NAUFRAGI DIMENTICATI

Naufragi dimenticati

Quando si scappava dalla fame…

La storia “marinara” ufficiale la conosciamo, o dovremmo... ma alcuni capitoli, quelli brevi e sconosciuti, sono stati scritti, raccontati o indagati solo da alcuni decenni a questa parte.

Sul sito di Mare Nostrum Rapallo, abbiamo dedicato molti articoli sui “Naufragi che non passarono alla Storia”, citiamo solo alcuni esempi: P.fo Donizzetti, P.fo Ardena, M/n Mario Roselli, M/n Sinfra, P.fo Petrella, P.fo Oria. Soltanto queste navi sono state affondate durante la Seconda guerra mondiale ed il numero delle vittime ammontò ad oltre 12.356. Di questi naufragi avvenuti improvvisamente e spesso di notte, non si nulla o quasi.

Oggi se ne sa di più grazie all’opera meritoria di chi, figli, nipoti, eredi e storici onesti, sono tornati su quei fondali dell’Egeo a scavare e cercare reperti, indizi che potessero in qualche modo portare all’identificazione dei loro cari per ricordare ciò che è già dimenticato.

Trovate questi articoli nella sezione “Articoli di Storia-pag.4.

Se andiamo ancora più indietro nel tempo e, precisamente al capitolo dell’emigrazione dei nostri avi verso le Americhe, c’inabissiamo anche noi nelle sofferenze spesso inenarrabili, di soprusi, ingiustizie, calvari, malattie e morti. Le piccole storie di questa gente spesso finivano in fondo al mare, senza neppure riuscire a mettere piede sull’agognata terra redentrice, altro che cercar lavoro o delinquere.

Oggi vi raccontiamo alcuni di questi lontani naufragi che sono purtroppo ritornati d’attualità sulle nostre coste e ci fanno capire quanto la POLITICA internazionale sia incapace di risolvere il grande problema delle emigrazioni ricorrenti nella Storia dell’umanità.

Tutto ciò accade nonostante siano stati compiuti progressi ENORMI nella sicurezza delle costruzioni navali, nella navigazione strumentale e, soprattutto, nell’alimentazione, nell’igiene e vivibilità di bordo, dopo che la scienza ha sconfitto tutte le malattie esantematiche.

Eppure si continua a morire!

ALCUNI CELEBRI NAUFRAGI DI EMIGRANTI…

L’Ortigia, piroscafo carico di emigranti, viene speronato dal mercantile Oncle Ioseph e affonda al largo della costa argentina: 149 morti.

La nave italiana ORTIGIA

Una nave “maledetta”

Apparteneva alla Compagnia siciliana Florio, fu varata a Livorno nel 1873, e da subito era apparsa una nave piuttosto pericolosa. Spesso capitava che nelle manovre in porto travolgesse piccole imbarcazioni o finisse per urtare contro la banchina.

Il 24 novembre 1880 - alle tre di notte si scontrò con la nave passeggeri francese Oncle Joseph affondandola in otto minuti e provocando più di 200 morti.

Nel 1885 si scontrò con un’altra nave francese, la Martignan, ci furono 12 morti. Dopo ogni incidente veniva cambiato l’intero equipaggio, compreso il Comandante, ma gli incidenti continuavano a verificarsi.

Nel 1890 un'altra collisione, questa volta con una nave norvegese e i morti furono cinque.

Il 21 luglio 1895, la Maria P., piccola nave passeggeri, all’entrata del golfo della Spezia, a largo dell’Isola del Tino, si scontrò con l’Ortigia. La Maria P. affondò in tre minuti provocando la morte di 144 persone. Lo scontro si verificò all’1h e 30m in una notte particolarmente buia e lOrtigia dovette aspettare l’arrivo della luce del giorno per riuscire a portare in salvo 14 membri dell’equipaggio e 28 passeggeri naufraghi. Da quest’ultimo incidente nessuno volle mai più salire a bordo dellOrtigia, creduta, forse non a torto, un nave davvero maledetta.

Il 24 agosto del 1880 il piroscafo Ortigia piroscafo carico di emigranti viene speronato dal mercantile Oncle Ioseph al largo della costa argentina: 149 morti.

«Accovacciati sulla coperta, presso le scale, con i piatti tra le gambe e il pezzo di pane tra i piedi, i nostri emigranti mangiavano il loro pasto come poveretti alle porte dei conventi.

E’ un avvilimento dal lato morale e un pericolo da quello igienico, perché ognuno può immaginarsi che cosa sia una coperta di piroscafo sballottato dal mare, sul quale si rovesciano tutte le immondizie volontarie ed involontarie di quella popolazione viaggiante. L’insudiciamento dei dormitori è tale che bisogna ogni mattina far uscire sul ponte scoperto gli emigranti per nettare i pavimenti. Secondo il regolamento, i dormitori sono spazzati con segatura, occorrendo si mescolano disinfettanti, sono lavati diligentemente e asciugati. Ma tutte le deiezioni e le immondizie che si accumulano sui pavimenti, corrompono l’aria con forti emanazioni e la pulizia sarà difficile».

E’ un passo della relazione stilata da Teodorico Rosati, ispettore sanitario sulle navi degli emigranti, che getta un fascio di luce sulla penosa situazione in cui erano costretti i nostri emigranti, imbarcati su navi di infimo ordine. Le stive delle «navi di Lazzaro», ove si assiepavano, in carenza di luce e di adeguata aerazione, uomini, donne e bambini in condizione di deplorevole promiscuità, si trasformavano, con l’affollamento, in ricettacoli ad alto rischio patogeno, dai quali si sviluppavano frequenti infezioni malariche e broncopolmonari, epidemie di febbri tropicali, che mietevano vi ime, sopra u o tra i bambini.

Il 4 luglio del 1898 il piroscafo francese Bourgogne affonda al largo della Nuova Scozia: 549 morti.

28 maggio 1914: il piroscafo inglese Imperatrice d’Irlanda, nel Golfo di San Lorenzo, causa la fitta nebbia, entra in collisione con la nave norvegese Storstad. Nell’affondamento muoiono 1012 passeggeri, tra cui molti emigranti italiani. Tra i pochi scampati al naufragio figurano Egildo Braga, emigrato nel Minnesota come minatore, e la moglie Carolina, ambedue di Turbigo.

Nel 1888 naufraga il Sud America, della compagnia genovese “La Veloce”, nei pressi delle Canarie: vi muoiono una novantina di liguri. Piccola storia dimenticata e ora riemersa dal fondo dell’oceano grazie allo storico ligure Sandro Pellegrini e al suo impegno in questo senso. Perché tutti questi morti? Molte le cause, ma una in particolare colpisce per la sua “modernità” (ci si passi l’espressione): in molti casi, le navi che trasportano gli emigranti sono vere e proprie “carrette del mare”, navi mercantili riadattate alla bene e meglio per trasporto passeggeri, navi vecchie, sgangherate, fatiscenti, costose da rimettere a posto.

IL NAUFRAGIO DEL SIRIO (4agosto 1906)

Lo chiamarono il Titanic dei poveri.



Il piroscafo “Sirio” come appariva in navigazione nella sua snella silhoutte.



ll Sirio è un po’ l’emblema delle piccole storie che finiscono in fondo all’oceano.

4 agosto 1906: Il Sirio, un vecchio bastimento di proprietà della Navigazione generale italiana N.G.I., affonda speronando gli scogli che si trovano al largo di Capo de Palos (Spagna): 500 morti circa.

Non è che un breve elenco, parte di una ben più lunga lista di naufragi, in cui persero la vita moltissimi nostri connazionali, partiti in cerca di fortuna. Non c’era però solo fatalità o imperizia dei comandanti in quelle sciagure, bensì anche colpevole incuria. Il trasporto degli emigranti era infatti diventato un grande affare e su questo specularono le compagnie di navigazione, me finendo in mare vecchie carrette, sommariamente riattate, ma prive di quei requisiti previsti dalla legge.

Per non parlare delle malattie, anzi delle epidemie che scoppiano a bordo di questi inferni galleggianti, tanto da giustificare un’espressione coniata all’uopo, i “vascelli della morte”. E anche in questo caso, c’è un emblema della tragedia, ed è la Carlo Raggio”. Partita nel 1896 dal porto di Napoli, mentre in città infuria il colera, la nave si dirige a Genova, poi a Barcellona per imbarcare altri emigranti, infine in Brasile, la meta finale. A bordo, durante la traversata, si sviluppa l’epidemia. Messa in quarantena a Rio de Janeiro, la nave viene respinta indietro e attraversa di nuovo l’oceano, seminandolo dei cadaveri che quotidianamente butta fuori bordo, e così avanti per tre mesi, finché il colera non si spegne. Ma che dire, allora, dell’analogo caso della “Matteo Bruzzo”, contro cui le autorità uruguayane sparano cannonate per non farla attraccare, e poi ancora nel 1893 la difterite sulla “Remo”, nel 1889 l’avvelenamento dei cibi sulla “Giava”, sempre nel 1889 l’asfissia sulla “Frisia”. Piccole storie tragiche ora riscoperte con agghiacciante pietà da autori come Gian Antonio Stella (Odissee, Rizzoli), Augusta Molinari (Le navi di Lazzaro, Franco Angeli), Emilio Franzina (Merica Merica, Feltrinelli), e tanti altri.
Certo, la Storia di quell’Italia che si sposta alla scoperta del Grande Mondo, la storia della “grande proletaria” che si è mossa, è diversa dalla storia della Germania, della Gran Bretagna, della Francia, dell’Irlanda di fine secolo. Allo stesso modo, è diversa dall’Italia di questi anni, così come è diversa dalla storia dei paesi emergenti alle soglie del terzo millennio. Come si usa dire: “cambia il contesto di riferimento”, e dunque ogni attualizzazione, ogni revisionismo in un senso o nell’altro, ogni analisi che tenda a rimarcare inquietanti analogie tra passato e presente sono tutte operazione estremamente rischiose e soggette all’accusa di “ideologia” e di “strumentalizzazione”. Eppure il dubbio rimane, e riguarda le piccole storie. Storie di miserie, di disperazione, di rifugiati politici, di carrette del mare e di miti collettivi, che aiutano a sperare, almeno per un po’, in una delle tante “Meriche delle cento lire” disseminate per il mondo.

Partire per emigrare non era certamente una scelta che si poteva prendere a cuor leggero. Il ruolo della famiglia era determinante. Si poteva, infatti, scegliere di andar via da soli o con alcuni dei parenti più stretti, ma si poteva anche emigrare perché richiamati da un familiare,  il padre o il marito, che già risiedevano da tempo all’estero.
Molto spesso il far partire un componente della famiglia e mandarlo a cercare fortuna in America  era visto, da parte di chi rimaneva, come una sorta di investimento per il futuro, reso possibile grazie ai dollari che l’emigrante avrebbe poi mandato a casa.
Una volta che la decisione era stata presa, occorreva trovare i soldi per acquistare il biglietto del bastimento ed avere poi a disposizione una piccola somma per le prime necessità (negli Stati Uniti era obbligatoria). Anche a questa incombenza, normalmente, provvedevano amici e parenti con un prestito: il più delle volte si firmavano alcune cambiali con l’impegno che   il denaro sarebbe stato restituito, con i dovuti interessi. In mancanza di tali finanziatori per così dire, “familiari” si era costretti a ricorrere a persone esterne alla propria cerchia di parenti. In questo caso si correva il rischio di incappare in soggetti poco raccomandabili che potevano anche costringere il futuro emigrante ad impegnare o vendere la propria casa o il piccolo pezzo di terra. In ogni caso, comunque, era sempre in agguato il rischio, tutt’altro che remoto, di vedere le masserizie sottovalutate o, nella peggiore delle ipotesi, di venire truffati da mediatori senza scrupoli.
Durante i primi anni della grande emigrazione, quando ancora le leggi non prevedevano un’adeguata tutela dell’emigrante, questi doveva vedersela anche con gli emissari di alcuni governi stranieri (ad esempio quello brasiliano) che per convincerli a partire per quel Paese promettevano viaggi gratuiti e retribuzioni favolose.
Da ultimo, ma non meno insidiosi per i nostri emigranti, erano gli agenti e i rappresentanti delle compagnie di navigazione che, non di rado, assicuravano comodi viaggi in nave e un lavoro sicuro e qualificato,  pur di vendere un biglietto.

QUANDO L’EMIGRANTE ERA UN POLLO DA SPENNARE…

E’ triste dover raccontare certe cose… ma sentite questa:

Spesso erano le Banche a farsi carico dei soldi necessari per il solo biglietto di andata dell’emigrante, al quale veniva chiesto in garanzia del prestito la casa e l’appezzamento di terreno, un rudere di pietra che, al momento, aveva ben poco valore. Quando poi l’emigrante arrivava sul posto si rivolgeva al fiduciario della Banca collegata con l’Italia che, naturalmente era ignaro delle trattative intercorse e di contratti stipulati in merito… In questo modo l’emigrante ligure capiva immediatamente di essere stato raggirato!

Una volta sistemato negli States, l’avo rivierasco non pensava più di ritornare in patria dove non aveva più nulla, e poi c’erano le guerre e ancora tanta fame. Le sue proprietà nel frattempo erano passate definitivamente a certe Banche locali che, al momento opportuno, pensarono bene di “rapallizzare” e sappiamo quanto...(???). Molte storie tutte identiche ci sono state raccontate persino a Portofino, Santa Margherita e Rapallo che testimoniano quanto all’epoca dell’emigrazione nostrana la povertà dei nostri avi andasse di pari passo con il basso valore delle loro proprietà.

 

Ringrazio ENTELLA TV e l’impagabile Trasmissione FRA AMICI che ci ha raccontato questi sconcertanti retroscena anche attraverso interviste e testimonianze di discendenti di quei “poveri cristi” la cui maggioranza non tornò più in Italia per non “sporcarsi le mani”…

Forse un giorno, qualcuno sopra le parti, oppure sotto… non ha importanza, ci racconterà con dovizia di particolari i meccanismi che regolarono l’emigrazione del passato ma che, a quanto sembra, persistono ancora oggi con altri sistemi, magari paralleli.

Certo, oggi il FENOMENO lo vediamo da “estranei” ogni giorno in TV, ma siamo proprio sicuri di “colpire i veri responsabili” con le nostre critiche, ansie, paure e voglie di cambiamenti?

 

Carlo GATTI

Rapallo, 19 Ottobre 2017

 

 


IL PUNTO NAVE - DAL SESTANTE AL GPS ESCLUSO...

IL PUNTO NAVE

DAL SESTANTE AL GPS … escluso

Ricordi e Testimonianze

Introduzione

di Ernani Andreatta

 


NEMESILancia senza Madonnina…

Fanno parte delle collezioni del Museo Marinaro oltre 15.000 fotografie in cartaceo di tutte le navi militari del mondo con particolare attenzione a quelle della nostra Marina Militare Italiana sin dall'unità d’Italia del 1861.  La collezione apparteneva a Giuliano Gotuzzo di Santa Margherita Ligure, storico e appassionato collezionista navale di ottimo livello.

La documentazione storica del Museo attraverso pubblicazioni, fascicoli e giornali di guerra, data sin dai primi dell’ottocento ed è straordinaria così come le oltre 250.000 fotografie quasi tutte a tema marinaro che fanno parte degli archivi informatici del Museo.

Molti grandi armatori dell’epoca eroica della vela come gli Accame, i Raffo, Bacigalupo ed altri hanno affidato al Museo Marinaro tutti i loro archivi storici dell’800 che sono stati messi in ordine di data e rilegati. Il traffico commerciale, le avarie, le polizze di carico e altre curiose documentazioni come “il codice dei telegrammi cifrati degli armatori ai tempi della vela” sono, nel loro genere, un patrimonio unico e importante per rarità e complessità di reperti.

Ma la produzione letteraria potrebbe non fermarsi dato che è in via di realizzazione un libro dal titolo “I 500 bastimenti di Chiavari”. “…Perché è un assurdo, che il "Campanino", ideatore di seggiole, sia diventato più famoso dei Gotuzzo e dei Tappani costruttori di navi”.

Così scrisse il Comandante Pro Schiaffino Presidente onorario del Museo Marinaro di Camogli e storico di grande fama con profonda conoscenza delle cose di mare. Certamente ritorneremo su questo argomento anche per “onorare” la verità storica.

Il buon Dio e la natura hanno dato, fin dagli albori, la possibilità al navigante di stabilire la latitudine misurando la latitudine misurando di notte l’altezza della stella Polare, oppure misurando di giorno l’altezza massima che il sole raggiunge sopra la sua testa.

IL ROMANZO DELLA LONGITUDINE

UNA SOLUZIONE ATTESA MILLENNI

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=547;lapi&catid=36;storia&Itemid=163

Intervista del Comandante-webmaster Carlo GATTI al Comandante Ernani ANDREATTA

Inserita il 23.05.11 sul sito di Mare Nostrum Rapallo, quell’intervista oggi conta 11.500 visitatori! Ciò significa che l’interesse per l'argomento esiste in tutto il mondo, eccetto che nelle Scuole dedicate...

Come sarebbe a dire? Ve lo spiego subito!

Nel frattempo, sono passati solo sei anni e si é saputo, con molto rammarico, che all’Istituto Tecnico Nautico di Camogli, il quale oggi non si chiama più così, del PUNTO NAVE fatto con le rette d’altezza misurate con il SESTANTE, non se ne parla proprio più.

Pare che gli studenti nautici non abbiano mai preso il SESTANTE IN MANO, neppure una volta nei cinque anni previsti dal corso.

A nostro modesto avviso si tratta di una sacrosanta vergogna, in genovese: di una belinata colossale!

Il “nostro" sistema stellare é sicuramente antiquato, ma dovrebbe essere tuttora “TRASFERITO”, almeno sul piano culturale, ai nuovi allievi come "sapere marinaro" del “passato prossimo". Tutti infatti siamo consapevoli, in particolare i naviganti che, in caso di necessità, (spegnimento dei satelliti per motivi bellici) i metodi cosiddetti antiquati come le RETTE D’ALTEZZA dei nostri tempi…, potrebbero ritornare “necessariamente” di moda perché erano e si basano tuttora su metodi scientifici, quindi esatti! Ed é quindi molto “imprudente” considerare “superati” certi calcoli astronomici basati sulla matematica più avanzata.

Ben vengano i nuovi sistemi tecnologici, ma io farei molta attenzione ad eliminare la VERA ARTE DEL NAVIGARE e dei suoi strumenti basilari:

- la conoscenza del cielo stellare,

- uso di un buon sestante,

- uso del cronometro,

- uso delle Effemeridi Nautiche dell’anno in corso.


Quando i Velieri si arenavano sugli scogli perché non conoscevano la Longitudine.

Per la soluzione della longitudine c’è stato invece il buio totale fino alla metà del 1700.

E’ impossibile sapere quante navi siano naufragate nei millenni per l’errata valutazione della longitudine.

Questo fantastico capitolo della storia della navigazione ha inizio, pensate, con la soluzione trovata da un orologiaio, l’inglese John Harrison che affermò:

“E’ sufficiente che ogni nave sia equipaggiata con un cronometro in grado di misurare l’ora esatta, quella di Londra per esempio, ed un semplice confronto con l’ora locale del punto dove si trova la nave, fornirebbe istantaneamente il “FUSO ORARIO”, cioè quanti gradi e primi, e dunque la longitudine della nave e quindi anche la sua distanza dal meridiano 0° convenzionale-politico di riferimento”. Ma quell’uomo ci mise tutta una vita per fare accettare questo semplice concetto ai grandi astronomi del 1700.


Il Comandante Ernani Andreatta mostra il cronometro navale della “Texaco Arizona” varata nel 1949 presso il celebre Cantiere Navale Bethlehem Steel Corporation di Quincy, Massachusetts (USA)

Ci troviamo in compagnia del Comandante Ernani Andreatta, fondatore e conservatore del Museo Marinaro Tommasino-Andreatta di Chiavari.

Comandante, nel 1999 siamo stati entrambi folgorati dal piccolo libro “Longitudine” di Dava Sobel, non tanto per l’aspetto scientifico che avevamo già analizzato al Nautico, ma per la storia “sofferta” di Harrison che ignoravamo totalmente.

E’ vero! Del piccolo libro di Dava Sobel, “Longitudine”, mi affascinò soprattutto l’argomento trattato che mi stimolò per avviare ulteriori ricerche sull’argomento che culminarono con una conferenza, della quale fui relatore nello stesso anno alla Scuola Telecomunicazioni di Chiavari.

Sicuramente abbiamo in comune un ricordo: il primo ordine che veniva impartito all’Allievo ufficiale di coperta del dopoguerra, fino all’avvento del GPS, era quello di dare la carica, ogni mattina, al cronometro di bordo.

Questo fa parte della nostra storia di naviganti. Per anni abbiamo navigato usando il sestante per trovare la posizione della nave, misurando cioè l’altezza degli astri e soprattutto usando quel famoso cronometro, da lei accennato, a cui occorreva dar la carica tutte le mattine. Lo ritenevo un normale strumento che, come la bussola, faceva parte della strumentazione di bordo. A quel tempo non sapevo che il cronometro di bordo era stato, dopo infiniti anni di naufragi e disastri, la soluzione ai fondamentali problemi del calcolo della posizione della nave.

A pensare che Harrison era nato falegname…

John Harrison, nato falegname e non orologiaio, ebbe ragione addirittura su certi Astronomi Reali che non credevano anzi, guardavano con sospetto alla sua “piccola scatola magica”. Quel piccolo oggetto meccanico rappresentava la scoperta scientifica più importante della storia marittima e mai più avrei immaginato che dietro a quel cronometro che maneggiavo quasi con fastidio, si era consumata una durissima vicenda esistenziale per un uomo straordinario e testardo come il nostro eroe.

Spieghiamo ai nostri lettori la principale necessità di dover calcolare la longitudine.

Agli inizi del 1700, il problema di tutte le navi era calcolo della longitudine, in pratica la distanza lungo un parallelo, da un meridiano di riferimento, e di conseguenza la posizione esatta della nave. Questo era il vero problema che assillava tutti i naviganti.  Agli occhi degli uomini del settecento, il mondo aveva un aspetto molto lontano da quello che gli atlanti, i mappamondi e le fotografie scattate dai satelliti ci hanno reso familiare. Non si contavano i capitani ed i loro equipaggi che avevano perso la vita schiantandosi sugli scogli di una costa che secondo i calcoli sbagliati non doveva essere lì.

Per fortuna dei marinai, all’orizzonte apparve John Harrison il quale fornì la soluzione e la sostenne fin da subito: ogni nave doveva essere equipaggiata con un cronometro in grado di segnare sempre l’ora “esatta” di Londra che, messa a confronto con l’ora locale-solare, avrebbe istantaneamente fornito il “Fuso Orario” e dunque la Longitudine della nave.

Purtroppo, trovata la soluzione teorica, si presentava un altro problema di ordine pratico: un cronometro così preciso non esisteva nemmeno sulla terraferma.

Quanto tempo impiegò J. Harrison a vincere la sua personale scommessa?

E’ la storia avvincente di quarant'anni di sforzi che furono necessari a John Harrison non solo per costruire e perfezionare quel cronometro, ma soprattutto per persuadere la comunità scientifica dell’efficacia del suo metodo semplice e definitivo.

Occorre sottolineare che a quel tempo la mentalità prevalente era per le soluzioni avanzate dagli astronomi illustri, tra cui G.Galilei.

I grandi astronomi dell’antichità insegnarono a calcolare la latitudine, ma poi indirizzarono le loro ricerche nei meandri dell’universo. Forse la longitudine non era così importante nei limiti geografici della navigazione costiera conosciuta prima delle grandi scoperte geografiche.

Già nel 150 D.C. il cartografo e astronomo Tolomeo aveva tracciato le latitudini e le longitudini nelle ventisette carte geografiche che rappresentano una pietra miliare e un punto di riferimento importantissimo.

Per far capire meglio ai nostri lettori, ci può definire la differenza cruciale tra la Latitudine, misurata a partire dall’equatore, verso nord e verso sud e la Longitudine, misurata invece da un meridiano 0° convenzionale?

Il parallelo di Latitudine di grado ZERO vale a dire l’equatore è fissato da leggi della natura; infatti, osservando i moti apparenti dei corpi celesti, il sole, la luna e i pianeti passano quasi esattamente sopra l’equatore.  L’identificazione del meridiano fondamentale Zero, invece, è una decisione squisitamente politica.  Nel tempo, da Tolomeo in avanti si stabilirono come meridiano Zero, di volta in volta: le Canarie, l’arcipelago di Madera, Le Azzorre, Le Isole di Capo Verde, Roma, Copenaghen, Gerusalemme, San Pietroburgo, Pisa, Parigi, Filadelfia, prima di fissarlo, in modo universale, a Londra e precisamente a Greenwich.

L’esempio più eclatante d’errore di Longitudine ce lo diede C. Colombo che Salpò il Parallelo e credette di essere arrivato a Cipango. Ci può chiarire il rapporto tra tempo orario, longitudine e distanza geografica?

Cristoforo Colombo nel 1492 “Salpò il Parallelo” ed è fuor di dubbio che, sulla sua rotta, se non ci si fosse messa di mezzo l’America, avrebbe sicuramente trovato le Indie. Pertanto, la misura della longitudine è fortemente influenzata dall’ora e per calcolare la longitudine in alto mare bisogna sapere non soltanto che ora è a bordo della nave in un dato momento, ma anche che ora è, in quello stesso istante, nel porto di partenza o in un altro luogo di cui si conosca la longitudine. Le ore segnate dai due orologi rendono possibile al navigante la trasformazione di differenza oraria in distanza geografica. Poiché la terra impiega 24 ore per completare un’intera rotazione di 360 gradi, un’ora equivale a un 24esimo di giro, ovvero a 15° (gradi). Quindi, la differenza di un’ora tra la posizione della nave e il punto di partenza indica un avanzamento di quindici gradi di longitudine verso oriente o verso occidente. Quando in mare, il navigante, regola l’orologio della sua nave sul mezzogiorno - il momento in cui il sole raggiunge il punto più alto nel cielo, cioè lo Zenit - e quindi consulta l’orologio del punto di partenza, sa che la discrepanza di un’ora si traduce in 15 gradi di longitudine. Quegli stessi 15° (gradi) corrispondono anche ad una certa distanza percorsa. All’equatore, dove la circonferenza della terra è massima, equivalgono a mille miglia nautiche. A nord e a sud di tale linea, il valore di ciascun grado misurato in miglia diminuisce. Un grado di longitudine equivale a quattro minuti in tutto il mondo, ma in termini di distanza si contrae dalle 68 miglia all’equatore ad uno zero virtuale ai poli.

Un orologio preciso e trasportabile è stato quindi il “segreto” che ha rappresentato la vera svolta nella sicurezza della navigazione?

La conoscenza simultanea dell’ora esatta di due luoghi diversi – un pre-requisito del calcolo della longitudine - che oggi, riusciamo ad ottenere con economici orologi da polso, era una meta irraggiungibile sino a che non furono inventati gli orologi a pendolo. Ma sul ponte di una nave, che stava rollando, tali orologi diventavano pressoché inservibili perché acceleravano o rallentavano enormemente e non parliamo poi dell’influenza della temperatura tra le zone fredde e i tropici.

Possiamo affermare che la sola conoscenza della latitudine non solo fu un grande limite per i grandi navigatori, ma possiamo aggiungere che essi arrivarono dove arrivarono per “benevolenza della fortuna”?

Quasi tutti i grandi navigatori, da Vasco de Gama a Vasco Munez de Balboa, da Ferdinando Magellano a Sir Francis Drake, arrivarono dove arrivarono, volenti o nolenti, per grazia di Dio e benevolenza della fortuna. Anche il Re Giorgio III d’Inghilterra e lo stesso Luigi XIV cercarono di risolvere questo problema ed il grande James Cook fu uno dei primi esploratori a dar fiducia a Harrison con ben tre lunghi viaggi sperimentali, prima d’incontrare una morte violenta alla Hawai.

Che parte ebbero nella vicenda “Longitudine” i famosi astronomi dell’epoca?

Astronomi famosissimi s'ingegnarono in ogni modo e maniera per risolvere il problema del calcolo della longitudine. Ne cito alcuni come G. Galilei, Jan Dominique Cassini, Cristian Huygens, Sir Isaac Newton, Edmond Halley (lo scopritore della cometa…) ma tutti sbagliarono, perché rivolsero i loro studi alla luna e alle stelle, forse travisati dal calcolo squisitamente astronomico della latitudine. In realtà, Galileo studiò un metodo per calcolare la longitudine, ma era complicatissimo e del tutto inapplicabile a bordo alle navi.

Non c’è dubbio che questa ricerca portò anche ad altre straordinarie scoperte come il peso della terra, la distanza delle stelle e la velocità della luce.

Comandante, ci racconti alcune tragedie marinare che furono causate dalla pessima conoscenza della longitudine.

Il problema era sempre lo stesso!  Soltanto attraverso il calcolo della longitudine si sarebbe arrivati alla conoscenza della “vera” posizione della nave. Nel 1707, l’ammiraglio di Sua Maestà Sir Clowdisley perse quattro navi (su cinque), e oltre duemila uomini d’equipaggio in prossimità delle Isole Shilly a sud dell’Inghilterra (Lands End). Quando l’Alto Ufficiale scoprì con sgomento d’aver calcolato male la longitudine, era già tragedia… E pensare che un membro dell’equipaggio li aveva insistentemente avvertiti che stavano sbagliando e fu impiccato per insubordinazione.

C’è da notare che la non conoscenza della longitudine allungava i viaggi a dismisura, dipanandosi in mille episodi orripilanti di uomini uccisi dallo scorbuto e dalla sete, di spettri fra il sartiame, di approdi di navi ridotte a relitti con le chiglie frantumate sulle rocce e cumuli di cadaveri di annegati a imputridire sulle spiagge. In moltissimi casi l’ignoranza della longitudine portava un vascello ad una rapida fine. Infine possiamo aggiungere che l’incapacità di calcolare la longitudine influiva negativamente sull’economia: le navi erano costrette a seguire solo determinate rotte conosciute e così, sulle stesse rotte, si affollavano baleniere, mercantili, navi da guerra e corsari naturalmente, cadendo preda uno dell’altro.

Personalmente fui colpito dalla tragedia del Madre de Deus. Ci può raccontare brevemente quel tragico episodio?

Nel 1592, il gigantesco galeone portoghese Madre de Deus, armato con ben 32 moderni cannoni di ottone, mentre si trovava al largo delle Azzorre, di ritorno dall’India, s’imbatté al largo delle Azzorre nella flotta inglese che lo colò rapidamente a picco. Da notare che la flotta Inglese stava aspettando quella spagnola e non il Madre de Deus.

Il galeone trasportava sotto coperta ogni ben di Dio: oro, argento, perle, brillanti, ambra, arazzi, ebano, tela di cotone stampata e le preziose spezie, quantificate in quattrocento tonnellate di pepe, quarantatré di chiodi di garofano, trentacinque di cannella e tre di noce moscata e macis. Il carico del Madre de Deus valeva circa mezzo milione di sterline che era la metà del gettito fiscale di tutta l’Inghilterra a quell’epoca.

Nel 1641 il Commodoro Anson, al comando del Centurion, perdette ben tre navi delle cinque che erano al suo comando, oltre agli equipaggi di circa 600 uomini. La sua disavventura nel passare dall’Atlantico al Pacifico, attraverso Capo Horn, fu causata dal non conoscere la longitudine quindi la posizione della sua nave, ma fu anche straordinariamente aggravata da 58 giorni di terribili burrasche.

Gli uomini migliori, insomma, perdevano l’orientamento una volta che la terra non era più visibile ed il mare non offriva nessun indizio utile a calcolare la Longitudine. A causa dei numerosi naufragi e delle perdite di uomini e navi si diffuse persino il timore, o la superstizione che alla soluzione di quel problema si opponesse qualche divieto divino.

Il Parlamento Inglese, con il celebre “Longitude Act” del 1714, stanziò l’astronomica somma di 20.000 sterline, circa 20 miliardi di vecchie lire, a chi avrebbe inventato un sistema pratico e utile per il calcolo della longitudine. Qui cominciò l’avventura di J. Harrison?

L’orologiaio inglese John Harrison, un genio della meccanica, fu il pioniere della scienza della misurazione del tempo, mediante strumenti precisi e portatili. Il tecnico dedicò la sua vita a questa ricerca realizzando ciò che Newton riteneva impossibile: inventò un orologio che, come una fiamma eterna, avrebbe trasportato l’ora esatta dal porto di partenza ad ogni remoto angolo della terra. Senza preparazione teorica né apprendistato pratico presso un orologiaio, Harrison costruì una serie di orologi quasi del tutto privi di attrito, che non abbisognavano di lubrificazione o pulizia, fatti di materiali inattaccabili dalla ruggine, in grado di mantenere le parti mobili in perfetto equilibrio reciproco, a prescindere da come, intorno a loro il mondo si impennava o rollava. Abolì naturalmente il pendolo e accostò differenti metalli all’interno del suo congegno in modo che quando un componente dell’orologio si espandeva o contraeva per variazioni di temperatura, l’altro componente ne neutralizzava gli effetti mantenendo costante il ritmo dell’orologio.

Harrison ebbe molti nemici che fecero carte false contro di lui, a tutti i livelli!

Infatti, i risultati conseguiti dal nostro eroe furono vanificati dai membri della comunità scientifica, che diffidavano della “scatola magica” di Harrison. I commissari, incaricati di assegnare il premio stanziato, Nevil Maskelyne tra loro, cambiavano le regole della gara tutte le volte che lo ritenevano opportuno, così da favorire sempre gli astronomi rispetto a Harrison e ad altri meccanici. Alla fine, la precisione e l’efficienza dei cronometri di Harrison trionfarono. I suoi seguaci migliorarono la splendida e complessa invenzione con qualche modifica che consentì in seguito di produrla in serie e di diffonderne l’uso.

Il Re d’Inghilterra, un monarca illuminato, intervenne in soccorso di Harrison!

E’ vero! Nel 1773 un Harrison vecchio e sfinito reclamò, al riparo dell’ala protettiva di Re Giorgio III, il premio che gli spettava di diritto. Erano trascorsi quarant’anni tumultuosi, segnati da intrighi politici, guerre internazionali, ripicche accademiche, rivoluzioni scientifiche e crisi economiche.

La vita di Harrison fu costellata di delusioni e colpi bassi di ogni specie. Gli ammiragli e gli astronomi della Commissione per la Longitudine appoggiarono sempre apertamente il metodo delle distanze lunari di Maskelyne perché lo vedevano come lo sviluppo logico delle esperienze in mare e negli osservatori. Dopo il 1750, grazie agli sforzi congiunti dei molti che contribuirono a questa grande impresa internazionale, sembrava finalmente che il sistema fosse applicabile a bordo.

Ci parli ora della produzione dei cinque prototipi di Harrison.

Harrison costruì cinque prototipi di orologi che identificò con la sigla H-1, H-2, H-3, H-4 e negli ultimi anni della sua vita l’H-5. Per l’H-3 soltanto impiegò ben 19 anni. Ne uscì una macchina perfetta che sgarrava di appena un secondo, dopo numerosi giorni. Durante tutti questi anni di durissimo lavoro non accettò mai altre commissioni più redditizie, ma costruì soltanto qualche “volgare” orologio per sbarcare il lunario. Soltanto il 30 novembre del 1749, Harrison lasciò il suo banco da lavoro per ricevere un’alta onorificenza che era la Copley Gold Medal, una medaglia d’oro che fu in seguito assegnata a personaggi come Benjamin Franklin, James Cook e Albert Eistein, tanto per citarne alcuni. Il penultimo di una stirpe di questi gioielli in ottone, l’H-4 ha un diametro di soli dodici centimetri e pesa soltanto un chilo e trecento grammi; sembra più un grosso orologio da taschino che non un cronometro di bordo.  All’interno delle sue due custodie d’argento finemente decorate c’è la meraviglia delle sue minuscole parti con rotelle dentate che girano sorrette da rubini e diamanti per evitare l’attrito. Come Harrison sia riuscito ad inserire i gioielli nell’Orologio, rimane a tutt’oggi un mistero del quale non fornisce spiegazioni della tecnica usata, per dare alle gemme la loro caratteristica e cruciale configurazione.

L’H-4 è tuttora esposto al National Maritime Museum di Londra e attira ogni anno, assieme all’H-1-2-3 circa otto milioni di visitatori.


I Cronometri di Harrison

Eccoci arrivati al primo esperimento del cronometro di Harrison. John delegò il figlio William?

Finalmente, nel 1762 ci fu la prova del nove per l’H-4. Fu imbarcato sulla nave di sua Maestà il Deptford. Sulla nave s’imbarcò il figlio minore di Harrison, William. La traversata Atlantica durò quasi tre mesi, il 19 Gennaio del 1762 il Deptford arrivò a Port Royal in Jamaica. Salì a bordo il rappresentante della commissione che doveva giudicare l’orologio di Harrison. Robinson e William Harrison confrontarono i due orologi per stabilire la Longitudine. Dopo 81 giorni di mare, l’H-4 aveva perduto soltanto 4 secondi! Ma Nevil Maskeline, l’alto prelato amico degli astronomi e nemico dichiarato del “nostro” orologiaio, per ironia della sorte, era lì ad aspettare il cronometro per giudicarne l’efficienza nel calcolo della longitudine! Le discussioni con William furono interminabili. Pensate! Il calcolo della longitudine si era ridotto ad una discussione tra un astronomo e un orologiaio su una desolata spiaggia delle Barbados.

Come si concluse il viaggio?

L’orologio ritornò a Londra, sempre ben custodito da William Harrison sul Merlin. Il viaggio di ritorno fu altrettanto disastroso per il mare in burrasca e spesso William, che soffriva il mare, doveva avvolgere l’orologio in un plaid e tenerlo al caldo col proprio corpo. Il 26 Marzo, giorno dell’arrivo a Londra l’H-4 ticchettava ancora.

Che fine fece il tanto agognato Premio?

Invece delle 20.000 sterline Harrison ne ricevette soltanto 1.500 con la scusa che, disse la commissione, “gli esperimenti finora condotti sull’Orologio non erano stati sufficienti per determinare la Longitudine”. Avrebbe ricevuto altre 1000 sterline quando l’H-4 fosse tornato dalla sua seconda missione in mare. Un certo Bliss, astronomo, che faceva parte della commissione giudicante, affermò che la cosiddetta precisione dell’orologio, era stata una “fortunata coincidenza”. Cosi, l’orologio di Harrison dovette subire ancora numerose prove e controprove sotto la diffidenza dei grandi astronomi del tempo. Poi Harrison, finalmente, sempre per intercessione di re Giorgio III riuscì ad ottenere tutto il premio messo in palio dal Longitude Act.

Ha inizio una nuova era. L’Inghilterra diventa la “Signora dei Mari”, grazie all’orologio di Harrison.

Quando John Harrison, il 24 Marzo del 1776 morì, esattamente a 83 anni dopo la sua nascita avvenuta nel 1693, egli assurse allo stato di “martire degli orologiai”. Per interi decenni era rimasto in disparte, praticamente solo, come l’unica persona al mondo seriamente impegnata a risolvere il problema della Longitudine facendo ricorso alla misurazione del tempo. Poi all’improvviso, sulla scia del successo dellH-4, legioni di orologiai cominciarono a dedicarsi alla costruzione di orologi marini. Dopo tre secoli di “sicura navigazione” per i sette mari, la totalità degli studiosi sostiene che Harrison ha favorito la conquista dei mari da parte dell’Inghilterra, e quindi contribuito alla creazione dell’impero britannico, perché fu grazie al cronometro che le navi inglesi divennero le signore degli oceani.

Si sciolse la commissione per la Longitudine. Il cronometro, nonostante l’antipatia degli astronomi, venne assegnato a tutte le navi e, nel giro di pochi decenni, entrò negli inventari di bordo e vi rimase fino ai giorni nostri. Comandante ci avviamo alla conclusione di questo revival storico, ma prima di ringraziarla, lasciamo ancora a lei la parola per trarre alcune conclusioni.

Nel 1828 la Commissione per la Longitudine si sciolse e l’assegnazione dei cronometri a bordo passò all’Istituto Idrografico della Marina, vale a dire ai cartografi. Era un compito non da poco, dato che oltre all’assegnazione, l’Istituto era anche incaricato di ritirare e riparare i vecchi cronometri. Spesso a bordo alle navi idrografiche incaricate dei rilievi se ne potevano imbarcare anche una quarantina in modo da avere dei calcoli di longitudine più precisi. Evidentemente l’idea del cronometro aveva finito per fare breccia. L’estrema praticità dell’approccio del nostro John Harrison era stata dimostrata in modo tanto esauriente che tutta la concorrenza di astronomi e scienziati era svanita come per incanto. Una volta installatosi stabilmente a bordo, il cronometro finì ben presto nell’inventario, come ogni altra cosa essenziale compresa la bussola. La sua storia controversa insieme con il nome del suo inventore venne molto presto dimenticata dagli uomini di mare, che ne facevano uso ogni giorno.

Oggi, il calcolo della Longitudine è finalmente venuto agli onori della storia e reso finalmente giustizia a quel fuoriclasse che fu John Harrison!

Carlo Gatti


Dal Corriere Mercantile del 21 Maggio 2011 apprendiamo che al Comandante Ernani Andreatta é stato assegnato il Premio Nazionale "Nonno dell'Anno". Il famosissimo riconoscimento arriva dall'Associazione "O Leudo" di Sestri Levante e la motivazione sulla targa "Un salvataggio per i posteri" si riferisce alla grande opera di salvataggio, restauro e catalogazione di migliaia di reperti marinari del Tigullio che ora sono conservati nel Museo Marinaro Tommasino-Andreatta che ha trovato finalmente ospitalità e grandi spazi presso la Scuola Telecomunicazioni delle Forze Armate, Caserma Leone di Chiavari.

Si consiglia a tutti la visione del filmato YOUTUBE creato, studiato e composto dal Comandante Ernani Andreatta a scopo divulgativo.

https://youtu.be/yxCfiaugxhw

Si tratta di un sistema molto semplice che viene spiegato al Museo Marinaro per capire che cosa sono le rette d’altezza che, quando non si vedeva più la costa, era l’unico sistema affidabile per ottenere il punto nave, prima della diffusione del sistema GPS.

Vi segnalo il LINK di un ottimo articolo del nostro sito, MARE NOSTRUM RAPALLO, autore Comandante Nunzio CATENA titolo:

ANNI '60 - RICORDI DI BORDO E DINTORNI...

che si attaglia perfettamente all’argomento in oggetto. Nunzio ci parlerà di questo trasporto, del quale segnaliamo anche un video e altri simpatici aneddoti. Riteniamo pertanto che molti anziani “lupi di mare”, leggendo questi ricordi, rivivranno una parte della loro gioventù, ma siamo inoltre convinti che anche le nuove generazioni di studenti nautici e giovani ufficiali in servizio troveranno in queste “testimonianze” notevoli spunti di riflessione su come si navigava al tempo dei loro nonni, senza strumenti elettronici, con il radar che andava in avaria nel momento in cui serviva, con il radiogoniometro inattendibile... molto spesso affidandosi soltanto al sestante e al buon senso marinaresco.

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=312;ricordi&catid=54;saggi&Itemid=160

Riporto anche la “succosa” testimonianza dell’Amico Direttore di Macchina dott. Vittorio CIVITELLA, compagno di nuoto e di bordo. GRAZIE Vittorio!

Carlo

Mio impagabile Comandante,

ti ringrazio molto della istruttiva lezioncina sulle alchimie del punto nave, delle rette d’altezza e quant’altro: un dvd accattivante, esaustivo e diligente come pochi. Peccato che, in buona misura, i potenziali interlocutori da te raggiunti valendoti maliziosamente d’una mia mailing-list a cui era indirizzato un mio personale invito d’altra natura, avendo interessi presumibilmente diversi da certe esclusive specificità marinaresche, non avranno modo di apprezzare come si conviene lo spessore della tua profferta. Cosa che, invece, non ho mancato di fare io che della materia sono sempre stato un attento modesto estimatore. Mi sovviene, non senza tradire un certo spleen, d’un tempo in cui, durante le lunghe navigazioni oceaniche (ho fatto quasi 10 anni di petroliera prima di entrare in Adriatica), giovane Terzo Macchinista, chiudevo la seconda guardia della notte (come ti sarà noto in marina libera il Terzo copriva la seconda guardia e il Secondo copriva la terza) e dopo un breve spuntino andava in plancia e mi intrattenevo col collega di Coperta il quale, dietro mia insistente preghiera, mi metteva al corrente dei rudimenti dell’arte della navigazione. Amavo allora capire tutto ciò che era possibile capire anche se i miei studi erano stati di ben altra natura: rette d’altezza, l’orizzonte ponderale, la disposizione delle stelle, le effemeridi nautiche... Accarezzavo con timore referenziale il sestante Platt di cui egli era munito e che era per me uno strumento esoterico. Al momento fatidico del “punto nave” chiedevo curioso: “Cosa mi prendi stasera: Capella, Betelgeuse, Aldebaran...?” Il mio preferito era Arcturus da cui traevo benefici auspici. Di buon grado sostavo davanti al cronografo in sala carteggio o davanti alla chiesuola della Magnetica attendendo con trepidazione il suo “Lesta?” a cui io prontamente rispondevo “Lesta!” in attesa dello stentoreo “Stop!”. Dopodichè seguivano tutti i calcoli che io mi bevevo come un assetato. Il manuale delle Effemeridi era per me come un libro sacro al punto che ogniqualvolta veniva rinnovato (ogni anno, mi pare di ricordare) chiedevo la copia scaduta e me la mettevo in valigia come un oracolo, e qualche collega sorrideva con commiserazione: So much water has passed in the Giordan! dicono gli Ebrei. Ognuno forgia e segue il suo destino: il mio è stato molto diverso dal tuo ma gli studi universitari gli hanno dato almeno un senso. Compiuto o incompiuto che sia ormai è troppo tardi per dolersene o per compiacersene.

Se avrò tempo farò un salto al Museo: sarà un’occasione per salutarci da vecchi marinai. O da marinai vecchi...

Un abbraccio,

Vittorio

ALBUM FOTOGRAFICO DI

ERNANI ANDREATTA

Sulle rette d’altezza e varie…


Ottanti

OTTANTE molto raro

 

Cielo Stellato

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Le sei foto a seguire sono la rappresentazione didattica del concetto delle RETTE DI ALTEZZA SU CUI SI BASANO I CALCOLI STELLARI PER OTTENERE IL PUNTO NAVE (FIX). Opera di Giancarlo Boaretto

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Cronometro di bordo Hamilton Anni ‘60

Sestante di bordo

Ottica del Sestante

Lesta ... Stop!

I calcoli stellari di Nunzio Catena in navigazione da Marsiglia a Rosario, il 10 ottobre 1966. In alto: Retta d'altezza di sole alle 10.00 che a mezzogiorno viene "trascinata" ad incrociarsi con la retta di MERIDIANA fornendo il punto nave che, tuttavia,  sarà più preciso al crepuscolo serotino, quando saranno osservati più astri ed il Punto Nave risulterà da un incrocio perfetto di Rette d'altezza (come da disegno).

NAVIGAZIONE SATELLITARE

GPS

The Global Positioning System

 

Comandante Ernani Andreatta

(Autore e Regista del DVD: Il Punto Nave dal Sestante al GPS)

Hanno collaborato:

Comandante:................ Carlo Gatti

Comandante:................ Nunzio Catena

Comandante:................ Giancarlo Boaretto

Direttore di Macchina:.... Vittorio Civitella

Rapallo, 24 Ottobre 2017

 

 


CARATTERISTICHE COSTRUTTIVE DI UN RIMORCHIATORE ROMPIGHIACCIO

CARATTERISTICHE  COSTRUTTIVE  DI  UN

RIMORCHIATORE  ROMPIGHIACCIO

Una rompighiaccio o nave rompighiaccio è una nave appositamente studiata per navigare in mari, laghi o fiumi  la cui superficie sia coperta di ghiaccio, come nel caso della banchisa.

Perché una nave sia in grado di fare questo, deve avere tre caratteristiche:
- uno  scafo in grado di resistere al ghiaccio;
- una  forma dello scafo in grado di aprire lo strato di ghiaccio;
- una potenza di propulsione sufficiente per spingere la nave vincendo la resistenza del ghiaccio all'avanzamento.
In realtà un rompighiaccio non frantuma le lastre di ghiaccio direttamente con la prua, bensì più vantaggiosamente sfrutta la sua inerzia e la spinta propulsiva per sollevare la prua  al di sopra del ghiaccio con il peso della nave che provoca la rottura del ghiaccio sottostante il quale aprendosi  lascia tornare la prua in mare. I frammenti di ghiaccio vengono spinti lateralmente oppure fatti passare al di sotto dello scafo. In generale una nave rompighiaccio avanza più velocemente su una superficie interamente ghiacciata rispetto ad un mare coperto da frammenti di ghiaccio. La parte più esposta a danni in una nave di questo tipo rimane il sistema di propulsione.

I moderni  rompighiaccio hanno eliche protette sia  a prua che a poppa, ed anche propulsori  laterali per manovrare meglio. Dell'acqua con funzione di zavorra è pompata tra cisterne  poste ai due lati della nave (casse flume) per stabilizzare e ridurre il rollio durante la navigazione in mare libero dai ghiacci o per aumentare le oscillazioni dello scafo quando in mare ghiacciato.

Alcuni moderni rompighiaccio hanno due o tre  eliche azimutali  a  passo  fisso (con funzione di timone)  a poppa e una o due a prua. In molti rompighiaccio, comunque, l’elica prodiera che sporge in fuori è stata sostituita con altre dette pump jet (incassate  nello  scafo) o da un sistema a bolle d’aria. Ugelli situati lungo lo scafo sotto la linea di galleggiamento immettono grandi quantità di aria compressa nell’acqua sottostante il ghiaccio, producendo un forte gorgogliamento dell’acqua, che riduce l’attrito.

Laser per rompere i ghiacci: e’ la nuova frontiera tecnologica a cui sta lavorando TsNII Kurs, una societa’ russa che progetta equipaggiamenti  marittimi che spaziano dalle armi per la guerra elettronica a kit corazzati  anfibi, dai radar agli strumenti di navigazione satellitare.

”L’idea che sta dietro al progetto e’ di avere un potente laser che taglia il ghiaccio davanti alla nave, consentendo di romperlo facilmente”.

Carlo GATTI

ALBUM FOTOGRAFICO

rompighiaccio MANGYSTAU


ALBUM FOTOGRAFICO ROMPIGHIACCIO

NEL MONDO

Giuseppe SORIO

Rapallo, 21 Ottobre 2017



LA NUOVA DIGA DEL PORTO DI GENOVA...E SE FOSSE L'UOVO DI COLOMBO?

La nuova diga del porto di Genova…

e se la soluzione fosse l’uovo di Colombo?

Da diverso tempo ormai, l’intervento radicale sulla diga del porto di Genova è tra i primi punti nella lista delle priorità.
A tal proposito mi è capitato di vedere diversi progetti molto differenti tra loro. Mi rendo conto che trovare la soluzione “perfetta” è tutt’altro che semplice, se non addirittura impossibile. E’ infatti necessario tenere conto di numerosi aspetti che debordano dalle competenze di singole persone/organizzazioni.
L’ammontare degli investimenti dipende dalle soluzioni proposte e si tratta, in ogni caso, di cifre alte e tempi lunghi per l’eventuale realizzazione.


La diga del porto di Genova si estende dall’imboccatura di Levante fino all’Italsider e protegge la zona della Fiera, l’Avamporto e il canale di Sampierdarena.
L’esigenza di un intervento su questa grande opera nasce principalmente dalla necessità di un adeguamento infrastrutturale alle crescenti dimensioni delle navi. A fronte di piroscafi che misuravano in media 150 metri all’epoca della sua realizzazione, siamo arrivati a valutare la possibilità di operare portacontainer di 400 metri. Non mi dilungherò sui motivi che rendono improrogabili tali lavori – materia ampiamente discussa in ogni contesto – quanto sulle considerazioni tecniche che devono aiutare nelle valutazioni di fattibilità.
Si tratta, ovviamente, di argomenti relativi al settore in cui opero, e per questo starò attento a non insinuarmi in discorsi di pertinenza ingegneristica o amministrativa.


Se non consideriamo l’inadeguatezza del porto alle dimensioni attuali delle navi, dobbiamo ammettere che il progetto originario potrebbe essere ancora valido:

  • il vento dominante è la tramontana, tenuta sotto controllo prevedendo banchine disposte per Nord/Sud;
  • c’erano (ora sono meno) ben cinque bacini di evoluzione: Avamporto, Gadda, Sanità, Porto Vecchio e Bettolo;
  • la corrente generata dallo Scirocco era mitigata dal “dente” di cemento presente al taglio della Canzio (purtroppo non c’è più);
  • la disposizione delle banchine nel canale di Sampierdarena “invita” all’uscita di levante, agevolando le manovre;
  • l’imboccatura di ponente ha senso per servire il traffico diretto all’Italsider (ci tornerò in seguito).

 

A mio parere, se un porto nasce assecondando in maniera funzionale le regole imposte dalla natura, diventa un grande azzardo stravolgere il piano non tenendone conto.
Esaminiamo, ad esempio, l’opzione di concentrare gli investimenti per “potenziare” l’imboccatura di ponente:

  • il primo punto dolente va collegato al fatto che le navi in entrata si troverebbero ad imboccare con una rotta parallela al frangiflutti esistente, e il mare, proveniente dai quadranti meridionali, impattando contro la diga, genererebbe una pericolosa onda di ritorno. Per contrastare questo fenomeno occorrerebbe aumentare proporzionalmente la velocità della nave in ingresso, con la conseguente difficoltà ad arrestarla in tempo utile per l’evoluzione. Consideriamo che, per proteggere gli ormeggi dalla risacca generata dallo Scirocco – molto frequente nel periodo invernale – l’imboccatura non potrebbe essere ampia a sufficienza e, probabilmente, dovrebbe prevedere particolari “denti” o curve che, pena la perdita del governo,  non permetterebbero l’arresto della macchina neanche una volta preso il ridosso.
  • Per creare un bacino di evoluzione compatibile con le restrizioni previste dal cono aereo dell’aeroporto e per allontanarsi dall’influenza del fiume Polcevera, sarebbe necessario demolire almeno 600 metri della attuale diga. Per esperienza mi viene spontaneo pensare alla conseguente esposizione alla risacca di tutto il ponte Canepa/Ronco, visto che attualmente la stessa si scarica pesantemente sugli ormeggi dell’Italsider.
  • Abbiamo già detto che le banchine del canale di Sampierdarena sono sguardate verso l’imboccatura di levante. Se l’imboccatura di ponente diventasse la porta principale, le navi in partenza si troverebbero svantaggiate rispetto ad ora e questo comporterebbe un maggior uso di rimorchiatori, con conseguente aumento delle spese.
  • Sempre per quanto riguarda l’uscita, le navi monoelica (per la maggior parte destrorse) si troverebbero a dover compiere un’accostata di 180 gradi al contrario della via dell’elica, in una zona dove la Tramontana picchia forte. Anche qui il rischio si alzerebbe e l’inevitabile uso di un numero maggiore di rimorchiatori contribuirebbe a rendere meno concorrenziale lo scalo nel nostro porto.

In definitiva, spostare la porta d’ingresso e di uscita delle navi da levante a ponente, per permettere alle navi da 400 metri di bloccare il canale di Sampierdarena ormeggiando alla Bettolo, lo vedo come un pericoloso “salto nel buio”: sai cosa lasci, ma soprattutto sai che quello che troverai farà alzare i costi e abbasserà il livello della sicurezza.

Nel corso degli anni diverse modifiche alle infrastrutture, più o meno giustificate dalle esigenze contingenti, hanno contribuito a penalizzare il porto sotto l’aspetto tecnico nautico. In modo particolare mi riferisco ai seguenti punti:

  • l’allungamento e l’allargamento delle banchine presenti nel Porto Vecchio, ha eliminato la possibilità di evoluire in quell’area con le attuali navi passeggeri;
  • la costruzione della darsenetta per l’ormeggio delle bettoline ha ristretto lo spazio evolutivo dell’Avamporto;
  • il riempimento dello specchio acqueo compreso tra Canzio e Rubattino ha tolto un’altra importante alternativa nella scelta delle evoluzioni;
  • l’allargamento del taglio della Canzio ha peggiorato l’effetto della corrente in canale.

Ma la spinta più importante alla ricerca di un adeguamento strutturale, nasce dalla necessità di integrare e rendere completamente fruibile la nuova banchina Bettolo. Mi verrebbe da dire, con il senno del poi, che  – difficoltà oggettive e burocratiche a parte – aver previsto l’accosto delle grandi portacontainers nel senso Nord/Sud, tombando da testata Sanità alla nuova darsena per l’ormeggio delle bunkerine, avrebbe bypassato numerosi problemi… ma, tornando con i piedi per terra, troviamo l’evidenza di un eccessivo restringimento del canale, nell’eventualità dell’ormeggio di navi di lunghezza superiore ai 300 metri e larghezza superiore ai 40 metri (valori approssimativi ricavati da numerose prove sui simulatori di manovra). Avremmo quindi una sorta di tappo che costringerebbe buona parte del traffico a utilizzare l’imboccatura di Ponente. Soluzione che, come ho già scritto sopra, sconsiglierei.

Vediamo cos’altro potremmo prendere in considerazione.

I problemi da risolvere sono due:

  • ormeggiare grandi navi alla Bettolo;
  • allargare il bacino di evoluzione dell’Avamporto.

Beh, penso che a questo punto la soluzione meno impattante si suggerisca da sola:

Allargare la diga a partire dal secondo rosso fino all’altezza dell’idroscalo.

  • Questo intervento, nella sostanza, non cambierebbe i principi seguiti nella realizzazione del progetto originario.
  • Permetterebbe l’evoluzione in Avamporto di navi di dimensioni maggiori rispetto a quelle che attualmente scalano il porto di Genova.
  • Offrirebbe lo spazio necessario al transito nel canale di Sampierdarena con una Bettolo finalmente “operativa”.

La domanda giusta da porsi non deve scaturire dalla disponibilità a un compromesso.

Non ci sono i soldi? Bene, se è questo il lavoro da fare, aspetteremo di avere da parte la somma necessaria.

Avrei da suggerire soluzioni alternative (probabilmente più invasive e dispendiose), ma sono convinto che anche altre persone, con un punto di vista differente dal mio, potrebbero sorprenderci positivamente.

JOHN GATTI

Rapallo, venerdì 20 Ottobre 2017

 

 

 

 

 

 

 

 

 


TIGULLIO: LUNGA VITA AL RIMORCHIATORE MESSICO

LUNGA VITA AL

RIMORCHIATORE MESSICO!

UN MASTINO DEI MARI…

COLUMBIA-CANADA-FRANCIA-MESSICO furono costruiti dai Cantieri Navali Campanella di Savona nel 1956. Tra pochi mesi il MESSICO compirà 62 anni mantenendo il suo primo nome!! Un Record assoluto per una tipologia d’imbarcazioni da lavoro che non si é mai risparmiata… Dei suoi gemelli non ho notizie fresche…Credo siano stati tutti demoliti.

I francesi accompagnano la parola ABEILLE (Ape operaia) al nome del rimorchiatore. Nessuna imbarcazione può vantare un così azzeccato nomignolo che simboleggia l’affidabilità, l’operosità, lo spirito di sacrificio e l’infinita modestia che gli si richiede per rimediare a tutti gli inconvenienti che capitano a causa del cattivo tempo, degli incidenti, e anche degli errori ed orrori che ciclicamente succedono negli ambiti portuali.

Per quasi 20 anni, la classe COLUMBIA fu considerata per i  1300 Cv di potenza installata, la colonna portante della Flotta RR portuale di Genova. I quattro RR furono costruiti in previsione dell’entrata in servizio delle Superpetroliere da 300 metri di lunghezza e delle nascenti Portacontenitori da 200 metri.

Si fecero onore per la manovrabilità, potenza di macchina e peso dello scafo (pescava oltre 5 metri). Per noi fu un vero privilegio  averle comandate e aver conosciuto dei "grandi marinai"!!!


Il MESSICO DAVANTI A PUNTA PEDALE (S.M.L.)

Quando ebbe il suo primo refitting per il cambiamento di ruolo: da rimorchiatore a Supply Vessel, il MESSICO subì la trasformazione della sezione poppiera: la coperta diventò una larga piattaforma adatta al trasporto di materiale di ogni tipo, ma in particolare delle PANNE antinquinamento. Gli furono inoltre installate due potenti spingarde antincendio. Oggi appartiene alla Soc. DRAFFINSUB ed opera "ancora" con il suo personale specializzato in lavori di manutenzione e sostituzione di tubi presso il depuratore di Punta Pedale-Santa Margherita Ligure.


IL MESSICO quando ritornava da un faticoso viaggio D’ALTURA… notare la mancanza del paglietto di prora, cioé la bardatura antiurto.


IL MESSICO QUANDO ERA IN SERVIZIO NEL PORTO PETROLI DI MULTEDO. Notare la vicinanza degli scafi.

IL MESSICO QUANDO  ASSISTEVA IL SOMMERGIBILE TRITONE IN SERVIZIO TURISTICO NEL TIGULLIO.

La "bugna" che si vede sul tagliamare in tutte le foto, non solo contraddistingue il MESSICO dai suoi gemelli… ma, come un pugile suonato… esibisce il suo “naso rotto”  quale simbolo di tante battaglie. Per la verità, quella bugna é il ricordo di un bacio intenso, ma troppo affrettato con una banchina...

Barriere antinquinamento

IL MESSICO EBBE ANCHE UN LUNGO TRASCORSO DI LAVORO ANTINCENDIO ED ANTINQUINAMENTO NEL PORTO DI GENOVA.

Il MESSICO si distinse, come gli altri rimorchiatori della sua classe, in tante operazioni di salvataggio, incendio, inquinamento ed emergenze varie, ne ricordiamo soltanto  alcune:

Incendio ANGELINA LAURO il 28 agosto 1965

Naufragio LONDON VALOUR il 9 aprile 1970

Incendio ACHILLE LAURO il 19 maggio 1972

Incendio KARADENIZ il 14 luglio 1973

Esplosione HAKUYOH MARU il 12.luglio 1981

LUNGA VITA A QUESTO INDOMITO GUERRIERO ed un caro abbraccio ai Colleghi ed Amici che sono diventati uomini su quelle lamiere!!!

ALCUNE CARTOLINE DALLA RIVIERA DI LEVANTE


L’incantevole PARAGGI

Portofino sullo sfondo a destra


Il Pino di Aleppo, sul piccolo faraglione la "CAREGA", cresce sempre…

 

M/n ARETUSA


26 Ottobre 2017 - Santa Margherita L.

E' arrivata questa mattina alle 08 e riparte questa sera alle 20

Vedendola completamente surclassata dalle altre navi, che frequentano il Tigullio, verrebbe spontaneo sottovalutare la nave ARETHUSA con i suoi 60 metri, e considerarla come uno yacht dalla forma strana, ma in realtà è la prima classificata nel settore delle piccole navi da crociera.

Costruita nel 2008, naviga attualmente sotto bandiera di Malta. Ha una lunghezza totale di 60 mt. e larghezza massima di 11 mt. La stazza lorda è di 1206 tonnellate. Porta 52 passeggeri.

Plaudiamo al risveglio di certi operatori … ed ovviamente a coloro che ne approfittano!

Carlo GATTI

Rapallo, 26 Ottobre 2017

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