, sia indietro, si ottiene un immediato movimento della ruota, senza “punti morti”.

L’asta di comando è piuttosto lunga (circa 130 mm) per due ragioni:

1) La prima è che i movimenti della mano sono ammortizzati dalla flessibilità dell’ottone pieno  e non hanno retroazioni negative sul posizionamento del pezzo.

2) La seconda è che la mano può restare lontana dalla zona di lavorazione con evidenti vantaggi dal punto di vista della sicurezza.

Per trattenere il pezzo in lavorazione uso un mandrino da trapano (assente nelle foto) con innesto a “cono morse” femmina che si incastra a pressione sul “cono morse” maschio che altro non è che la parte terminale dell’albero di supporto.

Spero che, tra descrizione ed immagini, la spiegazione sia sufficientemente chiara.

Albino Benedetto

02.04.12

{jcomments on}


Nave a Palo ITALIA- C. CONCORDIA, due naufragi a confronto

IL NAUFRAGIO DELLA NAVE A PALO ITALIA

La perdita del più grande veliero italiano di tutti i tempi fu un duro colpo per la marineria ligure.

Alcune analogie con il naufragio della Costa Concordia

Siamo nel 1908. Gli affari più redditizi stanno passando ai piroscafi, concorrenti che i velieri non riescono più a contrastare perché sono sempre più affidabili e, non dipendendo dai capricci del vento, assicurano consegne più regolari secondo precisi impegni di noleggio. Insomma, all’orizzonte c’é più fumo che vele e la gente di mare sente sulla propria pelle che il progresso sta voltando le spalle ai silenziosi bastimenti a vela. Il commercio marittimo riguarda prevalentemente il guano cileno, il salnitro peruviano, il carbone europeo o australiano, il grano americano, i minerali di nickel neocaledonesi, la lana australiana, il petrolio in cassette, il legname e il pesce dei mari nordici. Ma é anche il tempo della corsa all’oro californiano. S’inaugura il flusso di migranti dalla costa orientale a quella occidentale degli USA in cerca di fortuna, sempre via Capo Horn, ma l’apertura del Canale di Panama é imminente (1914) e provoca alla vela ulteriori perdite operative e cali di noli.

In questo quadro marcato dai forti colori del tramonto, si muovono ancora con grande fierezza le famose  navi a palo oceaniche; sono grandi, famose e veloci, sono l'orgoglio della nostra cantieristica navale e dei loro armatori che credono fermamente nell’economicità del vento rispetto al costoso carburante dei piroscafi. Sono costruiti in ferro ed hanno quattro alberi. In tutto sono una decina. Questi ultimi splendidi velieri  hanno svolto un buon servizio regalando prestigio alla nostra Marina. Sette di loro sono stati costruiti in Liguria.

L’Emanuele Accame, varata a La Spezia nel 1891, attiva su tutti gli oceani, fu la nave a palo forse più famosa e longeva. L’Edilio Raggio, varata a La Spezia nel 1903 dal cantiere Pertusola, fu la prima nave a palo realizzata con un progetto nostrano. Le gemelle Gabriele D’Ali’ (1901) e Principessa Mafalda (1903) furono varate nel Cantiere Nicolò Dodero della Foce di Genova. L’Erasmo fu varata a Riva Trigoso nel 1903 per conto degli armatori Raffo e Bacigalupo di Chiavari. Unità veloce, guadagnò primati malgrado le molte tempeste oceaniche nelle quali ha avuto la ventura d’incappare. La Regina Elena - Armata da Casa Milesi di Genova, fu varata a Riva Trigoso nel 1903. La settima fu la nave a palo Italia, della quale stiamo per raccontarvi il triste epilogo.

Con la portata di 4.200 tonn. fu il più grande veliero costruito dai cantieri nazionali ed anche l’ultimo di quella breve stagione. La nave a palo fu varata al Muggiano (La Spezia) nel 1903 per conto degli armatori Cavalieri Becchi e Sturlese di Genova. Fu una nave splendida ma sfortunata. La sua vita durò soltanto 3 anni, e fu divisa in altrettante campagne. La prima di circumnavigazione del globo; la seconda tra Europa, Australia e ritorno via Capo Horn; infine nel 1908, partì per la sua terza campagna dall’Australia diretta al porto cileno di Iquique. Dopo una veloce traversata di 43 giorni dell’Oceano Pacifico, l’Italia arrivò verso sera in vista delle colline di Antofagasta, ma improvvisamente le venne a mancare il vento lasciando le vele inerti e la nave in balia della corrente. La nave era in forte anticipo sulla data prevista, ma i rimorchiatori cileni non lo sapevano e non si fecero trovare pronti “al gancio”. Il mare lungo da Sud-Ovest che arrivava dagli sconfinati spazi oceanici, spinse il veliero contro la costa a picco sul mare. La perdita della nave fu inevitabile, complice il profondo fondale e l’inesorabile corrente che fu impossibile contrastare con le ancore di bordo. Il comandante Marchese tentò all’ultimo momento una manovra disperata ruotando la nave, ma troppo tardi. La poppa si sfasciò contro le rocce che aprirono una falla che le fu fatale. All’equipaggio non rimase che allontanarsi con le lance di salvataggio, che vennero poco dopo soccorse da alcuni pescherecci locali.


Venerdì 1° Maggio. Due eccezionali fotogrammi che testimoniano il naufragio della nave a palo “Italia”. L’albero di contromezzana (o palo) é crollato a seguito del contraccolpo nella zona poppiera, dovuto all’impatto col fondo roccioso. Queste immagini sono state rinvenute nel libretto del Capitano Emilio Marchese soltanto nel 1975. (Archivio Museo Navale Internazionale – Imperia)

Dal PROCESSO VERBALE riportiamo alcuni stralci della drammatica relazione del Comandante riguardante il naufragio della nave a palo ITALIA.

Io sottoscritto Emilio Marchese, Capitano del veliero Italia della matricola del Comp. Marittimo di Genova....omissis....Si Partì da Newcastle (Australia) il 17 marzo 1908 con carico di carbone destinato per Iquique (Cile); felicemente dopo una favorevole navigazione e sollecita, si avvista la costa del Chilì (Cile) alle alture circa di Antofagasta. Da qui segue rotta al Nord per la destinazione succitata. La mattina del venerdì 1° maggio, fatto giorno, la posizione della nave era al traverso di Punta Petache, alla distanza di 10 o 12 miglia con quasi calma di vento e variabile e mare gonfio da Sud Ovest. Si effettuano durante il giorno varie manovre onde allontanarci dalla costa, cambiando le mure, ma a causa altresì di una corrente abbastanza considerevole portante verso il Nord o Nord-Nord Est, nonostante tutti gli sforzi fatti, ci avvicinammo alla punta Cuchumetta in sì breve lasso di tempo; cosa da rimanere stupefatti; vedendo che non si poteva più oltrepassare detta punta per l’assoluta mancanza di vento, immediatamente si scandaglia trovando 35 braccia di fondo, si ancora subito, senza indugiare un istante, l’ancora di sinistra filando circa 60 braccia di catena fuori, ciò essendo verso le ore 04,30 p.m., ma vedendo che la nave non veniva trattenuta, derivando sempre alla via di terra, si ancora anche quella di destra immediatamente, filando catena circa 40 braccia. Fatto ciò, il bastimento cominciò a presentare la prua fuori all’Ovest, ma disgraziatamente esso toccò ripetutamente la poppa battendo fortemente sul fondo di scoglio. Sondata la sentina, si trovarono sei piedi d’acqua nella stiva, da cui si deduce che lo scafo ha portato forti avarie nel fondo sott’acqua. Immediatamente si mettono fuori in mare le due imbarcazioni di poppa, perché queste erano le più pronte ed alla mano guarnite con le grue con lo scopo di salvare le vite dell’equipaggio (in questo frattempo un urto violento causò completamente rottura e disarmo del timone) che colle guide di due pescatori poi fummo a terra tutti. Prima di lasciare la nave, più o meno le ore 6 p.m. potemmo convincerci come la falla andava prendendo proporzioni sempre maggiori, perché l’immersione della linea d’acqua fuori bordo raggiungeva il livello pressapoco alla coperta. Trovandosi in deplorevoli condizioni, risolvemmo prender la via di terra, dirigendosi in un ridosso, piccola Caleta, ove il mare era molto più camo, colle guide di due pescatori pratici del luogo, che poterono assisterci nel momento fatale e che tutto presenziarono.....

Descrizione del bastimento Italia: Armatori: Bechi & Sturlese di Genova

Misure dello scafo: Lunghezza: mt.100 – Larghezza: mt. 14.54 - Pescaggio: piedi 22,5 - Stazza Tonn. Registro: 3.030 - Portata massima: Tonn. 4.200 - Nominativo: PWNK Velatura: mq 3.000 - Attrezzato a nave a palo con i ritrovati più recenti, con 18 vele quadre, randa e 12 vele triangolari, albero maestro di 50 m d’altezza.

La campagna nell’oceano Pacifico della nave a palo “Italia”. Passato il Capo Horn, la nave raggiunse Seattle poi si diresse in Australia, a Melbourne, quindi attraversò ancora il Pacifico per due volte facendo scali nel Cile, a Junin e Pisagua, fino al tragico naufragio del 1° Maggio 1908.

Alcune analogie con il naufragio della Costa Concordia

1 - Le due navi sono state tra le più grandi della loro epoca e nessuno avrebbe immaginato che potessero naufragare per una causa diversa da un incendio, da una tempesta, da una collisione, dalla rottura di un albero, nel caso del veliero; oppure per il blackout dei motori, perdita delle eliche e timone nel caso della nave passeggeri.

2 - Il veliero ITALIA naufragò per una causa davvero remota: blackout del vento, come se una nave di oggi si schiantasse sugli scogli per mancanza di carburante.

3 - La nave passeggeri Costa Concordia é naufragata per un causa altrettanto impensabile: imprudenza grave del suo capitano nel scegliere una rotta troppo vicina alla costa.

4 - In entrambi i casi, il destino é stato crudele ed efficientissimo nel programmare e realizzare due naufragi da manuale, nonostante le condizioni meteo fossero ottime.

5 – Il veliero italiano era sprovvisto di stazione radio.* Per questo motivo non fu emesso alcun segnale di soccorso, pur trovandosi la nave in acque “quasi” portuali.

6 – Allo stesso modo, dopo 104 anni di progresso tecnologico, si deve parlare di carenza nei contatti radio nave-terra-nave anche per la Costa Concordia. 32 sono state le vittime della tragedia e si ritiene, da più parti, che si debba imputarne la causa all’inefficienza delle comunicazioni interne ed esterne alla nave.

7 – Il naufragio delle due unità non é stato immediato. Nel caso del veliero, l’affondamento fu ipotizzato con largo anticipo, e l’abbandono nave fu preparato secondo la prassi. Nel caso della nave passeggeri, lo scafo s’é adagiato con il fianco destro su un provvidenziale gradone roccioso che lo accoglie a tutt’oggi (Maggio-2012) con una certa stabilità.

8 - Sia l’Italia che la Concordia sono naufragate cozzando contro la terraferma e non in mare aperto. In entrambi i casi, i naufraghi si sono salvati con i mezzi di bordo e di terra evitando di morire assiderati nelle fredde acque del Pacifico in aprile, o davanti all’Isola del Giglio in gennaio.

9 – In entrambi i casi, si può “marinarescamente” parlare di evento straordinario, degno di essere ricordato con molti ex voto per grazia ricevuta. L’Italia si trovò, infatti, “senza governo” in balia della corrente e l’impatto contro la costa avvenne non distante dal porto di Iquique (Perù), per questa fortunosa circostanza, il recupero dell’equipaggio fu quasi immediato.

La Costa Concordia, subito dopo l’urto contro le “Scole”, si é trovata “senza governo”, in balia di deboli elementi meteo e di un forte sbandamento compiendo, con l’abbrivo residuo, una curva magica verso terra e non verso il largo. Questo miracoloso sentiero della salvezza l’ha portata a posarsi dolcemente sulla riva e a consegnare i suoi “ospiti” tra le braccia di quei fantastici gigliesi che oggi tutti applaudiamo.

10 - Chiuderei questa serie di coincidenze con un pensiero sul Gigantismo Navale di cui, probabilmente, le due navi sono state vittime. Per secoli e secoli i velieri fecero uso delle scialuppe di bordo per togliersi dai guai a forza di remi: nelle manovre portuali, per evitare i bassifondi, per superare le calme equatoriali, per scappare dalle rade pericolose ecc... La scialuppa é sempre stata l’arma segreta, una risorsa indispensabile del Comandante di un tempo, non solo come forza trainante, ma anche come vedetta, esploratore, procacciatore di acqua, di viveri, per trasbordare personale, autorità, feriti, merci di scambio ecc... Ma il comandante Emilio Marchese dell’ITALIA, a causa del peso eccessivo della nave e del suo carico, non prese neppure in considerazione l’idea di servirsi delle scialuppe per vincere la corrente a forza di braccia. Per quanto riguarda l’impatto della Costa Concordia contro gli scogli, diversi esperti del settore hanno affermato che la nave, qualora fosse stata di poco più corta, avrebbe scapolato con la poppa gli scogli delle ‘Scole’ e, nonostante i numerosi errori del suo comandante Francesco Schettino, si sarebbe salvata.

Note: * Il primo uso della radio a bordo di una nave con relativa richiesta di soccorso si ebbe nel Marzo 1899 da parte della nave faro Goodwin che navigava a sud delle coste inglesi immersa in una fitta nebbia. Il messaggio di richiesta di soccorso fu ricevuto da una stazione costiera che mando' la nave S. Matteo in aiuto alla Goodwin. Nel 1904 molti transatlantici furono equipaggiati con stazioni radio ricetrasmittenti a bordo, con operatori che conoscevano la telegrafia provenienti dalle ferrovie o dagli uffici telegrafici postali.

Ringrazio il comandante Flavio Serafini, per aver riportato alla luce, con il suo libro: “NAUFRAGIO NEL PACIFICO”, (da cui ho tratto le fotografie), la drammatica storia della nave a palo ITALIA. Flavio lo ha fatto con la passione del vero ricercatore di razza, in un Paese che certamente non brilla nella salvaguardia delle memorie storiche.

Carlo GATTI

Rapallo, 18.04.12


Mario T. PALOMBO un Comandante nella "tempesta" mediatica

Mario Terenzio PALOMBO

un Comandante nella “tempesta” mediatica

Nel novembre 2010 Mare Nostrum organizzò la Mostra: “La famiglia Costa, un pianeta che parla rapallino”. L’evento ebbe come testimonial il comandante Mario Terenzio Palombo che lasciò un’impronta indelebile con un’avvincente conferenza sulla marineria del nuovo millennio. Fu proprio in quella circostanza che i nostri lettori conobbero il “Personaggio Palombo”, Comandante carismatico della Costa Crociere, protagonista di una storia ormai rara che parte dai segreti della vela, raccontati dal nonno Biagio, armatore di un pinco-goletta, ed arriva all’assoluta padronanza delle moderne tecnologie installate sulle grandi navi da crociera che lui stesso ha allestito e poi comandato.

Il comandante Mario Terenzio Palombo

Le poche righe che seguono, fanno parte della presentazione di Mario Terenzio Palombo che lessi al pubblico di MARE NOSTRUM RAPALLO nel novembre 2010:

"Nel primo dopoguerra, prima di partire con il bastimento “Nettuno”, mio padre che mi sembrava un gigante, un vero “lupo di mare”, ci ordinava di andare a prendere le gallette e i fichi secchi presso il panificio. Questa era la loro provvista di base. Durante la navigazione pescavano e mangiavano il pesce arrosto. Nelle cale della Sardegna si ancoravano, andavano nell’entroterra e dai contadini  scambiavano il  pesce con delle belle forme di formaggio di vari tipi e salumi. A quei tempi con le lenze si prendevano molti pesci. Lungo la costa calavano il tramaglio che in poco tempo era già stracolmo. Mentre il bastimento usciva dal porto di Camogli  lo guardavamo sbalorditi, mentre spiegavano le vele. Stavamo a guardarlo a lungo, sino a che diventava un puntino invisibile all’orizzonte. Sono immagini che restano impresse nelle mente, di tanto in tanto è bello ricordare".

Mario Terenzio Palombo é da qualche anno in pensione e si può tranquillamente sostenere che molti  degli attuali comandanti ed ufficiali di Costa Crociere sono cresciuti alla sua Scuola. Anche il comandante F. Schettino, al primo imbarco da Comandante in seconda, proveniente da altra Compagnia fu suo sottordine per circa 5 mesi nel 2002/3, a bordo della Costa Victoria, in crociera ai Caraibi. In questo periodo, Il comandante Palombo ebbe modo di poter valutare le capacità professionali di Schettino, che riportò in  una scheda  datata 18 maggio 2003, (già pubblicata da vari quotidiani) dove scrive:

< omissis….Posso dire che, mentre professionalmente è valido, tuttavia, ha manifestato alcune lacune relative alla gestione del Personale e  Disciplina di bordo. Ho notato, sin dall’inizio, un suo notevole impegno nel conoscere la nave e nel dedicarsi alla manutenzione della stessa. Non c’è stato inizialmente con me un buon rapporto in quanto, per orgoglio professionale o per suoi motivi caratteriali, il Sig. Schettino, in molti casi, preferiva mentirmi piuttosto che ammettere di aver sbagliato. Questo fatto naturalmente ha causato una perdita della mia fiducia sino a quando, dopo il nostro terzo serio colloquio, cominciava a capire come doveva comportarsi. Gli ho dato molti insegnamenti che mi auguro ne faccia tesoro specialmente per quanto concerne i rapporti con il Personale ………omissis……..Ha un buon carattere, come uomo è umile e buono d’animo, per questo ho voluto aiutarlo a superare le difficoltà incontrate a bordo ed a cambiare il suo comportamento, facendogli così acquisire più personalità, capacità di gestione del personale ed esperienza sulla conduzione nave per quanto concerne le sue mansioni >.

Mario Terenzio Palombo durante l’inverno e per 9 mesi all’anno vive a Grosseto. La sera del 13 gennaio 2013, 15/20 minuti circa prima dell’impatto della Costa Concordia contro “Le Scole”, mentre stava guardando la TV, veniva chiamato al cellulare dal Maitre d’Hotel della nave, Antonello Tievoli, originario dell’isola del Giglio. I due sono legati da buoni rapporti di famiglia ma il Comandante non sapeva dove si trovasse la nave in quel momento. Tievoli, nel salutare rapidamente Palombo, riferiva di trovarsi sul Ponte di Comando e che il comandante Schettino stava deviando dalla rotta per mostrare più da vicino l’isola del Giglio ai passeggeri e allo stesso Tievoli, i cui genitori abitano di fronte al mare. Palombo rimase indispettito da quell’inaspettata telefonata, in quanto il Maitre sapeva che lui si trovava  a Grosseto e rimase ancor più indispettito quando gli passò al cellulare, senza averlo chiesto, il comandante Schettino che non sentiva da anni, nemmeno quando andò in pensione per motivi di salute, ma soprattutto perché non erano rimasti in rapporti di amicizia.  (M.Palombo sbarcò dalla Costa Fortuna nel porto di Napoli nel 2006 per infarto. N.d.r.) Lo colpì ancora di più quando Schettino gli chiese informazioni sui fondali adiacenti alla zona del porto dell’isola, specificandogli che voleva passare ad una distanza di 0,4 miglia dal molo (circa 750 metri). Molto stupito da questa domanda, e pur sapendo che la nave era ben fornita di tutti gli strumenti nautici e dei dati per la  navigazione, Palombo riferiva che i fondali in quella zona erano buoni, ma tenuto conto della stagione invernale, non vi era assolutamente motivo di avvicinarsi e lo invitava a fare un rapido saluto suonando la sirena e di rimanere al largo.


Detto questo, soltanto l’apertura della “Scatola Nera” potrà spiegare il movente che spinse il comandante della Costa Concordia a pianificare  tanta scelleratezza... Comunque sia, la tragedia della COSTA CONCORDIA, avvenuta il 13 gennaio di quest’anno, ha cambiato la vita del Comandante Mario Terenzio Palombo che é diventato, suo malgrado, il personaggio più corteggiato, ma anche travisato e screditato dai media nazionali e stranieri. Questa diffusa pratica che si chiama “diffamazione”, ha suscitato la reazione degli abitanti dell’Isola del Giglio che, conoscendo a fondo il valore del loro figlio prediletto, hanno voluto esternare la loro amarezza con un “appello” apparso in versione murale nel paese, ma anche sul sito di GiglioNews.it che ora vi proponiamo insieme alla risposta del protagonista, vittima di una cinica quanto ingiustificata campagna denigratoria.

Di questo scambio di lettere, ci colpisce soprattutto la distanza siderale che esiste tra la sensibilità di chi conosce profondamente il mare ed il “personaggio Palombo” e  coloro che osano scrivere di navi e di gente di mare senza appartenere a questo mondo tanto difficile da capire quanto  affascinante da vivere. “I Vivi, i Morti e i Naviganti” é forse la più sintetica definizione di come é stato visto e diviso il mondo da un grande saggio che la sapeva lunga sull’animo umano.

"Giù le mani dal comandante Palombo"

Lo urla a gran forza il popolo gigliese e lo fa attraverso un eloquente striscione comparso nella notte su un balcone del porto, proprio di fronte al relitto della Concordia. Non piace agli isolani la gogna mediatica a cui viene sottoposto il loro concittadino Mario Palombo, ex Comandante di massimo prestigio della Costa Crociere.

"Quale sarebbe la colpa di Mario? - ci dicono infuriati gli isolani - Non è possibile vederlo additato su tutti i giornali e le trasmissioni televisive per il solo fatto che attraverso il suo libro ha descritto con passione l'amore per la sua gente espresso a volte attraverso passaggi ravvicinati alla sua isola!" 

"Prima di tutto non chiamateli inchini, che sono un'altra cosa - continuano i gigliesi - Gli sporadici passaggi ravvicinati del comandante Palombo ed alcuni suoi colleghi avvenivano sempre a distanza di sicurezza (almeno mezzo miglio) e ad una velocità minima che non creava pericolo né disturbo ai fondali"

In effetti i passaggi ravvicinati a cui abbiamo assistito nelle estati passate non avevano nulla di illegale e la distanza di mezzo miglio era ben oltre il limite di 100 metri stabilito dalle Ordinanze balneari. In più c'è da aggiungere che a mezzo miglio dall'isola i fondali raggiungono profondità importanti tanto da garantire la sicurezza per ogni genere di imbarcazione.

 "Il passaggio di quelle navi è sempre stato uno spettacolo unico - conclude stizzita la gente dell'isola - che piaceva a tutti noi gigliesi (nessuno escluso), ai nostri turisti ma anche ai passeggeri a bordo delle navi che potevano godere di uno scenario da favola. Nessuna necessità di farsi pubblicità, né dell'isola né tantomeno di Costa, solo omaggi tra gente di mare fatti, lo ripetiamo, in massima sicurezza e trasparenza. "

Per tutti questi motivi si è alzata, per la prima volta, la voce dell'isola che si è prodigata silenziosa e senza clamore quella tragica notte in una straordinaria azione umanitaria e che in cambio non ha chiesto nulla ma pretende adesso almeno il rispetto per la sua gente difendendo con forza e determinazione uno tra i suoi più stimati concittadini.

Segue la risposta del comandante Mario Palombo.

Cari Gigliesi,

non potete immaginare la mia sorpresa quando venerdì mattina un giornalista dell’Ansa mi ha chiamato comunicandomi che nella notte sulla mia isola era comparso uno striscione in mio onore su un balcone del porto.

Subito dopo, attraverso GiglioNews, ho potuto vederlo e leggere i pensieri e le parole della gente isolana in mia difesa che mi hanno riempito di gioia concedendomi una boccata di ossigeno in un momento per me veramente difficile.

Mi vedo ogni giorno attaccato e denigrato senza motivo da giornalisti cinici e senza scrupoli alla ricerca spesso di processi alle intenzioni piuttosto che alla verità dei fatti, senza nessuno di essi che riesca a spiegarmi quale sarebbe la mia colpa e quale relazione avrebbe la mia persona con questa tragedia della Costa Concordia.

Vedo spesso il mio libro spulciato con morbosità, con l’intento di trasformare parole di amore verso il Giglio e Camogli in assurde profezie di sventura! Ridicoli e goffi tentativi di trovare in quelle righe, scritte con il cuore e dense di emozioni vissute, chissà quali verità e ricostruzioni fantasiose.

Il mio pensiero è fisso verso quella nave tristemente adagiata sul fondale della Gabbianara, i suoi passeggeri morti durante una vacanza ed i parenti disperati in attesa alcuni di ritrovare i dispersi; l’orgoglio mio e dei miei colleghi comandanti e l’immagine di una società rispettabile come la Costa feriti, per un’assurda coincidenza, dagli scogli granitici della mia isola.

Ho sempre agito negli anni del mio lavoro con massima trasparenza e professionalità, con un grande senso di responsabilità nei confronti dei passeggeri delle mie navi e soprattutto forte di un infinito rispetto del mare. Non ho mai messo a rischio la vita di nessuno con manovre spericolate ed i miei passaggi  sono sempre avvenuti mettendo in atto tutte le misure di  sicurezza, rallentando sensibilmente la velocità, avvicinandomi in prossimità del porto sia al Giglio che a Camogli, dove salutavo i vecchi marinai  ospitati nella Casa di Riposo Gente di Mare.  Non sono stati assolutamente una consuetudine come i media hanno scritto, ma sporadiche e felici  occasioni che ho avuto nel corso della mia carriera.

Questo i miei concittadini lo sanno bene e me ne hanno dato conferma alzando la voce e prendendo le mie difese di fronte a bieche speculazioni giornalistiche. Proprio loro che del silenzio e dell’anonima operosità hanno dato prova in quella tragica notte e che adesso sono l’orgoglio mio, della Costa Crociere e di tutta Italia!

Finché la Concordia rimarrà lì, non me ne vogliate, non riuscirò a metter piede sull’isola. Il mio cuore è ferito proprio come quella nave e come le anime di tutte le persone che in quel tragico venerdì notte hanno perso i propri cari.

Mario Terenzio Palombo

CSLC Mario Terenzio PALOMBO

Sono nato a Savona il 30 agosto 1942 da famiglia di tradizioni marinare. Mio padre Francesco, autentico “lupo di mare”, era originario di Porto Santo Stefano (Monte Argentario), mia madre Renata Mattera, era dell’Isola del Giglio. La mia famiglia nel 1935, per esigenze di lavoro, si trasferì in Liguria, nella pittoresca cittadina di Camogli. Mio nonno Biagio, già armatore del pinco-goletta ”Nettuno”, comandato da mio padre, si  mise in società con una famiglia camogliese ed iniziò i trasporti e la vendita a Camogli e Santa Margherita Ligure, di carbone e legna proveniente dalla Sardegna.

Dopo 58 anni vissuti felicemente a Camogli, per esigenze familiari, mi sono trasferito con la famiglia a Grosseto dove vivo per 9 mesi all’anno trascorrendo l’estate all’Isola del Giglio. Non manco mai  di ritornare a  Camogli almeno  una volta all’anno.

Mi sono diplomato nel 1963 all’Istituto Nautico “Cristoforo Colombo” di Camogli. Dopo 9 anni di esperienze su navi da carico e petroliere, nel 1972 iniziai la mia carriera su navi passeggeri con la società di navigazione Home Lines imbarcando sulla T/n HOMERIC e, subito dopo, sulla T/n DORIC. Raggiunsi il grado di Com.te in 2nda, nel 1979 sulla T/n OCEANIC e, il mio primo comando nel 1982 sulla M/N ATLANTIC, di cui avevo seguito l’allestimento, in Francia, da Com.te in 2nda.

Seguii anche l’allestimento in Germania della nuova M/N HOMERIC. Nel novembre del 1988  questa società fu venduta e venni, nello stesso mese, assunto dalla società Costa Crociere, imbarcando da Com.te in 2nda sulla T/n EUGENIO COSTA e, pochi mesi dopo, ripresi il grado di comandante  sulla  CARLA COSTA.

Con la società COSTA CROCIERE  ho maturato sempre più la mia esperienza professionale partecipando a vari allestimenti di nuove navi, con l’affidamento del comando di navi prestigiose.

Con la Costa Crociere ho comandato: CARLA COSTA – COSTA ROMANTICA - COSTA CLASSICA- COSTA VICTORIA- COSTA ALLEGRA - COSTA ATLANTICA – COSTA FORTUNA.

Allestimenti : COSTA ROMANTICA – COSTA VICTORIA – COSTA FORTUNA

Sono rimasto a ruolo con la Costa Crociere sino al giugno 2007, ritirandomi in pensione.

Carlo GATTI

Rapallo, 13.04.12


PIBIMARE PRIMA, Un Rimorchio pericoloso sulla Rotta della Costa CONCORDIA

PIBIMARE PRIMA

UNA ROTTA SCONSIGLIATA

Il vecchio e saggio Portolano di bordo suggerisce ai comandanti di navi di passare  al largo dell’arcipelago toscano.....

Canale tra il promontorio dell'Argentario e le isole del Giglio e di Giannutri

Era l’alba del 27 febbraio del 1970 quando il comandante della Pibimare Prima, Attilio Ruggeri segnalò al suo armatore problemi al propulsore. La petroliera italiana, 15.000 tonnellate di stazza lorda, stava eseguendo “prove di macchina” nel medio Tirreno dopo importanti lavori al motore principale eseguiti presso un Cantiere nazionale. Raggiunto l’accordo per il contratto di rimorchio tra le rispettive Società, il Torregrande lasciò Genova alle 16 e poco dopo i due comandanti entrarono in contatto per scambiarsi i rispettivi punti-nave e gli orari dei successivi appuntamenti-radio. La Pibimare Prima si trovava in panne al largo delle spiagge romane e con pochi giri di macchina  lottava per rimanere alla cappa (con la prua al mare) contro una forte burrasca da libeccio. Il punto d’incontro fu raggiunto dal rimorchiatore genovese dopo una dura cavalcata di 17h 30m con il mare al mascone di dritta. L’operazione d’aggancio delle due unità avvenne tra onde alte 5-6 metri e non mancarono le difficoltà, tuttavia, dopo circa mezz’ora il convoglio era disteso con 600 metri di cavo alla via verso Genova. Alle 10h 00m del 28.2 Charly fece il punto nave con il radiogoniometro e s’accorse che il convoglio scarrocciava verso terra e decise , insieme al Comandante della Pibimare Prima Attilio Ruggeri, di risalire verso Genova sulla rotta più breve a ridosso dell’Arcipelago Toscano. Gli sforzi sofferti dall’attrezzatura di rimorchio erano stati notevoli e il giovane comandante voleva fare un accurato controllo degli attacchi prima d’affrontare la notte e il mare aperto. Lasciato verso le 23h lo scoglio di Giannutri a sinistra, il convoglio stava ormai imboccando il Canale tra L’Argentario e l’Isola del Giglio. Charly fece accorciare il cavo da rimorchio per non toccare con la catenaria (curva formata dal cavo sott’acqua) la Secca di Mezzo Canale (-24 metri). Il convoglio ridotto alla corta volava alla splendida velocità di 8 nodi. Nel frattempo la depressione era slittata a levante esaurendo la libecciata, ma innescando un fresco vento di grecale (da terra). Il mare da SW era ancora lungo e fastidioso, ma la bonaccia era lì davanti, a poca distanza.  La frittura di triglie fresche che il peschereccio di Papetto aveva regalato al Torregrande per antica amicizia, era quasi pronta per il primo assalto...

La Pibimare Prima a rimorchio

Poco dopo, improvvisamente, il potente motore del Torregrande si piantò di colpo senza alcun preavviso, e per l’effetto combinato del peso del cavo d’acciaio e della sua forma tozza, perse subito l’abbrivo nello spazio di qualche decina di metri. Fortunatamente lo scafo piegò a dritta proprio nel momento in cui la Pibimare Prima gli piombò addosso velocissima come un falco. Charly ebbe solo il tempo di attaccarsi alla sirena di bordo per avvisare l’equipaggio di mettersi in salvo. Era quasi mezzanotte e sul Torregrande c’era il cambio di guardia, in pratica l’equipaggio era tutto in servizio e pronto a gettarsi in mare come ultima soluzione per salvarsi. Solo il Direttore di macchina Guido Bianchi, agendo d’istinto, si precipitò in sala macchine ignorando gli urli di Charly di mettersi in salvo. Il rimorchio senza governo sfiorò letteralmente la poppa del rimorchiatore e scivolò via silenzioso nel buio. Quando il cavo di rimorchio venne in forza con uno schianto pauroso, vi fu un’esplosione di  scintille e ripetuti scossoni. Sembrava che le vibrazioni spaccassero ogni paratia del Torregrande che, sbandando in una vorticosa rotazione, fu alla fine trascinato per la poppa dalla Pibimare Prima che a sua volta ruotò intorno alla propria prora. Rimorchiatore e rimorchio, attratti da una forza assassina erano di nuovo in rotta di collisione. Charly ebbe in quei lunghi attimi di terrore la percezione di un’impotenza infinita. La costa era lì ad un passo, buia, spettrale e pronta ad inghiottire quel convoglio impazzito tra i suoi scogli. Li separavano forse 30 metri dalla collisione ormai inevitabile. Un’angoscia interminabile pervase  l’equipaggio che con molta freddezza si preparava ad assorbire il colpo. Quando nessuno pensava più al motore, questi ripartì sornione mugugnando qualcosa come per scusarsi. Charly lo prese per le corna urlando “AVANTI TUTTA” con la forza residua che aveva nei polmoni. La “collisione di ritorno” fu evitata con una potentissima smacchinata all’ultimo metro. Il convoglio ritornò lentamente ad allungarsi sull’asse del canale. Il peggio svanì d’incanto con la stessa velocità con cui quel pugno di uomini vide poco prima il ghigno beffardo della morte colpire, sparire e lasciare per sempre una profonda ferita in “Quelli del Torregrande”. Guido compì un atto d’eroismo riattivando una valvola bloccata da un improvviso “arresto cardiaco”... a lui andò il  perenne ringraziamento dell’equipaggio.

Tratto dal libro “QUELLI DEL TORREGRANDE” – di Carlo Gatti – Nuova Editrice Genovese - 2001

Ho inteso riproporvi il racconto di questa disavventura per un semplice motivo: anche il sottoscritto sfiorò la tragedia nel 1970, proprio in quelle acque divenute tristemente famose dopo la tragedia della Costa Concordia. Per quanto mi riguarda, ho già spiegato che tutto ebbe origine da un’improvvisa avaria e che dovetti scegliere la rotta più interna per necessità nautiche e di controllo dell’attrezzatura di rimorchio fortemente compromessa. Già! Ma le avarie sono come certe malattie, arrivano quando meno te le aspetti e si riciclano con nomi sempre nuovi, ma il risultato é sempre lo stesso: dalla fine della Seconda guerra mondiale, ogni anno spariscono 360 navi, una al giorno. Le cause sono molteplici, ma il punto scatenante é sempre lo stesso: l’imprudenza umana.

Com’é potuto accadere questo disastro ad un gigante del mare così moderno, attrezzato e sicuro com’era la Costa Concordia? La motivazione “ufficiale” sarà data dal processo in corso. Noi possiamo solo ricordare che la rotta “ufficiale” Civitavecchia-Savona, passa a ponente dell'Isola del Giglio, ciò significa che nella normale navigazione commerciale l'Isola del Giglio viene lasciata a dritta.

La nave aveva scelto invece di passare (di notte) per il Canale dell’Argentario, nello stretto braccio di mare che separa l’Isola del Giglio dalla costa continentale (Argentario).
L’antico e benemerito amico dei naviganti: il Portolano, presente su tutti i ponti di comando delle navi in circolazione, indica due rotte vicine e parallele per navigare da Civitavecchia a Savona. La prima sale verso nord al largo della costa Est della Sardegna e della Corsica, ed una seconda più interna che si lascia anch’essa l’Arcipelago Toscano sulla propria destra mentre naviga verso la Liguria.


L'Arcipelago Toscano

In questa cartina, entrambe le rotte consigliate dal Portolano Italiano passano lungo il passaggio rappresentato, per l’occasione, dalla scritta Arcipelago Toscano.

Una volta lasciata l’isola di Giannutri a sinistra, la Costa Concordia decise di proseguire lasciandosi anche il Giglio a sinistra. Si potrebbe disquisire a lungo sulle distanze, le batimetriche, le correnti e le secche, ma alla fine, le linee guida per la navigazione costiera di grandi navi da crociera dovrebbero consigliare margini di sicurezza tali da poter affrontare accostate d’emergenza ed avarie del tipo sofferto di recente dalla Costa Allegra nell’Oceano Indiano. Eppure, già da tempo, le grandi navi da crociera percorrevano la rotta più suggestiva ed economica che passa internamente tra il continente e le isole toscane. Come mai nessuno se n’é accorto?

ALBUM FOTOGRAFICO

Dedicato all'amico Comandante Attilio Ruggeri mancato nel 2014

Comandante Attilio Ruggeri

M/n PIBIMARE PRIMA

M/N PIBIMARE PRIMA

 

 

Carlo GATTI

Rapallo, 04.04.12


L'ultimo viaggio della celebre M/n SESTRIERE

L’ultimo viaggio della

M/n SESTRIERE

15.4.1970

Una nave fortunata e di grande personalità.

La Sestriere in navigazione

A partire dalla metà degli anni ’60, la Marina Mercantile Mondiale mostrava ormai tutta la sua anzianità. Era la Flotta del dopoguerra. C’erano i LIBERTY che, costruiti per compiere una traversata atlantica, viaggiavano ormai da oltre 20 anni e non reggevano più il mare. C’erano le efficientissime ma obsolete petroliere USA T/2, e soprattutto navigavano ancora  gran parte di quelle  carrette che erano state tirate su dal fondo dopo la Seconda guerra mondiale e circolavano per i sette mari raddobbate da innumerevoli casse di cemento. Navi che perdevano l’elica o il timone e s’incagliavano sulle scogliere. (Chi scrive disincagliò 7 navi in 9 anni di servizio con la Società Rimorchiatori Riuniti di Genova). Navi da rimodernare e da rimorchiare da un Cantieri Navale di un porto ad un altro. Navi che chiedevano soccorso durante le tempeste. Per i rimorchiatori d’altura nacque persino una nuova attività, l’ “agguato” nei punti più pericolosi e strategici per la navigazione: La Manica, Biscaglia, Finisterre, Il Leone, Le Azzorre ecc... e rimanevano alla fonda nelle golfate, con tre radiotelegrafisti in servizio permanente, nell’attesa di chiamate di soccorso per intervenire operando assistenze e salvataggi. Navi da rimorchiare verso i Cantieri di demolizione. Questa era la principale attività dei RR- Il Torregrande andò fino in Canada per prendere a rimorchio un sottomarino, ma c’é da aggiungere  che molte navi erano vittime d’incendi, perchè avevano gli interni in legno e altro materiale infiammabile. Innumerevoli furono gli interventi dei rimorchiatori su navi famose: Achille Lauro, Angelina Lauro, Karadeinz, Anna C. e molte altre sia in porto che in mare aperto.

Sempre in quei primi anni ’70, gli USA decisero di “svendere” le centinaia di Liberty-Ships che avevano tenuto in “naftalina” nelle RESERVE FLEET di N.Y. (Albany) in Atlantico e S.Francisco (in Pacifico). In questa fase di cambiamento epocale nella storia dei trasporti navali, va inquadrato l’ultimo viaggio della della M/n “SESTRIERE”

La tragedia della London Valour si era appena consumata sull'imboccatura del porto di Genova, il 9 aprile di quell'anno. Con il mio equipaggio eravamo ancora sotto shock per l’accaduto, quando il Capitano d’armamento della Società RR mi chiamò per un nuovo viaggio di rimorchio. Per la verità si trattava di un breve trasferimento, da Genova a Vado Ligure, di una nave da consegnare al Cantiere di demolizione che era affamato di ferro.

Ma la sorpresa fu enorme quando seppi che si trattava della  gloriosa Sestriere (Italnavi) che era uscita miracolosamente indenne dalla Seconda guerra mondiale, schivando numerosi siluri e bombardamenti aerei. Per dare un’idea della carneficina che fu il 2° conflitto per la nostra Marina Mercantile, riporto solo alcuni agghiaccianti dati statistici: all’inizio delle ostilità (10.6.1940) l’Italia contava 3.3 milioni di tonnellate di stazza lorda per oltre 1200 navi. Il tonnellaggio complessivo al maggio 1945 era ridotto a 220.000 t.

Nell’ambiente marittimo si parlava ancora della “Seconda Spedizione dei Mille”, definito anche “Il Viaggio della Rinascita” dalla stampa dell’epoca, avvenuto nell’immediato dopoguerra (8.11.1946), quando la Sestriere trasferì negli Stati Uniti 50 nostri equipaggi per armare 50 Liberty Ships acquistati da armatori italiani. In seguito, la nave subì diverse trasformazioni strutturali per trasportare emigranti in un primo tempo, ed auto della FIAT nelle Americhe in un secondo tempo. Conoscevo la sua storia attraverso molti episodi che mi erano stati raccontati da cap. Pro Schiaffino, dai miei futuri colleghi-piloti del porto di Genova Enrico Buzzo, Giuseppe Protti e Stefano Galleano che navigarono da ufficiali e Comandanti sulla Sestriere. Ne parlavano con “grande affetto ” e mi resi conto, forse per la prima volta, che  La Nave ha un‘anima che sa legarsi in modo anche duraturo ai suoi equipaggi. Quel 1970,  purtroppo, decretò anche la sua demolizione, la fine di una nave tra le più belle ancora in circolazione, e ricordo che proprio durante l’ultimo viaggio della Sestriere, fummo tutti d’accordo su un punto: una nave così carica di storia e di ricordi non doveva essere demolita, ma conservata. Con lei sarebbe uscita di scena una parte importante della nostra storia navale. In pochi giorni eravamo stati colpiti al cuore da due tragedie, e la fine della Sestriere non era diversa da quella della London Valour, anche se una differenza in qualche modo c’era: la fine della nave italiana era stata decisa dall’uomo e non da un’infernale libecciata che, invece, colpì a morte la nave inglese.

“Con Tempo assicurato”. Questa era la formula con cui la Capitaneria dava il “nulla osta” al trasferimento della Sestriere a rimorchio. Le istruzioni allegate al Contratto di Rimorchio raccomandavano di consegnare la nave verso le 08 del 15 aprile 1970 ai rimorchiatori locali di Vado L. che l’avrebbero accostata da qualche parte nell’attesa di spiaggiarla nello specchio d’acqua del Cantiere.

Nel primo pomeriggio del 14 aprile ci ormeggiammo con la poppa del Torregrande sotto la prora a pallone della Sestriere. Dopo un accurato controllo dell’assetto, riscontrai che la nave non presentava alcun sbandamento ed aveva un ideale appoppamento di 4 piedi. Mi recai a bordo della nave per ispezionare insieme al nostromo tabarchino Zeppin Luxoro e al direttore di macchina Guido Bianchi che il timone fosse bloccato al centro, che l’elica fosse ferma e bloccata, le stive fossero chiuse, i bighi abbassati e  rizzati, che gli oblò fossero chiusi e gli ombrinali attappati. Fui subito tranquillizzato che quattro marinai (runners) del Cantiere sarebbero rimasti a bordo della Sestriere per disormeggiare la nave a Genova, per controllare il rimorchio in navigazione, per agevolarci il recupero degli attacchi da rimorchio nella rada di Vado e, infine, avrebbero filato i cavi ai rimorchiatori locali per la manovra d’ormeggio. Consegnai al nostromo della nave una delle mie radio  con la raccomandazione di riferirmi eventuali anomalie. Mi raccomandai d’ingrassare i punti di contatto dell’attrezzatura da rimorchio sui passacavi di prua e di controllare gli eventuali sforzi sulle bitte. Era la prima volta che mettevo piede sulla Sestriere e rimasi colpito dalle sue linee sobrie, essenziali, eleganti per una nave da carico che conservava ancora nel suo look un passato come nave passeggeri. La sua ciminiera era alta, robusta ed imponente come piaceva ai vecchi armatori genovesi. Mi convinsi che la Sestriere apparteneva ad una categoria di navi evergreen che non avrebbe dovuto lasciare il posto a quelle orribili navi portacontenitori che facevano già capolino, e che da lì a poco tempo sarebbero diventate le “brutte” protagoniste dei sette mari.

Passammo quindi all’attacco di rimorchio vero e proprio. Diedi disposizione di approntare la patta d’oca di catena (briglia) sulle bitte prodiere della nave, facendola fuoriuscire penzola sul tagliamare fino ad un metro sul livello del mare. I due terminali di catena furono collegati, tramite un maniglione, ad una colonna (cavo d’acciaio da 40 mm.), e questa ad un grosso spezzone di cavo di nylon-perlon di 10 metri di lunghezza, impiegato per dare elasticità al convoglio. A quest’ultimo componente collegammo il cavo da rimorchio (troller-winch automatico) del Torregrande. Questo importantissimo elemento strutturale del rimorchiatore d’altura era in effetti il “cuore” di tutto il sistema. Poterlo filare in mare per tutta la sua lunghezza (700 metri) in caso di moto ondoso pesante, e virarne una buona parte a bordo con la bonaccia di mare, dava sicurezza contro gli strappi e massimo controllo al convoglio in navigazione. Approntammo anche un cavo d’emergenza perché questa era la prassi (assicurativa) in caso di eventuali rotture... Il viaggio non presentò problemi, ma fu intriso di tristezza e di quella strana consapevolezza che si prova quando si sa di compiere un errore purtroppo “inevitabile”....

L’ultimo viaggio della Sestriere

In quel periodo non mi era ancora esplosa la passione per la fotografia navale, tuttavia, in quella occasione, sentii il bisogno di immortalare con qualche scatto il funerale di un illustre personaggio della nostra Marina Mercantile.

Carlo GATTI

18.04.12

Il 24 settembre 2012, ll Secolo XIX ha pubblicato la foto “tristissima” della EUGENIO C” demolita nel 2008. Ho sempre considerato l’ammiraglia dei Costa una delle navi più belle mai costruite, dotata di purissime linee architettoniche, l’unica che avesse l’ascensore che portava il pilota direttamente sul ponte di comando, una sciccheria.....

LA EUGENIO C. IN NAVIGAZIONE

Due anni fa Mare Nostrum dedicò una delle sue Mostre più belle all’Armamento Costa invitando il suo comandante più prestigioso Mario Palombo e prendendo l’EUGENIO C. come simbolo della Manifestazione con il quadro di Amedeo Devoto che immortalò la nave mentre entrava per l’ultima volta a Genova prima della demolizione.

 

LA EUGENIO C. DURANTE LA DEMOLIZIONE

 

Questa mattina ho ricevuto una bellissima mail dal Signor Nunzio Catena che seguendoci sul sito ha letto il mio articolo sull’ultimo numero del MARE dedicato alla celebre SESTRIERE. Ve la riporto integralmente perché esprime l’amore che si può stabilire tra una persona e una nave. Un amore quasi inconfessabile, ma che esiste! La demolizione di una nave é un atto di violenza che avviene ogni giorno sotto l’egida del business, una profanazione che cancella anni di storia e di ricordi legati ai personaggi che l’hanno costruita, attesa, guidata, amata e vissuta. La domanda é questa: perché non c’é pietà per le nostre navi più amate? Eppure basta varcare i confini marittimi per imbattersi in Musei galleggianti la cui visita vale molto di più di tanta carta stampata perché sono la realtà conservata di un pezzo di storia. Ringrazio a nome dell’Associazione il sig. Catena il cui amore per le navi e per il mare non può che confortarci e gratificarci nell’opera alla quale ogni giorno ci dedichiamo con immutata passione.

Carlo Gatti

 

 

Egregio Presidente Gatti,

 

Rileggendo il suo toccante articolo sull'ultimo viaggio della M/n SESTRIERE", dell' Italnavi, alla 'famiglia' della quale appartenevo anch'io, forse animato della sua stessa sensibilità per quanto riguarda la demolizione di una Nave, avevo scritto un commento sul Cantiere di demolizione Romiti di Ortona, dove erano state demolite: "Campania Felix" e "Antoniotto Usodimare". Non sono riuscito a rintracciare su quale di queste avevo posto questo commento che per semplicità qui  riporto:

 

“Il Cantiere di Demolizione Romiti, sono tanti anni che e' stato tolto da Ortona, e ne sono stato felice! Quanti pomeriggi di sabato, ho trascorso tra quei rottami e mi pare di risentire "quell'odore" misto di ferro, pittura, tagliato dalla fiamma ossidrica! Quanta tristezza provavo vedere una nave ridotta così! Come vedere un uomo morto, dilaniato da avvoltoi...! Una Nave alla fine della sua vita, dovrebbe finire nell'elemento nel quale e' vissuta, dovrebbe essere affondata (magari bonificata per rispettare l'ambiente), mentre l'ultimo marinaio che l'ha navigata, le porge l'ultimo saluto a nome di tutti quelli che lo hanno preceduto a bordo dove hanno vissuto una parte della loro vita, condividendo con Lei, la speranza di un domani migliore, la paura della tempesta, la gioia del ritorno!

 

Provavo un dolore quasi fisico, vedendo quello scempio... la plancia, la sala nautica sventrata, depredata di tutto quello che era stato vitale. Il timome, le cui caviglie erano state levigate dalla rude mano del marinaio che non la abbandonava un attimo, come se il suo calore fosse necessario per la sua vita (ed in realta' lo era per la vita di tutti)!!! La bussola...,l'oggetto piu' osservato a bordo! Che fatica per il marinaio cercare di far collimare quella linea di fede, con quel numero scritto sulla lavagnetta!! Restavano solo pubblicazioni, carte autiche ormai bagnate..., ma ogni tanto trovavo qualche vecchio brogliaccio, sfogliando il quale e soffermandomi sulle pagine più significative (una burrasca superata poi più o meno bene.. ed altro), e con la mente facevo rivivere quelle persone ormai dimenticate da tutti, unitamente alla nave che li ha protetti.”

 

 

Un saluto, Nunzio Catena

 

 

 

 


La PREGHIERA dei NAVIGANTI

PREGHIERA DEI NAVIGANTI

(Marina Mercantile - Stella Maris)

Al calar della sera, noi uomini di mare a Te leviamo o Signore la nostra preghiera ed i nostri cuori: i vivi sulle navi, i morti in fondo al mare.

Fa che la notte passi serena per chi veglia nel lavoro, per chi stanco si riposa.

Fa che ogni navigante, prima del sonno, si segni col tuo segno, nel Tuo amore, nel Tuo perdono ed in pace coi fratelli.

Fa che ogni nave conservi la sua rotta ed ogni navigante la sua fede.

Comanda ai venti ed alle onde di non cimentare la nostra nave, comanda al Maligno di non tentare i nostri cuori.

Conforta la nostra solitudine con il ricordo dei nostri cari, la nostra malinconia con la speranza del domani, le nostre inquietudini con la certezza del ritorno.

Benedici le famiglie che lasciammo sulla riva;

Benedici la nostra Patria e tutte le Patrie dei naviganti, che il mare unisce e non divide:

Benedici chi lavora sul mare per meritarsi il pane quotidiano;

Benedici chi lavora sui libri per meritarsi il mare;

Benedici chi in fondo al mare attende la Tua luce ed il Tuo perdono.

E COSÌ SIA!

PREGHIERA DEL MARINAIO

(Marina Militare)

Autore: Antonio Fogazzaro (11 Gennaio 1902) recitata la prima volta sull' Incr.GARIBALDI

A Te - o grande eterno Iddio

Signore del cielo e dell' abisso

cui obbediscono i venti e le onde

noi, uomini di mare e di guerra

Ufficiali e marinai d' Italia

da questa sacra nave armata della Patria

leviamo i cuori!

Salva ed esalta nella Tua fede

O grande Iddio, la nostra nazione

Da giusta gloria e potenza alla nostra Bandiera

Comanda che le tempeste ed i flutti servano a lei

Poni sul nemico il terrore di lei

Fa che per sempre la cingano in difesa petti di ferro

Più forti del ferro che cinge questa nave

A Lei per sempre dona vittoria

Benedici o Signore le nostre case lontane, le cari genti.

Benedici nella cadente notte il riposo del popolo.

Benedici noi che, per esso, vegliamo in armi sul mare.

BENEDICI !

 

05.04.12

A cura di

MARE NOSTRUM RAPALLO


Canale di PANAMA

CANALE DI PANAMA

La costruzione del Canale di Panama ha avuto un effetto fluidificante per tutti i commerci a cavallo tra l’Oceano Atlantico e l’Oceano Pacifico. La via d’acqua artificiale permette di giungere in poche ore dall’uno all’altro con un risparmio di 26.000 km e circa 30 giorni di navigazione rispetto alla rotta obbligata di Capo Horn percorsa fino al 1914, primo anno di operatività del Canale.

Non sarà mai abbastanza riconosciuto il sacrificio compiuto dalla gente della marineria velica sulle rotte oceaniche più lunghe e sperdute del mondo. Tra i velieri obbligati a doppiare Capo Horn per passare dall’Atlantico al Pacifico, uno su quattro naufragava in quel punto cruciale e perennemente sconvolto dalle tempeste. Cosa fu l’apertura del Canale di Panama per gli uomini di mare se non la fine di un incubo?

Nel 1513 l’esploratore spagnolo Vasco Nuñez de Balboa attraversò lo “stretto” di Panama da levante e scoprì l’Oceano Pacifico. L’istmo da allora risultò decisivo per il transito di oro, argento, perle e altri tesori che furono portati dal Perù a “Panamá La Vieja” (Pacifico) e, attraverso il “Camino de Cruces” e il fiume Chagres, fino a Portobelo (Atlantico), per poi essere caricati sulle navi che li avrebbero trasportati in Spagna. Ma le difficoltà furono insormontabili per i mezzi tecnici d’allora e si dovette attendere il XIX secolo per rielaborare un vecchio progetto del canale che nel 1879 fu caldeggiato dal Congresso Internazionale di Parigi ed ebbe tra i suoi promotori Ferdinand de Lesseps, già costruttore del Canale di Suez e, in seguito, da Gustave Eiffel. Nel 1901 gli Stati Uniti ottennero dal governo colombiano (all'epoca Panamá faceva parte della Grande Colombia) l'autorizzazione per costruire e gestire il Canale per 100 anni. Nel 1903 però il governo della Colombia, in un sussulto di orgoglio nazionale, decise di non ratificare l'accordo. Gli USA allora non esitarono a organizzare una sommossa a Panamá e a minacciare l'intervento dell'esercito. Panama divenne una Repubblica indipendente ma sotto la tutela degli Stati Uniti che ottenne l'affitto della Zona del Canale e l'autorizzazione a iniziare i lavori. I Trattati stipulati concedevano agli USA una striscia di territorio la “canal zone” larga 5 miglia, all’interno della quale fu costruito il canale per un compenso di 10 milioni di dollari e un affitto annuo di 250.000 dollari, in seguito portato a 1.930.000 nel 1955.

Nel 1904 furono ripresi i lavori, dapprima per la costruzione di un canale a livello del mare, ma la difficoltà di scavare una trincea così profonda attraverso il passo di Culebra, fece mutare i progetti, e nel 1906 fu decisa la costruzione di chiuse (vedi cartina sotto).  I lavori iniziarono nel 1907 per opera del Genio Militare USA e si conclusero il 3 agosto 1914.

Il Canale di Panama é lungo 81 chilometri e rappresenta il simbolo dell’importanza strategica che l’istmo ha rivestito fin dal XVI secolo costituendo ancora oggi una delle vie di comunicazioni più importanti al mondo. Le navi possono percorrerlo in circa 5/8 ore (dipende dalla velocità e dal traffico), avvalendosi del citato sistema di chiuse-locks*. La sua profondità (pescaggio) varia tra 12,5 a 13,7 metri, la larghezza massima é di 240 e 300 mt nel lago Gatún, mentre la minima è di 90–150 mt nel tratto finale della Culebra. Il sistema comprende 6 chiuse, che permettono alle navi di superare il dislivello totale di 28 mt. Le navi provenienti dall’Atlantico "salgono" per mezzo di queste prime tre chiuse e “scendono” grazie ad altre tre chiuse. All’interno dei locks le navi vengono trainate da gru e locomotive molto tipiche (vedi foto nave Ancona). Le chiuse sono a doppio sistema e sopportano il transito contemporaneo nei due sensi, fino al livello del lago Gatun. Il Canale fu inaugurato il 15 agosto 1914, ma la cerimonia ufficiale fu rinviata al 1920, a causa dell'insorgere della Prima guerra mondiale.


Siamo nel 1915. Alla nave Ancona si attribuisce storicamente il primo passaggio del Canale da un oceano all’altro, riducendo a otto ore la traversata, che prima durava più di sessanta giorni via Capo Horn.

Il Canale di Panama è una delle opere di ingegneria più importanti al mondo trattandosi della struttura di cemento armato più imponente mai costruita prima d’allora.

Il canale interoceanico che attraversa l’istmo di Panama inizia nel mar delle Antille, e dopo 23 km al livello del mare raggiunge le Chiuse/Locks di Gatùn, che lo portano a 26 metri d’altezza s.l.m. Attraversa quindi il grande lago di Gatùn (424,8 km2) e all’altezza di Darièn penetra nella trincea della Culebra, il cosiddetto “taglio di Gaillard” (dal nome di uno dei costruttori), fino a raggiungere Pedro Miguel, dove altre chiuse lo fanno scendere a 16,50 mt, finchè le chiuse di Miraflores lo riportano al livello del mare. Il lago Gatun, le cui acque sono fondamentali per il funzionamento della via interoceanica, è stato per svariati decenni il lago artificiale più grande del mondo.


In questa fotografia la freccia indica la corsia su cui si espanderà il nuovo Canale di Panama per rispondere alle nuove esigenze del Gigantismo Navale che risponde al concetto economico: meno navi e più merci, meno spese e più produttività.

La Commissione del Canale ha passato le sue funzioni al governo della Repubblica di Panama il 31 dicembre 1999.

L'importanza economica e strategica di questa via di comunicazione è incalcolabile; il traffico attraverso il canale ha avuto, dalla sua inaugurazione, un continuo aumento e oggi emerge tutta la sua inadeguatezza, tanto che sono allo studio progetti per il suo raddoppio (vedi foto). Per il pagamento del pedaggio le navi sono divise in tre classi: le unità mercantili, i trasporti militari, le navi ospedale, le navi appoggio e gli yachts con passeggeri o carico pagano 2,21 dollari per tsn; se invece sono vuote pagano 1,76 dollari per tsn; gli altri tipi di unità invece sono assoggettati ad un pedaggio di 1,23 dollari per tonnellata di dislocamento. L’accesso al Canale delle grandi navi portacontainer, che ne sono le maggiori utilizzatrici, è condizionato dalle misure della nave (vedi note). Questo limite è dettato dalla capienza massima delle chiuse lungo il percorso. Si parlava di inadeguatezza, infatti le navi moderne sono ormai di stazza superiore rispetto alla capacità massima del canale e si parla ormai di navi PostPanamax**. Nell’anno 2010 il Canale è stato attraversato da oltre 14.000 navi, e ha movimentato merci per oltre 200 milioni di tonnellate. Gli introiti derivanti dal Canale costituisono la prima fonte di ricchezza dello Stato di Panama.

Sta cambiando lo scenario del Canale di Panama.

Nell'aprile 2006 si è concluso lo studio durato cinque anni per un ampliamento del Canale per le navi PostPanamax. L'ampliamento é stato deciso da un referendum popolare ha dato l'approvazione al progetto. Nel settembre 2007 il governo di Panama ha iniziato i lavori per un progetto di espansione del Canale di 5 miliardi di dollari e dovrebbero essere terminati entro il 2014 (centenario dell'apertura del canale) e permetterà il passaggio di quasi tutte le navi in circolazione in questo momento nel mondo. Il progetto prevede l’aggiunta di una terza linea di transito con la costruzione di due nuove serie di chiuse, parallele a quelle esistenti, in corrispondenza di ciascuno degli imbocchi del Canale. La nuova soluzione consentirà l’attraversamento alle navi di dimensioni maggiori, incrementando di più del doppio l’attuale volume di traffico. Gas naturale liquefatto e carbone proveniente dalla Colombia troverebbero la loro strada facilitata da questo nuovo passaggio. Il progetto prevede di portare al raddoppio della capacità di navigazione del canale entro il 2025. Il traffico, soprattutto quello mercantile, sarà rivoluzionato evitando l'attuale lungo periplo dell'America meridionale. Benefici ne otterranno anche le compagnie crocieristiche, che potranno ridisegnare nuove mete, utilizzando tutto il naviglio a disposizione, che si trasformerà da Panamax a Postpanamax, già nel giro dei prossimi due anni, con la possibilità di transito alle navi passeggeri oltre le 110.000 ton di stazza. Grandi lavori saranno destinati anche al Lago intermedio di Gatun, dove saranno costruite nuove dighe per l'accumulo dell'acqua destinata alle chiuse di maggiori dimensioni, e a tutto il tracciato, che sarà portato alla profondità di 15 metri. Si aprono quindi nuovi scenari anche per la Marina Militare degli Stati Uniti, che ne beneficerà in termini logistici e di veloce spostamento delle ‘flotte’ da un Oceano all'altro, comprese le grandi portaerei oggi in servizio. I lavori saranno conclusi nel 2014, in occasione del centenario della sua inaugurazione.

La Panama Canal Authority prevede rialzi delle tariffe di transito nel canale centroamericano

Il piano include aumenti in vigore dal 1° luglio 2012 e un'ulteriore incremento dal 1° luglio 2013

Il consiglio di amministrazione della Panama Canal Authority (ACP) ha approvato un piano di aumento delle tariffe per il transito delle navi nel canale panamense che prevede tra l'altro l'incremento del numero delle tipologie di navi in cui suddividere il naviglio che attraversa la via d'acqua centroamericana al fine del pagamento dei pedaggi.

In particolare, il piano prevede che il segmento delle navi cisterna venga suddiviso in tre differenti tipologie, prevede l'istituzione del nuovo segmento delle navi container/breakbulk e l'incorporazione delle navi ro-ro nel segmento delle navi porta-automobili. La nuova suddivisione include le seguenti tipologie: full container (nuovo segmento), reefer, portarinfuse, passeggeri, porta-auto e ro-ro (fusione di due segmenti), cisterne(segmento riorganizzato), chimichiere (nuovo segmento), LPG (nuovo segmento), general cargo e altre navi.

Actual Standard Canal Fees – Panama Canal Tolls – Revised January 2005. In U.S. dollars.

Transit

Inspection

Buffer

Total

 

Up to 50'

$550.00

$50.00

$850.00

$1,450.00

From 50' - 80'

$850.00

$50.00

$850.00

$1,750.00

From 80' - 100'

$1,050.00

$50.00

$850.00

$1,950.00

100' +

$1,500.00

$50.00

$850.00

$2,450.00

125' +

$2,450.00

locomotives

$2,220.00

(obligatory)

NOTE - * Gli inventori delle chiuse furono gli architetti ducali Filippo da Modena e Fioravante da Bologna. La prima ‘conca’ costruita fu quella del 1439, in via Conca dei Navigli a Milano su ordine di Filippo Maria Visconti.

** Con la sigla Panamax si indicano le navi le cui dimensioni permettono il loro passaggio nelle chiuse del canale di Panama. Le chiuse del canale misurano 304,8 m di lunghezza, 33,5 m di larghezza e 25,9 m di profondità. Pertanto le dimensioni massime delle navi Panamax sono di 294 m di lunghezza, 32,3 m di larghezza e 12,04 m di pescaggio. Si può facilmente capire, confrontando le misure delle chiuse con le dimensioni delle navi, che il margine ad eventuali errori di manovra è ridottissimo. Attualmente queste navi vengono considerate di medie dimensioni. Infatti molte moderne navi militari (portaerei) e mercantili (portacontainer e petroliere) superano, alla ricerca del miglior rapporto costo/efficienza, abbondantemente queste dimensioni. Queste navi vengono appunto chiamate Post-Panamax o super post-Panamax. Per ovviare a questo problema sono state progettate nuove chiuse, più grandi, per il canale di Panama. In questo modo verrebbe migliorato anche il traffico che vi si svolge.

Carlo GATTI

Rapallo, 19.04.12


UN RAPALLINO nell'Occhio di un Ciclone

 

RAPALLINO NELLA TEMPESTA

Tratto dal libro

QUELLI DEL  m/r VORTICE

Carlo Gatti

La bella linea del rimorchiatore oceanico VORTICE.

Il Vortice fu costruito nei Cantieri Navali  “Baglietto” di Viareggio nel 1964. Aveva una stazza lorda di 788 tonn. Misurava  57 metri di lunghezza ed era largo 10 metri. Tra le onde lunghe  dell’oceano, tuttavia, sembrava più corto, perché spariva alla vista di un osservatore occasionale.

Si diceva in giro che, il buon senso, (oppure qualcuno più in alto..), avrebbe dovuto impedirgli d’uscire dal Mediterraneo…

Charly, in seguito ebbe modo di esprimerci la sua opinione in materia:

“Noi, che del Vortice siamo stati inquilini, abbiamo sempre contestato queste  dicerie. Di fatto, il suo trentennale  curriculum ha mostrato agli scettici, sia la longevità della sua poderosa struttura, sia la storia delle sue imprese, che non è stata scritta soltanto da rimorchi e assistenze, ma anche da salvataggi, disincagli e operazioni umanitarie”.

Il Vortice era dotato di una strumentazione nautica di primissimo piano e la sua stazione radio era più potente di quell’installata sulle T/n Michelangelo e Raffaello.

Seimila cavalli di razza erano distribuiti su due motori efficientissimi che, purtroppo, scaricavano la loro potenza verso un solo asse porta-elica, insomma, come una nave qualsiasi. Aveva una proverbiale elica da tiro, disegnata da grandi pale con un passo relativamente piccolo, che gli consentiva lo sfruttamento integrale della sua forza motrice.

Il Vortice sfruttava un eccellente tiro al dinamometro (65 tonnellate) ed aveva in dotazione un verricello eccezionale (troller) sul quale era avvolto (in spire) un cavo (56 m/m di diametro) di 1100 metri di lunghezza.

Il Vortice aveva una limitazione tecnica che faceva impazzire i suoi manovratori:  la  scarsa manovrabilità, tipica dei rimorchiatori di quella generazione che avevano l’inversione di marcia molto lenta.

Spaziosi e comodi erano i suoi locali interni e mostrava di sé un’elegante linea longitudinale che lo rendeva molto simile ad un lussuoso panfilo dei nostri giorni, tuttavia, visto da un’altra prospettiva, la prora appariva chiaramente schiacciata e poco affilata, mancava di slancio  e nell’impatto con l’onda di prua, sbatteva  fragorosamente anziché  sollevarsi sull’onda.

Questa “ingenuità” costruttiva rappresentava un vero problema nel dover  mantenere la rotta stabilita con mare grosso di prua. Il Vortice, inoltre, con un solo motore al minimo dei giri,  esprimeva una velocità troppo alta: sei nodi. Chi sa di queste cose, avrà intuito che il mastino non era fatto né per cavalcare l’onda, né per stare alla cappa. L’unica soluzione, per navigare in sicurezza con il mare grosso di prora, era quella di avanzare bordeggiando.

La navigazione veniva così allungata da percorsi a zig-zag, proprio come i velieri di un tempo che navigavano contro vento con andature di bolina.

Anche gli avviamenti del motore erano molto lenti (30”), e le inversioni di marcia, superiori al minuto primo, erano ancora più stressanti. La manovra era quindi penalizzata ed i suoi comandanti dovevano quindi conoscerlo bene per poterlo anticipare nelle sue reazioni.

In quegli anni, caratterizzati da forti espansioni commerciali ed economiche, tutte le attività connesse allo shipping internazionale decollarono ovunque. La tecnologia ebbe un rapido impulso, e quando il Vortice entrò in linea, nuovi rimorchiatori nord europei erano già stati concepiti e disegnati con due assi, due eliche intubate (Mantello-KORT),  e per le unità superiori ai 100 metri di lunghezza era previsto il Bow thruster (elica di manovra prodiera).

Questi grandi scafi rispondevano, con i doppi sistemi propulsivi, all’attesa domanda di sicurezza contro le sempre presenti avarie e, fatto tecnico notevole, i “comandi dei motori” erano passati sui ponti di comando, direttamente nelle mani dei capitani ottenendo la tanta richiesta rapidità di manovra per affrontare, in tempi rapidi, le molteplici situazioni d’emergenza, che si prospettavano sia in porto che in mare aperto ed in qualsiasi condizione meteorologica.

La storia del Vortice è stata scritta sul mare da tanti equipaggi. Su tutti loro è rimasto impresso un sigillo indelebile, corredato di una “certificazione” che è stata rilasciata dalla più esclusiva Università  Marinara di Genova.

–  Facoltà: Rimorchi d’Altura

Il diploma di laurea però è impresentabile, perché è impregnato di sudore, è sporco del grasso di molte  redance e maniglioni, è unto dall’olio del troller ed è schiacciato da pesanti catene.

Questo mastino genovese, ad oltre quaranta anni dal suo varo, rivive ancora nel cuore di un  club immaginario, dove gli uomini lo ricordano  come una “leggenda”  che, ne siamo certi, un giorno ci sarà  raccontata per intero.

Per gli appassionati della materia, possiamo ancora aggiungere che gli armatori genovesi capirono ben presto che l’ammiraglia era una rispettabile “prima donna”, un fine gioiello estetico tra tanti rozzi e sgraziati esemplari stranieri, ma le sue prestazioni tecniche risultavano alquanto limitate rispetto alle richieste incalzanti dei maggiori  impegni dell’epoca: rimorchi ed assistenze di grandi piattaforme petrolifere, rimorchi ed assistenze di superpetroliere,  concorrenza dei multi-purpose tugs (Supply-Vessel).

La situazione cambiò nel 1968, con l’entrata in linea del M/r Ciclone. Per moltissimi anni, il nuovo rimorchiatore della RR-genovese fu un vero esempio di potenza, manovrabilità e versatilità. Nel frattempo, dal 1964 al 1969, un’orda di poveri cristi dovette confrontarsi ed adattarsi, ad armi impari, con la concorrenza nord-europea, sempre più agguerrita e spietata. “Mai di peggio!” si diceva a quell’epoca…

La Tempesta s’avvicina

Il centro della depressione e l’avvicinamento del VORTICE a New York sono pericolosamente in rotta di collisione.

Il velo notturno, bloccato a ponente da un’entità superiore, tramonta più lentamente del solito. Le tenebre, acquattate dietro l’orizzonte, sembrano intenzionate a frenare le luci dell’alba, forse per non chiarire il suo  infausto progetto. Poi, lentamente, la luce nascente di poppa, scolpisce uno scenario dantesco, che si estende come un arco tra i due traversi del Vortice che procede  verso ponente, cavalcando su onde alte ormai quattro o forse cinque metri.

Il ponte di comando è largo quel tanto che basta per sgranchirsi le gambe tra un’onda e l’altra. Charly usa esercitare questo tipo di footing per sciogliersi i muscoli  e quando il mare monta e ringhia, l’esercizio è utile, almeno così pensa, per  esorcizzarne, con una specie di balletto rituale quella nenia furiosa che annunzia la nuova sfida all’O.K. Corral...

Qui la situazione appare molto più grave, perchè le misure ed il peso dell’avversario sono fuori scala. Charly lo sa e per una sorta di vanto giovanile non lo teme, tuttavia  non osa provocarlo,  neppure con lo sguardo. Il gran match sta per cominciare e Charly non intende svelare le sue strategie né tanto meno le sue emozioni all’avversario che si avvicina minaccioso, a testa bassa, simile più ad un toro gigantesco che carica infuriato, che ad un pugile raffinato che usa colpire sempre  con jabs pungenti, sfuggenti e senza tregua.

Poi, senza alcun preavviso, verso le otto,  il mostro sbuffante apre le sue fauci e mostra i suoi contorni più alti, che paiono scolpiti da mani diaboliche nella nera lava. La sua parte inferiore, ancora lontana, appare invece invitante, affascinante, magica come una grotta di smeraldo, colma d’acqua scintillante… da bere!

La caverna stregata è l’occhio del mostro, che incanta e attira le sue vittime per divorarle senza pietà.

Alle spalle di quell’inferno incalzante c’è il sinuoso fiume Hudson che porta alla festosa New York, con i suoi docks resi celebri da Marlon Brando in “Fronte del Porto” e che Charly rivede ora in trasparenza,  brulicanti di gente festosa e laboriosa. Su quella immaginaria e cromatica tavolozza non mancano le maestose navi passeggeri, i liners giganteschi che ornano, come tanti fiori freschi appena giunti dall’Europa, l’ovale di Manhattan brulicante d’immensi grattacieli che fluttuano come fantasmi sulle note  di West Side Story.

Non è tempo di sognare, il vento forte solleva ormai creste insidiose e disegna con i suoi poderosi artigli, simmetriche graffiate di schiuma  che s’infrangono minacciose sui vetri del ponte di comando e scivolano poi lungo i fianchi dello scafo.

Bobby sale faticosamente sul ponte, cerca la colonna del telegrafo e l’abbraccia con forza per non rotolare a paratia e fissa lo sguardo sul Jack di prora.

“Guardate! Quell’oscuro disegno di prora sembra la costa, invece temo che sia qualcosa di molto più duro e impenetrabile rispetto a ciò che dovremmo (?) vedere domani a quest’ora”.

Il nostromo Zeppin, madido di sudore, stenta a tenere la rotta. La prora, nel precipitare verso l’incavo dell’onda, spiattella attorcigliandosi come un serpente. I colpi del tagliamare sono secchi e sordi nella caduta, lamentosi nel risalire disperato in verticale come un naufrago in cerca d’aria pura verso il cielo aperto.

Da circa un’ora, Charly è in contatto diretto con la sala macchina, modifica i giri dei motori e quindi la velocità per regolare l’andatura sulla frequenza del treno d’onde.  Il Vortice è entrato ormai nel raggio del vento forte ed è costretto a navigare e manovrare d’emergenza per non collidere e spaccarsi contro un fronte che appare troppo grande ed avvolgente, come un agguato premeditato che abbia previsto ogni via di fuga.

Charly rimane in posizione d’attesa: alla cappa in mezzo al ring, nella speranza di un’improbabile clemenza dell’avversario o di una più improbabile sospensione del match, per la manifesta inferiorità di un imprudente e vanitoso sfidante.

L’equipaggio, assicurata la chiusura di tutte le aperture dello scafo, corazzati gli oblò e bloccati tutti i tipi d’attrezzature esterne e interne, si è radunato nel caruggio centrale. Nessuno è solo e tutti sono pronti per il peggio…

In sala macchine  il d.m. Gianni Emmaus, insieme al 3° macchinista e due ingrassatori, risponde agli ordini del telegrafo, ma i loro timori sono concentrati sul controllo dell’osteriggio, sul quale piombano fragorose tonnellate di mare e sullo scafo che sale e scende ad intervalli irregolari come un ascensore impazzito, in preda al delirio.

Radio-poppa (l’immancabile centrale del gossip di bordo) informa che presto  scoppierà l’inferno, ma non tralascia d’avvertire che Charly non regalerà niente a nessuno.  “Che cos’è, una sfida o una rinuncia?”

- Qualcuno ribatte -

L’equipaggio, ancora baldanzoso, appare ora diviso su quelle strane previsioni.

Chi  conosce bene il comandante afferma:

- “E’ un uomo che non molla mai e poi conosce questi mari come pochi. Ha moglie e quattro figli, non può fare cazzate…”

Chi lo conosce meno ribatte:

- “E’ giovane ed anche in gamba. Spero che non voglia fare carriera o peggio ancora  giocare con  le nostre vite”.

Verso le undici il barometro è in caduta libera: 950 mbrs e Charly scruta quel valore, come un segugio fiuta la sua preda, ma  la sua attenzione è catturata ancora una volta da un fruscio proveniente dallo scaffale delle bandiere e Charly trova così il modo di sfogare sul folletto le sue ansie…

“Zagallo hai finito di fare il gradasso e di prenderci in giro? Adesso hai paura fanfarone?”

“Ti ricordi Charly cosa diceva l’amico B. Pascal?”

– chiede sarcastico Zagallo -

“In questo momento ho altro da pensare!”

- farfuglia confuso Charly -

“E allora te lo ricordo io, besugo! Il Padre Eterno ti ha dato un cervello piccolo per risolvere soltanto i problemi di giornata... Guarda infatti dove ci hai portato! Ma ti ha anche dato un cuore infinito per capire tutto il resto!”

- Charly rimane spiazzato e abbassando il tono della voce azzarda:

“Non mi sembra che abbia detto proprio così! In ogni modo, cosa vorresti dire? Dai! Non fare il difficile e sbrigati, ho poco tempo!”

- “Voglio dire” – incalza il folletto –

che qui non ci rimane altro... che pregare!!”

Il muro avanza nella bonaccia. Siamo nell’occhio del Ciclone

Il Vortice si trova proprio nel centro della depressione diffusa e riportata nel bollettino meteo americano.

Di prora riappare a tinte evanescenti, proprio come un miraggio, quel lago azzurro smeraldo. Si tratta dell’occhio ammaliatore che tanti marinai, prima del Vortice, ha già attirato e divorato nelle sue viscere infernali come vittime sacrificali.

Il Vortice, simile ad un puledro appena domato, si trova improvvisamente nella più surreale  bonaccia di vento e di mare; frena guardingo, si solleva ancora una volta, si scrolla il sudore di dosso, sbuffa e sconcertato per la falsa accoglienza si blocca d’istinto.

Charly sa che la straordinaria “grotta azzurra” è un’infida trappola, zeppa di secche e senza vita. Così come teme che pochi al mondo, o forse nessuno abbia mai potuto  raccontare d’essere uscito vivo dall’occhio di una simile tempesta…

La respirazione è diventata nel frattempo tremendamente difficile.

Sergio, il 1° macchinista, con il suo incedere atletico da cintura nera di Judo,  entra deciso in timoneria per chiedere se i guai sono finiti, ma s’accorge presto di non riuscire ad emettere suoni; è come se, improvvisamente, il Vortice fosse salito di quota verso l’aria  rarefatta di una vetta  sopra i tremila metri.  Qualsiasi movimento è frenato, frustrante e soffocante.

Charly, superato mentalmente l’incantesimo di quella magia, fiuta appena in tempo il tragico pericolo incalzante. Reagisce prontamente con rabbia e, strappando l’interfonico dal suo alloggio, urla all’equipaggio di tenersi forte, con tutta la forza possibile. Avverte la macchina di rimanere attaccati ai comandi:

“Presto  manovreremo per la vita.

Un muro nero e gigantesco si sta avvicinando a folle velocità!”

Chi può in quei reali frangenti, riportare un po’ di sereno in quegli animi scoraggiati e disperati? I veri marinai hanno paura del mare. Chi, più dei marinai sa gestire la paura che non è rassegnazione o fatalità, ma freddezza  e  calma interiore che provengono da una preghiera?

I marinai vivono positivamente la solitudine e sono dei veri esperti nel ritrovare dentro di sé  quella fermezza che li soccorre, sempre, nella tragicità di certi episodi. Questa forza d’animo, per alcuni si chiama  Madonna di Montallegro, per altri della Guardia, del Boschetto oppure lo stesso… Dio Misericordioso.

Poi, si sa! Ritornato il sereno, riemerge uno strano pudore ed i santi invocati diventano: destino, fatalità o addirittura bravura umana…”Parola di marinaio?”

Sul Vortice, anche i più duri di cuore ed i più ostinati di cervello si piegano e, tenendosi stretti l’uno all’altro, pregano. Chi in silenzio, chi ad alta voce.

Quella vulcanica ombra grigia che Charly vede avanzare terrificante come l’incubo di “Una notte sul Monte Calvo”, non è una montagna staccatasi dal continente, neppure il più mastodontico dei piovaschi apparso sulla terra. E’ un’onda di proporzioni catastrofiche!

Ecco il volto della morte!

Sogghigna Charly.

Mancano cento metri all’inevitabile inghiottimento e i tre uomini sul ponte di comando possono soltanto guardare attoniti l’immensa cresta bianca veleggiare ad  altezze celestiali. Già!! Proprio verso quel cielo che  sembra averli abbandonati per sempre.

La collisione avviene dopo qualche istante ed il Vortice, come un infimo Golia, s’impenna in verticale e fiero soltanto della sua gioventù, penetra il mostro infilzandolo nel ventre, ad un terzo della sua altezza.

E poi c’è il buio più totale! Profondo! Abissale!

Lunghissimo come il film della propria vita che scorre lucido, senza fretta, tra gli affetti lasciati per sempre.

Un enorme scroscio d’acqua precipita sopra lo scafo e tuona come un’esplosione. Il Vortice, schiacciato da una pressa gigantesca, è  risucchiato verso gli abissi. Poi, carico d’aria, si ferma di schianto,  ha ancora una stridula impennata e comincia a salire lentamente, emana flebili ruggiti, come un vecchio leone schiacciato da un branco d’elefanti. Segue un sussulto rapido e poi risale a pallone, urlando insieme al suo equipaggio che percepisce la salvezza. Il VORTICE è ferito gravemente.  Tonnellate di mare diabolico sono entrate dappertutto portando l’umiliazione e la devastazione.

Il Miracolo.

Quando la fine sembra ormai giunta, improvvisamente avviene  il miracolo. La risurrezione dagli abissi si attua con un’insperata emersione, col rivedere improvvisamente la luce e con i comandi del Vortice che rispondono ancora.

In queste fasi distinte, ma collegate strettamente tra loro, c’è il ritorno alla vita.

I miracoli purtroppo non si ripetono, almeno per i comuni mortali.

Charly lo teme, si avventa sull’interfonico ed urla alla macchina:

- “Datemi  “tutta forza ripetuta e con la massima urgenza.  Dobbiamo volare!”

Il mostro, sicuro ormai della vittoria, non dà tregua. Il colpo di maglio, simile al precedente,  è già lì, sospeso, statuario, in posa arcuata, a poche decine di metri, urlante d’odio, ghignante nella sua immensità. Il suo martello è pronto a sferrare con micidiale crudeltà  l’ultimo colpo su l’ignobile ed arrogante insetto che ha osato sfidarlo.

Charly balza come un giaguaro sulla ruota del timone  e grida a Zeppin:

TUTTA A SINISTRA

insieme,  in un abbraccio terrificante e sovraumano, s’avvinghiano urlando appesi alle caviglie della ruota che vibra al limite della rottura. Nella rotazione forzata degli ingranaggi, caldi guizzi d’olio sprizzano sui loro volti già intrisi di sudore.

Bobby abbassa ancora la leva del telegrafo e ripete l’ordine con rabbia :

Tutta forza avanti

Il Vortice parte come una poderosa cannonata ed accosta piegandosi sul fianco sinistro, appiccicato a quella parete livida, perfettamente verticale e levigata come la pista di un circo di periferia.

In quella curva perfettamente circolare, impressa nell’onda densa come un muro, c’è l’ultima speranza.

Chi può dirlo di preciso?  La sensazione è quella di un vero e proprio tuffo in una rotazione avvitata. Attimi di terrore! Il rumore dei motori è sparito, è racchiuso, ovattato nel tunnel verde che lo avvolge a spirale come un serpente che sta per soffocarlo.

Il ponte di comando, sbandato al limite del rovesciamento, perde ogni riferimento visivo e ogni  connotazione nautica.

Stivali, incerate, strumenti, sgabelli, bandiere, coperchi, tazze e tazzine sono rimescolati, sparpagliati dal mare vivo e poi lanciati senza mirare come micidiali proiettili impazziti.

Il Vortice è riuscito a girarsi e mettersi il mare in poppa!

Ma l’onda implacabile lo insegue e quando lo raggiunge gli scarica poi il suo macigno dall’alto di quella collina assetata di sangue. La cresta, come una fragorosa valanga,  colpisce in pieno la poppa del Vortice che pare staccarsi di netto dal resto dello scafo. La prora, ormai sfuggente, reagisce arrampicandosi in alto, svirgolando come un rettile impaurito che sottrae la sua coda al predatore.

Lo sforzo di Zeppin, Bobby e Charly sulla ruota del timone è immane e forse volutamente esibizionista, plateale, pensò Charly:

“A quel mostro bastardo ed infernale non possiamo che mostrare il volto della nostra sofferenza, del nostro coraggio e quella parte “assistita” della nostra debole intelligenza umana”.

Tra i vetri appannati e striati di bianco,  le ombre  nere  di tre marinai  lottano ancora, confusamente attorcigliati. E’ l’unico segno di vita! Il Vortice è ingovernabile, ma non può traversarsi alle onde. Il timone è diventato una ruota  di pietra. Nella rinata speranza di vita, quegli uomini veri triplicano le  forze ormai esaurite e, dall’Isola dei morti ritornano lentamente alla vita.

Il Vortice ha girato la prora di 180° ed aspetta il passaggio

della tempesta.

Il Vortice ed il suo equipaggio sono ora un ammasso violentato, ammaccato e ferito, ma ancora uniti nei colpi ricevuti, in parti eguali. Tutti a bordo hanno lottato. Nessuno ha deluso l’altro. Ognuno ha dato il massimo di sé, con estremo coraggio ed ora insieme hanno messo le ali.

La musica tambureggiante, scolpita, asimmetrica ed imprevedibile di Prokofiev, lascia la ribalta e, in virtù di un’altra magia, le prorompenti Walkirie fanno il loro ingresso sul nuovo palcoscenico, nella  trionfale cavalcata liberatrice di Wagner.

Sospeso come un falco che prende l’ultimo fiato, il Vortice scivola ora in picchiata verso il basso, sparisce e riemerge come un grosso pallone grondante di verde-oceano e striato di schiuma biancastra. Poi risale planando dolcemente alle massime altezze, per restare immobile alcuni istanti sulla cresta dell’onda, e infine precipita a folle velocità, con una schioccante panciata…. .

Il mostro ci ha pestato ed ora ci prende per il culo. Ci culla e ci spinge, ci risucchia, ci schiaffeggia, ci accarezza e ci scrolla come ragazzini sulla spiaggia dei Cavi in una giornata di burrasca”.

Ammette Charly,  cui non  restano che vuote  parole per frenare l’emozione, un vago senso di sconfitta e tanta stanchezza.

Il Vortice naviga ora verso casa,  con un assetto poco virile. Sbandando e sculettando vistosamente, si ritira verso il suo angolo, dolorante come un pugile colpito e frastornato dai colpi.

L’equipaggio è a pezzi, ma vivo, è stato salvato da un “gong celeste” ed è fiero  per le manovre fortunate del suo capitano.

Quel silenzio colmo di sagge meditazioni esistenziali è rotto, ben presto, da un urlo incontenibile di gioia, che sale dal carruggio del Vortice, e prende ancora più forza nella tromba delle scale.

“Hip-Hip-Hurrà !! “ Forse per esorcizzare il drago che sputa ancora fiamme e vapori sulfurei,  ma non fa più paura a nessuno.

Hip-Hip-Hurrà !!”  Forse per ringraziare il Cielo del dono ricevuto.

“Hip-Hip-Hurrà !!”   Per un brindisi di Champagne alla gioia di vivere.

Con una ritirata strategica, la prima parte della spedizione prende una piega assolutamente atipica ed  il Vortice, esibendosi in  un insolito surf Atlantico, si fa sberleffi della tempesta. Alla comprensibile paura dell’equipaggio, subentra la reazione nervosa, che mira ora al recupero d’energie ed alla rivincita su un avverso destino, mediante un gioco ancora pericoloso, ma affascinante.

Dopo l’accostata di 180°, l’ammiraglia si mette la tempesta in poppa, ma questo percorso a ritroso è fatto di miglia già percorse e, per limitarne l’accumulo, Charly sceglie la più bassa velocità possibile per governare, con un solo motore al minimo dei giri.

La tempesta  spinge ancora forte di  poppa e scarica, talvolta, sullo scafo  onde ancora più alte che, un Vortice sprezzante e altezzoso, respinge ormai sicuro di sé, fuggendo a zig zag come una lepre sulle colline di  Carpenissone. Il solcometro, purtroppo, segna 12 nodi di velocità, il doppio di quella registrata con mare calmo e con lo stesso numero di giri-motore. Sembra impossibile, ma il Vortice sta volando.

Passata è la tempesta…

Carlo GATTI

Rapallo, 23.04.12



L'AVVENTUROSA STORIA DELLA CISTERNA "RAPALLO"

L'AVVENTUROSA STORIA DELLA CISTERNA RAPALLO

L’idea di dare nomi di città o regioni Italiane alle navi aziendali nasce prima dell’istituzione dell’AGIP quando, per l’approvvigionamento di prodotti petroliferi, venne costituito il (CUNSA).

Il Varo della RAPALLO a Riva Trigoso. Fu la prima petroliera dell’AGIP

Forse le Sorelle non erano ancora “Sette”, ma all’inizio degli anni ’20, alcune società petrolifere straniere operavano già sul nostro territorio e con le loro navi spadroneggiavano sui nostri mari.

Per contrastare questa aggressiva infiltrazione straniera, fu costituito in quegli anni a Milano il “Consorzio Utenti Nafta S.A.” (CUNSA), con l’obiettivo di rifornire direttamente le industrie del Nord Italia con l’approvvigionamento e la distribuzione della “nafta” ad uso industriale. Fu scelto Vado Ligure come porto di discarica delle petroliere, dove già esisteva un deposito costiero che fu rilevato ed ampliato.

Questa idea d’indipendenza economica poteva realizzarsi, inizialmente, soltanto con l’acquisto di due navi per il trasporto di prodotti petroliferi. All’epoca, tuttavia, non esisteva un vero e proprio mercato di petroliere pronte all’uso, ma furono individuate due navi da ‘carico secco’ in costruzione presso i Cantieri di Riva Trigoso. Le due unità erano state impostate nel 1919 con altri nomi, ma al momento del varo furono chiamate:

RAPALLO di 8500 tonnellate di portata (5800 t.s.l).

RECCO di 8170 tonnellate di portata (5600 t.s.l.)

La trasformazione delle due unità da ‘navi da carico’ in ‘petroliere’ fu realizzata mentre erano ancora sullo scalo. Il risultato fu un compromesso tecnico-costruttivo interessante: le cisterne erano separate da una singola paratia longitudinale e da varie paratie trasversali, avendo così solo cisterne laterali (dal 1925 in poi, invece, si costruirono petroliere con tre file di cisterne, due ai lati ed una centrale). I due scafi avevano ancora i doppifondi a sistema cellulare ed estesissimi raddoppi della coperta per incrementarne la robustezza. Nel complesso l’operazione ‘sidero-chirurgica’ riuscì bene e per avviare questa importantissima attività nazionale, nacque un ‘Servizio Marittimo’ condotto da esperti operatori liguri che, facendo capo al gruppo Barbagelata, svilupparono il nascente settore navale petrolifero su basi molto moderne.

La Rapallo e la Recco navigarono per molti anni trasportando la nafta dall'America, dalla Russia e dalla Persia (Iran) per Vado Ligure, da dove veniva distribuita agli acquirenti a mezzo carri-botte ferroviari.

Il commercio petrolifero si estese presto anche al Veneto e si rese necessario stabilire una base a Venezia che non aveva un deposito costiero. Si rimediò, inizialmente, noleggiando dalla Marina Militare due piccole motocisterne di circa 200 tonnellate di portata: la Stige e la Acheronte, e successivamente affittando il deposito della Regia Marina degli Alberoni, all’imboccatura del canale di Malamocco.

Una bella foto della cisterna RAPALLO in navigazione

In tal modo la Rapallo e la Recco allibavano agli Alberoni e, alleggerite di parte del carico, potevano entrare nel canale della Brentella e finire di scaricare al terminale.

Nel 1925 la CUNSA, con l’incremento delle proprie attività, mutò nome in SNOM (Società Nazionale Oli Minerali), sempre con sede a Genova, e nel 1926, divenuta Azienda Generale Italiana Petroli (AGIP), trasferì la propria sede a Roma. In piena espansione commerciale l'AGIP impostò i nuovi programmi di sviluppo e stanziò le risorse necessarie per creare una flotta d'avanguardia. Furono varate:

4 motocisterne di 15.000 t.p.l. (destinate al lungo corso insieme alla Rapallo-Recco)

4 motocisterne di 2.000 t.p.l. (destinate al traffico con la Libia e l’Impero)

2 motocisterne di 1.000 e 600 t.p.l. (destinate al traffico con la Dalmazia-Egeo)

La RAPALLO una nave coraggiosa e fortunata

Ricordi di un “anonimo” comandante

La pirocisterna Rapallo nel corso della sua attività cambiò più volte il suo nome. Da una breve ricerca, potrei ritenere che il nome originario dell’unità doveva essere Vittoria, di bandiera italiana e progettata come nave mercantile. Acquistata sullo scalo di Riva Trigoso, fu trasformata in nave cisterna e varata nell’ottobre 1921 e consegnata nel dicembre dello stesso anno con il nome Rapallo.

Allo scoppio del conflitto, il 10 giugno 1940, (la nave si trovava in Atlantico per andare a caricare in U.S.A. e si rifugiò vuota alle Canarie; in seguito uscì dalle acque territoriali Spagnole per andare a prelevare il carico da una petroliera U.S.A. rientrando poi alle Canarie - n.d.r.) cercò di raggiungere la Columbia e trovò rifugio a Cartagena (Mare Caraibico). Dopo l'8 dicembre 1941 la nave fu confiscata dal governo della Colombia.

Con l’entrata in guerra degli Stati Uniti, la Rapallo fu acquistata dal governo USA e utilizzata per il sevizio mercantile. Fu trasformata in nave-appoggio per la propria difesa, e fu armata con un cannone da 4”, una doppia mitragliera da 3”, e otto mitragliere da 20 mm. Ribattezzata Polonaise e gestita dalla Marine Transport Co. di New York City, viaggiò sotto bandiera panamense trasportando fuel oil dai porti del golfo del Messico, da Corpus Christi-Texas ai porti della costa atlantica fino a New York. Inoltre effettuava viaggi-shuttle nei carabi tra Cuba e Duch West Indies. Transitò per il canale di Panama il 26 dicembre 1943 facendo rotta per Pearl Harbor, arrivando a Funafuti Ellice Island ( isola polinesiana a metà strada tra le isole Hawaii e l’Australia) il 3 marzo 1944. Da lì fece rotta per Maturo (Isole Marshalls) dove, l’8 aprile 1944 fu acquistata dalla marina Americana sotto la responsabilità della WSA (War Shipping Administration) e con il nome di Manileno fu affidata al comando del Com.te Eugene L. Mc Manus.

Assegnata al servizio del 10° Squadrone, la Manileno fu utilizzata come nave stoccaggio per il rifornimento delle navi da guerra. In giugno fu allocata a Eniwetock (atollo delle isole Marshall-Oceano Pacifico) per lo stesso uso come nave rifornimento ed in seguito dopo la conquista delle isole Marianne, salpò per Guam (ancora oggi é la più importante base aerea americana nel Pacifico) e lì operò rifornendo centinaia di navi e a sua volta rifornita settimanalmente fino alla fine del conflitto.

Nel periodo della sua presenza nel pacifico si calcola che abbia rifornito più di 200.000 tonnellate di fuel oil alla flotta Americana.

Partita da Guam il 29 ottobre 1945, attraverso il canale di Panama, si diresse a Mobile (Alabama-USA) dove arrivò il 20 dicembre. Vi rimase in attesa di ordini dal 14 gennaio al 7 febbraio 1946, quando fu restituita alla WSA.

Cancellata dalle matricole della Us Navy il 28 marzo 1946, fu venduta alla Società Ligure di Armamento di Genova e poi ceduta all’Agip il 19 maggio 1947, che le ridiede il nome originale Rapallo. Nel 1952 la RapaIlo, per quasi due anni, trasportò prodotti lavorati dal Mar Nero (costa Russa) al Mar Baltico (costa Russa) toccando i porti di Costanza, Helsinki, Leningrado, Stettino. La RAPALLO navigò fino all’aprile del 1955, anno della sua demolizione avvenuta a Trieste”.

Dati tecnici della nave: RAPALLO: piroscafo (cisterna) – 5.812 (Stazza lorda) - 8.500 (Portata) - costruita nel 1921 nei cantieri navali di Riva Trigoso. Appartenente alla Azienda Generale Italiana Petroli (Agip) con sede a Roma. Iscritto al Compartimento Marittimo di Genova, matricola n. 1072. Eliche 1 – Compartimento: Genova - Velocità 11 nodi - Costruzione 1921 –

Lunghezza 115 mt - Larghezza 16 mt - Pescaggio 9 mt - Motore Vapore T.E.

Potenza 2.250 cv - Caldaie 2

Fonti: “UOMINI E NAVI” – La flotta petrolifera ENI in ottanta anni di storia

“LE CARRETTE DEGLI ARMATORI GENOVESI – Pro Schiaffino –N.E.G

Carlo GATTI

Rapallo, 18.04.12