NAVE ROMANA 180 d.C. RECUPERATA A Leidsche Rijn De Meern - UTRECHT (Paesi Bassi)
NAVE ROMANA (180 d.C.) RECUPERATA
Leidsche Rijn De Meern - UTRECHT (Paesi Bassi)
Ipotetica ricostruzione della nave DE MEERN 1
In navigazione sul fiume
COME FU SCOPERTA CASUALMENTE UNA NAVE ROMANA NEI PAESI BASSI
Guardando il reperto da 5 metri d’altezza, i visitatori sono affascinati dal vecchio “legno” sottostante
La prora della nave
È stata semplicemente una scoperta casuale. Mentre scavavano una futura cava per Veldhuizen, una grande nuova area edilizia (parte dello sviluppo di Leidse Rijn), un escavatore ha colpito qualcosa di solido nell'argilla. In realtà, c'era in corso una vera e propria ricerca archeologica nelle vicinanze, alla ricerca della Strada Romana, che si sapeva essere passata sulla sponda meridionale del Basso Reno. Parte di quella strada, (con il ghiaia dell'agger) ancora nella posizione conosciuta, era stata appena scoperta quando si verificò casualmente la scoperta del relitto di una imbarcazione fluviale romana.
LA NAVE
Lo sviluppo di case destinato a circa 30.000 persone a ovest di Utrecht era ovviamente una grande opportunità per gli archeologi, che speravano in diverse scoperte. Il forte romano di De Meern era noto da tempo, ma la scoperta di una grande arteria romana teneva tutti con il fiato sospeso. E molte cose furono scoperte: ulteriori tracce di quella strada, un ponte, un molo e infine una torre di avvistamento, che era una novità.
Poi, nel 1997, è avvenuta la scoperta casuale, che ha portato alla scoperta della nave. Circolano due storie su quella scoperta. La prima racconta di un escavatore che colpisce un legno particolare durante la ricerca della strada romana. Nella seconda si dice che l'archeologo Hans Joosten sente per caso un compagno di viaggio sul treno che racconta di un misterioso legno trovato in una fossa creata per le fondamenta. In entrambi i casi, gli archeologi furono allertati e si precipitarono sul posto.
Pensando alla presenza di altri moli, rimasero molto sorpresi quando scoprirono di trovarsi dinanzi ad un relitto in condizioni perfette. Quando le 6 navi di Zwammerdam furono trovate nel XX secolo, si scoprì che erano state deliberatamente affondate per rafforzare la riva. Questa, invece, era ancora intatta, tanto è vero che è stato persino ritrovato un baule degli attrezzi con il suo contenuto! Doveva essere affondata per un incidente di navigazione piuttosto che per un progetto di rifacimento di un argine simile quello appena descritto. Tuttavia, fu presa la decisione di coprirla nuovamente. Perché? Semplicemente per raccogliere fondi in modo che l’escavazione subacquea potesse essere effettuata correttamente. Tuttavia, nel 2000 si scoprì che il letto antico del fiume portava ancora acqua con troppo ossigeno. Di conseguenza, la nave avrebbe iniziato a marcire…, il che significava che l'escavazione avrebbe dovuto iniziare molto prima. A marzo di quest'anno, lo scavo è iniziato e una grande fossa è stata scavata per rivelare la nave. Entro il 12 giugno verrà sollevata e trasportata a Lelystad, dove un bagno di etilenglicole la conserverà per le generazioni future.
Questa è circa la 15ª nave romana trovata nei Paesi Bassi e si tratta finora della “migliore”.
LA DATAZIONE
La nave DE MEERN 1 è stata datata approssimativamente intorno al 180 d.C.
Questa datazione si è rivelata corretta, poiché è stata confermata poco prima che la nave venisse sollevata dal fango, mentre era in corso l'ultima fase di conservazione. Si sapeva già che la nave era affondata proprio accanto alla strada romana, che era nota per essere stata costruita nel 125 d.C. e che fu terminata nel 225 d.C., quando questa regione del Reno inferiore non era più navigabile. Una moneta di bronzo si è rivelata troppo logora per riconoscere l'Imperatore, e una fibula di bronzo e la forma della nave non hanno fornito possibili date. Altre indicazioni provenivano dal legno con cui la nave era stata costruita. Si è scoperto che per costruire la nave erano stati utilizzati 3 alberi di quercia locali di almeno 40 metri ciascuno e che furono abbattuti tra il 142 e il 154 d.C. Gli indizi provenivano dalla cucina.
Una tegola usata come piastra calda, con l'iscrizione VEXEXGERINF (Vexillatio Exercitus Germanici Inferioris), riferendosi a un'unità militare locale che poteva essere datata solo al 140-180 d.C., mentre una delle tre tazze trovate poteva essere stata fabbricata solo dopo il 175 d.C. Quindi, la nave deve essere affondata intorno al 180 d.C.! Quando i resti sono stati esaminati più attentamente, il momento della sua fine è stato esteso a un periodo tra il 180 e il 200 d.C., in base alle scarpe e ai sandali che l'equipaggio indossava al momento del naufragio.
NEI DINTORNI ……
DE MEERN un villaggio urbanizzato nella provincia olandese di Utrecht. Fa parte del comune di Utrecht e si trova a 6 km a ovest del centro della città. Prima del 2001 i villaggi De Meern, Vleuten e Haarzuilens formavano un comune chiamato Vleuten-De Meern. Il 1° gennaio 2001 è stata incorporata nel comune di Utrecht.
CASTELLUM
Ricostruzione dell’antica Torre Romana d’avvistamento
LA TORRE DI AVVISTAMENTO ROMANA
Poco tempo dopo la scoperta della nave, sono state trovate le fondamenta di una torre di avvistamento nelle vicinanze di Vleuterweide. Anche questa è stata una sorta di sorpresa, perché non ci si aspettava la presenza di torri di avvistamento sul Basso Reno. Oggi sembra agli studiosi che la linea del fiume fosse molto più pesantemente sorvegliata di quanto si fosse finora supposto, con torri di avvistamento a intervalli regolari a vista l'una dell'altra (circa 1,5 km). Segnali di fuoco o fumo potevano avvisare i guardiani della torre successiva, in modo che un allarme potesse essere trasmesso lungo la linea alla fortezza più vicina in un tempo relativamente breve.
Le torri sorvegliavano non solo il fronte fluviale, che potrebbe non essere stato il vero confine (i confini romani non erano mai linee statiche), ma anche la strada, che era importante quanto il fiume come mezzo di trasporto e comunicazione. Questa torre è stata la prima trovata nell'ovest dei Paesi Bass
De Meern si trova nella regione di un ramo scomparso del fiume Reno. Questo ramo del fiume fungeva da confine settentrionale dell'Impero Romano. Sulla sponda del fiume l'esercito romano costruì un accampamento murato, un cosiddetto CASTELLUM. Ciò accadde nel primo secolo dopo Cristo. Anche in altri luoghi nei Paesi Bassi sono state costruite la castella. Il Castellum di De Meern è unico per via del Museo Hoge Woerd con numerosi reperti archeologici rinvenuti nel suolo di De Meern. Questo museo è ospitato in una versione ricostruita del castellum nello stesso luogo dell'ex vero castellum.
All'interno del museo è possibile ammirare La nave romana completa. Questa nave è stata scavata nel 1997 quando è stata preparata una nuova area residenziale a De Meern. È stato trovato sottoterra, sul fondo dell'ex fiume Reno. Dopo un lungo processo di conservazione per prevenire l'ossidazione, la nave è stata spostata nel nuovo Museum Hoge Woerd.
Adress and visitor information
Roman Castellum Hoge Woerd
Address: Hoge Woerdplein 1
Postal code and City: 3454 PB De Meern
Province/Region: Utrecht
Email: info@castellumhogewoerd.nl
Web: castellumhogewoerd.nl
Visit: An average visits takes approx. 1 hours.
Navigation: Groenedijk 1a De Meern.
At the time of writing, the castellum can be visited free of charge from Tuesday to Sunday. Consult the website for more information.
ALBUM FOTOGRAFICO
Vista dall’alto
La poppa
Utensili vari in mostra nel Museo
Due anelli (golfari) per ormeggio sul lato sinistro
Nell’attrezzatura navale, qualunque anello metallico fisso, solidamente fermato ai macchinarî, ai ponti, ecc. per agganciarvi i paranchi, le pastecche di rinvio dei cavi sotto sforzo, o per fissarvi le bozze dei cavi di ormeggio e delle catene delle ancore.
Tra I vari reperti ritrovati riportiamo alcune immagini: punta di diamante, una chiave, forbici, mulino a mano, scarpa militare, una moneta, un’ascia, uno stilo, spilla di sicurezza (fibbia), un remo, due bastoni di uso sconosciuto, uno scalpello…
La nave stessa era fatta di grandi tavole di quercia, che erano tenute insieme da unghie di ferro. La chiglia era piatta per ormeggiare sulle rive del fiume.
Tavole di quercia
Punta di diamante (primo piano) e una chiave in secondo piano a ds.
Forbici
Mulino a Mano
In uso ancora oggi, ll Mezzo Marinaio è una lunga asta di legno, di alluminio o di una lega leggera che alla sua estremità ha un uncino. Il suo scopo principale è quello di recuperare o passare le cime di ormeggio e per avvicinare o allontanare l'unità navale all'ormeggio/approdo.
UN PO’ DI GEOGRAFIA
UTRECHT
I Romani sono qui …
Il centro urbano di Utrecht si estende intorno al nucleo centrale e più antico della città. Nel cuore del centro svetta la Torre del Duomo di Utrecht: con i suoi 112,32 m di altezza è la torre campanaria più alta dell'intero paese. Da esso, nelle giornate di bel tempo, è possibile vedere Amsterdam (che si trova a 35 km a nord). La maggior parte degli edifici del centro risale all'epoca d'oro dei Paesi Bassi, ovvero al XVI e XVII secolo, quando questi erano una grande potenza coloniale. Di conseguenza, il centro della città appare a tutt'oggi elegante con abitazioni ed edifici raffinati e riccamente decorati. La città è attraversata da diversi canali: tra i più pittoreschi si distinguono l’Oudegracht (Canale Vecchio) ed il Nieuwegracht (Canale Nuovo). Nelle giornate di sole, i bar, i ristoranti ed i negozi che si affacciano sull'Oudegracht sono affollati.
CATTEDRALE DI SAN MARTINO DI TOURS
Cattedrale di San Martino
cattedrale cattolica dell'arcidiocesi di Utrticaecht fino al 1580, poi passata al culto protestante. Rappresenta uno dei migliori esempi dell'archittetura gotica dei Paesi Bassi, costruita in uno stile di diretta derivazione francese. La sua torre, con i suoi 112,32 metri d'altezza, è il campanile più alto del paese e il simbolo stesso della città.
Origini
Il Clero Franco eresse una prima cappella sul luogo, già dedicata a san Martino di Tours, intorno al 630, con il patrocinio dei re merovingi. Questo edificio tuttavia venne distrutto poco tempo dopo da un attacco dei Frisoni. San Villibrordo, detto l'Apostolo della Frisia, eresse una nuova cappella sul luogo, che venne a sua volta distrutta da una delle numerose incursioni normanne nel IX secolo. Il secolo successivo il vescovo Balderico ricostruì nuovamente l'edificio, che divenne la chiesa principale del luogo, retto da un capitolo di canonici a cui fu concesso nel 999 dall'imperatore Ottone III del Sacro Romano Impero il diritto di commerciare birra gruit.
Il duomo di Adalboldo
Successivamente la chiesa venne più volte distrutta da incendi e in seguito sempre ricostruita. Un bizzarro edificio in stile romanico venne eretto dal vescovo Adalboldo II e consacrato nel 1023. Si presentava come un agglomerato di cinque chiese disposte a forma di croce, chiamato comunemente Kerkenkruis o duomo di Adalboldo. Nel 1039 vi vennero seppellite le viscere di Corrado II il Salico, morto in città.
Anche questa chiesa subì i danni di un grande incendio, scoppiato nel 1253, che devastò gran parte di Utrecht.
Il duomo gotico XIV e XV secolo
Fu allora, nel 1254, che il vescovo Hendrik van Vianden, già decano della cattedrale di Colonia, decise la costruzione di una nuova e maggiore chiesa, l'attuale duomo gotico. Pose la prima pietra nello stesso anno, ma il cantiere non si avviò subito, a causa della ricerca dei fondi necessari. Nel 1265 papa Clemente IV concesse un'indulgenza ai fini della costruzione, ma i lavori iniziarono solo nel 1288 dopo i piani finanziari operati dal vescovo Jan van Nassau, e si protrassero fino al XVI secolo.
Il progetto prevedeva una planimetria a croce latina, con transetto e coro a deambulatorio con cappelle radiali poco profonde. L'ispirazione sembra trovare influssi dalle cattedrali di Tournai e di Soissons, ma mostra delle affinità anche con il duomo di Colonia, tanto da far pensare un operato dell'architetto Gerhard di Colonia.
Il cantiere iniziò con l'elevazione dei pilastri a fascio del coro, terminati intorno al 1295, e si proseguì con quelli dalla navata sud del deambulatorio che tuttavia presenta già una variazione del piano originale, atto ad ampliare gli spazi, e provato dall'utilizzo di pilastri differenti, senza capitelli. Uno dei più antichi esempi di applicazione di pilastri di questo tipo. Questa porzione della cattedrale fu completata intorno al 1320 e si continuò con l'elevazione del deambulatio nord e la relativa sacrestia, eseguiti in uno stile più sobrio entro il 1350. Contemporaneamente, dal 1321, si intraprese l'erezione della torre-portico sulla facciata, a base quadrata e composta da tre piani rastremati.
Dal punto di vista economico Utrecht si distingue da molte altre città olandesi per la forte tendenza al commercio: i suoi negozi sono molto rinomati in tutti i Paesi Bassi. La stazione ferroviaria è il centro della rete ferroviaria olandese e la sede degli uffici centrali del Nederlandse (Ferrovie olandesi) ed è strutturalmente unita al centro commerciale più grande del paese, Hoog Catharijne.
L’Universita’ di Utrecht (Utrecht Universiteit), con i suoi 30.000 studenti, è il più grande ateneo e centro di ricerca di tutti i Paesi Bassi e, con i suoi 7.000 impiegati, è anche la realtà economica più grande, in termini di numero di dipendenti, della città. La presenza dell'Università connota fortemente la vita di Utrecht, dove vivono decine di migliaia di persone con meno di 25 anni di età e diverse migliaia di studenti e ricercatori stranieri. Inoltre, nel centro cittadino ci sono cinema, teatri, centinaia di bar e decine di locali notturni. Utrecht è anche molto famosa per i suoi caffè e ristoranti, realizzati con gli stili e i gusti più variegati.
Dal punto di vista delle attività culturali, la città si presenta come un centro dinamico e molto attivo, specialmente per la presenza di vari musei, teatri, scuole d'arte.
Conclusione:
Il mare, una volta lanciato il suo incantesimo, ti terrà per sempre nella sua aura di meraviglia.
Jacques-Yves Cousteau
Carlo Gatti
Rapallo, 13 Settembre 2023
MUSEO NAVALE ROMANO - ALBENGA , LA CITTA’ DELLE 100 TORRI
MUSEO NAVALE ROMANO
ALBENGA
LA CITTA’ DELLE 100 TORRI
MUSEO DELLA NAVE ROMANA DI ALBENGA
“ ... nessuno ricorda che l’Italia ha bisogno di risorse esterne e che la vita del popolo romano è esposta ogni giorno alle incertezze del mare e delle tempeste!”
(Tacito-Ann-III,2.52)
Con queste parole risentite Tiberio fustigava in senato i lussi e gli sperperi di Roma, ricordando che invano si sarebbero cercate in patria le risorse necessarie alla sopravvivenza dei cittadini se gli alimenti di base non fossero arrivati d’oltremare. Difficilmente si potrebbe esporre meglio la dipendenza alimentare di Roma dai suoi rifornimenti via mare già nell’alto impero.
PREMESSA
Non essendo il sottoscritto un archeologo e neppure un esperto della materia, ma soltanto un appassionato di archeologia marina, in questo articolo divulgativo ho ritenuto più saggio lasciare quasi tutto lo spazio disponibile agli specialisti della materia perché ritengo che soltanto loro possano attirare nuovi proseliti verso questa affascinante disciplina. Questo almeno è quanto mi è successo molti anni fa...
Navigare il Mediterraneo però non era una passeggiata. Nonostante il Mediterraneo appaia come un bacino chiuso, il Sahara a sud e l’Oceano Atlantico a ovest provocano nei periodi di cambio stagionale variazioni meteomarine abbastanza veloci e non prevedibili senza moderni equipaggiamenti; i navigatori antichi si potevano affidare soltanto all’esperienza per prevedere il cambiamento delle condizioni atmosferiche. Tutta la navigazione si basava su un sapere tramandato di generazione in generazione; per esempio, tra le nozioni apprese dagli antichi naviganti vi era la conoscenza di venti e brezze stagionali che, insieme alle correnti, permettevano di utilizzare diverse rotte a seconda del periodo dell’anno. Il periodo meno favorevole alla navigazione era l’inverno, detto in antico “periodo del mare clausum”, quando le condizioni metereologiche erano più complicate. La grande esperienza dell’equipaggio era necessaria per navigare in buone condizioni di vento e senza copertura nuvolosa notturna che impediva di vedere le stelle utilizzate per orientarsi di notte.
Il museo, oltre al carico di anfore vinarie, provviste e attrezzature provenienti dai resti anfora di una nave romana affondata nel secolo I a.C. davanti alla costa, espone reperti archeologici di area ingauna e una collezione di vasi da farmacia dell’Ospedale di S. Maria della Misericordia.
Isola Gallinara
L'isola Gallinara o isola Gallinaria (A Gainâa in ligure, Insula Gallinaria o Gailiata in latino ) è un'isola situata nei pressi della costa ligure, nella Riviera di Ponente, di fronte al comune di Albenga al quale appartiene. L'isola dista 1,5 km dalla costa, dalla quale è separata da un canale profondo in media 12 m; essa costituisce la Riserva naturale regionale dell’Isola Riserva naturale regionale dell’isola di Gallinara.
La raccolta completa del museo conserva, oltre ai ritrovamenti della nave romana, anche materiali sottomarini rinvenuti dalle diverse esplorazioni subacquee, dal 1957 in poi, nei fondali circostanti l'isola Gallinara. Nella sala detta "degli affreschi", caratterizzata dalla presenza di portali in ardesia del XVI secolo e un camino, è stata allestita la raccolta dei vasi da farmacia provenienti dall'ospedale di Albenga; la collezione comprende all'incirca un centinaio di pezzi in ceramica bianca e blu, databili tra il XVI e XIX secolo, di fabbricazione savonese e albissolese.
NINO LAMBOGLIA
Nino Lamboglia è considerato il padre dell’archeologia stratigrafica e di quella subacquea, nel 1958 fondò il Centro sperimentale di archeologia marina, invitò studiosi da tutto il mondo, organizzò congressi e seminari e lavorò alla carta archeologica dei fondali, seguendo poi, tutti i ritrovamenti subacquei, dell'intera costa italiana.
La scoperta del relitto della nave romana di Albenga
Il primo scavo subacqueo in Italia
E' stata oggetto di tredici campagne di scavo subacqueo che hanno consentito di documentare gradualmente gli elementi del carico e le caratteristiche costruttive dello scafo. E' stato pure accertato che si tratta della più grande nave oneraria (nave da carico) romana conosciuta a tutt'oggi nel Mediterraneo, con un carico superiore alle 10.000 anfore, e quindi con una portata netta di 450/500 tonnellate. Le anfore contenevano vino proveniente dalla Campania destinato ai mercati della Francia meridionale e della Spagna. Insieme al vino veniva esportata la ceramica a vernice nera e altri tipi di vasellame.
Il relitto è adagiato a 40 metri di profondità e ad 1 miglio circa dalla costa
NAVE ROMANA DI ALBENGA
La nave da carico era di grandi dimensioni, 40 metri di lunghezza.
Era il 1925 quando un pescatore del luogo, Antonio Bignone, trovò tra le sue reti alcune anfore. La scoperta destò interesse da subito, ma fu necessario attendere sino al febbraio 1950 per un primo tentativo di recupero, in quanto il relitto è adagiato a 40 metri di profondità e ad 1 miglio circa dalla costa.
Lo scavo permise altresì di individuare l’albero maestro che aveva un diametro di circa 50 cm. seguito dei risultati dello scavo fu accertato che la nave Romana d’Albenga era lunga circa 40 m., larga almeno 10 m. e le anfore trasportate dovevano essere almeno 10.000. Teniamo conto che le anfore pesano (vuote) kg 21.5, che il loro contenuto era di 26 litri, ogni anfora pesava all’incirca 45 kg., quindi la nave aveva una portata di 450 tonnellate.
Anfora del tipo Lamboglia 2
Per il tipo di anfore rinvenute sul relitto (Dressel 1b e poche anfore di forma Lamboglia 2), ed il tipo e la forma delle ceramiche rinvenute si è potuto collocare il relitto nel primo decennio del secolo I a.C.
Tra i materiali del carico sono stati recuperati 8 elmi bronzei, che potrebbero indicare la presenza di una scorta armata a bordo.
E’ ormai diventata famosa la “ruota di manovra” in piombo (del quale non ho trovato la foto) scoperta dai palombari dell’Artiglio, ancora oggi di dubbia interpretazione, ed il corno in piombo che secondo Lamboglia avrebbe fatto parte della testa di un animale che doveva decorare la prua di questa magnifica nave.
https://www.albengacorsara.it/corsara/
“La dotazione di bordo comprendeva, oltre alle stoviglie, tutto l’occorrente per provvedere alle improvvise necessità che potevano verificarsi durante la traversata. Ad esempio vi era un crogiolo in quarzo, adatto a fondere il piombo in modo da poter provvedere alle urgenti saldature e riparazioni.
Per fabbricare funi a bordo era stato installato un meccanismo che prevedeva una ruota di piombo infissa, per mezzo di un foro centrale a sezione quadrata, su una struttura lignea che ne permetteva la rotazione. Disposti a croce rispetto al foro appena citato, ve ne erano altri quattro, all’interno dei quali passavano i singoli cavi che, grazie al movimento della ruota, si attorcigliavano vicendevolmente in modo da formare cime consistenti (le ipotesi di uso riguardanti la “ruota di manovra” sono molteplici, quella illustrata è la più accreditata da parte di chi scrive).
La pirateria era molto diffusa lungo i mari italiani e il Mar Ligure gode di un’efferata fama corsara all’interno delle fonti antiche. Al fine di una difesa in caso di attacchi, vennero caricati a bordo alcuni elmi, facenti parte dell’attrezzatura per una difesa estemporanea e improvvisata, certamente non attribuibili ad una vera scorta armata militare. Per scongiurare tali infausti eventi, era parte dell’arredamento un corno in piombo, con chiaro intento apotropaico, che doveva allontanare malocchi e malefici.
Purtroppo il corno non fu sufficiente, perché la nave, salpata dalla Campania, incontrò una violenta tempesta nei pressi di un centro abitato denominato Albingaunum. Nonostante il vicino riparo del porto e un agevole approdo sull’isola Gallinara, la nave, sospinta dal vento e dal mare, si inclinò a tribordo e si inabissò. Il carico scivolò verso il lato destro e il grande peso delle anfore, circa 45kg l’una da piene, sommato all’urto contro il fondale provocò la rottura dello scafo all’altezza del ginocchio (punto di raccordo fra il fondo della nave e la murata)”.
Le anfore
Sulle navi lo stivaggio delle anfore avveniva impilandole le une sulle altre con un sistema “a scacchiera”, in modo che quelle dello strato superiore si inserissero fra tre colli delle anfore sottostanti. I contenitori si adeguavano alla forma della carena e venivano fissati e protetti dagli urti con ramaglie di ginepro, di erica, giunchi, paglia ed altro.
Le anfore venivano fabbricate nelle regioni di produzione delle merci, con forme diverse a seconda della provenienza, della cronologia e del contenuto. In età romana circolavano in tutto il Mediterraneo, spingendosi fino alla Britannia e al Bosforo, testimoniando l’unificazione commerciale, oltre che politica, dell’impero.
Il primo a comprendere l’importanza di questi oggetti per la ricostruzione dei traffici commerciali fu Heinrich Dressel, che alla fine dell’Ottocento studiò la relazione tra le diverse forme di anfore e le iscrizioni conservate su di esse. Così Dressel gettava un ponte tra archeologia, epigrafia e storia economica. Di qui si è sviluppata una solida tradizione di studi.
Oggi si è in grado di attribuire le anfore a grandi blocchi di produzioni (italiche, galliche, iberiche, africane e orientali) e, all’interno di questi, a sempre più specifici ambiti di provenienza, riuscendo a “tracciare” i rapporti commerciali dei popoli del Mediterraneo.
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Esposizione di importanti reperti recuperati dal relitto della nave oneraria romana rinvenuta nei fondali dell’Isola Gallinara: vasellame, attrezzature navali, pedine da gioco, piccoli arnesi in piombo per la pesca oltre ad un centinaio di anfore vinarie, disposte come lo erano originariamente sulla loro nave, in un’apposita rastrelliera in legno che ne riproduce il “ventre”.
A differenza delle navi da guerra, i mercantili o navi onerarie avevano uno scafo tondeggiante e robusto, adatto sia per la navigazione di cabotaggio, sia per la navigazione in mare aperto, necessaria al fine di attraversare più velocemente determinate zone nel Mediterraneo. La propulsione era unicamente a vela (sempre di tipo quadra che, opportunamente ridotta ad una forma triangolare, permetteva di risalire il vento) e nelle onerarie di maggiori dimensioni poteva essere presente un secondo albero a prua, di dimensioni minori.
Le dimensioni degli scafi potevano variare a seconda delle tipologie di trasporto in cui erano impiegate. Si distinguono: navi di piccolo tonnellaggio (inferiori ai 15 m di lunghezza) adatte alle navigazioni di breve durata, navi di medio tonnellaggio (tra 15 e 30 m) impiegate sia per le rotte lungo costa che per tratti in mare aperto e navi di grande tonnellaggio (sopra i 30 m di lunghezza) che facevano parte della flotta dell’Annona e rifornivano principalmente la capitale.
Nota da ROMANO IMPERO:
ANNONA: Prese il nome di Annona il raccolto di grano di un'annata (annus), poi, gradualmente, ogni altra derrata prodotta da un territorio in un anno.
In seguito si intese con questo nome l'insieme dei prodotti agricoli raccolti in un anno per l'approvvigionamento di una città o di uno Stato.
Vi si aggiunse poi anche il magazzino adibito al deposito dei prodotti e l'ufficio che vi sovrintendeva.
I mercantili possedevano un ponte su cui si muoveva l’equipaggio e potevano trasportare passeggeri (non esistevano navi da trasporto passeggeri per lunghi tratti, ma si viaggiava insieme alle merci). Al di sotto del ponte era presente una stiva in cui venivano sistemati i carichi che potevano essere eterogenei o omogenei (nel caso di navi usate solo per il trasporto di grano o olio). Il principale contenitore da trasporto erano le anfore, ma si potevano utilizzare anche i dolia di grandi dimensioni per il vino, sacchi per il grano, cassette lignee e altro.
DOLIA
NAVE ROMANA DI ALBENGA
Anfora tipo Dressel 1B
La stiva veniva colmata con anfore vinarie di produzione italica-campana, le Dressel 1B, alte poco più di un metro e caratterizzate per un orlo ripiegato esternamente per formare un colletto leggermente sfasato verso il basso, impostato sul collo, di lunghezza variabile, che termina in una spalla un po’ spigolosa. La pancia poteva essere pronunciata o longilinea. All’estremità inferiore delle anfore si trova un alto puntale, necessario per permettere l’impilamento. All’interno della nave ne furono caricate fino a dieci mila, disposte su cinque strati sovrapposti, con il puntale dell’anfora superiore trattenuto tra i colli delle inferiori. Sfruttando tali incastri il mercante era certo che, anche in presenza di turbolenze, i contenitori non si sarebbero rovesciati e infranti, spargendo il loro prezioso contenuto. Ulteriore accorgimento per evitare la dispersione del vino era costituito dalla chiusura ermetica dell’imboccatura dell’anfora. Il collo veniva sigillato incastrandovi un tappo di sughero, spesso ben 7 cm, bloccato da uno strato di malta e calce. L’estrema sigillatura del collo era data dall’inserimento di una pigna verde che, con il passare del tempo, si sarebbe seccata e aperta a ventaglio. Quest’ultimo espediente poteva avere una duplice funzione, la prima era quella di aromatizzare il contenuto dell’anfora, e la seconda, più pratica, di facilitare la rimozione del tappo. La pigna infatti, grazie alle sue asperità, avrebbe creato dei luoghi di appiglio per incastrarvi due leve che permettessero di applicare la forza necessaria a rimuovere l’intero tappo. Invece, per preservare le proprietà organolettiche del contenuto da commistioni esterne, l’intera superficie porosa dell’anfora fu ricoperta di uno spesso strato di resina o pece.
Legato al nome dell’illustre archeologo e studioso di storia romana e medievale Nino Lamboglia, il prestigioso Museo Navale Romano, sito all’interno di Palazzo Peloso Cepolla espone gli importanti reperti recuperati dal relitto della nave oneraria romana rinvenuta nei fondali dell’Isola Gallinara: vasellame, attrezzature navali, pedine da gioco, piccoli arnesi in piombo per la pesca oltre ad un centinaio di anfore vinarie, disposte come lo erano originariamente sulla loro nave, in un’apposita rastrelliera in legno che ne riproduce il “ventre”.
Diversamente dagli alimenti solidi, come il grano, il trasporto delle derrate liquide o semiliquide come il vino, l’olio e le salse di pesce (garum), è affidato a contenitori in terracotta, in particolare alle anfore (dal termine greco amphìphèro, porto da entrambe le parti, riferito alle due anse dei contenitori). Questo genere di recipienti rappresenta il mezzo più efficace per garantire la conservazione e la spedizione di grandi quantitativi di merci per via marittima o fluviale.
Nelle navi lo stivaggio delle anfore avveniva impilandole le une sulle altre con un sistema “a scacchiera”, in modo che quelle dello strato superiore si inserissero fra tre colli delle anfore sottostanti. I contenitori si adeguavano alla forma della carena e venivano fissati e protetti dagli urti con ramaglie di ginepro, di erica, giunchi, paglia ed altro.
Le anfore venivano fabbricate nelle regioni di produzione delle merci, con forme diverse a seconda della provenienza, della cronologia e del contenuto. In età romana circolavano in tutto il Mediterraneo, spingendosi fino alla Britannia e al Bosforo, testimoniando l’unificazione commerciale, oltre che politica, dell’impero.
Il primo a comprendere l’importanza di questi oggetti per la ricostruzione dei traffici commerciali fu Heinrich Dressel, che alla fine dell’Ottocento studiò la relazione tra le diverse forme di anfore e le iscrizioni conservate su di esse. Così Dressel gettava un ponte tra archeologia, epigrafia e storia economica. Di qui si è sviluppata una solida tradizione di studi.
Oggi siamo in grado di attribuire le anfore a grandi blocchi di produzioni (italiche, galliche, iberiche, africane e orientali) e, all’interno di questi, a sempre più specifici ambiti di provenienza, riuscendo a “tracciare” i rapporti commerciali dei popoli del Mediterraneo.
Sono stati pure recuperati oggetti di uso personale dell'equipaggio e della scorta armata di bordo (elmi), quest'ultima necessaria per difendersi dai pirati che infestavano soprattutto le coste liguri. Tutti gli elementi raccolti permettono di datare il naufragio della Nave Romana di Albenga tra il 100 e il 90 a.C., momento che coincide con la concessione del diritto latino alle popolazioni liguri, con la romanizzazione della regione e con il conseguente sviluppo delle città.
RECUPERO DEL RELITTO
STORIA BREVE
Albenga. Ancora oggi costituisce uno dei più grandi relitti di navi onerarie romane oggi conosciute nel mediterraneo. E’ la nave romana adagiata sui fondali di Albenga. Venne scoperta casualmente da un pescatore nel 1925. Nelle sue reti finirono tre anfore risalenti all’età romana. La nave “riposa” a circa un miglio dalla costa ad una quarantina di metri di profondità. Solo 25 anni dopo, la SORIMA, (società specializzata che recuperò l’oro sul relitto Egypt,) effettuò un primo intervento di scavo e recupero del relitto. In particolare furono recuperate circa 1.000 anfore, in gran parte danneggiate nella parte superiore per le reti a strascico, ma anche per la pesante benna di recupero dell’Artiglio.
Soltanto nel 1957, con la creazione del Centro Sperimentale di Archeologia Sottomarina Albenga, si iniziarono i primi rilevamenti del relitto.
Nel 1961 si affrontò il rilevamento ufficiale della nave adottando il sistema di quadri di rilievo in tubi rigidi formanti una rete di copertura sul relitto, a maglie di cm 150×150, che attraverso un sistema di ingrandimento fotografico in scala di tutti i quadrati (192 per l’esattezza) e il loro fotomontaggio diede le misure reali del cumulo di anfore emergente dal fondo: 26 Mt. di lunghezza e 7.5 di larghezza. Lo scavo iniziò subito dopo al rilevamento e lo stesso permise di accertare che vi era stato subito dopo il naufragio della nave un rapido insabbiamento del fondale e un riempimento di fango proveniente dal fiume Centa che fino agli inizi del Trecento sboccava di rimpetto al relitto.
I risultati più importanti furono raggiunti durante le campagne degli anni 1970 – 1971. Durante queste campagne si poterono costatare che gli strati di anfore erano come minimo quattro, la scoperta di tre ordinate (larghe 14 – 15 cm e alte 12 cm) distanti 10 cm tra di loro nonché la scoperta della lamina di piombo con le chiodatura in rame che fasciava il fasciame esterno, la scoperta della ceramica a vernice nera facente parte del carico impilata negli spazi vuoti tra le anfore la ceramica probabilmente era imballata con materiali leggeri (paglia o altro) e attorno ad essa frammenti di pietra pomice anch’essa come le anfore e le ceramiche di provenienza campana. Lo scavo permise altresì di individuare l’albero maestro che aveva un diametro di circa 50 cm.
A seguito dei risultati dello scavo si accertò che la nave Romana d’Albenga era lunga circa 50 m. larga almeno 10 m.t. e le anfore trasportate dovevano essere almeno 10.000.
Si tenga conto che le anfore pesano vuote kg 21.5, che il loro contenuto era di 26 litri ogni anfora pesava all’incirca 45 kg. – quindi la nave aveva una portata di 450 tonnellate.
Trattandosi di un record, ripetiamo ancora una volta che questa nave costituisce, ad oggi, uno dei più grandi relitti di navi onerarie romane oggi conosciute nel mediterraneo.
Per il tipo di anfore rinvenute sul relitto (Dressel 1b e poche anfore di forma Lamboglia 2), il tipo e la forma delle ceramiche rinvenute si è potuto collocare il relitto nel primo decennio del secolo 1 a.C.
Tra i materiali del carico sono stati recuperati 8 elmi bronzei, che potrebbero indicare la presenza di una scorta armata a bordo.
E’ ormai diventata famosa la “ruota di manovra” in piombo trovata dai palombari dell’Artiglio, ancora oggi di dubbia interpretazione e il corno in piombo che secondo il Lamboglia come facente parte della testa di un animale che doveva decorare la prua di questa magnifica nave.
Il professor Nino Lamboglia, a bordo della nave "Artiglio" (foto sopra) riuscì a recuperare in poco meno di un mese oltre 700 anfore, dando il via ad una campagna di scavi sommersi condotta in modo sistematico, la moderna "archeologia subacquea". Purtroppo all'inizio furono utilizzati strumenti inadeguati, tra cui una benna meccanica, che arrecarono dei danni irreparabili al carico della nave. Le ricerche che si sono susseguite negli anni hanno permesso di ampliare le conoscenze sulla nave ed il recupero di molto materiale tra cui elmi in bronzo ed oggetti di uso personale dell'equipaggio. Il carico, infatti, è ricchissimo ed in perfetto stato di conservazione nonostante la datazione delle anfore risale intorno al 100 a.C. Le anfore erano stivate con il tipico sistema delle navi onerarie romane e l'aspetto sorprendente è che le anfore pesino vuote circa 21 kg e che il loro contenuto era di 26 litri, per un peso complessivo di circa 45 kg. La nave aveva una portata di oltre 450 tonnellate ed è, ancora oggi, uno dei più grandi relitti di navi onerarie romane conosciute nel mar Mediterraneo.
Il sistema di sollevamento dei resti per mezzo della benna
Per il recupero dei relitti venivano impiegati scafandri rigidi e articolati, forniti di gambe e braccia terminanti con artigli metallici in grado di afferrare utensili. Il palombaro attraverso degli oblò poteva osservare l’esterno e comunicava con la superficie attraverso un cavo telefonico. Quaglia credette così tanto in questo progetto che nel 1927 acquistò in esclusiva gli scafandri rigidi tedeschi Neufeldt und Kuhnke.
LA NAVE
Ce lo spiega molto bene una descrizione tratta da www.antika.it/008704_nave-romana-di-albenga.html e qui riassunta: la nave oneraria di epoca romana rinvenuta ad Albenga (Savona – Liguria), era un’imbarcazione impiegata per il trasporto di merci, lunga 40 m e larga 12 m; essa poteva trasportare intorno alle 11.000/13.000 anfore vinarie e vari tipi di ceramica, tra i quali ve ne erano alcuni che erano stati realizzati in Campania per essere poi esportati in Francia meridionale e in Spagna.
Nel 1950 il professore Giovanni Lamboglia tentò il primo recupero dei reperti con l’aiuto della nave Artiglio, mentre nel 1961 furono realizzati i primi rilievi del relitto.
IL CARICO DELLA NAVE
La nave trasportava per la maggior parte anfore, alcune delle quali furono ritrovate integre, altre soltanto in frammenti costituiti da fondi e colli; il numero delle anfore e la capacità del relitto hanno portato a sostenere che la nave contenesse 13.000 pezzi.
Esse contenevano per la maggioranza vino, ma sono stati rinvenuti anche anfore con residui di noccioline. Le anfore erano chiuse con tappi di sughero, sigillati con la malta, alcune di esse presentavano sotto il tappo una pigna incastrata nel collo, con lo scopo di mantenere l’aroma del vino. Le anfore facenti parte del carico sono le Dressel 1; tre olearie Lamboglia 2 e alcuni frammenti di Dressel 27. Per quanto riguarda la ceramica, essa è presente nella campana A e C e d’imitazione; vasi a vernice rossa interna; urnette; olle; olpi e grandi boccali.
Tra i vari resti sono stati trovati anche due elmi in frammenti; un corno di ariete; una ruota di manovra; tubi; un mortaio; lamine; un tubetto in piombo e piccoli strumenti difficili da identificare. Per il tipo di anfore rinvenute (Dressel 1 B e Lamboglia 2) e il tipo e le forme della ceramica (Campana A, forme 5 e 31) e per gli altri vasi (Campana C, imitazione campana, vasi a vernice rossa interna, vasi a patina cenerognola e vasi comuni) la nave di Albenga è stata datata primo decennio del I a.C.
A cura di A. Eusebio
Nel 1925 il pescatore Antonio Biglione recuperò dal mare tre anfore di epoca romana, la cui posizione era di circa 1 miglio dalla costa e a 40 m di profondità. Nel 1948 l’avvocato Giovanni Quaglia, con lo scopo di verificare la presenza della nave, propose una prima campagna di indagini ed il Ministero della Pubblica Istruzione approvò tale richiesta. Fu stipulato un accordo secondo il quale i reperti recuperati sarebbero stati custoditi nel Museo Civico di Albenga.
LA PRIMA CAMPAGNA DI SCAVO
La campagna iniziò il mattino dell’8 febbraio del 1950 e fu il professor Giovanni Lamboglia a descriverla, vivendola in prima persona:
“Guidammo l’Artiglio, alle 8 del mattino dell’8 febbraio 1950, sulla località delle anfore, con la barca dello stesso pescatore Antonio Bignone e col geom. Fortunato Canepa, del comune di Albenga, pure appassionato pescatore. Fissati gli ormeggi, il palombaro Petrucci si calò per primo sul fondale, entro la torretta di osservazione che costituisce uno degli strumenti più preziosi dell’Artiglio; e, alla profondità di m. 40, telefonò subito che si vedevano anfore a centinaia, sparse in ogni direzione, su una linea di circa 30 metri di lunghezza e circa 10 metri di larghezza, formante una massa affusolata alta circa due metri sul fondale melmoso circostante”.
In seguito a questi rinvenimenti i ricercatori stabilirono di iniziare il recupero delle anfore e di constatare le condizioni della nave:
“Il giorno dopo, 9 febbraio furono issate a bordo le prime anfore, e l’interesse della stampa e del pubblico diventò immediatamente spasmodico, creando seri intralci al lavoro. Fu, ciò nondimeno, un’impressione indimenticabile veder salire a bordo le anfore intatte, a grappoli di cinque o sei, legate a doppio nodo con una fune dai palombari che lavoravano sul fondo, coperte dai colori vivissimi della fauna marina, che al sole si estinguono dopo pochi minuti, di alghe, incrostazioni calcaree e molluschi secolari”.
Dello scafo della nave non emersero resti, perciò si ipotizzò o che la nave fosse stata ricoperta dalla sabbia, oppure che lo scheletro del relitto, a causa del forte peso del carico e all’opera delle correnti marine, si fosse squarciato aprendosi sui due lati, lasciando intatte solo le anfore e probabilmente la chiglia.
Nei giorni successivi venne perfezionato il metodo utilizzato per sollevare le anfore, infatti fu impiegata una rete invece del sistema della legatura ad una fune, che riduceva le anfore in frammenti. Non era stato ancora risolto il dubbio della reale esistenza della nave, della sua posizione e delle sue condizioni di conservazione; perciò le ricerche furono rivolte verso l’estremità del relitto orientata verso il mare aperto.
Il 13 febbraio le ricerche ripresero per mezzo della benna, che aveva la capacità di sollevare una quantità maggiore di anfore e di raggiungere più velocemente la chiglia ed il 17 furono estratti i primi resti della nave. Il 18 lo scavo fu approfondito fino a 2 m, dalla buca furono estratte anfore prive di incrostazioni, ciò fu chiaro indice della vicinanza della chiglia. La campagna fu sospesa il 21 su decisione di Lamboglia e del prof. Pietro Romanelli (ispettore del Ministero della Pubblica Istruzione).
Nel 1960 la “Daino”, protagonista di questa storia, trasformata in nave ricerche archeologiche sottomarine, assumendo la sigla NATO “A 5308”.
Nel 1962 una seconda esplorazione del relitto fu effettuata dalla nave DAINO così come altre spedizioni sottomarine negli anni seguenti su incarico e a cura del Centro Sperimentale di Archeologia Sottomarina che proprio ad Albenga ha la sua sede nazionale.
Nave Romana A
Sito Centro Subacqueo Idea Blu
https://www.youtube.com/watch?v=9p2hJ0gZBQA&t=18s
https://www.centrosubideablu.com/13-immersioni/54-nave-romana-a
IMMAGINI DELL’IMMERSIONE DEL 2 AGOSTO 2014
IMMERSIONE SULLA NAVE ROMANA
DEEP DIVING ACADEMY
L’immersione sulla “Nave Romana di Albenga”, pur non presentando particolarità o difficoltà che la rendono eccezionale, ha tuttavia un fascino al quale è difficile rimanere indifferenti.
Una montagna di anfore poggia su un fondale sabbioso a poco più di 40 metri di profondità, intorno il nulla o quasi. Il 2 agosto 2014 alcuni pesci luna accompagnavano i sub.
Una oasi di storia e di vita accoglie il subacqueo che visita in sito, ogni anfora è diventata la casa o il rifugio di animali marini e così da luogo di memoria è diventato un ambiente di trasformazione, una culla dove nuova vita sorge tra i reperti di quella passata.
Villa san Giovanni in Tuscia - STORIA
Micaela Merlino
CHI ERA NINO LAMBOGLIA?
Nino Lamboglia è stato il padre dell’archeologia stratigrafica e di quella subacquea
Tra le figure di grandi studiosi di archeologia e di storia, l’Italia vanta Nino Lamboglia il padre dell’archeologia stratigrafica e di quella subacquea, che purtroppo, però, è poco conosciuto dal grande pubblico.
Nato a Porto Maurizio in provincia di Imperia il 7 Agosto 1912, già dagli anni dell’Università si interessò alla storia dell’Ingaunia, antica zona della Liguria di ponente.
Nel 1933, nello stesso anno in cui si laureò all’Università di Genova, fondò ad Albenga la “Società Storico Archeologica Ingauna”, quindi dal 1934 al 1937 fu Direttore della “Biblioteca Civica” di Albenga, facendola risorgere dopo un periodo di crisi. Fu poi nominato Commissario straordinario del “Museo Biknell” di Bodighera, fondato nel 1888 dall’inglese Clarence Biknell (1842-1918) che, tra l’altro, aveva scoperto e studiato le incisioni rupestri del Monte Bego. Il Museo raccoglieva le sue collezioni di botanica, ornitologia, archeologia e mineralogia.
In quegli stessi anni il Lamboglia conobbe il famoso archeologo genovese Luigi Bernabò Brea (1910-1999), dal 1939 al 1941 Soprintendente alle Antichità della Liguria, con il quale iniziò a collaborare in ricerche archeologiche nella Riviera di Ponente. Il Bernabò Brea fu il precursore in Italia dello scavo archeologico stratigrafico, che applicò nello scavo della grotta delle Arene Candide presso Finale Ligure, un sito di età Neolitica, e successivamente nello scavo dell’acropoli di Lipari in Sicilia quando fu Soprintendente alle Antichità della Sicilia Orientale.
Sempre animato da grande passione per le antichità e da grande energia, nel 1942 Nino Lamboglia fondò a Bordighera l’“Istituto Internazionale di Studi Liguri”, rivestendo la carica di Direttore per trentacinque anni, istituendo successivamente anche altre sezioni in diverse città della Liguria. Né va dimenticato che collaborò attivamente con la Soprintendenza alle Antichità della Liguria come Ispettore aggiunto, in molte ed importanti ricerche di archeologia locale.
La sua benemerita attività si segnalò anche in occasione della Seconda Guerra Mondiale, quando fu Direttore della “Biblioteca Civica Aprosiana” a Ventimiglia, la prima biblioteca pubblica aperta in Liguria e una delle più antiche d’Italia, fondata nel 1648 da Angelico Aprosio (1607-1681) monaco agostiniano e letterato, riconosciuta ufficialmente nel 1653 da Papa Innocenzo X, poi dagli inizi del XIX secolo amministrata dal Comune di Ventimiglia.
La biblioteca possedeva preziosi volumi, incunaboli e manoscritti, e già nel periodo della dominazione napoleonica in Italia aveva subìto furti e dispersione, ma dai primi decenni del XX secolo conobbe una rinascita e ciò grazie all’opera intelligente e zelante di alcuni bibliotecari, tra cui lo stesso Lamboglia, che paventando possibili danni al patrimonio librario e archivistico a causa degli eventi bellici, si attivò per garantirne la conservazione.
I rapporti tra Nino Lamboglia e Luigi Bernabò Brea continuarono ad essere proficui anche dopo la Seconda Guerra Mondiale. In questo periodo il Bernabò Brea fondò in Sicilia il “Museo Archeologico di Lipari” insieme all’archeologa Madeleine Cavalier, sua infaticabile collaboratrice. Una seria e preparata studiosa che anche il Lamboglia stimò ed apprezzò affidandole nel 1948 le cariche di Segretaria e Vice Presidente della “Section Languadocienne” dell’ “Istituto Internazionale di Studi Liguri”, che mantenne fino al 1952.
Nel 1950 Nino Lamboglia su incarico della Soprintendenza alle Antichità di Siracusa assunse la direzione degli scavi di Tindari, in provincia di Messina, e si dedicò anche allo scavo archeologico sottomarino della nave di Albenga, poi nel 1958 fondò il “Centro Sperimentale di Archeologia Sottomarina”, una struttura tecnico-scientifica deputata alle ricerche di archeologia subacquea.
In quello stesso anno ad Albenga si svolse il “II Congresso Internazionale di Archeologia Sottomarina”, e grazie al contributo del Ministero della Pubblica Istruzione e del Ministero della Difesa Marina al Centro Sperimentale fondato dal Lamboglia fu affidata la nave “Daino” appositamente adattata per le ricerche archeologiche in mare. Dal 1959 al 1963 furono condotte campagne di scavo sottomarino a Baia, a Spargi (relitto di nave romana), a Punta Scaletta presso l’Isola di Giannutri nel 1963 (relitto di nave di età repubblicana), e nuove campagne di scavo ad Albenga (relitto di nave romana).
Poi il “Centro Sperimentale di Archeologia Sottomarina” si dotò di una propria nave denominata “Cycnus”, impegnandosi in importanti ricerche lungo le coste tirreniche. Archeologo sempre attento alla salvaguardia dei Beni Culturali, il Lambolgia si battè con decisione per salvare Villa Hanbury presso il promontorio di Capo Mortola a pochi chilometri dal confine con la Francia.
La villa possedeva un meraviglioso giardino botanico allestito dal 1867 dall’inglese sir Thomas Hanbury, coltivando specie vegetali di tutto il mondo, e diventando ben presto conosciuto ed apprezzato a livello internazionale.
Sir Hanbury morì nel 1907, ma il figlio Cecil e sua moglie Dorothy continuarono a prendersi cura della villa e del giardino, che però furono abbandonati nel periodo della Seconda Guerra Mondiale. Fu allora che il giardino rischiò di essere lottizzato, ma appunto il Lamboglia con grande tenacia nel 1960 riuscì a farlo acquistare dallo Stato Italiano, e nel 1962 il complesso fu dato in gestione all’ “Istituto Internazionale di Studi Liguri”.
Tra gli altri meriti del Lamboglia c’è quello di essere stato il primo archeologo italiano ad aver ricoperto nel 1974 la cattedra di “Archeologia medievale” nell’Università di Genova, nello stesso anno in cui fu fondata la rivista “Archeologia Medievale” diretta dall’ archeologo Riccardo Francovich (1946-2007). Sembra incredibile che il padre dell’archeologia subacquea italiana abbia trovato la morte proprio in mare, non durante una ricerca archeologica sottomarina ma a causa di un incidente.
La sera del 10 Gennaio 1977 mentre era alla guida del suo autoveicolo in compagnia del collaboratore Giacomo Martini, fatalmente tratto in inganno dalla folta nebbia e dall’oscurità che impedivano una corretta visibilità, durante le manovre per salire sulla rampa di accesso di un traghetto sbagliò direzione, precipitando nelle gelide acque del mare. La morte tragica e prematura del grande archeologo, e del suo collaboratore, lasciò sconcertati e addolorati i suoi colleghi studiosi, i suoi studenti e quanti avevano avuto modo di conoscerlo e di apprezzarlo.
Per ricordarlo, sull’Isola della Maddalena in Sardegna gli è stato dedicato un Museo, perché nei pressi dell’isola di Spargi Lamboglia aveva recuperato alcuni reperti. In occasione del quarantennale della tragica morte, la “Sezione di Imperia” dell’ “Istituto Internazione di Studi Liguri” il 10 Gennaio scorso ha reso omaggio all’illustre studioso con una cerimonia svoltasi presso la sua tomba, nel cimitero di Porto Maurizio.
L’eredità che Nino Lamboglia ha lasciato, non solo agli studiosi di archeologia, è di grande importanza: la ricerca ha sempre bisogno di coraggiosi “iniziatori” di nuovi metodi di indagine, proprio come lui è stato; per ricostruire in modo esauriente la storia di una civiltà e del territorio nel quale si è formata, e trasformata, occorre avere attenzione non solo per le “fasi classiche” ma anche per i periodi preistorici, e similmente per quelli tardo-antichi e medievali, e il Lamboglia non ha mai prediletto una fase storica rispetto ad un’altra ma tutte ha trattato e studiato con uguale interesse e rigore scientifico.
Una seria ricerca archeologica non si accontenta delle indagini nel terreno, ma scruta con lo stesso impegno gli abissi marini, poiché terra e mare allo stesso modo conservano tracce cospicue dell’uomo, della sua storia, della sua cultura, e il contributo da lui dato all’archeologia subacquea italiana è stato di importanza fondamentale.
L’archeologo non può limitarsi allo studio dei contesti che intende indagare, perché non è né uno “scavatore” nè un intellettuale avulso dalla sua società e dalle urgenze contingenti del momento storico e culturale in cui vive, ma ha il dovere di vigilare con amore, e di far sentire la sua voce con fermezza tutte le volte che qualcuno, o qualcosa, minacciano l’integrità, la sopravvivenza e la trasmissione alle generazioni future dei Beni Culturali, sottraendosi alla logica della speculazione, del guadagno di pochi, dell’indifferenza o della rassegnazione, proprio come ha fatto lui.
L’archeologia per Nino Lamboglia non fu una disciplina a cui dedicare tempo ed energie, ma una scienza che ha performato ed “invaso” tutta la sua vita, identificandosi con essa e andando anche oltre, grazie alla preziosa eredità che ha lasciato.
Micaela Merlino
ANFORE
Aspetti generali
Struttura dell'anfora
Le classificazioni delle anfore
La tebella Dressel
La tabella Lamboglia - Benoit
Esempi: le anfore cananee
Esempi: le anfore greco - arcaiche
Esempi: le anfore greco - italiche
Esempi: le anfore fenicie e puniche
Esempi: le anfore Etrusche
Esempi: le anfore imperiali
La più antica e famosa classificazione di questi vasi biansati senz'altro quella data dall'archeologo tedesco Henry Dressel, che visse molti anni a Roma e nel 1899 studi i marchi delle anfore del Monte Testaccio.
Questo monte, vicino a Porta Portese (Roma), d un'idea del grande uso che veniva fatto di questi recipienti in epoca romana; non altro infatti che una discarica di cocci d'anfora alta 30 metri.
La tabella Dressel (da Corpus Inscriptionum Latinarum) una classificazione tipologica delle anfore romane e, nonostante l'opinione contraria di molti archeologi, anche una tabella cronologica, seppure con molte lacune. Viene universalmente adottata, perchè il punto di partenza delle classificazioni posteriori; si legge a righe successive: la prima si riferisce alle forme repubblicane (II e I secolo a.C.), le altre a forme imperiali (I-III secolo a.C.).
Il compianto professor Nino Lamboglia, assieme al collega francese Fernand Benoit, ha rivisto e rielaborato la primitiva tabella Dressel con una nuova tabella, riordinando le varie forme, con una maggiore attendibilità cronologica.
La più completa e documentata classificazione a cui mi riferisco riguardo alle anfore quella pubblicata dall'archeologo francese Jean Pierre Joncheray nel 1976, con il titolo "Nouvelle classification des anphores dcouvertes lors de fouilles sousmarines".
Si tratta della descrizione tipologica e cronologica delle anfore recuperate lungo i litorali francesi; l'autore un appassionato archeologo oltre che un ottimo sommozzatore. I francesi hanno fatto maggiori progressi e sono a un livello superiore al nostro nella ricerca e nello studio dell'archeologia subacquea.
Lorenzo Mari tratto da 'Speciale Archeosub' supp.to n. 79 di Sub - 6/91
FONTI: Museo della Nave Romana di Albenga
BIBLIOGRAFIA
-
Lamboglia, Diario di scavo a bordo dell’ “Artiglio”, in “Rivista Ingauna e Intemelia”, V, 1, gennaio-marzo 1950, pp. 1-8.
N. Lamboglia, La nave romana di Albenga, in “Rivista di Studi Liguri”, XVIII, 3-4, luglio-dicembre 1952, pp. 131-203.
N. Lamboglia, Il primo saggio di scavo sulla nave romana di Albenga, in “Rivista Ingauna e Intemelia”, XVII, 1-4, gennaio-dicembre 1962, pp. 73-75.
F. Pallarés, Nino Lamboglia e l’archeologia subacquea, in “Rivista di Studi Liguri”, LXIII-LXIV, gennaio-dicembre 1997-1998, pp. 21-56.
A cura di Carlo GATTI
Rapallo, 16 Febbraio 2023
IL TESORO DELLA GARONNA
IL TESORO DELLA GARONNA
AQUITANIA – FRANCIA
Ogni relitto ritrovato è la tessera di un mosaico che racconta il cammino della storia navale nella sua evoluzione in tutti i settori:
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costruzione navale
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trasporto delle merci
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mappa delle rotte frequentate
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portualità dell’Impero Romano interno al Mare Nostrum ed anche esterno.
Ciò di cui ci occupiamo oggi è qualcosa di diverso dal solito, il relitto ritrovato è sicuramente una nave oneraria romana simile a quelle che trasportavano anfore colme di vino, olio, frutta secca e soprattutto il GARUM di cui ci siamo già occupati in varie occasioni.
Ma cosa ha di speciale questo relitto che è considerato uno tra i più importanti ritrovamenti archeologici degli ultimi decenni?
Innanzitutto si parla di una nave oneraria romana che, uscita da Gibilterra, navigò nel non facile golfo di Guascogna aperto sull’oceano fino a raggiungere Bordeaux dove, risalendo il fiume Garonne, incontrò forti correnti di marea che, da sempre, possono raggiungere gli 8 metri di altezza.
Di quella nave non si sa nulla perché fu devastata da un incendio e naufragò dove meno era probabile che accadesse in aperta campagna a 15 km da Burdigala (Bordeaux) nel suo viaggio di ritorno. Ma del suo carico, dopo 2 millenni, se ne parlerà ancora a lungo ….
Portare l’imprinting di Roma nel cuore dell’Occitania ed anche più a Nord presentava insidie di ogni tipo ed ebbe costi enormi per molti secoli.
Riportiamo alcune immagini significative del tesoro ritrovato
Il “Tesoro della Garonna”: 4001 monete romane, ora esposte al Museo d’Aquitania
4 Gennaio 2023
IL TESORO DELLA GARONNA
ROMANO IMPERO
FRANCIA - Il Tesoro della GARONNA: un insieme di 4001 monete romane che vennero perse con un naufragio nel II secolo d.C., è stato esposto al Museo dell’Aquitania' a Bordeaux. Questa è la prima volta che tutte le 4001 monete vengono esposte al pubblico. Le monete sono SESTERZI in oricalco, una lega di zinco e rame simile all'ottone, la cui data va dal regno dell'imperatore CLAUDIO (41-54 d.C.) a quello di ANTONINO PIO (138-161 d.C). È il più grande e significativo tesoro di monete ROMANE ritrovate in Francia.
Il naufragio avvenne a SSE della città di Bordeaux, nella zona indicata dalla freccia rossa, nelle località Camblanes-Meynac-Quinsac e Cadaujac oltre l’altra sponda.
Le monete furono ritrovate tra il 1965 e il 1970 sui fondali della Garonna, presso alcuni piccoli paesi indicati con una freccia rossa sulla carta con i relativi nomi riportati nella didascalia.
I rinvenimenti avvennero durante lavori di dragaggio effettuati per ricavare materiali da costruzione, e le monete sono quindi state ritrovate durante un lungo e certosino lavoro di setacciamento, portato avanti da un professore universitario, Robert Etienne.
Il docente, con una determinazione e competenza fuori dal comune, riuscì a mappare i fondali, calcolare gli spostamenti delle dune sabbiose nei secoli per poi setacciare scrupolosamente tonnellate e tonnellate di materiale argilloso calcolando le forti correnti di marea nei due sensi: montante e calante; infine riuscì a recuperare monete anche nei cantieri di costruzione degli edifici.
Passarono sei anni e l'ex professore dell'Università di Bordeaux Robert Étienne continuò le sue ricerche di monete organizzando una serie di scavi sistematici in diversi siti sul fiume.
Le monete ancora intrappolate nella sabbia della Garonna, continuarono a spuntare nei decenni successivi, donate anche da privati ed altre Associazioni di ricercatori volontari.
Pezzi di legno carbonizzati trovati nella scoperta iniziale indicano che le monete si trovavano su una nave mercantile che risaliva il fiume da BURDIGALA (l’odierna BORDEAUX) tra il 170 e il 176 d.C. La nave prese fuoco e affondò con il suo carico, tra cui migliaia di sesterzi, molti dei quali sono stati visibilmente alterati dal contatto con il fuoco.
Le stime basate sulle dimensioni del carico della nave suggeriscono che almeno 800 monete sono ancora disperse, rubate dai cacciatori di tesori, o incastonate nel sedimento sul letto del fiume. La registrazione e lo studio dell'enorme numero di monete ha richiesto molti decenni di lavoro, motivo per cui il tesoro completo è stato esposto soltanto di recente.
Gli interrogativi …
La nave discendeva verso la città per ordini commerciali? Per vendere dei prodotti? Oppure stava iniziando il viaggio di ritorno nel Mare Nostrum con il “frutto” delle sue vendite?
Le ipotesi avanzate sono molte… ma nessun reperto ritrovato pare sia in grado di riportare alla luce la vera storia di quel naufragio.
Personalmente non escluderei un attacco piratesco di bande nemiche di Roma o comunque attirate dalla ricchezza ostentata dalle navi onerarie di Roma.
La trappola potrebbe essere scattata in aperta campagna lontana dai controlli delle pattuglie armate del fiume.
Aspettiamo i vostri commenti … Prendetevi tutto il tempo che volete!
All’epoca la somma della “CAGNOTTE” era pari a 125 anfore di vino o 10 tonnellate di grano, ma il tempo e la storia la rendono oggi un tesoro inestimabile”.
Per quanto riguarda il conio, la zecca più vicina ai luoghi di ritrovamento era Lione. Tutti i reperti sono stati lungamente restaurati, catalogati e studiati prima di essere messi in mostra, a molti anni dal loro ritrovamento.
UN PO’ DI STORIA ...
NAVE ONERARIA ROMANA
Parallelamente ai ritrovamenti di rostri che testimoniano la presenza di navi da guerra romane, nel Mediterraneo sono sempre più frequenti le segnalazioni e i susseguenti recuperi di imbarcazioni destinate ai traffici commerciali.
Le navi onerarie erano legni adibiti a tal scopo. Le dimensioni delle stesse variavano anche in funzione del carico, da una decina a oltre 60 metri, per particolari imbarcazioni destinate al trasporto di blocchi di marmo.
Mentre queste ultime pare presentassero particolari soluzioni costruttive per l’uso straordinario cui erano destinate (doppio fondo), le onerarie minori (di circa 20 metri), presentavano una struttura più semplice, a unico fondo, così come rappresentato nella figura riportata a sinistra.
La tecnica costruttiva preponderante era del tipo “a guscio portante”: il fasciame esterno, montato a paro, era assemblato da linguette lignee (tenoni) incavigliate all’interno di mortase, mentre l’ossatura presentava madieri e costole in alternanza, fissati al fasciame esterno con chiodi metallici o con caviglie in legno annegate.
Due elementi longitudinali paralleli (paramezzalini), collegati da traverse, assicuravano l’intera struttura sulla chiglia. All’interno dello scafo, serie di “serrette” (tavole di fasciame mobile per l’ispezione e la pulizia delle sentine) e “correnti” – per dar ulteriore rinforzo alla struttura esterna – costituivano la struttura del pagliolato; lamine in piombo, infine, erano utilizzate per apportare riparazioni allo scafo e per rivestire punti nevralgici.
La tecnica costruttiva sopra descritta ha avuto conferma in diversi ritrovamenti in tutto il “Mare Nostrum”, ultimo dei quali quello del relitto della nave di Marausa (TP) (III – IV sec. d.C.).
Quest’ultima è un reperto di eccezionale valore per la completezza dello scafo (ad eccezione delle estremità consunte dal tempo e dalle teredini) e la varietà del carico che portava, composto principalmente da varie tipologie di anfore africane chiuse da tappi di sughero, utilizzate per il trasporto di frutta secca (pinoli, nocciole, mandorle, pesche, fichi), olive e con ogni probabilità olio, vino e salsa di pesce o “garum” (come testimonierebbe all’interno dei contenitori la presenza di un tipo di resina); sono stati inoltre rinvenuti recipienti ceramici (coppe, coppette, coppe con base carenata, ampolline, piatti) e vetro.
Nelle costruzioni navali e nelle opere marittime ad esse collegate, cioè porti, moli, magazzini ecc. i Romani svilupparono una branca importante della loro maestria di architetti ed edificatori, con tecniche sofisticate ed innovative, sia nell'ingegneria navale, che nell'ingegneria marittima e costiera.
In tutte le coste del Mediterraneo e dell’Oceano costruirono nuovi porti marittimi e fluviali, ristrutturando e ampliando i vecchi con la costruzione di moli, dighe e scali, non solo seguendo i canoni descritti da Vitruvio nel suo trattato sull’architettura, ma creandone di nuovi.
Ve ne sono ampie testimonianze su tutte le coste che appartennero all’impero romano, che tuttora custodiscono molti resti di porti e fari dell’antica Roma, in parte studiati e recuperati, in parte visibili solo sott'acqua, coperti dal mare per il lento fenomeno del bradisismo sul Tirreno che nasconde e mette a repentaglio opere d'arte incommensurabili.
La costa tirrenica è piena di moli, torri e resti di ville romane sulle spiagge, barbaramente distrutte dai vari palazzinari col beneplacito dello stato, o lasciate a a marcire sott'acqua per non salvare opere eccezionali come le ville imperiali di Posillipo.
Ma la maggior parte, ed è un bene, giace sepolta sotto terra o sotto le spiagge, perchè lo stato non reputa vantaggioso investire nell'archeologia, nonostante abbiamo un patrimonio apprezzato da tutto il mondo. Diciamo che è un bene perchè dall'Italia prendono il volo misteriosamente statue alte 4m e mezzo, che pesano svariate tonnellate e che svaniscono dai musei senza che nessuno sappia nulla, come se un visitatore se le fosse messe sotto braccio trafugandole in tal modo.
Fonte: ROMANO IMPERO
Carlo GATTI
Rapallo, 15 Gennaio 2023
LA STORIA DELLA NAVE DA CARICO VALFIORITA
LA STORIA DELLA NAVE DA CARICO
VALFIORITA
UNA VITA BREVE…
La Valfiorita Impostata nel 1939 nei cantieri Franco Tosi di Taranto in costruzione Varata il 5 luglio 1942 e completata il 25 agosto 1942 dalle Industrie Navali Società Anonima.
CARATTERISTICHE:
Motonave da 6200 tsl - lunga 144,47 metri - larga 18,65 - velocità 14-15 nodi.
UN PO’ DI STORIA…
Il 17 settembre 1942, la Valfiorita viene requisita dalla Regia Marina, per essere adibita al trasporto di rifornimenti per le truppe in Africa Settentrionale. La nave viene armata con un cannone da 120/45 e tre mitragliere contraeree Oerlikon da 20 mm. Per ostacolare la localizzazione della Valfiorita da parte di unità nemiche, viene installato anche un impianto nebbiogeno a cloridrina.
Eravamo in piena guerra per cui l’approvvigionamento di materiali ed attrezzature non era cosa facile. I metalli erano strategici e le priorità verso gli armamenti bellici erano maggiori.
Il 20 settembre 1942 la nave inizia a Taranto il carico di rifornimenti destinati alle forze italo-tedesche a Bengasi, prendono parte al viaggio in AS anche un centinaio di militari del Reggimento Cavalleggeri di Lodi.
Vennero imbarcate in tutto 4171 tonnellate di carico, comprendente 77 veicoli e 206 motociclette italiane, 95 veicoli tedeschi (moto comprese), 16 cannoni e 14 autovetture.
Il 3 ottobre, con i suoi 97 uomini di equipaggio (48 civili, tra cui 3 operai della Franco Tosi di Legnano, azienda produttrice dei motori, e 49 militari della Regia Marina), imbarcò anche 110 militari italiani del Reggimento Cavalleggeri di Lodi e 100 militari tedeschi. Sulla nave erano presenti due comandanti, il capitano di lungo corso Giovanni Salata (comandante civile) ed il capitano di corvetta Giuseppe Folli, comandante militare.
LA PARTENZA
Antonio Pigafetta (classe Navigatori)
Camicia Nera
Saetta
Con la scorta dei cacciatorpediniere Antonio Pigafetta, Camicia Nera e Saetta, la VALFIORITA prende il largo alle 15.10, ma solo a mezzanotte che fu dato l’allarme aereo.
Poco dopo in cielo esplosero i bengala che illuminarono il convoglio italiano che era stato segnalato da un Supermarine Spitfire, (foto sopra) aereo da ricognizione a lunga autonomia, sulla base delle intercettazioni delle informazioni fornite da “ULTRA”.
L’attacco inglese era composto da quattro Vickers Wellington (foto sopra) del 69th Squadron della Royal Air Force, armati sia di bombe che di siluri.
Il Vickers Wellington era un bombardiere medio bimotore inglese, realizzato sul finire degli Anni trenta; largamente impiegato nel corso della Seconda guerra mondiale, fu costruito in oltre 11.000 esemplari, caratterizzato dall'inusuale struttura geodetica, sviluppata dal celebre ingegnere ed inventore britannico Barnes Wallis, che garantiva al velivolo un'eccezionale robustezza, già sperimentata con il precedente Vickers Wellesley.
Caratterizzato dalla sigla interna Type 271, il velivolo fu inizialmente chiamato Crecy (dal luogo in cui si svolse una battaglia della guerra dei cent’anni. Il nome definitivo fu in onore del primo duca di Wellington che sconfisse Napoleone Bonaparte nella Battaglia di Waterlloo.
Riporto la cronaca dell’attacco tratta da Ocean for Future
L’attacco fu fulmineo, e nonostante l’uso di un pallone frenato e di una fitta cortina fumogena, raggiunse il suo scopo. I bombardieri Wellingtonattaccarono a motore spento da 1370 metri di quota, ed una bomba da 1000 libbre cadde a meno di 140 metri a poppavia della Valfiorita. Uno degli aerosiluranti, volando a bassissima quota, sganciò il suo siluro da 640 metri. Il siluro colpì la Valfiorita nella stiva numero 5, a poppa, facendo levare una fiammata rossastra ed aprendo una grossa falla attraverso cui l’acqua allagò le stive 5 e 6. La reazione della contraerea riuscì a danneggiarlo e costringerlo in seguito ad un atterraggio d’emergenza a Luqa. Sulla Valfiorita si scatenò il panico. A seguito del siluramento anche l’apparato fumogeno della nave rimase danneggiato ed il cloro venne disperso su ponte ferendo molti marinai. Nonostante gli effetti provocati dalla falla, causassero un rapido allagamento, esteso anche alla galleria dell’asse dell’elica, la motonave Valfiorita, proseguì il suo moto raggiungendo il mattino del 4 ottobre Corfù. Al fine di effettuare le dovute riparazioni fu quindi fatta incagliare ad una ventina di metri dalla costa. Nel frattempo i militari del Reggimento Cavalleggeri di Lodi vennero sbarcati e si accamparono presso il vicino villaggio di Potamòs, dove la popolazione soffriva di una gravissima carenza di cibo. Furono i militari italiani a condividere le loro razioni per permettergli di sopravvivere.
Sbarcati uomini e mezzi, solamente il 25 novembre 1942, dopo avere effettuato alcuni lavori, viene messa in condizioni di riprendere il mare, e raggiunge Taranto per i lavori di riparazione.
Terminati i lavori in bacino, a fine giugno 1943 la Valfiorita, ultimò anche le prove in mare e tornò in servizio.
Il 27 giugno 1943 il Comandante civile della motonave, il Capitano di lungo corso Giovanni Salata, chiede l’invio del materiale che mancava, specie delle 55 bombole di anidride carbonica dell’impianto antincendio, che erano state sbarcate per essere ricaricate dopo il siluramento dell’ottobre 1942 e non erano più state restituite. Furono inviate dieci bombole, ma il 7 luglio 1943 il Tenente di Vascello Giuseppe Strafforello, nuovo Comandante militare della Valfiorita dovette lamentare allo Stato Maggiore che le dieci bombole mandate erano inadatte all’impianto della Valfiorita, e che, come già aveva comunicato il comandante Salata il 2 luglio 1943, non c’erano altri mezzi antincendio a bordo della nave.
Sempre in data 7 luglio 1943, la nave in tarda serata, parte da Taranto in direzione Messina, sprovvista di ogni mezzo per spegnere qualsiasi focolare d’incendio, carica di mezzi, tra cui camion Fiat 626, moto, autoblindo e altri veicoli. L’equipaggio civile era composto da 45 uomini, mentre quello militare era composto da italiani e tedeschi. Arrivata a Messina, intorno alle 20,50 dell’8 luglio 1943, lascia il porto messinese in direzione Palermo, alle 22,30 giunta nello specchio di mare tra Capo Rasocolmo e Mortelle, viene fatta oggetto di attacco nemico da parte del sommergibile della Royal Navy HMS Ultor (P53) (foto sotto) agli ordini del Lt. George Edward Hunt DSC, RN.
L’unità britannica lancia quattro siluri, due dei quali colpiscono mortalmente la motonave. Distrutto il carteggio di bordo, i due comandanti civile e militare, danno l’ordine di abbandono della nave.
In soccorso dei naufraghi, oltre alla torpediniera di scorta “Ardimentoso”, accorsero da Messina le regie corvette Camoscio e Gabbiano (della stessa classe).
Su 45 civili e 22 militari (18 italiani e 4 tedeschi) che componevano l’equipaggio della Valfiorita, 13 civili persero la vita (dodici – soprattutto del personale di macchina – risultarono dispersi ed il direttore di macchina Pegazzano morì in ospedale) e 11 militari (7 italiani e 4 tedeschi) rimasero feriti.
Torpediniera di scorta ARDIMENTOSO in bacino di carenaggio a Genova
La classe Gabbiano (corvette) fu progettata e costruita durante la Seconda guerra mondiale dall’Italia Fascista per rimediare alla cronica deficienza, nella Regia Marina, di un'unità adatta ai compiti di scorta dei numerosi convogli verso la Libia. Dopo aver fatto fronte a questa necessità utilizzando le navi più disparate, dai cacciatorpediniere di squadra alle vecchie torpediniere della Prima guerra mondiale nel 1941 venne decisa la costruzione di sessanta unità delle corvette classe Gabbiano, adatte alla scorta dei convogli e alla caccia dei sommergibili nemici.
L’8 luglio 1943 la Valfiorita fu colpita alla prua da un siluro lanciato dal sommergibile HMS Ultor della marina britannica nel tratto di mare tra Messina e Palermo, affondò rapidamente quando si staccò il troncone di prua. La Valfiorita, nonostante la tragicità dell’avvenimento e per le vittime che ha trascinate sul fondo, rimane per i posteri uno dei più affascinanti relitti storici che si trovano al largo delle coste italiane e di tutto il Mediterraneo.
Infatti, non solo conserva ancora intatto tutto il suo carico (motocicli, auto e camion degli anni Trenta-Quaranta), ma si trova adagiata sul fondale in perfetto assetto di navigazione. A causa della notevole profondità, delle reti sul relitto e della forte corrente le immersioni subacquee possono essere effettuate solo da sub molto esperti.
La nave in navigazione da Messina per Palermo venne attaccata e silurata dal sommergibile Britannico Ultor l’8 Luglio del 1943, affonda spezzandosi in due tronconi. Il relitto giace su un fondo che va da 60 a 70 metri, per tre quarti in perfetta linea di navigazione, mentre la prua è riversa su un lato, con la coperta rivolta a NW. Per visitarla tutta sono necessarie almeno tre immersioni aperte solo a subacquei tecnici date l’elevata profondità e la durata. E’ possibile penetrare all’interno delle stive dove si trovano Jeep, motociclette, autocarri e munizioni. La nave è abitata da grandi cernie (Epinephelus marginatus), dentici (Dentex dentex), pauri (Sparus pagrus) e occasionalmente da astici (Homarus gammarus).
CONTRIBUTI
http://www.ocean4future.org/savetheocean/archives/22198
Immergersi sulla Valfiorita
La Valfiorita è uno dei più affascinanti relitti storici al largo delle coste italiane e di tutto il Mediterraneo. L’immersione nel blu, adatta a subacquei esperti, è ricca di emozioni. Inizialmente si intravede il castello, situato verso poppa, a circa 45 metri di profondità, poi lentamente si intravedono i resti della importante struttura distribuiti tra i 60 e i 72 circa.
Tra di essi, un’esperta subacquea tecnica, Isabelle Mainetti che ha raccontato in un suo articolo, corredato dalle foto di GianMichele Iaria la sua immersione sulla motonave Valfiorita. Non solo lamiere immerse nel buio e nel fango ma ricordi, forti emozioni che fanno rivivere quella terribile notte che abbiamo brevemente raccontato. Viene voglia di ritornarci … chissà.
Il troncone centrale-poppiero giace in assetto di navigazione, mentre quello prodiero giace piegato sul lato sinistro, entrambi ancora carichi di esplosivi, munizioni e vari mezzi, a circa 70 mt di profondità.
Scendendo nella stiva ormai a cielo aperto appare tra il fango una mitica Balilla. Di seguito numerosi automezzi ancora perfettamente stivati, uno a fianco dell’altro, come in un garage.
L’altro pezzo della motonave si trova più avanti, a prua, spezzato di netto a circa un quarto della lunghezza della nave, mollemente adagiato sul fianco sinistro. In questo troncone si ritrovano due stive ancora contenenti casse di proiettili e materiali militari.
foto di GianMichele Iaria
Risalendo le strutture contorte o collassate, la plancia, le torrette che ospitavano le armi ormai strappate dalle loro strutture ed affondate negli abissi.
Questo il racconto di chi ha avuto la fortuna di visitare questo relitto, che giace ad una profondità non accessibile a tutti i sub. Non avendo avuto questa fortuna mi soffermo sulle loro parole, di quei subacquei che hanno sfidato le profondità alla ricerca di qualcosa che va oltre il relitto.
Una parte del relitto della VALFIORITA
Carlo GATTI
Rapallo, 26 Ottobre 2022
IL MISTERO SULLO SCAMBIO D’IDENTITA’ DI DUE SOTTOMARINI AFFONDATI NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE
IL MISTERO SULLO SCAMBIO D’IDENTITA’ DI DUE SOTTOMARINI
AFFONDATI NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE
La storia inizia quando il 18 aprile del 1943 il REGENT, un sommergibile inglese costruito nel 1930, affonda dopo aver urtato una mina di profondità al largo della costa pugliese. Tre anni prima, il 5 ottobre del 1940 lo stesso sommergibile a circa 10 miglia dal mare di Bari affondò la nave italiana Maria Grazia. Da quel 18 aprile del 1943 tutti hanno sempre creduto che il relitto, che giace nelle acque della Bat (E' una provincia italiana della Puglia settentrionale che conta 391.556 abitanti. Il capoluogo è congiunto fra le città di Barletta, Andria e Trani), meta anche di tanti subacquei sportivi, fosse proprio quello del sommergibile affondato nel 1943. Soprattutto dopo il 1999 quando alcuni sub scoprirono il relitto in fondo al mare: una notizia che destò molto clamore in Gran Bretagna tanto da diventare un vero e proprio sacrario militare in mare. Le famiglie dei militari britannici andavano ogni anno a pregare nel porto pugliese.
Il team di subacquei, dopo diverse immersioni sul sito e dopo numerose ricerche, ha accertato che quel relitto non è del sommergile inglese, ma di una Unità militare italiana.
I resti del sommergibile furono individuati nel 1999 a 37 metri di profondità, al largo di Barletta.
PROPONIAMO DUE TESTIMONIANZE VIDEO (Splendide immagini) DEI SUB E DI STUDIOSI CHE HANNO RISOLTO IL DILEMMA
https://www.youtube.com/watch?v=8JV2FAfcNOE
https://www.youtube.com/watch?v=YwMn0MyOb2A
Nota: A volte viene usata la parola “sommergibile” altre volte “sottomarino”.
Rispetto al sottomarino, il sommergibile dispone di limitate capacità in immersione e non è in grado di operare per periodi prolungati al di sotto della superficie dell'acqua. Per molti aspetti si ritiene quindi che il sommergibile rappresenti il predecessore dei più moderni sottomarini.
Nel periodo fra le due guerre poche sono le innovazioni tecniche sostanziali apportate al sommergibile, ormai evoluto. Oltre all'irrobustimento dello scafo, reso idoneo a scendere sotto i cento metri, al miglioramento delle sistemazioni di salvataggio e dall'adozione di telecomandi oleodinamici.
Rilevante é lo studio di un'importante apparecchiatura che, utilizzata realmente solo a partire dalla metà della Seconda G.M. rimarrà poi strumento fondamentale per il moderno sottomarino a propulsione convenzionale: lo "snorkel", un sistema che, fornendo una comunicazione con l'atmosfera al sommergibile immerso a quota periscopica, consente l'uso dei motori diesel (e, quindi, la ricarica delle batterie) ed il ricambio dell'aria nel battello senza necessità di risalire in superficie, conservando così in massima parte l'occultamento.
UN PO’ DI STORIA … L’autore si è concesso la riduzione personale dell’ampia versione del Quadro Storico in cui operarono i nostri sottomarini nella Seconda guerra mondiale.
MINISTERO DELLA DIFESA
Lo "snorkel", un sistema che, fornendo una comunicazione con l'atmosfera al sommergibile immerso a quota periscopica, consente l'uso dei motori diesel (e, quindi, la ricarica delle batterie) ed il ricambio dell'aria nel battello senza necessità di risalire in superficie, conservando così in massima parte l'occultamento.
L'invenzione dello snorkel viene generalmente attribuita ai tedeschi, che per primi lo impiegarono in guerra, sul finire del 1943; i più informati ne fanno risalire l'origine agli olandesi, che lo istallarono sui loro battelli della classe "O" negli anni fra il '37 ed il '40.
In realtà, lo snorkel è un’invenzione italiana. Fu, infatti, il Maggiore del Genio Navale Pericle Ferretti (nella foto) a condurre i primi studi, intorno al 1920, presso l'Arsenale di Taranto. Egli stesso, poi, realizzò un prototipo che nel 1925 fu felicemente sperimentato sul Smg. "H3" (uno dei battelli acquistati in Canada durante la 1^ G.M.).
Sotto la spinta degli eventi politici mondiali, la produzione di Smg viene intensificata a tal punto che, nel 1940, la Marina italiana entra in guerra con 115 sommergibili: una delle maggiori flotte subacquee del mondo.
Le prestazioni dei sommergibili italiani vengono vieppiù migliorate. Aumenta l'autonomia, che nei battelli oceanici raggiunge le 20.000 miglia, così come l'armamento (fino a 14 tubi di lancio e 40 siluri). Il siluro si perfeziona e diventa più affidabile. La quota massima scende oltre i 130 metri. La velocità in superficie raggiunge i 20 nodi. Per il combattimento in superficie, al cannone si aggiungono mitragliere antiaeree.
Fino al 1942 il successo dell'offesa sottomarina è elevatissimo. I battelli italiani, che prima della costituzione della base a Bordeaux ("Betasom") dovevano forzare lo stretto di Gibilterra, vengono di norma impiegati isolatamente nell'Atlantico centrale e meridionale, dove il traffico è meno intenso e fortemente scortato. Ciò nonostante, i risultati non mancano: quasi 600 mila tonnellate di naviglio affondato con un "exchange rate" (ossia, il rapporto fra tonnellate di naviglio affondato e battelli perduti) praticamente uguale per entrambe le Marine.
Dopo il 1942, la crescente efficacia della lotta "antisom" sovverte le sorti della guerra subacquea. Sono soprattutto il radar e l'uso intensivo dell'aereo a contrastare il sommergibile, che risulta sempre più vulnerabile, specialmente in superficie. Si adottano, così, nuove misure, come la riduzione del volume delle sovrastrutture e la revisione dei criteri d'impiego e delle tattiche operative. Alcuni battelli oceanici vengono ritirati dalla linea ed adattati al trasporto. I tedeschi ricorrono allo snorkel ed approntano una sorta di intercettatore di onde radar.
Ormai, però, il sommergibile non riesce più ad ottenere i risultati di prima, mentre le perdite si fanno più ingenti, fino a superare il numero di navi affondate. Alla data dell'8 settembre 1943, la forza subacquea italiana, che nel corso del conflitto aveva acquisito fino a 184 battelli, è ridotta a 54 unità, delle quali soltanto 34 sono in grado di muovere; queste, in base alle clausole d'armistizio, passano ad operare con gli Alleati con funzioni prevalentemente addestrative e, alla fine della guerra, vengono demolite o consegnate ai vincitori in conto riparazioni di guerra.
Dati riepilogativi relativi ai sommergibili italiani nel corso della Seconda Guerra Mondiale
Missioni svolte |
1750 |
Miglia compiute |
2.500.000 |
Giorni in mare |
24.000 |
Attacchi svolti |
173 |
Siluri lanciati |
427 |
Naviglio Mercantile affondato |
132 (665.317 tons) |
Naviglio Militare affondato |
18 (28.950 tons) |
|
|
Sommergibili italiani affondati
Mare Mediterraneo |
Altri settori |
88 |
40 |
Giovanni BAUSAN (ITA)
Sottomarino d’attacco costiero (di media crociera) della classe Pisani (dislocamento di 880 tonnellate in superficie e 1058 in immersione). Durante il suo brevissimo periodo di servizio attivo nella seconda guerra mondiale (poco più di un mese) svolse 3 missioni offensive/esplorative e 5 di trasferimento, percorrendo complessivamente 2593 miglia in superficie e 198 in immersione. Dal gennaio all’ottobre 1941 effettuò poi 90 uscite addestrative in Alto Adriatico per la Scuola Sommergibili di Pola.
Dislocamento: 800 t in emersione – 1057 t in immersione
Lunghezza: 68,2,mt – Larghezza: 6,09 mt – Pescaggio: 4,93 mt
Velocità in immersione: 8,2 nodi Velocità in emersione: 15 nodi
Profondità op. 90 mt
Equipaggio: 48
LA CARRIERA DEL BAUSAN
Il sommergibile, intitolato a Giovanni Bausan, valoroso combattente della marineria napoletana nato a Gaeta il 14 aprile 1757, dopo l'entrata in servizio fu assegnato alla V Squadriglia Sommergibili di Media Crociera, con sede a Napoli, ricevendo a Gaeta la Bandiera di Combattimento, offerta dalla comunità locale, il 14 novembre 1929.
Tra i suoi primi comandanti vi fu il Capitano di Corvetta Giovanni Marabotto.
Nella notte tra il 2 ed il 3 maggio 1932, durante un viaggio addestrativo, il Bausan andò ad incagliarsi alle Isole Mormorato (vicino a Punta Falcone, nelle Bocche di Bonifacio. L'unità fu tuttavia in grado di disincagliarsi senza bisogno dell'assistenza di altre unità.
Dal 7 dicembre 1935, al comando del tenente di vascello Ferruccio Ferrini, fu assegnato alla II Squadriglia del VI Grupsom di Lero.
Nel gennaio-febbraio 1937 svolse un'infruttuosa missione (non furono avvistate navi sospette) nel corso della Guerra di Spagna. Dal 10 al 13 giugno 1940 effettuò (agli ordini del capitano di corvetta Francesco Murzi) una prima missione di guerra al largo di Malta; il 13 giugno, in fase di rientro ad Augusta, fu avvistato al largo di Capo Santa Croce dal sommergibile britannico Grampus, che gli lanciò un siluro; il Bausan lo schivò con una manovra evasiva.
Dal 20 al 24 giugno svolse una seconda missione al largo di Capo Kio, ma dovette fare ritorno per via di un guasto ai timoni di profondità di prua.
La terza missione – dal 14 al 21 luglio, tra Pantelleria e Capo Bon, dovette essere anch'essa interrotta per un guasto ai motori.
In tutto aveva compiuto, sino a quel momento, 3 missioni offensive e 5 di trasferimento, per un totale di 2791 miglia di navigazione (2593 in superficie e 198 in immersione); fu quindi assegnato alla Scuola Sommergibili di Pola.
Svolse attività addestrativa dal 1º gennaio all'8 ottobre 1941 per un totale di 90 missioni, dopo di che, il 18 maggio 1942, fu messo in disarmo e convertito in bettolina carburanti con il contrassegno GR. 251.
RADIATO il 18 ottobre 1946 fu quindi avviato alla demolizione.
HMS REGENT (UK)
Dislocamento: in emersione 1.475 t – in immersione 2,030 t
Lunghezza:…. 87,5 mt – Larghezza: 9,12 – Pescaggio: 4,9 – Profondità operativa: 95 mt
Propulsione: 2 motori diesel da 4.640 hp, due motori elettrici da 1670 shp
Velocità in immersione: 9 nodi - Velocità in emersione: 17,5 nodi
Equipaggio: 53 uomini
Artiglieria: 1 cannone-102/40 mm–2 mitragliatrici-12,7 mm–8 tubi lanciasiluri da 533 mm
La classe di sottomarini della Royal Navy Britannica: Rainbow o classe R era composta da quattro unità entrate in servizio tra il 1930 e il 1932.
Battelli a lunga autonomia progettati per operare nei mari dell’Estremo Oriente, rappresentavano l'ultimo sviluppo del progetto iniziato con i classe Odin e proseguito con i classe Parthian. Negli anni della Seconda guerra mondiale i Rainbow operarono principalmente nel teatro del Mar Mediterraneo, dove tre di essi furono perduti per cause belliche; l'unico superstite della classe, attivo anche nel teatro bellico dell’Oceano Indiano. Durante la seconda parte del conflitto, fu radiato e avviato alla demolizione nel 1946.
HMS Regent |
19 giugno 1929 |
Vickers-Barrows Armstrong in Furness |
11 giugno 1930 |
11 novembre 1930 |
perduto in mare in una data imprecisata compresa tra il 12 aprile e il 1º maggio 1943, probabilmente caduto vittima di una mina nell’Adriatico meridionale |
LA CARRIERA DEL HMS REGENT
Era il 18 aprile del ’43, gli abitanti di Bisceglie (Barletta) sentono un enorme esplosione proveniente dal largo: con molta probabilità essa segnò la fine del sottomarino inglese REGENT entrato in collisione con una mina galleggiante ed affondato senza superstiti. Era partito il 12 aprile da Malta (La Valletta) per il canale di Otranto. La sua carriera era iniziata con un’impresa da film d’azione. Nei primi giorni di guerra era penetrato nel porto di Cattaro, attraccando senza problemi e sbarcando un ufficiale per chiedere la liberazione dell’ex Ambasciatore inglese a Belgrado. Costretto alla fuga, se n’era andato… portandosi via un militare italiano. Il 5 ottobre del ’40 c’è il primo affondamento, anche se la preda non è eclatante: un vascello a vela (probabilmente un peschereccio), il Maria Grazia di 188 tonn. Quattro giorni dopo danneggia il mercantile Antonietta Costa, il 15 gennaio ’41 affonda il Città di Messina (2472 tonn), il 21 febbraio danneggia il mercantile tedesco Menes 5600 tonn., il 1° agosto affonda il dragamine italiano Igea, il 1° dicembre danneggia un altro mercantile italiano: l’Enrico.
Quattro mesi dopo, la fine. Ora il suo scafo squarciato giace su un fondale sabbioso a – 28 mt. In https://uboat.net/allies/warships/3406.html così viene descritta la sua fine: HMS REGENT (Lt.Walter Neville Ronald Knox,DSC,RN) sailed from Malta on 12 April 1943 to patrol in the southern Adriatic. She was mined north of Barletta, Puglia, Italy on 18 April 1943. That evening a large explosion was heard in that area, wich is believed to have been HMS Regent striking a mine. HMS Regent was reported overdue at Beirut on 1st May 1943. The wreck of Regent has been found and lies in 28 meters of water”.
Quanto è stato scritto sopra sono le versioni rilevate da fonti ufficiali che risalgono alla fine del conflitto. Oggi, a quanto sembra, il MARE STA RESTITUENDO ALCUNE VERITA’ CHE SONO SOTTO LA LENTE D’INGRANDIMENTO DEGLI STUDIOSI DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE.
CORRIERE DELLA SERA – CORRIERE DEL MEZZOGIORNO –
Il 18 luglio 2022 Luca Pernice scrive:
Barletta, il relitto non è il sottomarino inglese Regent ma l’italiano Bausan: la scoperta di un team di Foggia
I resti del sommergibile furono individuati nel 1999 a 37 metri di profondità, al largo di Barletta. Le famiglie dei militari britannici andavano ogni anno a pregare nel porto pugliese.
Sin dal 1943 si è creduto che il relitto del sommergibile che giace a 37 metri di profondità nell’Adriatico, al largo di Barletta, fosse quello del Regent, affondato appunto nel 1943. Fino a quando un team foggiano, composto da sub e storici, ha scoperto che in realtà si tratta di un sommergibile italiano, il Giovanni Bausan.
Una storia iniziata nell’aprile 1943
La storia inizia quando il 18 aprile del 1943 il Regent, un sommergibile inglese costruito nel 1930 affonda dopo aver urtato una mina di profondità al largo della costa pugliese. Tre anni prima, il 5 ottobre del 1940 lo stesso sommergibile a circa 10 miglia dal mare di Bari affondò la nave italiana Maria Grazia. Da quel 18 aprile del 1943 tutti hanno sempre creduto che il relitto, che giace nelle acque della Bat, meta anche di tanti subacquei sportivi, fosse proprio quello del sommergibile affondato nel 1943. Soprattutto dopo il 1999 quando alcuni sub scoprirono il relitto in fondo al mare: una notizia che destò molto clamore in Gran Bretagna tanto da diventare un vero e proprio sacrario militare in mare. Il team di subacquei, dopo diverse immersioni sul sito e dopo numerose ricerche, ha accertato che quel relitto non è del sommergile inglese, ma di un mezzo italiano.
Il team e lo studio
Un team composto da tre sommozzatori – Michele Favaron, Stefania Bellesso e Fabio Giuseppe Bisciotti – da personale addetto all’assistenza di superficie – Alessandro Auliclino e Pietro Amoruso – da due piloti – Pasquale Bailon e Ruggero Nanula – e da Giuseppe Iacomino che ha curato l’assistenza storica del progetto.
«Dai dati in nostro possesso – spiega Fabio Giuseppe Bisciotti – sono subito emersi dubbi su quanto potesse essere veritiera la teoria del sommergibile inglese. Nelle foto esistenti del relitto si evince la assoluta incompatibilità di ciò che le foto mostrano con il design di un sommergibile britannico classe R quale il Regent. In particolare, oltre alle dimensioni totalmente differenti, vi è la presenza di una bombatura sul piano di calpestio del sommergibile del tutto assente in qualsiasi piano costruttivo e fotografia riguardanti il mezzo navale in questione. Dopo una lunga ricerca poi siamo giunti al ritrovamento del tassello più importante al riguardo». Bisciotti e il suo team, infatti, è in possesso di una documentazione che comproverebbe la presenza, nel porto di Barletta, di un sommergibile Italiano, classe Pisani, di nome “Giovanni Bausan”. Al momento della radiazione, fu ribattezzato GRS 251 ed usato come cisterna carburante sino all’arrivo degli alleati in Puglia. Dopo il 1943 il sommergibile venne usato come target notturno per gli aerei inglesi e americani per addestramento. Nel 1944, al termine del periodo di training, fu affondato. “Siamo certi – conclude Bisciotti - che il Bausan attualmente si trovi a circa 33 metri sul fondo del mare al largo di Barletta. E’ il relitto che per molti anni tutti hanno pensato, erroneamente, fosse quello del Regent”.
Carlo GATTI
Rapallo, 10 ottobre 2022
LA BARCA DI ERCOLANO
LA BARCA DI ERCOLANO
Noi siamo la nostra memoria,
noi siamo questo museo chimerico di forme incostanti,
questo mucchio di specchi rotti.
(Jorge Luis Borges)
Ricostruzione Virtuale
La scoperta del relitto, noto come LA BARCA DI ERCOLANO, avvenne il 3 agosto del 1982. L’idea di cercare reperti archeologici nella sabbia vulcanica dell’antica spiaggia fu del direttore degli scavi Giuseppe Maggi. Proprio in quel sito, presso i magazzini a ridosso della spiaggia, furono ritrovati oltre 300 scheletri di fuggiaschi ercolanesi i quali, all’interno di quelle robuste arcate abituate a respingere i marosi, si erano rifugiati con l’intento di fuggire alle ire del Vulcano e con la speranza che arrivassero soccorritori a bordo di gozzi di pescatori locali come quello rinvenuto proprio in quel sito. Forse, proprio su questo pensiero si basò l’intuizione del MAGGI.
Purtroppo, riportiamo: “I fuggiaschi furono sorpresi nel cuore della notte dall’arrivo della prima nube di gas roventi, il surge, che, con una temperatura di oltre 400° e una velocità di 80 chilometri orari, raggiunse la città e provocò la morte istantanea per shock termico di tutti gli abitanti. L’arrivo delle ondate di fango vulcanico dal Vesuvio ricoprì poi i resti dei loro corpi, sigillandoli nella posizione in cui si trovavano al momento della morte. Fra gli altri, fu trovato il corpo di una giovane incinta e prossima al parto, dalla quale furono recuperati i resti di un feto di circa otto mesi. I fuggiaschi avevano portato con sé lucerne per illuminare l’oscurità, chiavi di casa, amuleti, strumenti di lavoro, gruzzoli di monete.
Una donna i cui resti erano riccamente adorni di orecchini, anelli e bracciali è stata soprannominata la “Signora dei gioielli”.
(vedi foto sotto)
Nel giorno del ritrovamento della “BARCA DI ERCOLANO”, fu la chiglia ad emergere per prima. L’imbarcazione era stata completamente capovolta dalla strapotenza dei flussi piroclastici che l’avevano sepolta e nello stesso tempo protetta da una “coperta” di vari materiali vulcanici che, induriti velocemente, assorbirono l’ossigeno residuo e ne conservarono l’ossatura fino ai giorni nostri.
“La barca era stata danneggiata da grandi travi cadute dai tetti e dai solai delle case di Ercolano, che sfondarono la chiglia e piegarono il fasciame restando incastrate. La barca era lunga oltre nove metri con una larghezza di 2,20 e un’altezza massima di circa 1 metro dalla chiglia al bordo”.
Ci racconta la guida:
“Dopo le prime fasi di scavo della Soprintendenza Archeologica di Napoli e Pompei, la barca è stata rivestita da uno strato di gomma sul quale poi è stata applicata della vetroresina. Si è creato così un guscio che ha permesso di contenere i resti carbonizzati ed evitare il pericolo del collasso della struttura dell’imbarcazione. All’interno conteneva ancora il riempimento di fango e pesava circa 40 quintali.
La conclusione della prima fase del restauro della barca (realizzato con i fondi del Programma Operativo Regionale Campania 2000-2006) permise così di aprire al pubblico uno dei reperti simbolo dell’antica città e di esporre, per la prima volta, una serie di oggetti collegati al mare e alle attività marinare.
Una serie di prelievi di campioni di legno da varie zone della barca, compiuti durante i lavori di recupero, hanno permesso di individuare i legni utilizzati per la sua costruzione: legni di pino, ontano, faggio e quercia.
Ancora oggi vengono usati gli stessi legni per costruire i gozzi di tutta la penisola italiana.
L’intervento di restauro del 2008 ha previsto il taglio del guscio esterno in vetroresina e la rimozione dello strato di gomma siliconica messo a protezione dello scafo.
È stato poi realizzato lo scavo del deposito vulcanico che ancora riempiva parte dello scafo. Si è quindi proceduto al delicato lavoro di pulizia del legno e al riposizionamento e micro incollaggio dei frammenti e alla stuccatura delle lesioni. Nel contempo è stata realizzata una pulitura meccanica dei chiodi in bronzo. Per ricollocare le parti distaccate sono stati fabbricati supporti in vetroresina colorati.
Questo intervento ha permesso di giungere a una prima esposizione dell’eccezionale reperto, in attesa che con il completamento dei lavori di restauro si ricollochino nella corretta posizione le parti di fasciame ripiegate e asportate dalla violenza dell’impatto durante l’eruzione”.
ESTERNO
Per proteggere la barca gli operai costruirono in fretta un capannone in muratura e lamiera mentre si cercava di estrarre quanto più fango possibile per portare alla luce dati e reperti. Si recuperarono cime spezzate, aghi, cipolline, pettini in bronzo, un cestino di vimini ed altro ancora trasportato chissà da dove dal fango vulcanico.
INTERNI
Grazie al National Geographic, Ercolano faceva notizia nel mondo e intanto, ad esaminare la barca, giungeva nella cittadina vesuviana uno dei maggiori esperti di archeologia navale: J.Richard Steffy dell’Institute of Nautical Archaeology del Texas. Il reperto veniva confermato come un’imbarcazione di nove metri in buono stato di conservazione tranne per un notevole schiacciamento al centro che se non restaurato in tempi brevi avrebbe sicuramente portato dei rischi enormi per la conservazione.
Il restauro è stato effettuato progettando e realizzando un telaio ruotante in ferro per riportare la barca nella giusta posizione. Dopo essere stata ribaltata e parzialmente svuotata all’interno, è stata trasferita nell’area destinata alla futura musealizzazione. Una serie di prelievi di campioni di legno da varie zone della barca, compiuti durante i lavori di recupero, hanno permesso di individuare i legni utilizzati per la sua costruzione: legni di pino, ontano, faggio e quercia.
L’intervento di restauro del 2008 ha previsto il taglio del guscio esterno in vetroresina e la rimozione dello strato di gomma siliconica messo a protezione dello scafo.
LA STRUTTURA DELLA BARCA DI
ERCOLANO
ALBUM FOTOGRAFICO
PARTICOLARI TECNICI
DELLA MARINERIA DI 2.000 ANNI FA
LA BARCA DI ERCOLANO ERA DESTINATA - CON TUTTA PROBABILITA’ - ALLA PESCA
Secondo gli studiosi la struttura prevedeva la presenza di tre scalmi per lato e poteva essere manovrata da tre coppie di remi. Diversi furono i reperti trovati assieme alla barca e sepolti nel fango. Fra questi la punta di una prua che si è conservata in maniera eccezionale con le tracce di colore con cui era stata dipinta, il rosso cinabro, e perfino un minuscolo salvadanaio in legno con coperchio scorrevole con dentro una monetina d’argento e una di bronzo con il volto di Vespasiano.
LA COSTRUZIONE NAVALE DELL’EPOCA
Completamente diverso dal procedimento attualmente in uso nel Mediterraneo che prevede la messa in opera, sulla chiglia, dell’ossatura interna e il suo rivestimento con tavole di fasciame, in età Greco-Romana, dopo aver sistemato la chiglia, veniva costruito il guscio esterno costituito dal fasciame mentre l’ossatura era inserita successivamente con una funzione di rinforzo interno, detta: costruzione su guscio. Il collegamento tra le tavole del fasciame avveniva coi tenoni, linguette in legno duro inserite in appositi incassi (le mortase) nello spessore delle tavole. I tenoni, infine, erano bloccati da spinotti. In questo modo, le tavole del fasciame potevano mantenere la forma desiderata e il guscio acquistava eccezionale solidità grazie ai numerosi collegamenti interni.
Le navi Romane erano più larghe dell'usuale, spesso oltre un quarto dell’intera lunghezza, per consentire anche in caso di sbarco in terra nemica di accostarsi molto alla riva, oppure di scaricare più rapidamente le merci.
Interno dello scafo
Come abbiamo già visto, la scoperta della barca di Ercolano avvenne il 3 agosto del 1982 quando nella zona davanti alle Terme Suburbane iniziò a emergere dall’interro vulcanico la chiglia di una barca rovesciata dalla furia dell’eruzione. Questa era stata sepolta dai flussi piroclastici rimanendo sigillata nella coltre di materiali vulcanici che si indurì rapidamente garantendo, con la mancanza di ossigeno, la conservazione dei legni.
La barca era lunga oltre 9 m, aveva una larghezza massima di circa 2,20 m e un’altezza massima di circa 1 m dalla chiglia al bordo. La linea somigliava quindi a quella di un grosso gozzo marinaro moderno. Prevedeva la presenza di tre scalmi per lato e poteva quindi essere mossa da tre coppie di remi.
Lo scafo esterno è formato da tavole dello spessore di circa 3 cm collegate fra loro da incassi con il sistema di mortase e tenoni, uniti poi al fasciame con cavicchi di legno. Sempre con cavicchi è realizzata la giunzione con le ordinate, anche se poi questo collegamento era stato ulteriormente rinforzato con chiodi di rame a testa bombata.
Cestino che contiene un amo e un verricello
I remi della barca di Ercolano
La barca, inoltre, era dotata di un timone esterno a remo che era bloccato da una cima ritrovata (foto sotto) durante le operazioni di estrazione dal fango, impresa non semplice perché, proprio come racconta Maggi nel suo libro “Ercolano. Fine di una città”, da un saggio piccolo che si era aperto all’inizio dello scavo si era passati ad una specie di voragine che pullulava di corpi da salvaguardare. Il tempo a disposizione era poco e i fondi erano finiti.
Cima adugliata
SONO PASSATI SOLTANTO 2.000 ANNI…
MA NON SEMBRA …
Ho recuperato alcune foto di gozzi moderni che, con qualche modifica “regionale”, appaiono simili a quello recuperato a Ercolano. Giudicate voi…
GOZZI MODERNI CON TRE SCALMI E REMI
Elementi costruttivi dello scafo in legno
Questi disegni mostrano la sezione trasversale di una nave in legno moderna che è molto simile a quella romana antica. I termini navali delle varie parti sono rimasti sorprendentemente invariati nel tempo.
Ad esempio il vocabolo paramezzale, cioè l’ossatura longitudinale del fondo, deriva dal greco e significa: “quasi in mezzo” per indicare la sua posizione vicino al centro dello scafo. Il vocabolo prora è rimasto uguale a quello usato dai greci e che, come per noi, indicava la parte anteriore della nave. La parola costola, ossatura trasversale del fianco, deriva dal latino costa per indicare la sua somiglianza con l’osso del torace.
CONCLUSIONE
I romani realizzarono una successione di fari posti in vista l’uno dell’altro su tutte le coste del Mediterraneo; questi fari avevano anche lo scopo di inviare dei messaggi a grande distanza attraverso segnali di fumo o di fuoco, impiegando un codice simile all’alfabeto Morse.
Utilizzando questo sistema, i pompeiani richiesero aiuto a Plinio il Vecchio, ammiraglio della flotta imperiale romana di stanza a Capo Miseno, durante l’eruzione del Vesuvio nel 79 d. c.
Da Capo Miseno – Plinio - da naturalista qual’era, aveva già osservato e descritto un’immensa nube incandescente a forma di pino sopra il vulcano e, quando gli giunse la richiesta di aiuto, accorse prontamente con delle navi veloci. Egli attraversò tutto il golfo di Napoli, che era sconvolto dal mare agitato e dalla caduta di una pioggia di pietra pomice, fino a giungere a Pompei.
Durante questa spedizione Plinio perse la vita, ma le sue navi riuscirono a salvare un certo numero di pompeiani.
Dopo l’eruzione comparvero due monti distinti che caratterizzano il golfo di Napoli: il monte Somma e l’attuale Vesuvio.
L’attuale faro di Capo Miseno (nella foto) è ubicato dove sorgeva quello dei tempi di Plinio e dell’imperatore Tiberio, che risiedeva a Capri e che comunicava direttamente con Roma attraverso il sistema di segnali di fuochi prima descritto.
Carlo GATTI
Ringrazio l’amica Prof. Marinella Gagliardi Santi che mi ha inondato di materiale fotografico del Museo della BARCA DI ERCOLANO.
Sappiamo quanto le zone archeologiche di Pompei, Ercolano e Torre Annunziata siano state fonti ispiratrici per i suoi pregiatissimi libri!
Rapallo, 30 Agosto 2021
I RELITTI DEL GOLFO DI CAGLIARI
I RELITTI DEL GOLFO DI CAGLIARI
Il progresso è un viaggio con molti più naufraghi che naviganti.
(Eduardo Galeano)
La Sardegna, meta preferita per le vacanze di milioni di turisti, è anche in testa alle classifiche dei subacquei doc. E i motivi di questo successo non sono difficili da trovare; tra questi la morfologia varia e spesso contrastata delle sue coste, che ne movimentano i contorni, e le lunghe e bellissime spiagge, perle incastonate nella distesa smeraldina che è il mare, ancora molto ricco di vita: se le spugne e le gorgonie fanno da tappezzeria alle sue pareti, cernie, murene, polpi e, in stagione, i veloci predatori ne popolano le stanze, mentre nei bui ripostigli trovano rifugio piccolissimi e colorati nudibranchi, diafani gamberetti, insospettabili granchietti. Questa distesa liquida nasconde nel suo ventre innumerevoli gioielli preziosi e scintillanti: parliamo dei relitti, fantasmi affondati nel corso degli anni, spesso dei secoli. Ce ne sono tanti in Sardegna, ma se si vuole restare in un’area circoscritta ci si può immergere nel Golfo di Cagliari e scendere poi verso Capo Teulada. Si incontreranno i resti dell’Entella, una nave da carico a soli diciotto metri di profondità, dell’Isonzo, nave da guerra che giace a circa 56 metri, dell’Egle, affondata da un sottomarino durante la Seconda Guerra Mondiale, del Romagna, famoso per i gronghi giganti che abitano nella prua, del Dino, una nave italiana colata a picco una ventina di anni fa per una forte mareggiata. Tantissimi gli spunti per il fotosub, che può giocare con i contro luce che si creano tra le lamiere e il pesce, che spesso si avvicina sperando in un boccone. Ecco una piccola guida per chi vuole visitare queste testimonianze di un passato sempre misterioso.
Un po’ di Storia
Il golfo di Cagliari (in sardo: su golfu de Casteddu), noto anche come golfo degli Angeli, è un tratto ai limiti del Mar Tirreno sul quale si affaccia la costa meridionale della Sardegna.
“Gli italiani perdono le le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio".
“Il vero guaio della guerra moderna è che non dà a nessuno l’opportunità di uccidere la gente giusta.”
Fotografie dei sommergibili citati nel testo
Sommergibile britannico HMS SAFARI (classe S)
Il cannone da 76 mm del SUNFISH durante un'esercitazione
Sommergibile britannico HMS TRUANT (N68)
Sommergibile britannico HMS CLYDE (12)
Smg italiano MALACHITE
Smg olandese DOLFJIN
Un po’ di Storia
I sommergibili che infestavano le acque di Villasimius nella Seconda guerra mondiale.
Non sono molto lontani i tempi in cui il Golfo di Carbonara era infestato da “squali di metallo”, che attendevano silenziosi il passaggio delle navi nemiche per affondarle. Durante la Seconda guerra mondiale il tratto di mare su cui si affaccia il Capo Carbonara, punto strategico nelle rotte aeree e navali del Mediterraneo, fu infatti teatro di drammatici affondamenti che videro come protagonisti dell’azione proprio i temibili strumenti da guerra.
Il 9 febbraio, il Dolfjin aveva silurato ed affondato il sommergibile della Regia Marina italiana Malachite che, mentre navigava tre miglia a sud di Capo Spartivento, venne colpito a poppa da uno dei quattro siluri lanciati dal sommergibile olandese ed affondò con la prua a perpendicolo sulla superficie del mare. Trentacinque membri dell’equipaggio affondarono con esso, solo dodici si salvarono.
Altro terribile “squalo armato” che navigava nei nostri mari era il sommergibile della Reale Marina inglese Clyde.
Il primo giugno del 1941, alle 8.50, il Clyde silurò, al largo dell’isola di Serpentara, il piroscafo San Marco che trasportava un carico di carbone ed era in navigazione da Civitavecchia a Cagliari. Di stazza imponente e lungo oltre un centinaio metri, affondò nel giro di pochi minuti, trascinando con sé tutti i membri dell’equipaggio. Un altro terribile predatore dei mari che si appostava nelle nostre acque era il sommergibile della Reale Marina inglese Truant.
Il 6 maggio del 1941, alle ore 7.35, al largo dell’isola dei Cavoli, il Truant silurò ed affondò il Bengasi, piroscafo a vapore di proprietà della Società di Navigazione Tirrenia, diretto da Napoli a Cagliari. L’intera sezione di prua del piroscafo venne devastata dai siluri, che ne causarono l’affondamento. Nello specchio di mare limitrofo, dinnanzi a Torre delle Stelle, il 10 aprile del 1943 un altro terribile mostro dei mari era in agguato, il famigerato sommergibile della Reale Marina inglese Safari, al comando del tenente di vascello Ben Bryant.
Quel giorno passò di lì l’lsonzo, (piroscafo armato) requisito all’utilizzo commerciale e destinato a nave di scorta per convogli. La nave era diretta da Cagliari a La Maddalena e trasportava un carico di acqua dolce destinato all’alimentazione del naviglio, oltre che alle esigenze di acqua potabile dell’isola. Con l’Isonzo erano in navigazione la motonave Loredan ed il piroscafo Entella.
La loro scorta era costituita da un MAS 507, da un idrovolante in ricognizione aerea e da un dragamine RD 29. Alle 18.20, davanti a Torre delle Stelle, il Safari lanciò quattro siluri: due colpirono l’Isonzo, affondandolo immediatamente, uno colpì il Loredan, mentre l’Entella, nel disperato tentativo di fuga, si andò ad incagliare nella secca della Torre del Finocchio. Episodi di guerra, questi e tanti altri, di cui sono muti testimoni i relitti del nostro mare.
…. alla ricerca dei Relitti citati nel Golfo degli Angeli
Tra il 1940 ed il 1944 si ha notizia di oltre un centinaio di unità navali affondate in attacchi aerei sui porti isolani, in azioni di pattugliamento da sommergibili inglesi e olandesi o per l'impatto contro sbarramenti di mine.
Oggi si conosce la posizione di 73 relitti moderni, ma soltanto di una ventina si può tracciarne la storia. Restando in un'area circoscritta ci si può immergere nel Golfo di Cagliari.
Partendo da est verso ovest si incontreranno i resti dell`Egle, affondata dal sottomarino olandese Dolfjin durante la Seconda guerra mondiale, dell’Entella, una nave da carico a soli diciotto metri di profondità, del Loredan, nave ad uso misto misto di 71 mt che giace alla profondità di 50 mt, dell`Isonzo, nave cisterna armata che giace a circa 56 metri, questi ultimi tre affondati dal sommergibile britannico Safari mentre in convoglio si dirigevano da Cagliari a La Maddalena, del Romagna, famoso per i gronghi giganti che abitano nella prua, del LT 221, un rimorchiatore posamine che si trova ad oltre 40 mt. di profondità al centro del Golfo degli Angeli. Proseguendo verso occidente verso Capo Teulada troviamo il Dino, una nave italiana colata a picco una ventina di anni fa per una forte mareggiata.
P.fo EGLE
Iniziamo la nostra esplorazione subacquea a caccia di relitti nel Golfo di Cagliari con l’Egle.
L’Egle era un piroscafo da carico, misurava 71,7 mt di lunghezza e 9,6 di larghezza costruito nel 1893, venne silurato dal sommergibile olandese Dolfjin a circa un miglio da Capo Carbonara il 29 marzo 1943. L’Egle trasportava carbone come testimonierebbero i resti che si trovano sul relitto, ma non è sicuro, era armata con equipaggiamento da autodifesa che evidentemente non ha assolto perfettamente al suo scopo.
Localitá: Capo Boi - Posizione: Si trova al traverso di Cala Caterina Capo Carbonara segnalato da un pedagno - Profondità: 35 mt. in posizione di navigazione su un fondale di sabbia, scogli e posidonia - Temperatura dell’acqua: tra i 10 e i 15 gradi - Correnti: di Maestrale e Scirocco non molto forti - Distanza terra: 2 miglia circa.
Note: zona di mare interdetta all’immersione con l’Ara, è possibile immergersi soltanto rivolgendosi ai diving dotati di permesso.
P.fo ENTELLA
Un nome a noi famigliare…
E’ il mattino del 10 Aprile 1943 quando il piroscafo da carico Entella esce dal porto di Cagliari in convoglio assieme all’incrociatore Loredan e al piroscafo armato Isonzo per dirigersi alla Maddalena.
L'Entella trasportava carbone, misurava 95 mt. di lunghezza e 12,3 di larghezza costruita nel 1899, venne silurata dal sommergibile inglese Safari.
Così viene raccontato l’agguato: Giunto all’altezza del promontorio di Torre delle Stelle il convoglio viene sorpreso e attaccato dal sommergibile britannico Safari. I primi due siluri lanciati da quest’ultimo vanno a segno facendo affondare quasi immediatamente le altre due navi mentre il comandante dell’Entella, con un’abile e rapida accostata verso terra, riesce ad evitare l’impatto con il terzo siluro e ad incagliare la nave su un basso fondale mettendo in salvo sé stesso e tutto l’equipaggio. Tuttavia, nonostante l’abile manovra del suo comandante, la sorte del piroscafo era segnata: il mattino del giorno successivo infatti il comandante Bryant diresse di nuovo sul Safari completando la sua opera di distruzione sulla nave incagliata, divenuta ormai un facile bersaglio dei suoi siluri.
Oggi ciò che rimane del piroscafo Entella è un cumulo di lamiere e qualche residuo delle sovrastrutture, il tutto sparso su un basso fondale di composizione mista sabbia/roccia e circondato da rigogliose chiazze di posidonia. E’ ancora presente buona parte del carico di carbone, il quale è ben visibile sotto forma dei caratteristici ciottoli scuri sparsi sul fondale tutto attorno alla zona del disastro.
Si trova alla profondità di 15 metri e quindi è un'ottima nave-scuola per i fotobus alle prime armi, ma anche per i sub che iniziano a pinneggiare per la prima volta.
Localitá: Torre delle Stelle – Posizione: Si trova pochi metri dal Capo di Torre delle Stelle - Profondità: 15 mt. in posizione di navigazione su un fondale di sabbia e posidonia con il carico di carbone disperso sul fondo - Temperatura dell’acqua: tra i 12 e i 18 gradi - Correnti: di Maestrale e Scirocco non molto forti.
Distanza terra: pochi metri.
P.fo LOREDAN
Il Loredan era una motonave-armata ad uso misto, lunga 71 mt. e larga 10,7 mt costruita nel 1936.
Faceva parte, con compiti di scorta, del medesimo convoglio che venne silurato dal sommergibile inglese Safari il 10 aprile 1943, e così come l'Entella e l'Isonzo subì la stessa sorte e colò a picco al largo di Torre Finocchio, oggi nota come Torre delle Stelle.
Il Loredan è posato sul fondo con la murata sinistra, la prua verso il largo e la coperta rivolta verso Capo Carbonara.
L'immersione sul Loredan è abbastanza impegnativa per la profondità e talvolta per la presenza di correnti, ma è ripagata dall' incredibile varietà di vita e di colori che accolgono il subacqueo, il lato destro della nave e completamente coperto da gorgonie rosse e gialle e da spugne multicolori.
E' possibile accedere, con le dovute precauzioni, alle stive ed alla sala macchine.
Localitá: Torre delle Stelle - Posizione: Si trova al largo del Capo di Torre delle Stelle - Profondità: 45 mt. è adagiata sul fianco sinistro su un fondale di sabbia e posidonia - Temperatura dell’acqua: tra i 10 e i 14 gradi - Correnti: di Maestrale e Scirocco forti - Distanza terra: a circa un miglio e mezzo.
P.fo ISONZO
Questa grande cisterna militare armata, (misura un’ottantina di metri), il 10 aprile del 1943 ha subito la stessa sorte dell’Entella e del Loredan, venne silurata dal medesimo sottomarino inglese mentre in convoglio si dirigeva dal Porto di Cagliari a La Maddalena.
L’immersione è piuttosto impegnativa perché l’Isonzo si trova alla profondità di circa 50 metri in una zona spesso percorsa da forti correnti, soprattutto di maestrale e scirocco presenti alla profondità di 20/25 mt. e che poi spariscono.
Bisogna comunque essere buoni subacquei per affrontare un’immersione sull’Isonzo, anche perché è sempre necessario fare decompressione (più o meno lunga). Vi sono numerosi banchi di pesci che frequentano questo relitto; è facile incontrare gronghi giganteschi, astici, aragoste. Si può entrare in sala macchine (usando la massima precauzione), e ci si trova circondati da tantissime varietà di pesci, uno spettacolo indimenticabile.
Localitá: Torre delle Stelle - Posizione: Si trova al largo del Capo di Torre delle Stelle - Profondità: 45/56 mt. è adagiata sul fianco su un fondale di sabbia -Temperatura dell’acqua: tra i 10 e i 14 gradi - Correnti: di Maestrale e Scirocco forti tra i 20 e i 25 mt di profondità - Distanza terra: a circa un miglio e mezzo. - Note: Porta tuttora i due cannoni e le due mitragliatrici.
Tutta la nave è percorsa da una sagola che sale fino a tre metri dalla superficie, dove una boa galleggiante indica il punto del relitto. Serve come guida per l’intera immersione, ma anche come utile punto di riferimento per la decompressione.
P.fo ROMAGNA
Siamo a Capitana, sempre nel Golfo di Cagliari. Purtroppo anche il Romagna ha subito la stessa sorte dell’Entella, dell’Isonzo e dell’Egle e quindi è andato a fondo nel 1943 ferito a morte e spezzato spezzato in due tronconi: oggi la prora si trova addirittura a un miglio di distanza dal resto.
La cisterna Romagna era un piroscafo armato di 1.416 tonnellate di stazza costruito nel 1899. Affondò il 2 agosto del 1943 a seguito dell' urto con una mina di sbarramento al largo di Capitana spezzandosi in due tronconi, la prua andò immediatamente a picco, mentre il resto della nave proseguì la sua rotta andando alla deriva e inabissandosi a circa 1 km dal punto dell'impatto. Infatti la prua si trova a circa a un miglio di distanza dal resto, e costituisce un' immersione a sé stante.
Il relitto è lungo una cinquantina di metri, si trova a una profondità tra i 34 e i 48 metri, in posizione di perfetta navigazione. Non è rovinato, se non la coperta, ed è possibile entrare nella sala macchine e nella stiva. C’è di tutto: aragoste e, in generale, molti crostacei, e pesci anthias nelle camere interne, muri di re di triglie e poi tantissimo pesce di passo. Se si è particolarmente fortunati si possono perfino incontrare i delfini. All’interno ci sono ancora scarpe, valigie, insomma tracce dell’equipaggio
Localitá: Capitana - Posizione: Si trova al largo di Capitana - Profondità: 34/48 mt. Si trova in posizione di navigazione su un fondale di sabbia - Temperatura dell’acqua: tra i 10 e i 15 gradi.
Correnti: con venti di Maestrale e Scirocco forti - Distanza terra: a circa un miglio e mezzo.
LT 221
L' LT 221 era un rimorchiatore posamine americano che, ironia della sorte, affondò il 15 ottobre 1944 a seguito dell'urto con una mina.
Il relitto è stato scoperto recentemente e identificato grazie alla sigla incisa nella campana di bordo.
Lo scafo è posato sul fianco destro su un fondale sabbioso a 50 mt. di profondità ed è pedagnato.
In caso di buona visibilità il relitto si intravede già dopo i primi metri di discesa, lo scafo è coperto di spugne coloratissime e la presenza di tanta vita allieta l'immersione
Localitá: Golfo di Cagliari - Posizione: Si trova al largo di Capo Sant' Elia - Profondità: 50 mt. - Temperatura dell’acqua: tra i 10 e i 15 gradi. - Correnti: con venti di Maestrale e Scirocco forti. - Distanza terra: a un miglio e mezzo.
P.fo DINO
Ci spostiamo leggermente dal Golfo di Cagliari e arriviamo a Punta Zafferano (Capo Teulada), dove a 25 metri di fondo giace il Dino.
Era una nave (un'ottantina di metri di lunghezza) un tempo adibita al trasporto dell'argilla e successivamente dismessa e usata come sagoma di tiro nel poligono di Capo Teulada. Affondò mentre si trovava all'ancora a Porto Zafferano, durante una mareggiata di scirocco. È un celebrato sito d'immersione subacquea (necessaria autorizzazione, si trova in area militare).
n.b. il poligono rappresenta l'orientamento preciso del relitto.
Si presenta molto inclinata, praticamente appoggiata sulla fiancata di dritta. Si trova su un fondale di sabbia e posidonia in posizione, potremmo dire, a candela. È infatti esattamente in piedi conficcata nel fondo. Se si entra nelle stive e nella sala macchine si trovano ancora tracce dell’equipaggio. Sul soffitto, ad esempio, si vedono ancora, ben stivate, le cassette di vino.
La nave aveva anche alberi lunghissimi che però ora le giacciono accanto perché sono stati abbattuti dalla Nato, che adduceva problemi di interferenze alle sue esercitazioni.
Le navi hanno un’anima e una voce, e quando affondano salutano con un ultimo gemito straziante il loro comandante, prima di morire.
(Valerio Massimo Manfredi)
VILLASIMIUS
(Cagliari)
LA FESTA DELLA MADONNA DEL NAUFRAGO
L'opera fu scolpita dall’artista Pinuccio Sciola
La SS. Vergine è celebrata in suffragio dei marinai, vittime delle guerre e delle tempeste intorno all'isola ma anche per proteggere tutti i naviganti.
Ogni anno, il terzo sabato di luglio, nelle acque di Villasimius, paese in provincia di Cagliari, famosissimo per le sue spiagge caraibiche e il mare trasparente, si svolge la Festa della Madonna del Naufrago. L'evento, molto sentito dagli abitanti e frequentatissimo dai turisti che soggiornano nelle zone circostanti in questo periodo, ha il suo momento più suggestivo nella processione che parte dalla parrocchia di San Raffaele sino al porto e poi in mare con la benedizione, la preghiera subacquea ed il getto in mare di corone di fiori.
La statua, una rappresentazione della Vergine con Bambino, è opera di Pinuccio Sciola che l'ha realizzata in trachite rosa di Ozieri e collocata sui fondali antistanti l'isola. La si può vedere anche dalla superficie con una semplice maschera da sub e venne sistemata a 12 metri di profondità nel 1979 da un gruppo di amanti del mare, appassionati di immersioni.
Nella serata, oltre alla degustazione del pesce, ci sono delle esibizioni di gruppi folk che mettono in scena balli in costumi sardi tradizionali, musiche e componimenti poetici.
Suggestiva è la celebrazione della Santa Messa nel piazzale del porto cui fa seguito una processione di barche addobbate di fiori che si dirige verso l'isola. Il sacerdote del paese, con una squadra di sub, si immerge ad una profondità di dieci metri, dove ai piedi della Madonna, recita la preghiera rituale, udita, tramite altoparlanti, dai fedeli in acqua e nelle imbarcazioni che in segno di saluto suonano le sirene e gettano in acqua corone di fiori dai mille colori.
La festa prosegue con gli immancabili fuochi artificiali.
Per chi ha la possibilità di andarci la festa rappresenta una bellissima occasione, al di là del sentimento religioso, per scoprire le tradizioni locali e il mare stupendo di Villasimius!
CARLO GATTI
Rapallo, 20 Aprile 2021
ESPERIENZE UNICHE
SCRITTORI IN RIVA AL MARE
ESPERIENZE UNICHE
John Gatti
Erano mute usate e strausate, con tagli e buchi sui gomiti, sulle spalle e sulle ginocchia, provocati da decine e decine di entrate e uscite da spaccature e tane.
Da quei buchi, appena s’immergevano, rivoletti d’acqua s’insinuavano come sottili lame di ghiaccio e camminavano lungo la schiena andando a riempire le sacche che si formavano dove la muta non aderiva perfettamente al corpo.
La tortura durava pochi minuti, il tempo necessario al fisico per riscaldare l’acqua con cui veniva a contatto.
«Saltiamo il pezzo fino alla Madonnina.» disse Riccardo dopo aver sputato il boccaglio «Il primo tuffo lo farò io quando arriverò alla chiesa.»
I due amici acconsentirono con un cenno della mano, dopodiché cominciarono a pinneggiare regolarmente uno di fianco all’altro.
L’acqua era limpida e il fatto di non avere il fucile, il portapesci e il pallone segnasub contribuiva ad accrescere il senso di libertà trasmesso normalmente dal mondo sottomarino.
Innumerevoli castagnole sciamavano sopra le secche, aprendosi come pagine di un libro al passaggio dei ragazzi.
A un certo punto Angelo non resistette alla tentazione: fece una capovolta al volo e con poche potenti falcate si andò a posare sopra uno scoglio piatto circondato dalla posidonia. Alcuni metri prima di raggiungere il fondo interruppe ogni movimento, proseguendo a foglia morta. Allargò le gambe e le braccia per rallentare la velocità, andando a posarsi esattamente sul punto scelto.
Dall’alto i due amici seguivano la scena.
L’atterraggio fu morbidissimo, si trovò sdraiato sopra lo scoglio, rivolto verso il mare aperto e circondato da una verde prateria sottomarina che lo nascondeva perfettamente. Davanti a lui il fondale scendeva in picchiata, offrendogli la possibilità di osservare, senza essere visto, da una posizione dominante. Era nel punto ideale per mettere in pratica la tecnica dell’”aspetto”, iniziata nel momento in cui le sue pinne sparivano sott’acqua, quando le vibrazioni provocate dalla discesa verso il fondo si erano propagate, raggiungendo la sensibile linea laterale dei pesci che si trovavano nelle vicinanze; infatti, pochi secondi dopo, i primi saraghi apparvero in lontananza, avvicinandosi a scatti, cercando di soddisfare la loro curiosità.
Improvvisamente i pesci scapparono in tutte le direzioni e per qualche istante lo scenario tornò deserto. Poi, finalmente, apparvero i musi aggressivi di quattro dentici di media taglia, seguiti da altri tre esemplari decisamente più grossi.
Era sempre uno spettacolo mozzafiato vedere quelle maestose creature, dagli splendidi colori, avanzare minacciose ma diffidenti verso una possibile preda.
Tempo scaduto.
Angelo riuscì a prolungare l’apnea quel tanto da vedere i grossi denti, leggermente sporgenti, del pesce più vecchio del gruppo.
Soddisfatto si staccò dal fondo provocando un fuggi fuggi generale e, pinneggiando, raggiunse la superficie.
«Che sballo ragazzi! Quello più grosso sarà pesato almeno cinque chili!»
«Bravo, hai fatto un ottimo “aspetto”» approvò Riccardo
«Se avessi avuto il fucile… forse uno sarei riuscito a stenderlo.»
«Sììì, e se mio nonno avesse avuto cinque palle sarebbe stato un flipper…» lo prese in giro Maurizio.
«Cosa centra? Deficiente! L’hai visto anche tu come si sono avvicinati tranquilli, no?»
«Erano talmente tranquilli che l’ultimo del gruppo si è addormentato a metà strada.»
«Dai Mauri, non farlo arrabbiare.» intervenne Riccardo «Vicini sono arrivati vicini, bisognerebbe sapere se con il fucile puntato nella loro direzione si sarebbero comportati allo stesso modo.»
«Bene, bene, visto che in materia ve la tirate da professori, vorrà dire che ora ci sposteremo un po’ più avanti e mi farete vedere un’azione più brillante della mia.»
«Beh,» mise le mani avanti Maurizio «lo sai che nella teoria vi faccio un sedere così, ma per quanto riguarda la pratica sono sicuramente un po’ meno allenato…»
«Ma che risposta è? Sarebbe come dire che sei tutto fumo e niente arrosto!»
«Io invece accetto la sfida» disse Riccardo con convinzione, rimettendosi il boccaglio e prendendo a pinneggiare verso ponente.
«Ci scommetto che va sul dito.»
«Sul dito?»
«Sì, è una roccia a forma di pollice che si trova a dodici metri di profondità. Si affaccia da una parete che scende fino a trenta. A volte, stando sdraiati su quello scoglio, si vedono passare dei branchi di ricciole da venti e più chili e, all’alba o al tramonto, è possibile portare a distanza di tiro dei bei dentici.»
Riccardo nel frattempo aveva finito di prepararsi e quando i due amici lo raggiunsero le sue pinne erano già sparite sott’acqua.
La posizione era la stessa che aveva assunto Angelo ma al posto delle posidonie c’era il mare aperto, il trasparente che si tramutava in azzurro per diventare blu, mano a mano che l’occhio cercava di bucarne la profondità.
Ma la sorpresa non arrivò dal blu.
A sinistra, poco sotto al dito, una nube di fango in sospensione tradì la scodata di un pesce.
Con movimenti lentissimi Riccardo si portò sul ciglio dello scoglio per capire cosa stava succedendo.
I due amici, che continuavano a osservare la scena dall’alto, lo videro sporgersi con le mani allungate verso il fondo.
Qualche secondo dopo una nuova nube si sollevò a tre o quattro metri di distanza.
Anche per Riccardo era scaduto il tempo e con qualche colpo di pinna raggiunse Angelo e Maurizio in superficie.
«C’è la lenza madre di un palamito che passa proprio sotto la roccia e, da qualche parte poco più avanti, ci dev’essere un bel pescione con un amo che gli buca la bocca.»
«Ecco cos’era quella nuvoletta che ogni tanto compariva sulla tua sinistra.»
«Già, era la bestia che scodava quando tiravo la lenza.»
«Forza allora» li incoraggiò Mauri «andiamo a conoscere lo sfigato che sta soffrendo là sotto.»
«Va bon» disse Angelo «tanto minuto più minuto meno…»
«Cioè?» domandò Riccardo.
«Volevo dire, che se il tesoro è rimasto nascosto per quarant’anni, non penso che qualcuno ce lo porterà via da sotto il naso proprio oggi.»
Riccardo, che fra i tre era quello con l’apnea più lunga, fu il primo a sparire sott’acqua, seguito a breve distanza dagli altri due.
Quando arrivarono sotto al dito videro che la lenza madre del palamito era di diametro generoso, e che i normali terminali di nailon erano stati sostituiti da cavetti d’acciaio alle cui estremità erano legati grossi ami .
I tre ragazzi seguirono la lenza per qualche metro, fino a quando il primo cavetto sparì dentro un’ampia spaccatura.
Continuarono ad avvicinarsi con cautela, pensando di trovare una grossa murena intanata.
Il braccetto del palamito, teso come la corda di un violino, entrava nella tana sfregando contro le rocce e si perdeva nell’oscurità.
Maurizio e Angelo si fecero da parte lasciando entrare più luce possibile, intanto Riccardo scrutava all’interno cercando di familiarizzare con spuntoni e ombre.
Dopo qualche istante si girò verso i compagni, unì indice e pollice per comunicare che aveva visto quello che doveva vedere e cominciò la risalita in superficie.
«Che sballo!» esclamò appena le teste dei due amici uscirono dall’acqua.
«Cos’hai visto?» domandò Maurizio.
«Ragazzi…» prese tempo, cercando le parole giuste «è grossa!»
«Cos’è grossa? Una murena?»
«E’ una cernia! E peserà almeno dieci chili!»
«Uhau… e com’è messa?»
«Ha il muso rivolto verso l’ingresso e non può intanarsi meglio perché ha un amo che le buca il labbrone e s’infila dentro la bocca. Il cavetto che lo tiene è molto in forza.»
«Minchia! E ora che facciamo?»
Gli altri due si scambiarono un’occhiata, poi Angelo disse:
«E’ inutile far finta di niente, tanto ti conosco: creatura in difficoltà? Niente paura, arriva Super-Riky a salvarla!»
«Non fare il duro, belinun! So benissimo che anche una carogna come te non riuscirebbe a sparare a bruciapelo a un essere vivente legato e incastrato.»
«Bene, adesso che abbiamo stabilito di dover salvare quella povera cerniotta, resta solo da decidere come farlo, giusto?»
«L’acciaio con il coltello non lo tagliamo di sicuro e d’altra parte lasciare l’amo penzoloni dalla bocca vorrebbe dire condannarla a morte certa.» commentò Maurizio.
«Giusto!» disse Riccardo «Bisogna liberarla per forza.»
«Mi sembra una cosa davvero impossibile.» osservò Angelo.
«Non è detto…» sussurrò Riccardo, lasciandoli pensierosi mentre tornava sott’acqua.
«Beh, che facciamo?»
«E che vuoi fare? Andiamo giù a guardare la magia del famoso “Mago Richard”.»
Lo trovarono fermo davanti alla spaccatura. Per non disturbare l’azione si spostarono con movimenti rallentati, mettendosi alle due estremità. Da lì potevano osservare quello che succedeva all’interno della grotta, senza interferire.
La mano dell’amico avanzava lentamente verso la grossa cernia che lo fissava immobile. Quando le dita arrivarono a dieci centimetri dall’animale, questo iniziò a sbattere da una parte all’altra, cercando di liberarsi dell’amo.
Riccardo rimase fermo ad aspettare che il pesce tornasse calmo, poi portò avanti la mano, fino a toccare la parte inferiore dell’enorme bocca della cernia. Rimase in quella posizione per un tempo che parve lunghissimo.
Finalmente la ritirò piano e si allontanò dall’ingresso della tana. Tutti e tre tornarono in superficie.
«Voglio provare a vedere se apre la bocca.» disse Riccardo.
«Minchia!» esclamò Maurizio «Va a finire che riesci veramente a levargli l’amo.»
I tre amici scesero e risalirono numerose altre volte, ma purtroppo sembrava che il rapporto con il pesce avesse raggiunto una posizione di stallo: la cernia non si agitava più, ma neanche apriva la bocca.
Al quinto tuffo Riccardo fermò la mano a un palmo di distanza dal pesce.
Si fissarono per alcuni secondi, poi Riky fece uscire alcune bollicine d’aria dalla bocca e, incredibilmente, la grossa cernia si avvicinò fino a toccargli con il labbro inferiore le dita della mano. Trascorse ancora una manciata di secondi e la bocca si aprì lentamente. Sembrava di assistere a una partita di shangai: movimenti millimetrici per non far crollare tutto!
La cavità orale era veramente grande, ci poteva passare tranquillamente un pugno e Riccardo riuscì a far scivolare dentro parte della mano destra.
Nel frattempo Angelo teneva in trazione il palamito facendo in modo che il cavetto restasse in bando.
Un movimento preciso del polso e l’amo uscì dalla bocca della cernia.
Fu un momento incredibile.
Poi, senza fretta, utilizzando le pinne laterali il pesce si spostò indietro, fino a raggiungere il fondo della tana.
I ragazzi si scambiarono un’occhiata felice e tornarono nuovamente su, alla ricerca d’aria fresca.
«Grande! Sei stato grandissimo!» esclamò entusiasta Mauri.
«L’uomo pesce amico dei pesci. Il San Riccardo D’Assisi degli abissi.» rincarò Angelo.
«Che forte! È stata un’esperienza pazzesca!» disse Riky commosso «Penso di aver comunicato telepaticamente con Fred.»
«Fred? E da quando si chiama Fred?»
«Non so… so solo che si chiama Fred.»
«Va bon, dopo quello che hai fatto con quel pesce potresti anche dirmi che ti ha fatto vedere la patente: ci crederei senza battere ciglio. Forza, vai a salutare ancora una volta il nostro amico Fred così poi riprendiamo la caccia al tesoro. »
Pochi respiri profondi e, senza farselo ripetere una seconda volta, iniziò la discesa verso la tana.
«Io questa non me la perdo!» disse Maurizio seguendo Riccardo.
A Angelo non restò altro da fare che accodarsi ai due amici.
Lo ritrovarono davanti alla spaccatura. Il pesce era a pochi centimetri dalla sua faccia e apriva e chiudeva tranquillamente la bocca.
Maurizio e Angelo si fermarono sul dito di roccia, mantenendo una certa distanza per non disturbare la scena.
Riccardo avvicinò la mano alla cernia che, invece di fuggire spaventata, si avvicinò ancora di più, incoraggiando il contatto.
Angelo e Maurizio osservavano increduli il loro amico accarezzare Fred.
Visto alla luce, fuori della tana, il pesce appariva in tutta la sua grandezza. I dieci chili stimati erano sicuramente sbagliati per difetto. Diverse cicatrici bianche sulla schiena testimoniavano anni di battaglie per la sopravvivenza, mentre una profonda incisione sul labbrone inferiore, dimostrava che non era la prima volta che si trovava a combattere con una lenza.
Ma erano gli occhi a strizzare il cuore. Due occhi grandi da vitello, fermi eppure attenti, calmi eppure espressivi. Erano gli occhi di un essere vivo che fissavano gli occhi di chi lo aveva salvato. Li fissavano con un calore diverso da quello umano, ma il messaggio era inequivocabile.
Il tempo passava e Maurizio fu il primo a lasciare il fondo per tornare tra quelli che “contano”, tra la gente che respira, vicino a coloro che hanno dei sentimenti…
Ma era proprio così?
Angelo fu il secondo a uscire dal sogno, il secondo che poco dopo si sarebbe chiesto se quello che aveva visto era successo veramente.
Dalla superficie i due ragazzi continuarono a seguire i movimenti di Riccardo, il quale, a malincuore, dovette arrendersi alla natura: lasciò la posizione vicino al “dito” mantenendo lo sguardo fisso negli occhi della cernia. Saliva lentamente e lentamente il pesce si allontanò dall’ingresso della tana, mettendosi nella classica posizione a candela con il muso rivolto verso l’alto.
I tre amici si guardarono con complicità. Non c’era bisogno di parole. Non avrebbero aggiunto niente di più all’eccezionalità del momento.
John GATTI
Rapallo, 17 Gennaio 2019
IL RELITTO DEL MAR NERO
Dedico questo articolo alla memoria del fraterno amico
Emilio Carta
il quale profuse buona parte delle sue ricerche verso il mondo dei relitti navali.
IL RELITTO DEL MAR NERO
La nave più antica del mondo trovata intatta al largo di Burgas
nel Mar Nero
"Ha 2400 anni"
Per noi umili appassionati di navi di tutte le epoche, la scoperta di un relitto così antico e ben conservato, ci emoziona particolarmente in quanto ci consente di aggiungere tasselli di conoscenza tecnica delle costruzioni navali e della gestione della nave sia per quanto riguarda il carico che la manovra.
È stata elaborata un'immagine 3D della nave grazie a dei dispositivi subacquei
“La nave dell'antica Grecia è rimasta integra perché a due chilometri di profondità manca l'ossigeno”. Afferma il professore Jon Adams responsabile del gruppo scientifico che ha individuato la nave: "Una scoperta straordinaria che rivoluziona le nostre conoscenze sul mondo antico".
The Science Team
Professor Jon Adams is a Professor in Maritime Archaeology and Founding Director of the University of Southampton’s Centre for Maritime Archaeology.
Professor Lyudmil Vagalinski has been Head of the National Archaeological Institute & Museum (NAIM), part of the Bulgarian Academy of Sciences (BAS) since 2010.
Hristina Angelova (in memorian) has been instrumental in the Black Sea MAP since planning began in 2014 working as the lead Bulgarian maritime archaeologist on the expedition.
Dr. Kalin Dimitrov graduated in Archaeology at the St. Kliment Ohridski University, Sofia in 1992. In the same year he was appointed as Maritime Archaeologist in the Centre for Underwater Archaeology in Sozopol.
Gli altri membri del Team:
Dr Veselin Draganov – Dr Justin Dix - Prof Joahn Rönnby – Dr Kroun Batchvarov – Dr Dragomir Garbov – Dr Helen Farr – Dr Joakim Holmlund – Dr Rodrigo Pacheco-Ruiz – Dr Dimitris Sakellariou – M.S.C. Kiril Velovsky –
The Educational Team: Catherine Aldridge – Ruth Mackay – Roger Baker – Dani Newman – Dave John - Dr Angela Hall – Elizabeth Terry –
Documentary Team: David Belton – Andy Byatt.
Trovarla e restituirla alla storia, è stata un’impresa del celebre MAP, acronimo di Maritime Archaeology Project. L’equipe é guidata dal britannico Jon Adams, responsabile di una troupe internazionale di archeologi e scienziati che fa riferimento all’Università di Southampton e che dal 2015 sta setacciando le coste della Bulgaria dove un tempo approdavano le navi provenienti dalla Grecia e, in generale, dai porti mediterranei. La troupe dispone di moderni droni abilitati per la ricerca di relitti giacenti alle profondità abissali che sono anche attrezzati per raccogliere immagini a tre dimensioni.
La notizia è stata data dal Guardian. A breve sarà proiettato al British Museum di Londra un documentario girato durante le ricerche. Oltre a questa imbarcazione i ricercatori hanno individuato un vero e proprio cimitero di navi.
I NUMERI
Il Mar Nero, con i suoi alti fondali, si é rivelato, ancora una volta, il grande guardiano dell’archeologia marina subacquea che ci porta a rivisitare quei pezzi di storia che sembravano già dimenticati.
Il relitto risale a 2400 anni fa ed è praticamente intatto. La nave ritrovata nel mese di ottobre 2018 è la più antica al mondo mai rinvenuta dall’uomo. Si trova a circa 80 km dalla città di BURGAS (Bulgaria), a 2mila metri di profondità.
Si tratta di una nave mercantile lunga circa 23-25 metri, di costruzione greca, in ottimo stato di conservazione risalente a 2.400 anni fa. E’ già stata ribattezzata la “nave di Ulisse“. Secondo gli archeologi, infatti, è molto simile alla nave del mitico eroe greco Ulisse raffigurata su un antico vaso, da qui il nome (vedi foto sotto).
Tipologia di nave
Secondo le ricostruzioni degli esperti, quel tipo di nave veniva usata per trasportare merci varie dalla Grecia alle colonie elleniche sulla costa del Mar Nero.
Ci sono degli indizi che fanno pensare ad anfore ma anche ad opere artistiche. Sono tuttora visibili l’albero di maestra, il timone e le panche per i rematori. Per il momento il relitto é destinato a rimanere nell’antica culla che lo ospita da oltre due millenni sul luogo del naufragio.
Il suo eccezionale stato di conservazione è dovuto alla mancanza d’ossigeno a quella profondità, oltre che al particolare habitat di un bacino chiuso e preistorico come il Mar Nero.
Città portuale di BURGAS - Bulgaria (Mar Nero)
Burgas è il secondo porto bulgaro sul Mar Nero ed ha il più grande aeroporto nei Balcani. È noto come centro industriale e turistico. Si pensava fosse una città di recente fondazione, ma recenti scavi archeologici nei dintorni hanno riportato alla luce numerosi reperti, che oggi si possono vedere nel museo archeologico. Si suppone che nel sito dell’attuale Burgas ci fosse, nel II - IV sec. A.C., un agglomerato traco-macedone. Fino al XVIII° sec. sono esistiti solo dei villaggi di pescatori. Il gioiello della città è il parco lungo il mare, piacevole posto per passeggiate sia d’estate che d’inverno. D’interesse per i visitatori della città sono il museo archeologico, il museo etnografico, la sinagoga - dono al comune dalla comunità ebraica - che ospita una mostra di icone e la chiesa armena.
IBERNAZIONE
Il relitto è stato trovato grazie a due robot subacquei telecomandati (ROV) che hanno permesso un’esplorazione estremamente accurata, ma a causa della profondità delle sue acque che assicurano una sorta di ibernazione, per ora sembra impossibile riportarlo alla luce sulla terraferma. Infatti, la totale mancanza di luce e ossigeno a quella profondità ha permesso al relitto di rimanere intatto grazie a circostanze ambientali assai peculiari. In altre parole, in quella regione, l’acqua marina è particolarmente povera di ossigeno, il che ha impedito la proliferazione di batteri che l’avrebbero corrosa e deteriorata.
E’ perfettamente visibile il timone e il contenuto della stiva, come se il tempo si fosse fermato per consegnarcelo intatto e non fosse ancora stanca di navigare nell’azzurro del mare.
L’esame di alcuni campioni di legno prelevati dal relitto ha dimostrato che lo scafo risale al 400 a.C. Ci si trova, senza dubbio alcuno, dinanzi al più antico relitto navale che sia mai stato scoperto nel mondo.
“Ci è sembrato di vivere in un film di avventura” ha dichiarato al New York Times il responsabile del progetto, il professor Jon Adam– non pensavo fosse possibile trovare. una nave come questa, ancora intatta, a tali profondità. Abbiamo osservato il timone perfettamente conservato ed in posizione di navigazione. Il suo studio senz’altro cambierà la nostra comprensione della costruzione navale e della navigazione nel mondo antico. La storia di questo antico relitto è ancora tutta da scrivere. Probabilmente, stando ad alcune rilevazioni di reperti esaminati, trasportava, oltre alle solite anfore che erano i contenitori principali in tutta l’antichità, anche ceramiche. Le sue stive, ancora semi sepolte nella sabbia, potrebbero nascondere un vero tesoro artistico, oltre che archeologico”.
Il professor J.A. ha inoltre precisato: “per il momento, il recupero della nave è pressoché impossibile perché il legno, rimasto in uno stato anossico per 24 secoli, si dissolverebbe al primo contatto con l’aria”.
Nel frattempo gli archeologici hanno trovato molte somiglianze con le navi raffigurate nei vasi greci dell’epoca, custoditi nei musei di diverse nazioni.
Dr Helen Farr is a maritime archaeologist with a focus on prehistoric submerged landscapes and early seafaring.
“È una scoperta unica nel suo genere”, ha raccontato alla Bbc Helen Farr, una delle partecipanti alla spedizione. È come aprire una finestra su un altro mondo: quando abbiamo esaminato il video e abbiamo visto apparire la nave, così perfettamente conservata, ci siamo sentiti come se avessimo fatto un viaggio indietro nel tempo”.
LE PARTI MEGLIO CONSERVATE
Sono pressoché intatti: l’albero di maestra, i timoni, le panche utilizzate dai rematori e addirittura, sembra, anche parte del contenuto della stiva – che però è ancora sconosciuto; gli archeologi sostengono che servirà una nuova spedizione per scoprirlo, anche se con ogni probabilità si tratta di anfore e vasi.
Il Vaso della sirena, che è conservato al British Museum di Londra
È nel XII canto dell’Odissea di Omero che, per la prima volta, le sirene fanno la loro apparizione in un’opera letteraria. Intorno a queste figure leggendarie si sono sviluppati miti che, fin dall’antichità, hanno alimentato l’immaginazione dell’uomo, al punto da condurlo a renderle degli esseri quasi reali. A loro si attribuiscono doti ammaliatrici; ascoltando il loro canto nessun essere umano riuscirebbe a resistere, cadendo, inevitabilmente, nella loro trappola. Seguendo il loro canto sensuale, il malcapitato andrebbe incontro solo alla morte. Pochi sono gli uomini sopravvissuti al loro richiamo. Oltre ai leggendari Argonauti, l’episodio più famoso è quello di Ulisse (rappresentato nel vaso) che, seguendo il consiglio della maga Circe, riempì di cera le orecchie dei suoi compagni e facendosi legare all’albero della nave, riuscì a superare la tentazione di buttarsi in mare per seguirle.
La nave a doppia propulsione - vela e remi - è stata individuata in un noto cimitero di relitti, dove sono già state localizzate oltre 60 imbarcazioni. Lo shape dell'imbarcazione ricorda il vascello raffigurato nel Vaso della sirena, che è conservato al British Museum di Londra e risale al 480 a.C.
Rispetto alla moltitudine di reperti, quel particolare vaso è citato da alcuni studiosi che ritengono possa rivelare qualcosa sulla storia dei viaggi di Ulisse, forse persino di quel passo dell'Odissea dove si racconta che: il re di Itaca si fece legare a un albero della nave per ascoltare senza rischi il canto mortifero e tentatore delle sirene - esattamente la "scena" descritta dalle decorazioni del vaso sopra riportato.
L'AMBIENTE PERFETTO
“Questo cambierà la nostra comprensione delle costruzioni navali e della navigazione in quel tempo“. È stato comunque prelevato un piccolo frammento di legno del relitto ed è stato portato all'Università del Southampton per ulteriori analisi.
La datazione della nave è stata condotta col metodo del carbonio-14 - Il risultato la fa risalire al 400 avanti Cristo.
IL PARADISO DEGLI ARCHEOLOGI. L’opinione di Jon Adams: “la nave potrebbe essere affondata durante una tempesta di fronte alla quale l'equipaggio, che poteva essere composto tra i 15 e i 25 uomini, non riuscì a fare nulla, e non sarebbe da escludere la possibilità che vi siano i loro corpi conservati nei sedimenti circostanti la nave. Al momento non c'è un progetto per riportare il relitto in superficie, in parte per i costi di una tale operazione e in parte perché sarebbe necessario suddividerlo in pezzi”.
I ricercatori impegnati nel progetto Black Sea Map hanno rinvenuto reperti anche più antichi della nave greca, ma di questi sono stati trovati solo frammenti. Il luogo dove giace la nave greca è in realtà costellato di relitti: “Nella stessa area ci sono, per esempio, alcune parti di una nave mercantile medievale, con le sue torri di prua e di poppa ancora praticamente intatte, con il sartiame e tutte le sue decorazioni”. Conclude Adams.
Seguirò per Mare Nostrum i successivi lavori del TEAM e vi aggiornerò sui risultati.
Carlo GATTI
Rapallo, 24 dicembre 2018
ATOLLO DI TRUK
ATOLLO DI TRUK
Al centro della carta: Chuuk (TRUK) Island
DOVE SI TROVA QUESTO ATOLLO?
L'arcipelago delle Caroline Orientali é situato poco sopra l’equatore e non distante dall’antimeridiano che segna il cambio di data. E’ formato da un grande atollo, (132 chilometri quadrati di superficie), aperto da più passaggi da cui emergono numerosi picchi vulcanici.
Oggi, l’atollo di Truk è il paradiso degli amanti dei relitti. Non esiste infatti altro posto al mondo in cui ci sia una tale concentrazione di navi affondate su fondali compresi tra i 30 e i 50 metri. Relitti lasciati così dal momento del naufragio. L’intera zona dichiarata OFF-LIMITS dagli americani per 30 anni, é oggi a disposizione dei subacquei. Relitti con il loro carico di munizioni, aerei, carri armati, autoveicoli. All’interno di questa laguna corallina dove il mare è sempre calmo, le correnti ininfluenti e la temperatura dell’acqua sempre superiore ai 25°C.
UN PO’ DI STORIA
Truk piano piano divenne la più potente base navale nipponica, a partire dal 1937, epoca dell'entrata in guerra contro la Cina.
Quando il Giappone scatenò la campagna di conquista del Pacifico, l'atollo diventò una perfetta base aeronavale, situata al centro del perimetro di difesa del Sol Levante. Di fatto era una base operativa della flotta imperiale, tanto da essere chiamata la "Gibilterra del Pacifico".
Divenuto Torokku, nuovo nome attribuito dagli occupanti giapponesi, l’atollo era coperto dalla massima segretezza. Nessuna notizia era mai filtrata, nessuna persona estranea era mai entrata....
TRUK roccaforte inviolabile, era continuamente menzionata come luogo di partenza delle forze nipponiche lanciate alla conquista del Pacifico.
Quando il vento girò a favore degli Americani, il vice ammiraglio Hitosci Kabayasi, governatore di Truk, in seguito alle numerose sconfitte subite dalla marina e dall'aviazione nipponica, si aspettava un attacco all'isola che arrivò, in effetti, ma improvviso, come un forte vento monsonico, spazzando via tutto.
Dopo la conquista degli atolli dell'arcipelago delle Isole Marshall (gennaio 1944), la Quinta flotta americana ottenne tre corazzate veloci, tra cui la Jowa e la New Jersy da 45.000 tonnellate, tre portaerei veloci (due del tipo Essex e una leggera del tipo Langley) e due portaerei di scorta. La 58° Task Force della Quinta flotta aveva quindi a disposizione 12 portaerei, con un totale di 715 aerei tra caccia, bombardieri da picchiata e bombardieri siluranti. La 58° Task Force fu divisa in quattro gruppi, di cui il 3° gruppo, sotto il comando del contrammiraglio F.E. Sherman, comprendeva la portaerei della flotta, la Bunker Hill, con 89 aerei, e le portaerei leggere Monterrey con 34 aerei e Cowpens con 33 aerei. La 7° divisione, al comando del contrammiraglio O. V. Hustvedt, era invece composta dalle corazzate Jowa e New Jersy, dall'incrociatore pesante Wichita e dal 46° squadrone di cacciatorpediniere con nove cacciatorpediniere. Nell'eventualità di uno scontro navale, il contrammiraglio Sherman disponeva di 31 bombardieri da picchiata, 49 aerosiluranti, 18 cannoni da 406 mm delle sue corazzate (con proiettili da 1117 kg), 9 cannoni da 203 mm dell'incrociatore pesante, e 90 bocche da fuoco dei suoi cacciatorpediniere. Completavano la potenza di fuoco 87 caccia e 700 pezzi antiaerei calibro 20 mm, 40 mm, e 127 mm. Gli altri Task Groups erano fondamentalmente simili.
17 febbraio 1944
Le navi americane lasciarono l'ancoraggio di Majuro nelle isole Marshall per avvicinarsi all'obbiettivo e comparvero nei paraggi di Truk. La squadra navale americana comprendeva 9 portaerei, 6 corazzate, 10 incrociatori e 28 cacciatorpediniere. Nei due giorni successivi 72 caccia Hellcat decollarono dalle portaerei e puntarono sull'arcipelago, effettuando 1.250 sortite.
Gli americani prevedevano una rabbiosa reazione aerea da parte dei nipponici, ed i caccia avevano il compito di liberare il cielo dagli apparecchi nemici prima dell'arrivo dei bombardieri. Nei quarantacinque minuti necessari ai caccia americani per raggiungere l'obiettivo, la formazione statunitense fu avvistata, ma i giapponesi riuscirono a far decollare solo 45 caccia Zero, che diedero battaglia. Il cielo e il mare si riempirono di fumo, di scoppi, di luci e di morti.
Pochi minuti dopo 260 aerei nipponici erano distrutti al suolo e le istallazioni militari avevano subito ingenti danni. Affondarono 3 cacciatorpediniere, 7 navi ausiliarie, 6 petroliere, 17 cargo.
Incrociatore leggero AGANO
Incrociatore leggero KATORI
L'incrociatore leggero Agano (nella foto) fu affondato dal sommergibile Skate. Mentre le corazzate compivano il periplo dell'atollo affondarono a cannonate l'incrociatore leggero Katori e il cacciatorpediniere Maikaze. La seconda ondata fu lanciata la mattina successiva. Gli aerei americani abbatterono altri 32
La USS Intrepid, tra le più famose 'Essex', qui nel '44
apparecchi giapponesi e portarono a termine l'opera di distruzione di tutte le infrastrutture presenti sull'isola: caserme, depositi di carburanti, officine ecc. La reazione giapponese fu modesta: un aerosilurante riuscì a colpire a poppa la portaerei Intrepid, provocando diciassette feriti e danni riparabili in breve tempo.
1944 - Aerei pronti al decollo su una portaerei americana per l'Operazione Hailstone
Nacque così la famosa “Flotta Fantasma di Truck” con relitti di navi torpedinieri, bombardieri, navi di rifornimento, aerei, etc., affondati ad una profondità tra +1 mt (di alcuni relitti fuoriesce il pennone dall’acqua) e i 200 mt.
Si sono resi necessari ben 25 anni di bonifica e migliaia di immersioni per sminare completamente e rendere innocuo il pericoloso carico di queste navi da guerra.
La laguna è divenuta ora parco, dove per immergersi è obbligatoria la guida.
I relitti, dopo oltre 50 anni, si sono completante trasformati e da tetri ricordi di una sanguinosa battaglia sono ora una ricchissima colonia di pesci e coralli colorati di ogni specie.
L’OPERAZIONE TRUK, denominata HAILSTONE, che comportava la distruzione della base nemica e delle altre isole delle Caroline fu una vittoria sensazionale americana, per di più costata in termini umani e di mezzi, molto poco: 35 aerei e 29 vittime tra gli aviatori, 11 tra i marinai e il leggero danneggiamento alla sola INTREPID.
Le conseguenze strategiche, tattiche ma soprattutto psicologiche furono di grande importanza. La distruzione della base nipponica, considerata imprendibile, divenne per gli americani il simbolo della loro potenza, ed é proprio da questa convinzione che condussero e vinsero la guerra su tutti i fronti.
Radio Tokyo diffuse la notizia che l'importante base navale di Truk era stata attaccata dalla flotta statunitense. Tojo colse l'occasione per sostituire il capo di stato maggiore della marina, ammiraglio Osami Nagano, con l'ammiraglio Shimada.
Quanto a Nimitz, comandante americano delle forze in Pacifico, riservò a Truk lo stesso trattamento che aveva riservato a Jaluit e Wotje e ad altri atolli delle isole Marshall, li isolò per poi lasciarli al loro destino privi ormai di difesa, di munizioni e di rifornimenti. Il 22 marzo la Task Force 58, con tre gruppi di portaerei, 6 corazzate veloci, 13 incrociatori e 26 cacciatorpediniere, continuò una serie di devastanti incursioni contro le basi giapponesi delle isole Palau e di Yap.
Dopo oltre 60 anni da quel tragico evento, le carcasse delle navi affondate dal raid americano giacciono sul fondale o spuntano dall'acqua ferma della laguna, masse ferrose coperte dalla ruggine. Per i ragazzi nati dopo il secondo conflitto mondiale in questa remota isola delle Caroline, fanno ormai parte del paesaggio: quei relitti sono stati usati per i loro giochi, come trampolini per i loro primi tuffi. In tutti questi anni la vegetazione tropicale è cresciuta, riuscendo a nascondere le ferite di quella battaglia, i crateri delle bombe sono divenuti laghetti e le rovine delle fortificazioni ricoperte da erbe e fiori multicolori.
Una mezza dozzina di navi giace su di un fondale la cui profondità massima si aggira sui quarantacinque metri. Tra queste la Heian Maru, nave appoggio per sommergibili di 12.000 tonnellate, e la Rio de Janeiro Maru.
Giardini di corallo e sciami di colorati pesciolini racchiudono come drappi funebri viventi le navi morte; anche i cannoni sono coperti da leggiadri gioielli che oscillano dolcemente, all'ondeggiare delicato dell'acqua della laguna. Su tutte le navi si è adagiato un tappeto di corallo, ogni pezzo dell'attrezzatura di una nave affondata si è trasformata in un'esposizione di vita marina.
Nell'ancoraggio situato a nord-ovest della laguna, a circa cinquanta metri sul fondo, si trova un gruppo di navi contenente ancora il suo carico. Poco lontano un altro relitto, un bombardiere giapponese abbattuto nelle vicinanze del campo d'atterraggio, probabilmente uno dei pochi riusciti a decollare.
Nella melma giace un cappello da marinaio, da una fenditura in una chiglia spunta una scarpa, in un angolo una coperta e numerosi resti umani. La mancanza d'ossigeno disciolto in quell'acqua stagnante ha conservato per tanto tempo quei poveri resti. Un silenzioso ricordo accudisce questa lugubre tomba, posta sul fondo di un mare racchiuso da una splendida laguna tropicale.
Dopo l'attacco americano la guarnigione giapponese e gli abitanti di Truk hanno patito la fame mentre tonnellate di viveri in scatola giacevano irrecuperabili sul fondo del mare. Un fatto che colpisce il visitatore è la totale assenza di grossi animali marini, che di solito s'impadroniscono dei relitti per farne le loro abitazioni. Non si notano cernie, murene, aragoste. La risposta è molto semplice: non tutti i depositi di munizioni saltarono in aria nei giorni dell'attacco, così i superstiti giapponesi e gli abitanti dell'isola saccheggiarono i depositi di munizioni rimasti per pescare. E la pesca con la dinamite ha praticamente eliminato quelle grandi specie ittiche che impiegano decenni per crescere.
Dopo oltre 70 anni, i motivi per cui quella tremenda guerra è stata combattuta si perdono tra le pagine dei libri di storia. Le numerose ricerche sulle navi affondate nei diversi ancoraggi della laguna dimostrano che la base di Truk si trovò impreparata a fronteggiare un attacco aeronavale. La Gibilterra del Pacifico non era altro che un mito. Oggi, subacquei provenienti da ogni angolo del mondo s'immergono per visitare questa base navale sommersa dalle acque.
Ecco una breve descrizione di quelli più adatti all’esplorazione CHINKOKU MARU petroliera di 10120 tonnellate di stazza.
Lunghezza di 150 metri. Profondità da 12 a 40 metri. Rappresenta una delle migliori immersioni in assoluto. Al centro nave si visita il ponte di comando.
A poppa gli alloggi dell’equipaggio, con grandi quantitativi di riserve alimentari, vestiti, scarpe. Si vedono anche i bagni, la sala operatoria e si possono trovare anche resti umani.
L’esplosione di colori e coralli è assicurata visitando invece la Fujikawa Maru, una portaerei di 132 mt e 6938 tonnellate di stazza, anch’essa in assetto di navigazione e con l’albero che lambisce la superficie dell’acqua; sovraccarica di crinoidi, coralli duri e molli, anemoni che rendono sia la poppa che la prua particolarmente fotogeniche.
A parte ciò la grande attrattiva di questa nave è il suo carico : parti di tre aerei, compresa una fusoliera e una cabina di pilotaggio perfettamente conservata e un bombardiere Mitsubishi Zero intatto nel quale è addirittura possibile sedervisi dentro.
Anche la sala dei motori è di grandissimo interesse ma riservata ai sub più esperti, in quanto piuttosto angusta.
FUJIKAWA MARU cargo armato di 6938 tonnellate.
E’ una delle navi meglio conservate e più interessanti per il gran numero di reperti. Ha 6 stive stracariche di munizioni e materiali di ogni tipo. In una di queste stive si trovano carlinghe di caccia Zero Mitsubishi.
La Sankisan Maru, la nave da munizioni per eccellenza era una nave da carico di 112 mt di lunghezza e 4776 tonnellate di stazza ,giace su un fondale di circa 33 mt parzialmente in assetto di navigazione.
La poppa, pesantemente danneggiata dai bombardamenti, si è staccata infatti dalla prua e si trova a circa 200 mt di distanza, in posizione eretta.
All’interno centinaia di tonnellate di proiettili ancora nelle cartucciere e munizioni di vario genere, comprese bombe di profondità, ali di aerei, mitragliatrici , motori di aerei, eliche di navi , chassis di camion completi di pneumatici.
SANKIZAN MARU cargo da trasporto di 4770 tonnellate di stazza.
Lunghezza 110 metri. Profondità da 15 a 30 metri. Molti proiettili di tutti i calibri, mitragliatrici, detonatori e bombe d’aereo. Resti di autocarri, motori d’aereo e bottiglie.
Un’immersione impegnativa è quella sulla San Francisco Maru, vista la profondità del relitto il cui ponte si trova 50 mt di profondità, ma la nave è sorprendentemente intatta.
Si tratta di una nave da carico di 116 mt e 5864 ton di stazza ed è considerata un MUST per tutti i sub che visitano la laguna di Truck.
SAN FRANCISCO MARU :5831 tonnellate.
Lunghezza 115 metri. Profondità fra 48 e 54 metri. Bellissimo relitto riservato ai più esperti. In coperta sono visibili anche alcune mine e un carro armato.
HEIAN MARU 11620 tonnellate, lunghezza 153 metri. Profondità da 15 a 33 metri. Nave appoggio per sommergibili. E’ uno dei più grandi relitti di Truk. Periscopi, grandi bombe d’aereo, vasellame. Giace su di un fianco e sono visibili le eliche di dritta.
SOMMERGIBILE 1-69 1400 tonnellate. Lunghezza 100 metri. Profondità da 36 a 42 metri.
Resta intatta la parte posteriore. Era uno dei più grandi sommergibili giapponesi.
AIKOKU MARU in due diversi camuffamenti.
HAIKOKU MARU: “nave corsara”
Profondità da 51 a 72 metri. E' un relitto molto fondo ed è molto difficile farsi accompagnare dalle guide. E' inoltre frequentato da squali oceanici del genere longimanus, potenzialmente pericolosi per l'uomo. Bombardato da un aereo, l'esplosione ha fatto saltare la santabarbara, distruggendo tutta la prua e l'aereo che l'aveva bombardata. Nell'affondamento trovarono la morte 216 persone e non è difficile imbattersi in ossa e resti umani.
Caratteristiche generali:
Dislocamento 10.437
Lunghezza 150 m
Larghezza 20 m
Pescaggio 7,8 m
Propulsione 2 motori diesel Mistsui B&W, 2 assi elica, 13.000 CV
Velocità 21 nodi (38,8 km/h)
Armamento:
8 cannoni da 5,5" (140 mm)/50
2 cannoni da 76 mm
4 cannoni da 25 mm/60
4 tubi lanciasiluri da 533 mm binati
1 catapulta per 2 aerei
La Aikoku Maru è un’altra immersione per davvero esperti.
La nave fu convertita dai giapponesi e armata con enormi cannoni in poppa e prua e vicino alle stive 3 e 4 e mitragliatrici lungo tutta la sovrastruttura.
Responsabile di aver contribuito all’affondamento di tantissime navi nemiche, fu proprio uno dei primi bersagli dell’operazione Hailstone degli americani e colpita da un missile il primo giorno delle ostilità lanciato dallUSS Intrepid, esplodendo violentemente e affondando in soli 60 secondi.
Ora la nave riposa, con i resti di tutto il suo equipaggio, su un fondale di 70 mt (parte dei resti umani di 400 membri sono state ritrovate e traslate in Giappone).
Le parti visitabili sono quelle della poppa, dove è montato un enorme cannone da 160”, mentre tutta la parte prodiera è completamente distrutta.
Anche qui oltre 1000 libbre di bombe e munizioni di vario genere, comprese le mine antinave, tutte accatastate nelle stive .
Il radiotelegrafo è collassato sul ponte, proprio in prossimità della stiva, che è invece è pienissima carri armati e camion cisterna.
E’ un relitto molto profondo ed è molto difficile farsi accompagnare dalle guide.
E’ inoltre frequentato da squali oceanici del genere longimanus, potenzialmente pericolosi per l’uomo.
Bombardato da un aereo, l’esplosione ha fatto saltare la santabarbara, distruggendo tutta la prua e l’aereo che l’aveva bombardata. Nell’affondamento trovarono la morte 216 persone e non è difficile imbattersi in ossa e resti umani.
BOMBARDIERE BETTY G4M1 MITSUBISHI Profondità 20 metri. In ottime condizioni, abbattuto subito dopo il decollo. I motori sono usciti dalle loro sedi e giacciono a circa 60 metri ad est dell'aereo.
Una formazione di Yokosuka D4Y1 fotografata davanti al monte Fuji.
Parti di tre aerei, compresa una fusoliera e una cabina di pilotaggio perfettamente conservata e un bombardiere Mitsubishi Zero intatto nel quale è addirittura possibile sedervisi dentro.
Anche la sala dei motori è di grandissimo interesse ma riservata ai sub più esperti, in quanto piuttosto angusta.
I Mitsubishi G4M Betty della Marina Imperiale giapponese; questo tipo di aerei (bombardieri/aerosiluranti), insieme ai Mitsubishi G3M Nell, affondarono le navi da battaglia britanniche
Il Mitsubishi G4M Betty Bomber riposa su un fondale sabbioso di 15 mt..
Tali bombardieri, costruiti dai giapponesi a partire dal 1938, avevano un’apertura alare di circa 30 mt e raggiungevano una massima velocità di 430 km orari.
Tutti armati con mitragliatrici frontali da 7.7 mm e 20 mm potevano portare un carico di 4000 libbre di bombe.
E’possibile penetrare in tutta tranquillità nel relitto sia dalla parte frontale che posteriore e giungere sino alla cabina di pilotaggio. Tutt’intorno al relitto sono sparse qua e là le armi che erano a bordo, la radio e strumentazione varia, mentre al di sotto delle ali si è sviluppata una foltissima foresta di coralli molli multicolori.
BOMBARDIERE JUDY YOKISUKA profondità 3 metri. Bombardiere Judy D4Y1 Yokisuka: Profondità 3 metri. Ottimo per apneisti. Buone condizioni di conservazione. Visibile anche il motore a 12 cilindri staccato dalla fusoliera.
Idrovolante Emily H8K2 Kawanishi: Profondità 15 metri. Bombardato mentre era ormeggiato davanti all'isola di Dublon.
Carlo GATTI
Rapallo, 29. Agosto. 2016