Wadi al-Jarf - Egitto - IL PORTO PIU’ ANTICO DEL MONDO
WADI AL-JARF
IL PORTO PIU’ ANTICO DEL MONDO
Cartina orientativa
EGITTO
Wadi al-Jarf è l'attuale nome di un'area lungo la costa del Golfo di Suez, nel Mar Rosso in Egitto, circa 120 km a sud di Suez dove sorgeva quello che è considerato il porto più antico del mondo, risalente alla IV dinastia egizia (2620-2500 a.C.) cioè a circa 4500 anni fa.
Wadi al-Jarf (freccia rossa) si trova 24 km a sud dello sbocco del Wadi Araba, un arido vallone che con una lunghezza di circa 160 km collega la Valle del Nilo a nord di Beni Souef e l'oasi di Fayyum con la costa del Mar rosso in prossimità della cittadina di Zafarana (freccia rossa). Il sito archeologico è posto ai piedi del monte Galâlâ in prossimità del Wadi Deir che conduce al monastero di San Paolo eremita*. Consta di due parti, la prima nell'entroterra a circa 5 km dall'attuale costa del Mar Rosso dove si trovano le grotte, la seconda il porto vero e proprio sulla riva del mare. Lungo la linea che congiunge i due siti si trova un antico edificio che costituisce parte integrante del sito.
* Il monastero di San Paolo eremita (V secolo) è uno dei principali monasteri copto ortodossi dell'Egitto; è localizzato nel deserto orientale, non distante dal Mar Rosso. Si trova a circa 36 km a sud-ovest di Zafarana e a circa 155 km a sud-est del Cairo. Il monastero è conosciuto anche con il nome di monastero delle Tigri.
LA CIVILTA’ EGIZIA
Notare la breve distanza tra il porto di WADI EL JARF e le Piramidi di GIZA
Ciò che mostra la foto sono gli scavi della città che ospitava le maestranze che costruirono la piramide di Cheope, la più alta a destra
Le piramidi di Giza: da sinistra, in secondo piano, Micerino, Chefren, e Cheope; in primo piano tre piramidi "delle regine" del complesso di Micerino
KHUFU = ………..CHEOPE
KHAFRE= ……….CHEFREN
MENKAURE=..…MICERINO
DINASTIE D’EGITTO – Orientamento Storico
La storia dell’Egitto faraonico si suddivide in grandi periodi di stabilità corrispondenti alle 30 dinastie che si avvicendarono nel governo del paese dal 3100 a.C. al 332 a.C.
Periodo protodinastico
Comprende le prime due dinastie e va dal 3100 al 2650 a.C. La I dinastia comincia con l'unificazione dell'Alto e del Basso Egitto a mano del re Menes.
Antico Regno
L'Antico Regno, che va dal 2635 al 2155 a.C. ed è noto anche come "periodo delle piramidi", inizia con la III dinastia e termina con la VI dinastia.
Tra la III e la IV dinastia l'Antico Regno raggiunse il suo apice: in assenza di guerre, tutti lavoravano per assecondare i desideri di corte del Faraone.
Risalgono, infatti, a questo periodo, le necropoli di Menfi e Saqqara e, successivamente, le tre grandi piramidi di Giza (Cheope, Chefren e Micerino). Furono costruite anche la piramide di Saqqara su mandato del re Unis.
Durante la VI dinastia il potere dei faraoni si indebolì e anche l'unità del paese iniziò a dare segni di cedimento. Per oltre cento anni, fino alla X dinastia, si susseguirono numerosi faraoni incapaci di riportare l'Egitto alle condizioni di splendore degli inizi. Durante la IX e la X dinastia, la capitale del paese fu Eracleopoli.
Medio Regno
Il Medio Regno, che va dal 2061 al 1785 a.C., comprende l'XI e la XII dinastia e corrisponde ad una ripresa dello stato unitario dopo la fase di frammentazione del potere seguita al crollo dell'Antico Regno. Segna l'inizio di questa tappa lo spostamento della capitale a Tebe.
Durante quest'epoca, l'Egitto ampliò le sue frontiere conquistando parte della Nubia. Successivamente, però, non fu in grado di far fronte alle incursioni degli Hyksos e fu costretto a cedere a questi ultimi il potere. Gli Hyksos, giunti dall'Asia, governarono il paese tra la XIII e la XVII dinastia e stabilirono ad Avaris il loro centro politico del loro governo.
Nuovo Regno
Compreso tra il 1551 y 1080 a.C., il Nuovo Regno è segnato dall'avvento della XVIII dinastia che ripristinò l'unità dello stato: il faraone Ahmose I espulse gli Hyksos e ristabilì la capitale a Tebe.
I faraoni più importanti di questo periodo furono Thutmose III, Amenhotep III e Ramses II.
Durante il regno di Ramses II, l'Egitto conquistò la Nubia e furono eretti i templi di Abu Simbel. Il faraone visse quasi 100 anni ed ebbe oltre 180 figli: alla sua morte si successero vari principi ereditieri che finirono per indebolire il paese, che perse la grandiosità di cui aveva goduto un tempo.
Dinastie posteriori
Dalla XXI alla XXX dinastia, in un periodo compreso tra il 1080 e il 332 a.C., il paese visse una lunga fase di allentamento dei legami interni dello stato e di frantumazione del potere. Durante questa epoca, la capitale dell'Egitto fu spostata prima a Tanis e successivamente a Bubasti.
Nel 525 a.C. l'Egitto fu invaso dai Persiani, dominazione che si concluse con l'occupazione del paese da parte di Alessandro Magno (332 a.C.) che segna l'inizio del cosiddetto periodo greco romano.
LA SCOPERTA DEL PORTO
Il sito Wadi al-Jarf fu riscoperto da una squadra francese, diretta dall'archeologo François Bissey nel 1953 che denominò il sito Rod el-Khawaga, ma che ben presto lo abbandonò a causa della Crisi di Suez nel 1956. La pubblicazione, nel 2008, di parte degli archivi di Bissey fu il punto di partenza per una nuova campagna di scavi iniziati nel 2011 e completati nel 2012 da un team misto franco egiziano diretto da Pierre Tallet della Sorbona di Parigi e da El Sayed Mahfouz dell'University di Assiut.
Nell’aprile del 2013 Pierre Tallet e Grégory Marouard (Oriental Institute, University of Chicago) annunciarono la scoperta del porto antico e dei papiri di al-Jarf.
Esposti per la prima volta i papiri di Cheope
Pubblicato il luglio 14, 2016 da mattiamancini
Recto del papiro della consegna del pane dove sono evidenziati i nomi da cui provenivano le merci (ph. Tiziana Giuliani)
Per la prima volta dalla loro scoperta – effettuata nel 2013 a Wadi el-Jarf, costa occidentale del Golfo di Suez, dalla missione franco-egiziana diretta da Pierre Tallet (Sorbona) e Sayed Mahfouz (Università di Assiut) – saranno esposti al pubblico i frammenti di papiro risalenti al 26° anno di regno di Cheope. Con circa 4600 anni, sono i più antichi papiri iscritti mai individuati.
I papiri
Dieci dei papiri rinvenuti sono molto ben conservati. La maggior parte di questi documenti è databile all'anno 27 del regno di Cheope e descrive come l'amministrazione centrale inviasse cibo e forniture ai naviganti egiziani. Un documento assume importanza particolare, è il Diario di Merer un dignitario coinvolto nella costruzione della grande piramide di Cheope.
L’importanza dei reperti non si limita, quindi, solo alla datazione, ma dipende anche dai testi riportati. Si tratta, infatti, di documenti amministrativi che registrano le presenze mensili dei lavoratori del porto, impiegati, ad esempio, nel trasporto di blocchi di calcare verso Giza per la costruzione della Grande Piramide.
L’esposizione è allestita presso il Museo Egizio del Cairo insieme alla mostra temporanea delle repliche dei più celebri pezzi della collezione.
Wadi al-Jarf
IL PORTO DI CHEOPE
ARCHEOLOGIA PORTUALE, un po’ di storia
La foto mostra ciò che resta della diga costruita dal re di Cheope 4.600 anni fa
Qui a Wadi el-Jarf venivano scaricati i blocchi di pietra che erano utilizzati per la costruzione della Grande Piramide di Giza.
Il complesso portuale disponeva di un molo di pietra, a forma di L, che si estendeva in mare per una lunghezza di circa 300 m che tuttora affiora con la bassa marea. Il porto era sovrastato da una torre che costituiva un punto di riferimento visivo per chi doveva approdare nel porto lungo una costa sabbiosa e modificabile dal vento.
Chi ha navigato (senza le moderne tecnologie strumentali) costeggiando zone desertiche senza approdi, né fari e fanali, con l’unica presenza di qualche oasi circondata da palmeti, ha sempre riscontrato, come il sottoscritto, non poche difficoltà nel conoscere la propria posizione.
La foto mostra ciò che rimane della struttura portuale e di un deposito di ancore utilizzate nel Mar Rosso per l’ormeggio delle navi nei pressi di Wadi el Jarf (Mar Rosso).
Grazie all'esplorazione subacquea gli archeologi sono stati in grado di recuperare 21 ancore di pietra che confermano che la struttura muraria altro non era che il molo di un porto. Per la prima volta ancore faraoniche sono state rinvenute nel loro contesto originale e sono di gran lunga le più antiche rinvenute. Molto probabilmente queste ancore erano usate come ormeggio permanente per le navi che attraccavano in porto.
Accanto alle ancore sono state rinvenute grandi anfore, di fabbricazione locale, simili a quelle rinvenute nelle gallerie, il che conferma l'uso coevo del porto e dei magazzini in cui venivano stivate ogni tipo di merce.
La datazione della ceramica delle anfore conferma che il porto risale alla IV dinastia attorno al 2600 a.C. Altre 99 ancore sono state rinvenute nei resti di edifici apparentemente destinati a magazzino.
Veduta degli accessi alle gallerie utilizzate per lo stoccaggio-merci di Wadi el-Jarf
(Honor Frost Foundation)
Il sito archeologico fu scoperto per la prima volta, nel 1832, dall’inglese John Gardner Wilkinson, viaggiatore e pioniere dell’Archeologia, il quale individuò anche le gallerie (foto sopra) e ritenne che fossero tombe. Oggi, gli archeologi marini della French Institute of Archaeology in Cairo e della Sorbonne University hanno scoperto il monumentale porto sommerso, un complesso portuale che fu costruito da Cheope.
Entriamo nelle gallerie per approfondire alcuni dettagli che abbiamo anticipato
Lungo una fascia costiera lunga 5 Km sono state rinvenute 30 gallerie, accuratamente scavate nell'arenaria delle prime colline del deserto orientale, che presumibilmente fungevano da deposito di materiali e derrate per le spedizioni navali che usavano il vicino porto. Ogni galleria poteva essere chiusa con pesanti lastre di arenaria, in maniera simile alle chiusure delle camere sepolcrali delle piramidi e delle tombe del Regno antico.
All'interno delle gallerie sono stati rinvenuti numerosi materiali e manufatti: pezzi di legno, incastri, funi, pezzi di vela, resti organici. Alcuni elementi di legno sono stati identificati come parti di grandi navi ed elementi legati alla navigazione come remi, timoni, scatole di legno, attrezzi da lavoro in legno e pietra. Nelle gallerie sono state rinvenute grandi anfore, fabbricate localmente, in due fornaci dei dintorni, spesso marcate con segni geroglifici in rosso che identificano il nome della nave o degli equipaggi coinvolti nelle spedizioni.
Sono stati ritrovati anche numerosi frammenti di papiri databili alla quarta dinastia che di tale periodo danno uno spaccato di vita. Questi papiri sono i più antichi mai rinvenuti in Egitto.
Le gallerie hanno una lunghezza compresa tra 16 e 34 m ed hanno un'altezza di circa 2,50 m ed una larghezza tra 2,50 e 3 m. La galleria G3 contiene resti di una pittura murale che rappresenta un ufficiale con il bastone di comando in mano. Iscrizioni geroglifiche ne danno il nome ed il rango di scriba di Fayyum. Il riferimento a Fayyum conferma la tesi che gli egiziani usassero il Wadi Araba per collegare con carovane di trasporto sia Fayyum che la valle del Nilo al Mar Rosso.
Davanti all'ingresso delle gallerie c'è una terrazza pavimentata che consente un più facile accesso e probabilmente evita che l'acqua penetri nelle gallerie stesse. Tallet e colleghi ritengono che questo porto possa essere riconducibile al regno del faraone CHEOPE (2589–2566 a.C.) il cui nome è inciso su alcuni blocchi di pietra rinvenuti nel sito.
Soltanto oggi si può affermare con certezza che la realizzazione del più antico porto finora conosciuto: Wadi al-Jarf, sul Mar Rosso, situato ad un centinaio di chilometri da Suez, si possa attribuire ai faraoni della IV dinastia.
Il sito archeologico ha restituito infatti papiri, manufatti e ceramiche dell’epoca, confermando che l’attracco di navi era in uso già nel 2600 a.C.
Molti dei papiri risalgono nello specifico al regno del faraone Cheope.
IMPORTANTI RITROVAMENTI
I lavori ripresero nel 2011.
Fu Pierre Tallet della Sorbona di Parigi, che diresse quella missione assieme a El Sayed Mahfouz dell’Università di Assiut, a presentare i risultati un paio d’anni dopo, confermando l’esistenza dell’antico porto egizio.
Tallet pone l’attenzione sulla notevole estensione del Wadi el-Jarf che ci porta a pensare che non è stato utilizzato solo come punto di partenza per il Sinai, ma certamente anche per lunghe distanze, forse per raggiungere la misteriosa terra di Punt nella parte meridionale del Mar Rosso […] la storia del Mar Rosso in epoca faraonica non è ancora stata completamente scritta, e che l’attuale esplorazione dei siti già noti, e la possibile scoperta di altri nella zona, sono ancora suscettibili di avere profonde ripercussioni sulla nostra conoscenza in questo settore […]”.
Fra l’altro Tallet aveva scoperto qualche anno prima un’altra piccola area portuale a Ayn Sukhna, circa ottanta chilometri da Wadi al-Jarf, che poteva risalire ai faraoni della V dinastia. Tallet afferma che il sito di Ayn Sukhna “[…] era ampiamente occupato per più di un millennio durante il periodo faraonico, dal Vecchio al Nuovo Regno. Le più recenti scoperte indicano chiaramente l’esistenza di un porto, simile a quello di Mersa/Wadi Gawasis più a sud, che sembra essere stato utilizzato principalmente per attraversare la parte meridionale della penisola del Sinai sul lato opposto del golfo […]”.
WADI EL JARF
Il Piano del porto (foto sotto) evidenzia la diga artificiale costruita disegnando una L a protezione degli impianti portuali.
Sulla costa si trova un ultimo insieme di strutture portuali. Con la bassa marea, si può vedere un pontile a forma di L, che è per lo più sommerso, ma la cui estremità del ramo est-ovest si adagia sulla riva.
Questo antico molo si prolunga sotto il livello dell’acqua in direzione ovest-est per una lunghezza di circa 160 metri. Si inclina successivamente, seguendo un tracciato meno regolare, verso sud-est per altri 120 metri circa. Nella sua parte emersa, si può osservare un assemblaggio piuttosto regolare di grandi blocchi e ciottoli, che assicurava la protezione di una vasta area di ormeggio artificiale estesa per più di 2,5 ettari.
Traduzione:
A Wadi el-Jarf - Le stesse squadre hanno costruito un grande molo a forma di L – la specializzazione di tali squadre nel trasporto marittimo rende probabile, nel contesto generale della foce del Delta (Ro-Wr/Ro-Maat), che stiano costruendo un porto in collegamento con il Mar Mediterraneo.
SITI DI RIFERIMENTO DELLA RICERCA:
https://laciviltaegizia.org/2021/12/18/il-sito-di-wadi-el-jarf-e-il-papiro-di-merer/
https://nilescribes.org/2017/10/07/scribal-spotlight-egypts-great-pyramid/
https://www.thehopinion.com/life/culture/pyramids-of-giza/
Carlo GATTI
Rapallo, 7 Dicembre 2023
INCENDIO sulla nave passeggeri italiana “ORAZIO" - 19 Gennaio 1940
INCENDIO
sulla nave passeggeri italiana
“ORAZIO”
19 Gennaio 1940
UN DOVEROSO PREAMBOLO STORICO
L'attuale conflitto tra Hamas e Israele, noto come la guerra di quest'anno, ha avuto inizio il 7 ottobre 2023 con l'attacco a sorpresa di Hamas a Israele, chiamato dagli israeliani "operazione Spade di Ferro". Questo evento ha portato i media internazionali a riflettere sull'esodo degli ebrei, tornando al 1947 quando le Nazioni Unite cercarono di risolvere il conflitto tra ebrei e arabi al termine del Mandato britannico sulla Palestina.
Il mio articolo, tuttavia, si concentra su un retroscena politico, collegando l'esodo degli ebrei al 1933, quando Hitler salì al potere.
La notte del 19 gennaio 1940, a bordo della nave passeggeri italiana "ORAZIO," si verificò un incendio misterioso, collegato nell'immaginario collettivo a un presunto sabotaggio nazista.
La motonave "ORAZIO," gemella della M/n VIRGILIO, iniziò la sua carriera nel 1927 per la N.G.I. (Navigazione Generale Italiana), operando sulle rotte del Centro America-Sud Pacifico. VIRGILIO, AUGUSTUS e ROMA, costituivano la punta di diamante della navigazione mercantile italiana.
Caratteristiche Principali della M/N ORAZIO
Armatore: N.G.I. Navigazione Generale Italiana
Stazza Lorda: 11.669 t
Motore Diesel a combustione interna
Capacità Passeggeri: 423
Equipaggio: 210
Comandante: M.Schiano
Velocità: 15 nodi
ESPLOSIONI IN SALA MACCHINE – ABBANDONO NAVE
Posizione del Sinistro : Lat.42°36’ N – Long.05°28’E
(35 mg. al largo di Tolone-Francia)
data: 21.1 1940 - ore: 04.55 (a.m.)
MORTI: 108
La cartina mostra la posizione della nave al momento
dell’incendio
IL VIAGGIO E L’INCENDIO
La M/n ORAZIO era partita da Genova per il Sud Pacifico ed era al comando del Cap. Michele Schiano quando, giunta a 35 miglia al largo di Tolone (Francia), divampò un incendio improvviso nella sala-macchine. Le fiamme si estesero ben presto a tutta la nave che fu poi abbandonata, presa a rimorchio e infine demolita.
L’ORAZIO é avvolta dal fuoco e dalle fiamme. La foto é stata scattata da una nave italiana giunta in soccorso da sopravvento. Notare sulla destra una nave da carico in attesa di soccorrere i naufraghi.
Notare sulla poppa il nome della nave parzialmente bruciato
LE OPERAZIONI DI SALVATAGGIO
Quattro mezzi militari francesi della base di Tolone risposero subito al S.O.S. della Orazio: arrivò il Conte Biancamano che salvò 316 persone, il Colombo che ne recuperò 163 ed infine il piroscafo francese Ville de Ajaccio che ne prese a bordo 46.
Da molti anni la marineria italiana non veniva colpita da una così grave tragedia. All’appello finale mancarono 48 passeggeri e 60 marittimi dei 423 imbarcati a Genova facenti parte dell’equipaggio.
L’incendio è sempre stato il più temuto tra i sinistri marittimi. Il timore degli equipaggi imbarcati è sempre stato legato all’infiammabilità del materiale che arredava e decorava le bellissime navi di linea passeggeri di quell’epoca. I superstiti dell’Orazio, subito dopo il rientro a Genova, si recarono in pellegrinaggio sulla tomba di G. Marconi per rendere omaggio al grande inventore della radio, primo anello della catena che li aveva salvati.
IL RETROSCENA POLITICO
Oltre all'ipotesi di incidente casuale, c'è un sospetto di sabotaggio in linea con l'antisemitismo di Hitler. Le fughe degli ebrei dal nazismo, organizzate con l'aiuto di ONG, spesso iniziarono da Genova con le motonavi gemelle ORAZIO e VIRGILIO.
Gli eventi bellici che seguirono il settembre del ’39, insieme alle restrizioni imposte dai Paesi sudamericani, ridussero della metà il numero dei passeggeri imbarcati sull’Orazio quel 19 gennaio 1940, quando la nave lasciò Genova con destinazione Valparaiso in Cile.
TESTIMONIANZA E CONCLUSIONI
La testimonianza di Cesira Spada descrive la tragedia del 21 gennaio 1940:
“Le prime ore di navigazione sono tranquille. La voce che al largo, davanti al golfo di Marsiglia, siano state individuate delle mine, non allarma più di tanto le famiglie di ebrei tedeschi, austriaci e praghesi che stanno affrontando quello che dovrebbe essere il loro lungo viaggio della salvezza, ospitate il più delle volte nei cameroni della terza classe. Persino l’ispezione della nave da parte di un’unità militare francese – bloccato l’Orazio in alto mare, manda a bordo un gruppo di ufficiali del controspionaggio che procede ad interrogare una cinquantina di passeggeri – non suscita a bordo particolari reazioni.
La tragedia avviene nelle prime ore del mattino del 21 gennaio, quando la nave – nel bel mezzo di un fortunale che sta flagellando tutto il golfo – sta incrociando a trentacinque miglia al largo di Tolone. Improvvisamente si sente un rumore sordo nella Sala Macchine e, immediatamente, un gran fumo comincia a penetrare in tutti i locali. Il Comandante della nave lancia via radio segnali di soccorso chiedendo l’immediato intervento di unità vicine. Nel frattempo il fuoco separa la nave in due tronconi condannando i passeggeri rimasti nella parte più inaccessibile ad una morte atroce”.
La causa dell'incendio, anche dopo 83 anni, rimane avvolta nel mistero, con ipotesi di attentato mai provate, nonostante indizi e testimonianze.
ALBUM FOTOGRAFICO
L'ORAZIO in navigazione
Riporto un interessante articolo di quei giorni da cui ho riportato alcuni brani nel testo
CONTE BIANCAMANO con la livrea del Lloyd Sabaudo a Genova nel 1928
Salvò 316 naufraghi dell’ORAZIO
Il transatlantico COLOMBO (nelle due foto sopra) recuperò 163 naufraghi dell’ORAZIO
Carlo GATTI
Rapallo, 6.12.2023
SALE MAGNETICO
SALE MAGNETICO
Dev’esserci nichel, nell’acqua di mare; spiegherebbe il luccichio del bagnasciuga.
Avete mai visto persone di mare, d’inverno? Prive d’ogni carica, nella puzza acida di porto, nel loro letargo in cui covare il pessimismo da far sbocciare d’estate, per i turisti.
Forse perché il mare, si sa, è anche un minestrone di luoghi comuni veri, ed i liguri sono una sotto-specie d’anfibi, con questi loro sguardi arcigni, minacciosi, scostanti, girati di balle. Quando finalmente arriva l’estate, mugugnano delle alghe velenose, e delle migrazioni dei milanesi, di come ne brulichino le seconde case e le spiagge più squallide, che loro nemmeno frequentano. Se ne stanno dentro tane senza l’aria condizionata, per il sangue freddo (ed il braccio anatomicamente molto più corto).
In mare vengono fuori dalla schiuma pargoletti, come girini, e s’apprestano sulla spiaggia evolvendosi. E nel mare ci crescono; ci si tuffano le loro migliori estati, volando dagli scogli in quella schiuma magnetica. Mentre le madri, velate dell’unico filo d’ombra al mare, se l’immaginano morire, e li richiamano insultandoli. Poi spariscono sott’acqua, e s’immergono. Spulciano minuziosamente il fondale di polpi e ancore. Crescendo, fanno una selezione tutta propria delle spiagge in cui rifugiarsi, quindi quei pochi nidi di ciottoli e scogli, emarginati dal turismo e da tutto quell’estero poliglotta che li invade, coi traghetti. Se ne stanno lì a maledire quel loro strisciare avanti e indietro, sull’orizzonte, come lumache bianche piene di tedeschi e giapponesi.
Perché quel mare loro son convinti di possederlo, conoscendolo. Cosa ne sanno i giapponesi, pensano loro, del fondale sotto il loro traghetto bianco? Per loro il mare è uno sfondo azzurro per le foto. Cosa ne sanno i tedeschi, dell’odore del porto a novembre, sulla foce del fiume? Ed in questo senso, nell’acqua salata, uno potrebbe addirittura trovarci del rarissimo istinto gregario tra liguri, (certo, non si fraintenda, liguri strettamente dello stesso mare, come se quello di La Spezia fosse un altro) che all’occasione, finiscono addirittura per far fronte comune.
Ne son testimoni Rapallo e la Madonna di Montallegro i primi di luglio, quando il mare diventa un campo sacro e quelli si schierano per il proprio sestiere. D’un tratto non vivono più nelle tane, ma nei “sestieri” ed in quelle tre sere, luccica come un miracolo nel cielo, la solidarietà. Si lotta per i fuochi e ci si aiuta per il panegirico (d’un tratto non vivono più nei sestieri, ma addirittura in una “città”).
C’è chi lo fa per la Madonna, chi per Rapallo, chi per la tradizione, e chi per il piacere di vedere il cielo in fiamme. E poi c’è chi non lo fa; perché magari è tanto ligure che nemmeno il cielo in fiamme lo smuove da Casa Propria, (istituzione a cui il ligure è profondamente devoto), o perché magari questa tradizione non lo tocca, e non sente, in quel boato, schiribizzo di colori e nella calca, quell’atmosfera salata e magica che arriva dal mare.
Ma il mare dà, e prende nella morsa delle mareggiate. Anche di questo ne san qualcosa i Rapallesi, amareggiati, che guardano la passeggiata mare popolata di yacht tra l’ottobre e il novembre del 2018. Fu colpa d’un vento, infiltratosi nel porto e che, travolgendo, si portò via il porticciolo Carlo Riva. Arrivò d’un tratto, fu questione d’una notte; Rapallo divenne il fondo d’un catino pieno d’acqua, e nei giorni a seguire, pieno di relitti. Ve n’erano più di duecento sulla terraferma, ma d’altro canto qual’era la terraferma, se Rapallo stessa era un fondale? Se, travolto dall’acqua, non v’erano più certezze solide, ma piuttosto effimere e contingenti, relative al vento. Quello Rapallino fu l’halloween più spaventoso fra tutti, tra i tronchi sparpagliati, le barche, e le insegne dei ristoranti. Ed i ristoranti, che anonimi, parevano abbandonati. Ed in quella malinconia che gorgogliava grigia e coerente al giorno dei morti. Ma d’altro canto da quant’è, che lo avveleniamo? Passiamo l’anno intero a saturarlo di benzina, rifiuti, sangue. Lo bruciamo l’estate con i flash dei turisti. Non v’è alcun altruismo o infamia nei rapporti magnetici, ma solo poli positivi che ne implicano di negativi, e l’onda che travolge, per quel che si ritira. E quando il mare ci vomitò addosso, con onde di dieci metri, quel che noi avevamo vomitato dentro di lui, siamo rimasti come spiazzati. Abbiamo ricominciato, vittime, a scattar foto all’impazzata cercando un colpevole infotografabile; lo scirocco. Ed abbiamo ricomposto, pezzo per pezzo nel tempo a venire, la costa. E così, abbiamo dato.
C’è chi poi al mare finisce per dar tutto, lavorandoci, sviluppando addirittura branchie e pinne. Chi invece ne sviluppa un'ossessione, alla stessa stregua d’ogni altro feticismo e devozione, e vive dipingendolo, o scrivendone. Forse perché egli è uno sfondo che difatti, non si sviluppa; una sicurezza cerulea al di là d’ogni montagna e tempo. Non un mare qualsiasi, ma quello in cui si è cresciuti, e sotto quella piazza di cielo liquido e immutabile, qualcuno trova importante nasconderci i ricordi, affinché il sale li conservi. Forse nello scrutare sempre la stessa linea blu, ci pare di farlo sempre con gli stessi occhi; chissà quanti pensieri, desideri e rancori, che nuotano fra gli sgombri. E chissà se intendeva questo Hemingway, quando “il vecchio capì che nessuno è mai da solo in mare”. Posso solo dire che nel mio mare, fra gli sgombri, c’è anche quest’interpretazione. Posso dire che l’acqua di porto è un liquido amniotico pieno d’idee immortali, e che forse sono loro che luccicano sotto il sole. Nella salsedine v’è qualcosa di mistico.
Avete mai visto, persone di mare, lontane da quest’ultimo? Perse, come aghi di bussole a cui manca il magnete, deliranti, senza un Nord. Non trovano l’orizzonte, e cercandolo, annegano.
Di Leonardo d’Este
Rapallo, venerdì 24 Novembre 2023
LA NOTTE DI TARANTO ( l'11 - 12 novembre 1940)
LA NOTTE DI TARANTO
Con l'espressione NOTTE DI TARANTO si fa riferimento all'attacco aereo inglese avvenuto durante la Seconda Guerra Mondiale, nella notte tra l'11 e il 12 novembre 1940, ai danni della flotta navale della Regia Marina Italiana, dislocata nel porto di Taranto.
“Dopo una neutralità di nove mesi, l'Italia entra in guerra il 10 giugno 1940, contro la Francia e la Gran Bretagna. La rapida uscita dal conflitto della Francia, trasforma lo scontro in una contrapposta difesa del traffico nelle direttrici Nord-Sud (per l'Italia) e Est-Ovest per la Gran Bretagna, forte delle basi di Alessandria d'Egitto e Malta (Mediterranean Fleet) e Gibilterra (Force H).
La flotta italiana dispone di due corazzate rimodernate (Conte di Cavour e Giulio Cesare) - al momento dell'entrata in guerra, le corazzate Littorio, Vittorio Veneto, Caio Duilio e Andrea Doria sono ancora in fase di addestramento - 7 incrociatori pesanti, 12 incrociatori leggeri, un centinaio tra cacciatorpediniere e torpediniere e più di 100 sommergibili.
Gli scontri navali di Punta Stilo (9 luglio 1940) e Capo Spada (19 luglio 1940), si risolvono con lievi perdite per le navi italiane e sconfitte tattiche non influenti. L'attacco italiano alla Grecia (28 ottobre 1940), in quella che é nota come "guerra parallela" (fra Germania e Italia) aggiunge un nuovo impegno alla Marina che deve assicurare i rifornimenti al Fronte greco-albanese
Nella notte del 12 ottobre 1940 gli incrociatori inglesi Ajax, Orion, York e Sidney affondano le torpediniere italiane Airone, Ariel e Artigliere. Al termine di questo scontro i britannici soccorrono i naufraghi italiani nonostante l'avvicinarsi del resto della flotta italiana.
Per questo comportamento l'ammiraglio inglese Cunningham fu ripreso dal suo governo, dal momento che, proprio in quei giorni, Londra veniva bombardata dalla Luftwaffe tedesca. Cunningham, tuttavia, rispose che gli equipaggi italiani si erano battuti valorosamente nonostante la disparità di forze e, per questo, meritavano assistenza”.
La notte dell'11 novembre 1940, 6 corazzate italiane si trovano nella rada di Taranto e gli inglesi conducono un'incursione con due attacchi degli aerosiluranti Swordfish decollati dalla portaerei ILLUSTRIOUS.
Le corazzate Conte di Cavour, Caio Duilio e Littorio vengono colpite dai siluri e solo due dei venti Swordfish sono abbattuti. Il Cavour non rientra più in linea. Littorio e Duilio sono riparati dopo qualche mese di lavori.
Morirono 58 marinai italiani, circa 600 rimasero feriti e sei navi da guerra furono danneggiate, metà delle navi da guerra italiane furono messa fuori combattimento.
Dopo 83 anni da quella azione bellica che servì di lezione anche a Pearl Harbour, si rimane allibiti dal "fattore sorpresa e dalla precisione" con cui sono arrivati a segno i siluri inglesi nel tragico ATTACCO AEREO NOTTURNO DI TARANTO.
I fatti dimostrarono per la prima volta che i velivoli imbarcati sulle portaerei non solo erano preziosi come «occhio» della Marina, ma anche perché erano in grado di infliggere gravi danni a una flotta alla fonda in un porto. Gli aerei inglesi FAIREY-SWORDFISH erano antiquati biplani prossimi alla demolizione, tuttavia, il responsabile dell’operazione sapeva che erano i più adatti a compiere quella specifica missione!
CONTESTO STORICO CHE PRECEDE IL DISASTRO DI TARANTO
Nell’autunno del 1940, le truppe italiane avevano già subito notevoli insuccessi contro i francesi; questi fatti spinsero Mussolini a tentare di recuperare terreno nei Balcani, più precisamente ritenne che era giunta l’ora della Grecia.
Il 28 ottobre 1940 l'Italia dichiara guerra alla Grecia. La campagna italiana di Grecia si aprì con un'offensiva del Regio Esercito Italiano a partire dalle sue basi in Albania (controllata dagli italiani fin dall’aprile 1939) verso la regione dell’Epiro in Grecia, mossa decisa da Mussolini al fine di riequilibrare lo stato dell'alleanza con la Germania nazista e di riaffermare il ruolo autonomo dell’Italia fascista nel conflitto mondiale in corso.
Temendo, allora, un intervento militare più corposo da parte dei britannici – che avevano cominciato a fornire aiuti alla Grecia già dai primi di novembre, tutta la flotta italiana era stata concentrata a Taranto, proprio per contrastare tale manovra.
LA BASE NAVALE DI TARANTO
PREGI E DIFETTI
La BASE era molto bene attrezzata per le riparazioni navali di tutti i tipi, ma non era stata studiata per proteggere le navi in rada da eventuali bombardamenti aerei o dal lancio di siluri. Le armi contraerei erano poche e poco potenti, la rilevazione per l’intercettazione degli aerei nemici in avvicinamento era affidata a vecchi strumenti risalenti alla Prima guerra mondiale, le reti anti-siluro erano circa un terzo di quelle che sarebbero servite ed erano state distese a molta distanza dalle navi: cosa che avrebbe permesso di salpare rapidamente (senza doverle rimuovere) ma che ne comprometteva l’efficacia.
MAR GRANDE E MAR PICCOLO INDICATI DALLE FRECCE ROSSE
IL PROGETTO STRATEGICO INGLESE
L’idea degli inglesi – colpire la marina italiana e fermare gli obiettivi colonialistici di Mussolini – risale già al 1935, durante la guerra d’Etiopia: la Royal Navy aveva studiato un piano di attacco aereo notturno nella base navale di Taranto che non venne attuato in quegli anni ma che venne ripreso nel 1940. Per avere informazioni e immagini aggiornate giornalmente sulla situazione del porto di Taranto, l’aeronautica militare del Regno Unito trasferì a Malta una squadra di ricognitori. Furono inviate come rinforzo diverse navi da battaglia sia verso Malta sia verso il canale di Otranto, per intercettare le navi italiane che in quei giorni si muovevano tra Grecia e Albania. L’attacco venne deciso per il 21 ottobre (anniversario della vittoria di Nelson a Trafalgar) ma un incendio a bordo della portaerei inglese Illustrious causò un rinvio.
LE CORAZZATE ITALIANE AFFONDATE A TARANTO NELLA NOTTE TRA L’11 NOVEMBRE ED IL 12 NOVEMBRE 1940
Due immagini della Conte di Cavour poggiata sul fondo dopo l’attacco
I danni subiti dalla Regia Marina durante la notte di Taranto furono molto gravi, anche se non tanto quanto si potrebbe pensare.
Corazzata CONTE DI CAVOUR: la nave si trovava all’ancora nel Mar Grande. Venne colpita da un solo siluro nell’opera viva poco distante dal deposito di munizioni prodiero. A causa dell’anzianità del progetto, la nave imbarcò molta acqua e per evitarne l’affondamento in acque profonde fu portata in acque basse dove si adagiò sul fondale con l’acqua che sommergeva il ponte di coperta. I lavori iniziarono immediatamente e verso la fine del 1941, nuovamente in grado di navigare, venne trasferita a Trieste per completare le riparazioni de eseguire lavori di ammodernamento. Non fece in tempo a rientrare in servizio prima dell’armistizio, e fu la nave realmente perduta durante quella notte. Il 10 settembre i tedeschi presero la CAVOUR, ma non completarono i lavori; infine la corazzata fu colpita da bombe americane il 15 febbraio 1945 ed affondò capovolgendosi. Recuperata nel 1946, venne infine radiata il 27 febbraio 1947.
Collezione BAGNASCO
ANDREA DORIA (classe DUILIO) – TARANTO 10.1941
Corazzata CAIO DUILIO venne colpita anche lei da un solo siluro nei pressi del deposito munizioni prodiero, e alle 05.45 fu portata ad incagliare in acque basse per evitarne l’affondamento. Venne riportata a galla nel gennaio 1941 per entrare poi in bacino, partecipando attivamente, con la sua antiaerea, alla difesa della base. Il 3 febbraio entrò in bacino a Genova e già il 3 maggio rientrò in servizio a Taranto.
LA CORAZZATA LITTORIO INCAGLIATA A TARANTO
Corazzata LITTORIO fu la nave che subì i danni maggiori, colpita da ben tre siluri, due a dritta ed uno a sinistra nei pressi del timone. Ma grazie anche alla bontà del progetto, non fu mai in pericolo di affondare, tuttavia, per non correre rischi, fu ugualmente portata ad arenarsi. Già l’1marzo 1941 i lavori di riparazione erano terminati e la nave era rientrata in servizio.
Altri danni: Vennero colpiti durante l’attacco il cacciatorpediniere LIBECCIO e l’incrociatore pesante TRENTO, che non subirono danni in quanto le due bombe che incassarono non esplosero, inoltre vennero distrutti da bombe due idrovolanti all’idroscalo. Per finire questo attacco colpì anche la popolazione civile, con la morte di alcune persone nella zona dell’ospedale. Si contarono anche 32 vittime sulla LITTORIO, 17 sulla CAVOUR e 3 sulla DUILIO.
Infine non va dimenticato che tra gli aerei attaccanti due furono abbattuti, di cui uno dalle armi della Cavour.
LE FOTO DELLE NOSTRE CORAZZATE
L'Italia si impegnò molto, spendendo molte risorse preziose, per la costruzione della squadra da battaglia, fiore all'occhiello delle Forze Navali Italiane. Il rimodernamento, che fu più, alla maniera inglese, una ricostruzione, delle quattro vecchie corazzate classe Doria, se da un lato fu un'operazione opinabile, va comunque riconosciuto che garantì all'Italia quattro unità di valore bellico, seppur ridotto, comunque non certo trascurabile, ben superiore alle LORRAINE francesi, e di poco inferiore alle vecchie navi e lente navi da battaglia britanniche. Con l'ingresso in squadra delle potenti e moderne LITTORIO, il paese acquisì uno dei migliori strumenti bellici navali dell'epoca, certo, alla loro entrata in servizio, le navi da guerra più potenti del mondo. Si trattava di navi robuste, che dettero più volte prova della loro solidità durante la guerra. L'affondamento della ROMA nel 1943 non deve sollevare dubbi sulla bontà del progetto, che venne stilato in un'epoca in cui l'offesa aerea era considerata ancora limitata e certo non si poteva prevedere l'invenzione di uno strumento tanto efficace come la bomba razzo tedesca.
Navi da battaglia
CONTE DI CAVOUR - GIULIO CESARE
Navi da battaglia
CORAZZATE CLASSE DORIA
CAIO DUILIO – ANDREA DORIA
La corazzata CAIO DUILIO con la mimetizzazione adottata a partire dalla primavera 1942 con schemi a due colori grigio
Le corazzate DUILIO – ANDREA DORIA
CARATTERISTICHE
Unità |
Caio Duilio 10 maggio 1915 |
Andrea Doria 13 giugno 1916 |
|
Dislocamento a vuoto |
23.887 tonn |
Dislocamento standard |
25.924 tonn (Doria) |
26.434 tonn (Duilio) |
|
Dislocamento massimo |
28.882 tonn (Doria) |
29.391 tonn (Duilio) |
|
Dimensioni l x l x p |
186.9 m x 28 m x 10.35 m |
Apparato motore |
8 caldaie Yarrow, 2 turbine Belluzzo, 85.000 hp, 2 eliche |
Velocità massima |
27 nodi |
Carburante |
2.250 tonn |
Autonomia |
4.250 miglia nautiche @ 12 nodi |
Armamento |
|
AN |
10 x 320/44 |
AN |
12 x 135/45 |
AN / AA |
10 x 90/50 |
AA |
12 x 37/54 |
AA |
16 x 20/65 |
Corazzatura massima |
|
verticale |
250 mm |
orizzontale |
100 mm |
torrette |
280 mm |
barbette |
305 mm |
torrione |
260 mm |
Aerei |
No |
Equipaggio |
1.495 tra ufficiali, sottufficiali e comuni |
Vittorio Veneto, Littorio, Roma, Impero
La Corazzata Vittorio Veneto dislocava in effetti oltre 45.752 tonn a pieno carico cioè in pieno assetto di guerra. L’unità era armata con 9 cannoni da 381/50 mm, 12 da 152/55, 12 da 90/50, 4 da 120/40 per il tiro illuminante, e da un numero variabile di armi sotto i 37 mm; a poppa una catapulta consentiva l’utilizzazione di 3 aerei. La protezione verticale era assicurata al galleggiamento da 350 mm di acciaio; quella orizzontale, a centro nave era di 207 mm; il torrione era protetto da 260 mm di acciaio; la massima protezione era di 380 mm sulla parte frontale delle torri dei grossi calibri. 8 caldaie tipo Yarrow e 4 gruppi di turbine Belluzzo fornivano la potenza disponibile, 130.000 HP, a 4 eliche tripale; la velocità massima era di 30 nodi. L’autonomia variava da 4580 miglia a 16 nodi a 1770 miglia a 30 nodi. L’equipaggio era di circa 1800 uomini. Venne smantellata negli anni '50
CORAZZATA LITTORIO
La Vittorio Veneto in navigazione nei primi mesi di guerra
Corazzate classe Littorio :
Vittorio Veneto
Littorio
Roma
Impero
CARATTERISTICHE
Unità |
Vittorio Veneto 28 aprile 1940 |
Littorio 6 maggio 1940 |
|
Roma 14 giugno 1942 |
|
Impero non completata |
|
Dislocamento a vuoto |
41.167 tonn (Vittorio Veneto) |
41.377 tonn (Littorio) |
|
41.650 tonn (Roma) |
|
Dislocamento standard |
43.624 tonn (Vittorio Veneto) |
43.835 tonn (Littorio) |
|
44.050 tonn (Roma) |
|
Dislocamento massimo |
45.752 tonn (Vittorio Veneto) |
45.963 tonn (Littorio) |
|
46.215 tonn (Roma) |
|
Dimensioni l x l x p |
237.8 m (Roma : 240.7 m) x 32.9 m x 10.5 m |
Apparato motore |
8 caldaie Yarrow, 4 turbine Belluzzo, 140.000 hp, 4 eliche |
Velocità massima |
30 nodi |
Carburante |
4.000 tonn |
Autonomia |
4.580 miglia nautiche @ 16 nodi, 3.920 @ 20 nodi |
Armamento |
|
AN |
9 x 381/50 |
AN |
12 x 152/55 |
AN / AA |
12 x 90/50 |
AA |
20 x 37/54 |
AA |
28 x 20/65 |
AA |
varie da 13.2/76 |
Corazzatura massima |
|
verticale |
350 + 36 + 24 mm |
orizzontale |
207 mm |
torrette |
350 mm |
barbette |
350 mm |
torrione |
280 mm |
Aerei |
3, con una catapulta a poppa |
Equipaggio |
120 ufficiali, 1.800 sottufficiali e comuni |
Le corazzate della Classe Littorio rappresentarono la massima espressione dell'ingegneria navale italiana nell'era delle grandi navi da battaglia.
La classe si sarebbe dovuta comporre di quattro unità, tuttavia una di esse, la Impero, non venne mai completata, mentre la Roma entrò in linea troppo tardi per poter partecipare attivamente al secondo conflitto mondiale.
In seguito alla stipula del Trattato di Washington, le principali navi da battaglia dovevano avere un tonnellaggio massimo pari a 35.000 tonnellate, ed armamenti di calibro non superiore ai 406 mm, e le quattro Littorio, concepite in ossequi a tali accordi, avrebbero dovuto rispettare quei dettami.
In realtà queste navi superarono abbondantemente quei limiti, soprattutto per quanti riguarda il tonnellaggio, che avrebbe imposto livelli di corazzatura ritenuti insufficienti.
La progettazione delle nuove grandi unità della Regia Marina, disegnate dal generale del genio Umberto Pugliese, ebbe inizio nel 1934, e prevedeva caratteristiche decisamente interessanti. Venne ricercata fin da subito una elevata velocità, come d'uso all'epoca per le realizzazioni della cantieristica nazionale, ed un armamento superiore alla media, con un totale di nove cannoni da 381 mm.
La prima unità, la Vittorio Veneto, venne completata il 28 aprile 1940, la Littorio il successivo 6 maggio, mentre la Roma entrò in linea solo nel 1942.
La Impero, invece, non venne terminata prima dell'armistizio del 1943.
E' interessante notare come nell'idea dei promotori tali unità dovessero costituire il nerbo della futura cosiddetta "flotta d'evasione" oceanica, ma in pratica, nonostante le caratteristiche belliche fossero di prim'ordine, si trattò di unità essenzialmente mediterranee, e questo principalmente a causa della scarsa autonomia.
La dotazione di carburante era infatti pari a 4.000 tonnellate, il che significa un'autonomia di 3.000 km alla massima velocità di 30 nodi (c.a. 56 km/h), sufficienti per attraversare tutto il Mediterraneo, ma non per un'uscita nell'Oceano Atlantico.
Le unità tedesche come la Bismarck, dedicate ad un utilizzo oceanico principalmente pensate per la guerra di corsa, avevano una dotazione di 7.700 tonnellate.
Armamento
L'armamento principale era costituito di 9 cannoni da 381 mm lunghi 50 calibri (381/50) Modello 1934 disposti in tre torri trinate, due a prora ed una a poppa.
Erano le armi dalla più lunga gittata mai raggiunta da una nave da guerra, oltre 42.800 metri, e questo nonostante nella installazione a bordo avessero una elevazione di soli 35 gradi. Nemmeno i cannoni americani da 406 mm delle Iowa e quelli titanici giapponesi da 460 mm delle Yamato avevano tale gittata.
I grossi calibri di queste unità sparavano proiettili del peso di 885 kg, a titolo di confronto i proiettili inglesi di ugual calibro pesavano 871 kg, mentre quelli tedeschi a bordo della Bismarck pesavano 800 kg.
Prestazioni elevatissime, che manifestavano però come ovvio il rovescio della medaglia. Il peso del proietto e l'elevatissima velocità iniziale dello stesso (850 mps, contro i 749 inglesi) facevano sì che l'anima delle canne dei cannoni avesse una durata inferiore alla media, in particolare le canne andavano ritubate circa ogni 140 tiri, contro i 335 inglesi ed i circa 180 tedeschi.
Inoltre era piuttosto bassa la celerità di tiro, con circa 1.3 tiri al minuto, solo i francesi delle Richelieu erano più lenti, con 1.2 al minuto, contro i 2.3 tedeschi.
I cannoni erano installati in torri trinate, ovvero dotate ognuna di tre armi, del peso di 1570 tonnellate l'una, con un grado di elevazione che andava da -5° a +35°, e con una velocità di elevazione di 6 gradi al secondo.
L'armamento secondario era costituito principalmente da 12 cannoni da 152/55 mm Modello 1936, che costituiva l'armamento principale degli ultimi incrociatori leggeri, classe Garibaldi.
Anche queste armi avevano una gittata elevata, lanciavano infatti il proiettile da 50 kg a 25.700 metri di distanza, alla massima elevazione di 45 gradi. Il rateo massimo di fuoco era pari a 5 colpi al minuto.
Erano anch'esse installate in quattro torri trinate, del peso di 134 tonnellate l'una, con una buona protezione, che arrivava a ben 100 mm di corazzatura.
Ottime armi erano i cannoni antiaerei da 90/50 Modello 1939, dalle qualità eccezionali, superiori persino a quelle del mitico Flak tedesco da 88 mm, ed infatti non solo vennero utilizzate come arma antiaerea su navi ed in installazioni fisse a terra, ma vennero pure installate a bordo di camion e, soprattutto, dei semoventi da 90/53.
Si trattava di armi di realizzazione molto recente e concezione decisamente moderna, forse troppo.
Erano installate in affusti singoli corazzati, con un sistema di stabilizzazione molto sofisticato.
Avevano una cadenza di tiro di 12 colpi al minuto e lanciavano un proiettile antiaereo del peso di 10 kg a 10.800 metri di altezza. In funzione antinave invece il proiettile pesava 18 kg e veniva sparato a 13.000 metri di distanza.
La precisione del fuoco di queste armi era eccellente.La torretta singola in cui erano installati pesava 19 tonnellate.
Le mitragliere contraeree di piccolo calibro, da 37/54 mm e da 20/65 mm, erano ottime armi sviluppate autonomamente dall'Italia, installate inizialmente in numero totale di 36.
Quella da 37 mm in particolare aveva una cadenza di tiro di 120 colpi al minuto, e sparava un proiettile del peso di 1,63 kg alla quota di 5.000 metri.
In tutto erano presenti 20 mitragliere da 37 mm in 10 impianti binati e 28 da 20 mm in 14 impianti binati.
Vennero poi installate numerose altre mitragliere da 13,2 mm il cui numero andò via via aumentando durante il conflitto e non è stimabile in maniera univoca.
Completavano l'armamento di queste unità, prive di impianti lanciasiluri, 3 aerei, solitamente idrovolanti Ro.43, imbarcati a poppa, e lanciati in volo tramite una catapulta a vapore.
Verso la fine del conflitto vennero imbarcati anche aerei da caccia Re.2000, i quali però non essendo idrovolanti dovevano necessariamente tornare alle basi di terra una volta esaurito il carburante.
Corazzatura
Come disse l'ammiraglio tedesco von Scheer, una corazzata deve poter fare bene tre cose: galleggiare, galleggiare e galleggiare.
E sulle Littorio questo aspetto venne ricercato con molta cura e con soluzioni innovative.
La corazzatura verticale arrivava ad uno spessore massimo di ben 350 mm (contro i 320 della Bismarck), quella orizzontale arrivava a 207 mm, mentre le torri di grosso calibro erano protette frontalmente da 350 mm di acciaio. Il torrione di comando aveva le corazze dello spessore di 280 mm, stranamente meno di quanto avveniva nelle altre marine.
Ben protette risultarono anche le torri da 152 mm, che con uno spessore massimo di 100 mm erano progettate per resistere ad armi di pari calibro.
Decisamente interessante era la protezione subacquea, denominata "cilindri assorbitori modello Pugliese" dall'ingegnere navale che la ideò.
Si trattava di due lunghi cilindri deformabili, posti lungo la murata, posti all'interno di una paratia piena, con il compito di assorbire la forza dell'onda d'urto provocata dall'esplosione di un siluro o di una mina.
Questo sistema, oltre che provocare l'esplosione contro il cilindro e non contro la paratia, dava la possibilità di disperdere la forza dell'esplosione lungo l'interno del cilindro.
L'efficacia di tale sistema rimane comunque piuttosto controversa e non é confermata, né peraltro smentita, dalle vicende belliche.
L’ORGANIZZAZIONE AERONAVALE INGLESE
La portaerei Illustrious ebbe una vita gloriosa come le altre portaerei della sua classe ma è indubbio che è entrata prepotentemente nella storia per l'attacco di Taranto, il primo nel suo genere e senza dubbio il maggior ispiratore del successivo attacco giapponese a Pearl Harbor.
DINAMICA DELL’ATTACCO
Protetti dall'oscurità, l'11 novembre 1940 dodici biplani Fairey Swordfish decollarono dal ponte della portaerei britannica Illustrious e si diressero attraverso il Mediterraneo verso il territorio italiano, circa 315 chilometri a nord - ovest.
Guidati dal capitano di corvetta Kenneth Williamson, i 12 aerei (6 armati con siluri, 4 con bombe e 2 con bengala illuminanti) si separarono prima dell'obiettivo per cercare di confondere la contraerea.
A meno di un'ora di distanza giunse la seconda ondata con altri 9 aerei della portaerei Illustrious. Affrontando un incessante fuoco di sbarramento, gli Swordfish attaccarono la rada e colpirono 3 corazzate, 1 incrociatore e 2 cacciatorpediniere.
Gli assalitori persero solo 2 velivoli. Il giorno seguente a questo micidiale attacco i resti della flotta italiana si diressero a nord rifugiandosi a Napoli e lasciando le rotte mediterranee, in un momento critico della guerra, nelle mani della Royal Navy.
LA PORTAEREI ILLUSTRIUS
L'HMS Illustrious (R87) fu una portaerei della Royal Navy, capoclasse della classe omonima ed a cui appartengono la Victorious, Formidable e la Indomitable. alla costruzione: 16 cannoni antiaerei da 114 mm in affusti binati.
Caratteristiche tecniche
Entrata in in servizio |
25 maggio 1940 |
|
|
Destino finale |
Smantellata a Faslane dal 3 novembre 1956 |
Caratteristiche generali |
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Dislocamento |
a pieno carico: 19.121 |
Lunghezza |
227 m |
Larghezza |
29 m |
Pescaggio |
a pieno carico: 8,5 m |
Propulsione |
6 caldaie Admiralty a 3 corpi cilindrici; 3 turbine meccaniche Parsons con tre eliche; 110.000 CV |
Velocità |
30,5 nodi (56 km/h) |
Autonomia |
11.000 mn a 14 nodi (20.000 km a 26 km/h) |
Equipaggio |
1.200 uomini |
ARMAMENTO |
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Armamento |
alla costruzione:· 16 cannoni antiaerei da 114 mm in affusti binati· 48 cannoni antiaerei da 40 mm "Pom-Pom" in 6 affusti ottupliPost 1945:· 16 cannoni antiaerei da 114 mm in affusti binati· 40 cannoni antiaerei da 40 mm Vickers-Armstrong QF 2 lb in 5 affusti ottupli· 3 cannoni antiaerei da 40 mm Bofors in affusti singoli· 38 mitragliere antiaeree da 20 mm Oerlikon in 19 affusti binati |
Mezzi aerei |
1940: 36 Fulmar e Swordfish
|
Come ormai abitudine per gli inglesi, l'attacco alla piazzaforte di Taranto si inserì in una operazione di maggior respiro, simile a quelle che organizzarono per tutto il resto del conflitto, che consisteva nel far passare dei convogli attraverso il Mediterraneo. Le forze inglesi erano divise come segue:
La corazzata Warspite
Forza A :
Corazzate: Warspite, Malaya, Valiant
Portaerei: Illustrious
Incrociatori: Gloucester, York
Cacciatorpediniere: 13
Tale forza aveva lo scopo di proteggere il convoglio MW3 fino a Malta e, sulla strada del ritorno, attaccare Taranto.
Convoglio MW3 :
5 piroscafi carichi di munizioni e materiali diretti da Alessandria a Malta.
Forza B :
Incrociatori: Ajax, Sydney, diretti a Suda carichi di materiali.
Forza C :
Incrociatore Orion, carico di materiale per la RAF, diretto al Pireo e poi a Suda.
Forza D :
Corazzata Ramillies
Incrociatori antiaerei: Coventry, Calcutta
Cacciatorpediniere: 13
Avrebbe scortato il convoglio MW3 fino a Malta, poi avrebbe proseguito con il ME fino ad Alessandria.
Forza F :
Corazzata: Barham
Incrociatori: Berwick, Glasgow
Cacciatorpediniere: 3
Queste navi dovevano andare a rafforzare la Mediterranean Fleet di Alessandria.
Forza H :
Portaerei: Ark Royal
Incrociatore: Sheffield
Cacciatorpediniere: 5
Avrebbe scortato la forza F fino a Malta
Erano presenti in mare anche altri due convogli:
AN6 :
3 piroscafi carichi di benzina e gasolio diretti in Grecia
AS5 :
alcuni piroscafi vuoti diretti dalla Grecia all'Egitto.
GLI AEREI IMBARCATI
FAIREY SWORDFISH
Un’arma antiquata ma ancora vincente
ARMAMENTO
L'armamento era una mitragliatrice Vickers MK 2 da 7,7 mm con seicento colpi sul lato destro del muso ed una Vickers K o Lewis da 7,7 mm posteriore brandeggiabile con sei tamburi da cento colpi. Su alcuni aerei non era installata la mitragliatrice anteriore. La mitragliatrice posteriore, quando non era utilizzata, poteva essere ritirata in un apposito incavo nella fusoliera. Lo Swordfish aveva vari punti di attacco e poteva trasportare:
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al di sotto della fusoliera:
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un siluro Mk XII da 457 mm e 760 kg;
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una mina Mk I da 680 kg;
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una bomba da 227 kg;
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due bombe da 114 kg;
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un serbatoio di carburante da 273 litri;
-
-
al di sotto ogni semiala inferiore:
-
una bomba da 227 kg;
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tre bombe da 114 kg;
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quattro bombe da 45 kg;
-
tre bombe di profonditàMk III da 112 kg.
-
Inoltre erano presenti attacchi più esterni, che potevano essere caricati con quattro bengala illuminanti, dotati di paracadute. Il siluro Mk XII aveva una testata da 176 kg ed una gittata di 3 200 m a 27 nodi (50 km/h) e 1 372 m a 40 nodi (74,2 km/
VERSIONI
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Swordfish Mk I
Prima versione di serie. Alcuni vennero convertiti dalla Fleet Air Arm in biposto per l'addestramento dei piloti. Vennero prodotti 692 aerei di questa versione dalla Fairey e poi trecento dalla Blackburn.
-
Swordfish Mk II
Seconda versione di serie entrata in servizio nel 1943 con motore Pegasus XXX da 750 hp (560 kW) ed armata con razzi sotto l'ala inferiore, dotata di apposito rivestimento protettivo metallico.
Sotto ogni semiala inferiore al posto delle bombe poteva portare quattro razzi esplosivi RP-3 da 76,2mm e 27 kg o quattro razzi perforanti da 76,2mm e 11,3 kg; entrambi i tipi erano lunghi 1,2m ed usavano cordite come propellente solido. I razzi potevano essere lanciati a coppie, uno da ogni semiala, o tutti assieme; preferibilmente venivano lanciati a 550m dal bersaglio alla quota di 18m.
Generalmente gli aerei di questa versione avevano lo scarico allungato con silenziatore.[3]
Vennero prodotti 1.080 aerei di questa versione dalla Blackburn nel 1943.
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Swordfish Mk III
Terza versione di serie con motore Pegasus XXX ed un nuovo RADAR antinave ASV (Anti surface Vessel) Mk XI sotto alla fusoliera anteriore entrata in servizio nel 1943.
Il nuovo radar con mare calmo permetteva di localizzare un sommergibile in emersione a circa venti chilometri ed uno snorkel ad otto da una quota di 610m, con un'accuratezza angolare di 2º, ma impediva l'installazione di armamento ventrale.
Vennero prodotti 320 aerei di questa versione dalla Blackburn, compreso l'ultimo Swordfish prodotto, l'NS204 completato il diciotto agosto 1944.
-
Swordfish Mk IV
59 Swordfish Mk II convertiti in addestratori armati solo con la mitragliatrice posteriore e dotati di abitacolo chiuso, usati dalla RCAF per l'addestramento al tiro dei mitraglieri di coda a Yarmouth in Nuova Scozia.
Sorprendentemente, la modifica non venne estesa agli Swordfish operativi, per cui gli equipaggi continuarono a volare per tutta la guerra in aerei con abitacolo aperto, anche nelle durissime condizioni ambientali invernali dell'Atlantico del nord.
Alcuni Mk IV vennero poi convertiti in traino bersagli.
Un siluro pronto per essere sganciato nella NOTTE DI TARANTO
Alcuni Swordfish in volo sopra la portaerei britannica HMS ARK Royal nel 1939
AEREI FULMAR – PORTAEREI ILLUSTRIOUS
Aereo da caccia imbarcato
Fairey Fulmar Mk.I
FAIREY FULMAR Mk II N4052
Descrizione: Tipo aereo da caccia imbarcato.
Equipaggio: 2
Progettista: Marcel Lobelle
Costruttore: Fairey
Data primo volo: 13 gennaio 1937
Data entrata in servizio: 10 maggio 1940
Data ritiro dal servizio: 1945
Esemplari: 600 (250 Mk. I e 350 Mk. II)
Dimensioni e pesi: Lunghezza12,29 m
Apertura alare: 14,02 m - Diametro fusoliera 1,02 m – Altezza 3,54 m
Superficie alare: 31,77 m2
Peso a vuoto: 3 960 Kg. Peso max al decollo 4.860
Propulsione: Motore Rolls-Royce-Merlin MK.VIII
Potenza: 1.035 Cv
Prestazioni: Velocità max 415.km/h a 2.700.m-725.km/h
Autonomia: 1.340 km
Raggio di azione: 400 km
Tangenza: 4900 mt
Armamento: Mitragliatrici 8 Vickers K 7,7 mm o 4 Brownig M2 12,7 mm alari
QUELLA STESSA NOTTE SI SVOLSE ANCHE LA BATTAGLIA
DEL CANALE DI OTRANTO
La stessa notte del 12 novembre 1940, subito dopo la conclusione dell’attacco aereo nella base di Taranto, le navi da guerra britanniche intercettarono un convoglio italiano diretto a Valona, formato da quattro piroscafi scortati da una torpediniera e da un incrociatore.
La sera dell'11 novembre, intorno alle 18, alcuni incrociatori e cacciatorpediniere inglesi si distaccarono dalla flotta principale che stava dirigendosi verso il golfo di Taranto per l'operazione Judgement e si diressero verso il Canale d'Otranto per intercettare il traffico verso l'Albania
Incrociatore leggero HMS AJAX (classe Leander
Incrociatore Leggero HMS ORION (classe Leander)
Incrociatore leggero HMS SYDNEY (classe Leander)
I MERCANTILI AFFONDFATI
Il piroscafo Antonio LOCATELLI e l’orologio incrostato di salsedine di Manlio Bartolini, fermo all’ora italiana in cui si gettò in mare (collezione Minissi)
M/n CATALANI (Tirrenia)
Piroscafo PREMUDA
Piroscafo CAPO VADO
Lo squadrone inglese era costituito dagli incrociatori leggeri Orion, Ajax, Sydney con la scorta dei cacciatorpediniere della classe Tribal: Nubian e Mohawk.
Il convoglio italiano era costituito dai piroscafi Antonio Locatelli, Premuda, Capo Vado e Catalani, scortati dalla vecchia torpediniera Fabrizi, al comando del tenente di vascello Giovanni Barbini, e dall'incrociatore ausiliario RAMB III al comando del capitano di fregata Francesco De Angelis.
I piroscafi furono affondati, la torpediniera fu gravemente danneggiata, l’incrociatore riuscì a raggiungere il porto di Brindisi. Il giorno successivo furono recuperati 140 superstiti: morirono 36 persone.
La conseguenza principale della cosiddetta “Notte di Taranto” fu che la flotta italiana rimasta venne spostata a Napoli e Messina. L’operazione britannica dimostrò inoltre le carenze e la debolezza della marina italiana: gli inglesi avevano navigato indisturbati per una intera settimana nel Mediterraneo, avevano rifornito la Grecia e Malta con numerosi convogli e avevano portato a termine con successo un attacco che compromise seriamente la metà dell’intera flotta italiana.
BREVI CONSIDERAZIONI SUL TRAGICO CAPITOLO
NOTTE DI TARANTO
Contesto storico: Il bombardamento di Taranto avvenne durante la Seconda Guerra Mondiale, tra l'11 e il 12 novembre 1940. Questo evento fu un'importante battaglia navale che coinvolse la Marina italiana e la Royal Navy britannica nel Mar Mediterraneo. Taranto era una base navale italiana strategica, e l'attacco inglese fu un tentativo di indebolire la flotta italiana e aumentare la superiorità navale britannica nella regione.
Progetto strategico inglese: Il progetto strategico inglese coinvolto nell'attacco di Taranto fu noto come "Operazione Judgment". L'obiettivo principale era distruggere o danneggiare gravemente la flotta italiana per limitare la sua minaccia nel Mediterraneo e facilitare le operazioni navali britanniche nella regione.
Difetti della base italiana: Taranto aveva diversi difetti che contribuirono al successo dell'attacco britannico. La principale vulnerabilità era la mancanza di un sistema di difesa antiaerea adeguato. Inoltre, le navi italiane erano ancorate in modo relativamente concentrato, facilitando il targeting da parte degli aerei britannici.
Fattore sorpresa: Il fattore sorpresa fu cruciale nell'operazione. Gli aerei britannici riuscirono a penetrare nelle difese italiane senza essere rilevati o intercettati, garantendo un attacco efficace contro le navi ancorate a Taranto.
Fallimento dei Servizi segreti italiani: Il successo dell'operazione britannica è stato attribuito anche a un fallimento dei servizi segreti italiani nel prevedere e contrastare l'attacco imminente. Gli inglesi furono in grado di mantenere il loro piano segreto, sfruttando la mancanza di informazioni precise da parte degli italiani.
Fallimento strategico di Mussolini: Mussolini è stato criticato per il fallimento nel riconoscere e affrontare adeguatamente le nuove tecnologie e tattiche navali. La mancata costruzione tempestiva di una portaerei italiana e l'adozione di nuove tecnologie, come il radar, furono viste come carenze strategiche che influenzarono negativamente la capacità della flotta italiana di difendersi efficacemente.
BIBLIOGRAFIA
Arrigo Petacco: La battaglie navali nel Mediterraneo nella Seconda Guerra Mondiale. A.Mondadori Editore, Milano 1996
Schofield B.B.: La notte di Taranto. Mursia Editore
Nino B. Lo Martire: La notte di Taranto (11 novembre 1940)
La Seconda Guerra Mondiale Enciclopedia 6 volumi – Curcio Editore
Vincenzo Grienti: Una ferita passata alla storia, “la notte di Taranto”- Ufficio Storico della Marina Militare
Carlo GATTI
Rapallo, 21 Novembre 2023
« Zé Peixe » - José Martins Ribeiro Nunes - Lo straordinario pilota del porto di Aracaju-Brasile
RACCONTI DI MARE
« ZE' PEIXE »
José Martins Ribeiro Nunes
Lo straordinario pilota del porto di Aracaju-Brasile
Statua di Zé Peixe al Memorial del Sergipe
José Martins Ribeiro Nunes, (Aracaju, 5 gennaio 1926 – Aracaju, 26 aprile 2012), noto anche come Zé Peixe o Joe Fish, era un Pilota Portuale. Insolitamente, invece d'incontrarsi e partire dalle navi in mare aperto utilizzando una pilotina, nuotava da e verso le navi, tuffandosi ad altezze notevoli e nuotando per circa 10 chilometri al giorno.
Aracaju è una città del Brasile, capitale dello Stato del Sergipe, parte della mesoregione del Leste Sergipano e della microregione di Aracaju.
MAPPA DI ARACAJU
La freccia rossa indica la zona del porto fluviale di Aracaju (PORTO D’ANTAS)
Zé Peixe ha trascorso la sua vita in acqua, cercando a nuoto le navi. La storia incredibile di questo mitico uomo di mare figlio di quel Brasile dove tutto è magia, folklore e spettacolo nella più disarmante semplicità e umiltà.
Un po’ della sua Storia…
Zé Peixe aspetta la biscaglina per salire a bordo
Questa è la storia di un “pesce” chiamato José. Per più di sei decenni ha trascorso la maggior parte del suo tempo in acqua. Nuota quasi quotidianamente per circa 10 chilometri al giorno, è abituato a saltare da navi alte oltre 30 metri ed è capace di gesta omeriche in mare anche in età avanzata... Zé Peixe, come è conosciuto ad Aracaju, è venerato dai marinai di tutto il mondo per la sua umiltà, coraggio e profonda conoscenza delle cose del mare.
E, come ogni leggenda, ha le sue particolarità. Da quando ha iniziato a lavorare nel porto di Aracaju, Zé Peixe non ha mai fatto una doccia sotto l’acqua dolce. Beve anche raramente acqua dolce.
Ciò che rende Zé Peixe una specie unica è il modo in cui lavora: nuota per raggiungere la nave, mentre i suoi colleghi utilizzano la Pilotina e quando porta la nave fuori dal porto, invece di tornare col mezzo della Corporazione, si tuffa in mare. Lo fa così: arrotola la sua maglietta, la mette in una borsa di plastica con i suoi documenti e il resto del denaro, la lega ai suoi pantaloncini, si tuffa e torna a casa con eleganti e ritmiche bracciate, senza muovere le gambe per non attirare gli squali.
Zé Peixe ha guadagnato fama internazionale grazie al racconto dei marinai stranieri che approdavano nel suo porto. “Gli americani mi chiamano Joe Fish," dice. Una volta, il capitano russo di una nave da carico gli chiese di fermarsi quando stava per gettarsi in mare, pensando che volesse suicidarsi.
Joe è un pesce di 1,60 metri che pesa 53 chili. Anche se è piccolo, ha compiuto grandi imprese. La più grande delle quali, si dice, sia quando ha salvato la nave Mercury, che stava bruciando in alto mare. Andò così: Proveniente dalle piattaforme Petrobrás con operatori a bordo, Zé trasbordò su un rimorchiatore con il quale guidò la nave fino a un punto in cui tutti potessero saltare in mare e nuotare verso la terra ferma. Grazie alla sua condizione fisica ottimale, riuscì a salvare innumerevoli vite, racconta Brabo, il Capo dei barcaioli, che vive con Peixinho da 26 anni.
Zé non ha mai lasciato la casa in cui è nato, una delle più antiche di Aracaju. Nemmeno quando si è sposato, più di 40 anni fa (da 20 anni è rimasto vedovo senza figli). Ha allestito una casa per sua moglie, ma non si è mai mosso da lì. Si è sempre preso cura di qualcuno della famiglia, a volte sua madre, a volte un fratello malato. “Morirò qui – dice - ma solo quando il Capitano lassù lo vorrà”.
Ci sono anche coloro che arrivano da lui chiedendo un po' di aiuto. Zé di solito divide il suo stipendio con i mendicanti: vecchi pescatori che non possono più lavorare, disoccupati o invalidi che si affidano alla sua generosità.
Anche dopo essere andato in pensione, Zé Peixe continua ancora a lavorare per piacere. Si sveglia presto al buio. Non ha un orario fisso per lavorare, dipende dal traffico navale che è condizionato dalle maree. Ha abituato il suo corpo a mangiare molto poco, perché uno stomaco pieno non va d'accordo con il mare e fa venire la nausea. Al mattino, una pagnotta di pane con caffè nero è sufficiente. E poi solo frutta. Quando trascorre l'intera giornata in porto, digiuna. Il medico ha confermato: “Zé ha il cuore di un ragazzo. Non ha mai fumato o bevuto. Il suo unico vizio è il mare”.
Se non cammina a piedi usa la bicicletta e pedala a piedi nudi. Indossa scarpe solo la domenica per andare a messa o in occasioni speciali. C'è stato un periodo in cui, per passare inosservato, usava portare le scarpe. “Un giorno ho scoperto che le scarpe non avevano la suola” - confessa il suo amico Zé Galera -. “È l'unico autorizzato a gironzolare per il terminal marittimo con i pantaloncini al di sopra della vita a piedi nudi. Poiché è una rarità, un cittadino totalmente al di fuori della norma, è diventato un'eccezione alle regole” - conclude Galera che ha imparato a nuotare con lui all'età di sei anni ed è ora il suo partner nel pilotaggio navale -.
“È il mio eroe - racconta il deputato Fernando Gabeira di quando era in esilio in Germania e vide un reportage su Zé Peixe - La storia del coraggioso nuotatore catturò la mia immaginazione”. Quando tornò in Brasile, volle conoscere da vicino questo sergipano*.
“È una figura straordinaria. Ho cercato di fare un film sulla sua vita, ma lui non ha voluto."
*Il Sergipe è il meno esteso tra gli stati del Brasile ed è situato nella parte nordorientale del paese, sulla costa atlantica. Confina con gli stati di Bahia e Alagoas. Lo stato ha l'1,1% della popolazione brasiliana e produce solo lo 0,6% del PIL brasiliano.
Stato del Brasile nord-orientale (21.910 km2 con 1.939.426 ab. nel 2007), affacciato a SE sull’Oceano Atlantico, il meno esteso del paese. Capitale Aracaju. Si compone di una vasta zona costiera bassa e sabbiosa, seguita, verso l’interno, da una zona pianeggiante e, più oltre, da un penepiano cristallino. Ha clima equatoriale, mitigato verso la costa e sulle pendici delle serre (brezze marine): scarse le precipitazioni nella zona dell’altopiano interno. I fiumi più importanti sono il Vasa Barris, il Contiguiba e il suo affluente (da cui lo Stato prende nome) Sergipe (lungo 160 km). Nelle valli dei fiumi, le colture principali sono quelle della manioca, del mais, della canna da zucchero, del cotone, del riso, del tabacco. Allevamento di bestiame nelle regioni dell’altopiano. Estrazione del petrolio. Industria alimentare.
ARACAJÚ (A. T., 155-156)
Città capitale dello stato di Sergipe (Brasile orientale), sulla destra del Rio Cotinguiba, a circa 9 km. dall'Atlantico. Il nome può essere connesso con quello di un tipico frutto: l'aracassú o aracá grande.
La città, che nel 1920 contava 37.000 abitanti, sorge su un fiume, dal breve corso che può dirsi relativamente largo e profondo, raggiungendo l'ampiezza di 800 metri, e una profondità di circa 9 metri, ad alta marea: esso è risalito da correnti di marea la cui velocità varia da 80 a 160 centimetri al secondo.
Biografia di ZE' PEIXE - (Aracaju, 5 gennaio 1926 – Aracaju, 26 aprile 2012)
Ze Peixe figlio di Vectúria Martins, insegnante di matematica e di Nicanor Nunes Ribeiro, impiegato pubblico,
Ze Peixe è il terzo di una prole di sei figli.
Ze Peixe è cresciuto in una casa di fronte al fiume Sergipe, nell'attuale via Ivo do Prado, vicino alla Capitaneria di Portio, che un tempo apparteneva ai suoi nonni. Lì ha vissuto fino alla sua morte. Ha imparato a nuotare con i suoi genitori e fin dall'infanzia giocava nel fiume o lo attraversava a nuoto per raccogliere i frutti degli alberi di anacardio sull'altra riva.
A 11 anni, era già un eccellente nuotatore. Mentre gli altri ragazzi andavano in canoa alla spiaggia di Atalaia, lui ci andava a nuoto. Un giorno, il comandante della marina Aldo Sá Brito de Souza, sbarcato alla Capitania dos Portos perché l'ancora si era impigliata sul fondo del fiume, osservando l'abilità del ragazzo José Martins, lo soprannominò "Zé Peixe", un soprannome che si radicò.
Tra i fratelli, Rita (che ricevette anche il soprannome "Pesce") era l'unica che lo accompagnava nelle avventure sul fiume, anche di notte, nonostante la disapprovazione dei genitori, che pensavano non fosse un comportamento adatto per una ragazza. Riceveva sempre rimproveri da loro e a volte nascondevano i suoi costumi da bagno (ma questo non serviva a nulla, poiché andavano a nuotare anche con l'uniforme scolastica, che poi mettevano ad asciugare nel cortile di casa). I suoi genitori preferivano anche che Zé Peixe si concentrasse sugli studi e sui compiti, ma lui voleva soltanto stare in spiaggia a guardare il passaggio delle barche e a disegnare navi; oppure sul fiume, guidando i Capitani tra i variabili bassifondi di sabbia.
Ha frequentato il liceo al Colégio Jackson de Figueiredo e ha completato il secondo grado al Colégio Tobias Barreto. All'età di 20 anni, è entrato nel servizio di "Pilotaggio" presso la Capitania dos Portos. Si è sposato negli anni '60, ma non ha mai avuto figli. È stato vedovo per 25 anni della signora Maria Augusta de Oliveira Nunes.
Il suo modo vigoroso, coraggioso, indipendente e laborioso è sempre stato considerato un esempio di carattere e di invecchiamento dignitoso. Nel corso di decenni, è stato oggetto di numerosi articoli su giornali, riviste, libri, interviste e reportage televisivi, sia nazionali che internazionali. È stato una delle personalità che ha portato la torcia panamericana a Sergipe durante i Giochi Panamericani del 2007 a Rio, percorrendo il tragitto in barca.
Prima di morire, si è allontanato dal mare a causa della malattia di Alzheimer, che lo ha reso limitato e confinato nella sua casa, dove è stato assistito dalla famiglia.
Praticantato Nel 1947, suo padre lo ha mandato al servizio della Marina, dove, attraverso un concorso, è stato assunto come Allievo Pilota dello Stato, assegnato alla “Capitania dos Portos de Sergipe”, una professione che ha svolto per più di mezzo secolo (all'epoca, il compenso per i praticanti era molto più modesto).
La foce del fiume Sergipe é una delle peggiori vie d'acqua portuali del paese. Zé Peixe, per la sua dedizione e la sua conoscenza dettagliata della profondità delle acque, delle correnti e della direzione del vento, si è sempre distinto nel servizio di praticantato.
Ma è stato il suo modo peculiare di lavorare a renderlo famoso in vari mezzi di comunicazione. Quando una nave doveva uscire dal porto sotto la guida del Pilota, Zé Peixe non usava l’apposita pilotina: saliva a bordo e, una volta guidata la nave verso il mare aperto, legava i suoi vestiti e documenti al pantaloncino e si tuffava dall’aletta della plancia della nave in caduta libera ad altezze variabili in mare, (vedi YouTube), nuotava fino a 10 km per raggiungere la spiaggia e percorreva a piedi altri 10 km fino alla sede della Capitania dos Portos.
All'arrivo delle navi in porto, a volte usava una tavola per raggiungere le imbarcazioni più distanti, e aspettava su una boa d'attesa (a 12 km dalla spiaggia) per tutta la notte o addirittura per un intero giorno, fino a quando la marea fosse favorevole all'avvicinamento e all’attracco in banchina. Zé Peixe ha compiuto queste imprese anche in età avanzata, il che stupiva l'equipaggio e i comandanti ignari di questa prassi… Una volta, un comandante russo ordinò di tenerlo fermo prima del salto, pensando che fosse fuori di sé.
Diverse altre situazioni hanno dimostrato la sua bravura nel lavoro, il che gli ha valso molti riconoscimenti. A soli 25 anni, ha salvato tre velisti sul Rio Grande do Norte. Mentre stava guidando un'imbarcazione a vela fuori dalla foce, questa si capovolse e tutti i membri dell'equipaggio naufragarono nel mare agitato. Zé Peixe e sua sorella Rita riuscirono a portare i velisti sani e salvi sulla spiaggia. Un altro episodio riguardò la nave Mercury, la quale viaggiando con i dipendenti di una piattaforma della Petrobras, prese fuoco in alto mare. Zé Peixe raggiunse la nave in fiamme con una barcaccia e, nonostante il rischio di esplosione, salì a bordo e pilotò l'imbarcazione in un punto più sicuro dove tutti poterono tuffarsi e nuotare fino alla terra ferma.
È stato insignito di vari premi e medaglie: per il salvataggio della “yole potiguar” (barca a vela) ha ricevuto la medaglia d’oro al merito del Rio Grande do Norte; per i suoi anni di lavoro ha ricevuto la Medaglia Almirante Tamandaré (istituita nel 1957, onora istituzioni e persone che hanno fornito importanti servizi nella promozione o nel rafforzamento delle tradizioni della Marina del Brasile); è stato omaggiato con la Medaglia dell'Ordine al Merito Serigy, il più alto riconoscimento del comune di Aracaju; ed è stato eletto Cittadino Sergipano del XX secolo. Nel 2009, all'età di 82 anni e già malato, ha chiesto alla Marina il suo definitivo esonero dalla professione di Pilota. (Portaria N 141/DPC, 13/10/2009).
Vi garantisco che il video che ora vi propongo vale molto di più dell’articolo tradotto ed elaborato in gergo marinaro dal sottoscritto. Se non avessi visto questo YouTube non avrei mai creduto ai racconti sul personaggio Zé Peixe arrivati via mare dall’altra sponda dell’oceano! La sua pelle cotta dal sole e dal salino ci ricorda l’espressione di tanti nostri pescatori e marinai imbarcati sui Leudi perennemente a bagnomaria sotto i raggi del sole.
Video
Zé Peixe - The extraordinary pilot from Port of Aracaju, Brazil
https://www.marine-pilots.com/videos/372354-ze-peixe-extraordinary-pilot-from-port-of-aracaju-brazil
published on 23 December 2021 - 532 -
FONTE
Brazilian Maritime Pilots' Association
Practicagem do Brasil
ALBUM FOTOGRAFICO
L'uomo e il mare
Sempre il mare, uomo libero, amerai!
Perché il mare è il tuo specchio; tu contempli
nell'infinito svolgersi dell'onda
l'anima tua, e un abisso è il tuo spirito
non meno amaro. Godi nel tuffarti
in seno alla tua immagine; l'abbracci
con gli occhi e con le braccia, e a volte il cuore
si distrae dal suo suono al suon di questo
selvaggio ed indomabile lamento.
Discreti e tenebrosi ambedue siete:
uomo, nessuno ha mai sondato il fondo
dei tuoi abissi; nessuno ha conosciuto,
mare, le tue più intime ricchezze,
tanto gelosi siete d'ogni vostro
segreto. Ma da secoli infiniti
senza rimorso né pietà lottate
fra voi, talmente grande è il vostro amore
per la strage e la morte, o lottatori
eterni, o implacabili fratelli!
Charles Baudelaire
Carlo GATTI
Rapallo, lunedì 13 Novembre 2023
PALOS DE LA FRONTERA - LA CULLA DELLA SCOPERTA DELL'AMERICA
PALOS DE LA FRONTERA
LA CULLA DELLA SCOPERTA DELL’AMERICA
Da questo sito CRISTOFORO COLOMBO partì alla scoperta dell’America
Ritratto postumo di Cristoforo Colombo di Sebastiano del Piombo, 1519
Olio su tela, MOMA, New York
Una replica fedele della SANTA MARIA
IL PRIMO VIAGGIO
Il più importante iniziò a Palos de la Frontera, le successive spedizioni formate da numerose imbarcazioni partirono da Cadice e da altri porti atlantici più grandi, organizzati e con fondali adeguati.
MEISTERDRUCKE
Partenza di Cristoforo Colombo (1451-1506) da Palos
(Departure of Christopher Columbus (1451-1506) from Palos )
Il navigatore genovese Cristoforo Colombo, a bordo della SANTA MARIA, salpa da Palos de la Frontera diretto verso ovest – nell’Oceano Atlantico sperando di raggiungere l’Asia. Arriverà invece in America. Questa prima spedizione era composta da una nave battezzata Gallega (chiamata poi Santa Maria), lunga 30 metri e comandata dallo stesso Cristoforo Colombo, e da due piccole caravelle, la Pinta e la Niña, lunghe 15 metri ciascuna, comandate rispettivamente da Martín Alonzo Pinzón e da suo fratello Vicente Yáñez Pinzón.
L’Ammiraglia della prima spedizione era la “caracca/nao” Santa Maria, precisamente a tre alberi con vele quadrate; era di proprietà di Juan de la Cosa e fu costruita a Santander.
Nel seguente LINK di NAUTICA REPORT vengono riportate i dati tecnici delle tre imbarcazioni.
https://www.nauticareport.it/dettnews/report/le_caravelle_di_colombo-6-5894/
Un brevissimo ripasso…
La flotta si mosse da Palos il 3 agosto del 1492 con circa 90 uomini di equipaggio.
Ma a soli tre giorni dalla partenza un danno all’albero della Pinta richiese una sosta alle isole Canarie.
Mappa del primo viaggio di Colombo
Le navi ripresero il mare solo il 6 settembre. La navigazione rimase verso occidente fino al 7 ottobre quando, su consiglio di Martín Pinzón (Comandante della PINTA), decise di dirigersi verso sud-ovest. Intanto tra l’equipaggio cresceva il malcontento e la sfiducia nei confronti di un viaggio e di un progetto che, con il passare dei giorni, sembrava sempre più fallimentare.
Solo all’alba del 12 ottobre 1492, mentre si stavano già perdendo ogni speranza, la terra fu avvistata. Quella stessa mattina la spedizione sbarcò a Guanahaní, un’isola delle Bahamas. Il primo approccio fu con un gruppo di indigeni sbalorditi: Colombo prese facilmente possesso dell’isola che chiamò San Salvador (oggi: Isola Bahamas) e, nelle settimane successive, le tre navi arrivarono all’attuale Cuba, che Colombo chiamò Juana, e a Hispaniola (Repubblica Dominicana e Haiti). Colombo pensava di trovarsi nei mari dell’Asia. A dicembre la Santa María naufragò al largo di Hispaniola. Con i resti del relitto fu costruito un fortino, chiamato La Navidad, che fu affidato a 40 uomini che rimasero sull’isola, mentre la Niña e la Pinta iniziarono il viaggio di ritorno. Era il gennaio del 1493 e sarebbero arrivati in Spagna due mesi dopo, a marzo. Ovviamente l’accoglienza fu entusiastica e a Colombo furono confermati i riconoscimenti garantiti dal suo contratto.
Partenza di Cristoforo Colombo da Palos
I tre velieri del viaggio in una stampa di Gustav Adolf Closs del 1892
Palos de la Frontera
Vicinissima al Portogallo PALOS è nota anche come “l’itinerario di Colombo”, infatti Colombo salpò da Palos de la Frontera e ogni 3 agosto qui è grande festa! Per noi italiani è Cristoforo Colombo - per gli spagnoli invece è Cristobal Colòn. Di vocazione marinara, la cittadina fu la culla della scoperta dell’America. Il porto di Palos de la Frontera ha perso il ruolo di protagonista che rivestiva 500 anni fa, dato che attualmente si trova nell’entroterra per via del terremoto di Lisbona del 1755, che provocò importanti cambi nella costa, e per la costruzione in epoca più recente di dighe a protezione del porto di Huelva. In questa località si respira ovunque la storia della scoperta dell’America, qui è dove l’equipaggio di Colombo ricevette l’ultima Comunione prima di salpare.
PALOS (Andalusia-SPAGNA) – Provincia di Huelva
Abitanti: 8.500
Il monastero della Ràbida (in spagnolo Monasterio de Santa María de La Ràbida) Convento francescano spagnolo.
L’epico viaggio di Cristoforo Colombo con le tre “caravelle” inizia da Palos de la Frontera situato nella provincia Huelva della comunità autonoma dell’Andalusia, più precisamente nel monastero francescano di Santa Maria della Ràbida. Qui infatti sembra che il navigatore genovese sia venuto per incontrare il monaco Giovanni, confessore della regina Isabella, grazie ai buoni uffici del quale, la monarca si convinse a finanziare la spedizione.
Nel monastero della Ràbida venne celebrata anche la messa la notte prima della partenza con le tre caravelle.
Monastero della Rabida: Chiostro
Rabida: stanza di Crostoforo Colombo
Tanti sono gli aneddoti su di lui, uno per tutti il famoso “uovo di Colombo”. Infatti, proprio nella sala delle Udienze di questo monastero, Colombo convinse la regina Isabella che il mondo doveva essere tondo posizionando un uovo sul tavolo, che ovviamente è rotolato su un lato.
Colombo venne a Palos a preparare il suo famoso viaggio e i francescani del convento della Rabida lo misero in contatto con Martin Alonso, leader indiscusso della marineria. A lui Colombo affidò l’incarico di reclutare gli equipaggi delle tre caravelle e Martín Alonso arruolò i migliori marinai da lui conosciuti, quasi tutti suoi parenti o amici della giurisdizione di Palos. A lui Colombo affidò il comando della Pinta e a suo fratello Vicente Y. Pinzon quello della Niña.
I marinai e gli armatori più capaci e coraggiosi emigrarono e Palos progressivamente si spopolò e si trovò senza navi, riducendo la sua popolazione alla metà del Settecento a soli 125 abitanti che si dedicavano ad una modesta attività agropastorale di sussistenza col rischio di estinzione del paese capoluogo.
MOLO DELLE CARAVELLE
Da Palos partirono poi diversi navigatori spagnoli diretti alla conquista di nuove terre cui presero parte molti marinai di Palos. Finita l’epoca di questi viaggi e aumentando la stazza delle navi che abbisognavano di fondali più alti di quelli offerti dal porto di Palos che, fra l’altro, andava progressivamente insabbiandosi, infatti Palos non fu più in grado di competere con i grandi porti dell’Atlantico cui facevano capo le navi transatlantiche: Cadice, Lisbona, Porto e La Coruña, mentre a Siviglia si accentrarono i commerci col Nuovo Mondo.
foto-wikipedia
Così appaiono oggi al turista le tre CARAVELLE, (perfettamente ricostruite, galleggianti e pronte per essere visitate), che parteciparono al primo viaggio di Cristoforo COLOMBO. Le tre “REPLICHE” sono ormeggiate presso El Muelle de las Carabelas (Palos de la Frontera).
Le riproduzioni delle caravelle NIÑA, PINTA e la caracca SANTA MARIA furono costruite nel 1992 per celebrare il quinto centenario della SCOPERTA DELL’AMERICA.
Quell’anno fu interamente dedicato a manifestazioni celebrative di ogni tipo, tra le quali furono proprio le tre imbarcazioni ad essere le più visitate da un pubblico numerosissimo di appassionati del mare, della sua storia e della marineria in generale.
La Spagna realizzò una riproduzione delle navi su cui Cristoforo Colombo, il Pinzón de Palos de la Frontera e il resto della spedizione, marinai della zona come il Niño de Moguer, fecero il viaggio alla scoperta dell’America.
Le tre “carabelas” facevano parte dell’Esposizione Universale di Siviglia, sebbene facessero parte anche di numerose mostre in tutta Europa e in America.
Poco dopo il governo andaluso acquistò le imbarcazioni, nell’ambito del progetto ANDALUCIA ’92. Successivamente ebbe inizio la costruzione del Muelle de las Carabelas nel Paraje de la Rábida appartenente al comune di Palos de la Frontera, inaugurato nel 1994 e gestito dalla Diputación de Huelva.
Da allora, il Muelle de las Carabelas è stato aperto al pubblico, registrando un notevole aumento di visitatori anno dopo anno, tanto che nel 2007 è stato raggiunto il record di visite, con una cifra vicina ai 200.000 visitatori con una media di 550 persone giornaliere. È il terzo luogo più visitato dell’Andalusia.
ALBUM FOTOGRAFICO
Muelle de las Carabelas nel Paraje de la Rábida
La caracca Santa Maria (nelle foto sotto) era l’ammiraglia della spedizione. Il nome con la quale la nave è universalmente nota potrebbe derivare proprio dalla cittadina andalusa, tra l’altro una delle patrie dello sherry. Ha avuto, va aggiunto subito, una fine tanto prematura quanto tragica: nella notte di Natale del 1492, una notte calmissima, mentre tutto l’equipaggio dormiva e in plancia era rimasto solo un giovane mozzo, si incaglia nella barriera corallina di Haiti: il suo relitto è stato ritrovato solo nel 1968.
Fonte: Le foto a seguire sono di:
VIAGGISEMPRE.IT - Fanpage-SiVIaggia -
Le caravelle NIÑA e PINTA
LA VITA DI BORDO SOTTOCOPERTA
Le tre caravelle vennero rifornite nel porto di Palos di tutto ciò che era necessario per affrontare la lunga navigazione. Nella prima tappa del viaggio, le Canarie, il vettovagliamento fu completato. Vengono espressamente menzionati farina, vino e bizcocho, oltre all’acqua ed alla legna. In una sua lettera ai signori di Castiglia l’ammiraglio menziona espressamente il pane dei marinai, la galletta o biscotto. Ordinò tra l’altro che nel corso della navigazione la cambusa doveva rimanere chiusa. Il giornale di bordo evidenzia certe ossessioni legate al pane e al modo di prepararlo e cuocerlo. Dopo aver toccato la prima isola ed averla battezzata San Salvador, Colombo incontrò presso la costa alcuni indigeni che a bordo di un’imbarcazione remarono verso la “Santa Maria”, e immediatamente paragonò i loro remi alle pale con le quali si inforna il pane. Non mancò di ricordare dei piccoli pani, non più grossi del pugno di una mano prodotti da quegli stessi indigeni, fatti non si sa con cosa e come cotti. Sul caso troviamo una testimonianza di Bartolomeo de Las Casas che il 15 ottobre 1492 indirizzò un rapporto a “Don Fernando ed alla sua consorte Isabella, per grazia di Dio Re e Regina di Castiglia, Aragona, Sicilia e Canarie”. Eseguendo un ordine dell’Ammiraglio, al primo di quegli indigeni salito a bordo della caravella i marinai donarono “pane e melassa”.
Predrag Matvejevic’
Fonte:
La Casa Museo Martin Alonso Pinzon, (foto sotto) il capitano della Pinta, si trova proprio nel paese di Palos
UN PO’ DI STORIA e riepilogo dell'Impresa:
Cristoforo Colombo:
Breve biografia del grande navigatore e del suo primo viaggio
Cristoforo Colombo è stato un navigatore ed esploratore italiano della Repubblica di Genova, attivo in Portogallo e in Spagna come capitano mercantile, tra i più importanti protagonisti delle grandi scoperte geografiche europee a cavallo tra il XV e il XVI secolo.
Nascita: 1451, Genova
Morte: 20 maggio 1506, Valladolid, Spagna
Figli: Diego Colombo, Fernando Colombo
Fratelli e sorelle: Bartolomeo Colombo, Giovanni Pellegrino Colombo, Giacomo Colombo, Bianchinetta Colombo.
Coniuge: Filipa Moniz Perestrello (s. 1479–1484)
Luogo di sepoltura: Cattedrale di Siviglia-Spagna, Faro a Colòn, Santo Domingo Este, Repubblica Dominicana.
Nato nel 1451 da una famiglia di gestori di un’azienda tessile prima e di un’osteria poi, Colombo, marinaio sin da giovane, basandosi sulle carte geografiche del fratello (residente in Spagna), sui racconti dei marinai e sui reperti trovati al largo delle coste delle isole del “Mare Oceano” (l’Atlantico): imbarcazioni di legno semiaffondate, resti di cadaveri e altri segnali di presenza umana, cominciò già dagli anni 70 del 400′ a convincersi che al di là delle Azzorre dovesse esserci una terra e che questa non potesse essere altro che l’Asia. A Lisbona Colombo cominciò a documentarsi e a leggere testi geografici come l’Historia rerum ubique gestarum di papa Pio II stampata nel 1477, l’Imago mundi di Pierre d’Ailly (1480) e Il Milione di Marco Polo.
Colombo incontrò il re Giovanni II di Portogallo nel 1483 chiedendogli di finanziare la sua spedizione, ma il re rifiutò. Così, Colombo tentò in seguito, nel 1486, di convincere i reali di Spagna, Isabella di Castiglia e Ferdinando di Aragona. Inizialmente i reali rifiutarono, e accettarono solo anni dopo.
La somma necessaria per l’armamento della flotta, pari a 2.000.000 di maravedí, sarebbe stata versata metà dalla corte e metà da Colombo, finanziato da un istituto di credito genovese, il Banco di San Giorgio e dal mercante fiorentino Giannotto Berardi.
Si trattava, in realtà, di una somma modesta anche per quei tempi: si calcola, infatti, che quella che si sarebbe rivelata come una delle più importanti spedizioni della storia umana, fu finanziata con una spesa complessiva variabile fra gli attuali 20.000 e 60.000 €. Dopo la firma Colombo lasciò la città il 12 maggio, quando era già deciso il luogo di partenza, Palos. Furono così allestiti tre velieri (di norma definiti caravelle), di cui due – la Santa Maria e la Pinta – dotati di alberi a vele quadre e uno – la Niña – dotata di vela latina (quindi tecnicamente non Navi (Nao) dal punto di vista velico, perché non dotate di tre alberi a vele quadre)
La partenza avvenne alle sei del mattino del 3 agosto 1492 da Palos de la Frontera, con rotta verso le Isole Canarie per sfruttare i venti. Il 6 agosto si ruppe il timone della Pinta e si credette a un’opera di sabotaggio, quindi furono costretti a uno scalo di circa un mese a La Gomera per le necessarie riparazioni. Le tre navi ripresero il largo il 6 settembre spinte dagli alisei, dei quali Colombo conosceva l’esistenza. A partire dal giorno 17 si osservò con stupore il fenomeno assolutamente sconosciuto della declinazione magnetica: la bussola indicava il polo magnetico distaccandosi sempre più dal nord geografico, col rischio di allontanare le navi dalla loro rotta.
La mattina del 12 ottobre le caravelle riuscirono a trovare un varco nella barriera corallina e gli equipaggi riuscirono a sbarcare su un’isola chiamata, nella lingua locale, Guanahani, che Colombo battezzò con il nome di: Isola di San Salvador; l’identità moderna di questa isola corrisponde, presumibilmente, con quella di un’isola delle Bahamas.
I QUATTRO VIAGGI DI CRISTOFORO COLOMBO
Primo Viaggio: part. Palos 3.8.1492–Arr.Lisbona 4.1493 (Scoperta San Salvador-Bahamas)
Secondo Viaggio: part. Cadice 25.9.1493–Arr.Cadice 11.6.1495-(17 navi) (Scoperta Dominica)
Terzo Viaggio: part. Sanlucar de Barrameda 30.5.1498– (6 unità) - Arr.23.8. arrestato e rinviato in Castiglia dove sarà liberato il 17 dicembre.
Quarto Viaggio: part. Siviglia 3.4.1502–Ritorno a Sanlucar 7 nov.1502 - (Esplorata costa panamense ma perde per naufragio le sue 4 navi. Raggiunge San Domingo (Isola Espagñola) e da qui il 12 9.1504 fa vela per Sanlucar dove arriva il 7 novembre.
GENOVA
Castello d’Albertis
Castello d’Albertis – Museo delle Culture del Mondo – Loggia,
“statua del Colombo giovinetto”
di Giulio Monteverde.
Il capitano D'Albertis ed il piccolo Cristoforo ...
Servizi Educativi Musei Civici di Genova - "Sulle tracce di Colombo" è una delle molte attività proposte alle scuole a Castello D'Albertis Museo delle Culture del Mondo - Genova da parte di Solidarietà e Lavoro in accordo con i Servizi Educativi dei Musei Civici di Genova.
Alla ricerca degli elementi che il Capitano D’Albertis ha voluto nella sua dimora per parlarci della figura di Cristoforo Colombo, ripercorrendo la rotta di Colombo e ricostruendo un astrolabio nautico...
Per informazioni
castellodalbertis@solidarietaelavoro.it
telefono 010 5578280/283
Il ritratto di Cristoforo Colombo, di Ridolfo figlio di Domenico Bigordi detto il Ghirlandaio (1483 - 1561), è l’immagine che con il tempo si è affermata come il “volto” del Navigatore. Il dipinto fu reperito a metà dell’800 sul mercato antiquario di Firenze dall’artista genovese Giambattista Cevasco, che ipotizzò si trattasse del ritratto del navigatore per le analogie con ritrattistica colombiana e per le lettere VS in alto a sinistra, verosimilmente parte di una originale didascalia presente in buona parte dei ritratti colombiani del Cinquecento: “COLVMBVS NOVI ORBIS REPERTOR”.
LE CARAVELLE A GENOVA
Le caravelle sono realizzate con decorazioni floreali all’interno delle stesse aiuole. La scalinata si affaccia davanti al grande arco di trionfo, l’arco della Vittoria, dedicato ai caduti della prima guerra mondiale che campeggia al centro dell’antistante piazza della Vittoria.
Piazza della Vittoria
ARCO DELLA VITTORIA
La scalinata delle Caravelle
Genova, Piazza della Vittoria
(scalinata del Milite ignoto)
Casa di Colombo e Porta Soprana
Nel 1969 nell'atrio della Stazione Ferroviaria di Genova Brignole venne collocata una riproduzione della caracca SANTA MARIA (che oggi si trova al Museo del Mare) quando ancora si poteva lasciare esposta al pubblico - senza bacheca - un mementum storico così significativo per noi liguri e non solo. Oggi non sarebbe più possibile e tutti sappiamo perchè ...!
Genova Turismo
https://genovaturismo.it/casa-cristoforo-colombo-genova/
A poca distanza da Porta Soprana, appena al di fuori delle antiche mura medievali, si trova la cosiddetta Casa di Colombo. Si tratta probabilmente di una ricostruzione, risalente al XVIII secolo, dell’edificio originale, medievale, in cui visse in gioventù lo scopritore delle Americhe. Probabilmente la casa andò distrutta durante il bombardamento della flotta francese di re Luigi XIV che colpì Genova nel 1684. L’edificio si sviluppa su due piani: il piano terra era adibito a bottega del padre, Domenico Colombo, che si occupava di tessitura della lana e di commercio. Al piano superiore si trovava l’abitazione della famiglia. Secondo le fonti scritte, il navigatore ha abitato qui in un arco di tempo compreso – indicativamente – fra il 1455 e il 1470.
Oltre ai danni causati dal bombardamento francese del 1684, l’edificio fu coinvolto nell’intenso sviluppo edilizio che interessò la zona di Ponticello, in cui era ubicato. Il quartiere prendeva nome dalla piccola strada denominata Vico Dritto Ponticello, non più esistente, situata poco al di fuori dell’antica Porta Soprana, sul Piano di Sant’Andrea, dove sorge la casa. Secondo lo storico genovese Marcello Staglieno, al quale è attribuita l’individuazione di quella che è stata la casa di Colombo a Genova, la costruzione al tempo del navigatore aveva due o forse tre piani e venne restaurata sulla base dei resti originali. Secondo i documenti d’archivio rinvenuti dagli storici genovesi, Domenico Colombo, padre del grande navigatore, si trasferì insieme alla famiglia in vico Dritto Ponticello nel 1455. Cristoforo compiva quattro anni.
Il piano terreno della casa era adibito a bottega e, sulla sinistra, rispetto al prospetto principale, si trova tuttora la porta d’ingresso. Un solaio a travatura in legno lo divide dal piano superiore, rispecchiando probabilmente l’assetto originario.
Nel 1887 la casa fu acquistata dal Comune di Genova, come prova tangibile che dimostrasse l’origine genovese del navigatore. Quindi l’edificio fu inserito nel programma dei restauri di Porta Soprana, il che ne permise la sopravvivenza alle trasformazioni del centro avvenute tra la fine dell’Ottocento e gli Anni Trenta del secolo scorso. Sulla facciata principale dell’abitazione è esposta una lapide in cui si legge: “Nessuna casa è più degna di considerazione di questa in cui Cristoforo Colombo trascorse, tra le mura paterne, la prima gioventù”.
Omaggio al genovese
PAOLO EMILIO TAVIANI
Al termine di questo viaggio, per coloro che non lo avessero conosciuto, ricordo che Paolo Emilio Taviani (Genova, 6 novembre 1912 – Roma, 18 giugno 2001) – Ex deputato della Repubblica Italiana, Professore universitario, pubblicò studi di economia e importanti opere su Cristoforo Colombo. Come giornalista collaborò con numerose testate quotidiane e periodiche. Intorno agli Anni ’80 riprese gli studi colombiani, passione giovanile coltivata con molti viaggi e numerosi scritti, largamente tradotti.
Segnalo:
IL (CRISTOFORO COLOMBO,) DI PAOLO EMILIO TAVIANI (*)
bsgi.it
https://bsgi.it › bsgi › article › download
Storico delle imprese di Cristoforo Colombo
La passione di Taviani per la figura e le imprese di Cristoforo Colombo risale all’infanzia e si espresse già in alcune pubblicazioni del 1932. Ma è a partire dalla seconda metà degli anni Settanta che gli studi colombiani assorbono gran parte delle sue attività. Taviani lascia circa duecento scritti dedicati a Cristoforo Colombo (con traduzioni in inglese, francese, spagnolo, tedesco, portoghese, ungherese, turco, vietnamita ecc.).
Due sono le opere maggiori:
Cristoforo Colombo. La genesi della grande scoperta
I viaggi di Colombo. La grande scoperta.
Le realizza seguendo un metodo che, prima di lui (e solo per una parte della biografia colombiana), era stato adottato da S.E. Morison, ossia quello di ripercorrere le tappe di tutti i viaggi di Colombo, sia nel Mediterraneo che nell’Atlantico, sulla scia degli scritti del grande Ammiraglio, dei suoi compagni e del figlio Fernando.
Apprezzati anche in ambito scientifico-accademico. Presiedette la commissione scientifica per l’edizione nazionale della Nuova raccolta colombiana (a cura del Ministero per i Beni culturali e ambientali, I-XXIII, 31 tomi, 1988-2010) e guidò le celebrazioni colombiane del 1992.
Taviani con Renzo Piano e Giovanni Spadolini all’apertura delle celebrazioni colombiane, Porto di Genova, 15 maggio 1992.
Taviani mette a confronto le diverse tesi interpretative, segnala le più attendibili, ne indica di nuove e lascia il campo aperto a più ipotesi quando non è possibile superare ogni ragionevole dubbio. Importante è per Taviani il dialogo con gli studiosi italiani e stranieri, con i quali riesce a costruire un quasi unanime consenso intorno ad alcuni punti fermi della storiografia.
Dalla seconda metà degli anni Ottanta Taviani è presidente della Commissione scientifica per l’edizione nazionale della ‘Nuova Raccolta Colombiana’ (22 volumi, curati dai maggiori studiosi italiani e stranieri) e s’impegna per l’organizzazione delle celebrazioni colombiane del 1992, che gli attireranno anche qualche critica per il grande risalto dato alla sua città natale. Del 1996 è la sua opera definitiva sull’argomento, che raccoglie e aggiorna tutte le precedenti: Cristoforo Colombo.
ALCUNI LIBRI DI PAOLO EMILIO TAVIANI:
Una curiosità:
Galata Museo del Mare-Genova
Questa è la firma con cui Colombo termina le sue lettere. Sembrerebbe che egli abbia voluto attribuire un preciso significato simbolico e profetico alla sua firma: Xpo FERENS - in grecolatino Cristoforo - significa "colui che porta a Dio". Le lettere X, M, Y rappresentano le iniziali delle tre religioni monoteiste (Cristiani, Musulmani ed Ebrei), mentre le lettere S disposte a triangolo come il triangolo rappresentato dalla A, indicano la Trinità.
RAPALLO
Classico monumento che raffigura il Grande Navigatore genovese Cristoforo Colombo in piedi, col braccio destro teso ad indicare l’orizzonte e orientato verso Ovest. Si trova ad una estremità del lungomare di Rapallo e fu donato alla cittadina da rapallesi emigrati in America. Al giovedì è circondato dalle bancarelle del mercato settimanale.
CONCLUSIONE con mugugno… (di anonimo genovese…)
CRISTOFORO COLOMBO, UN GENOVESE DA RICORDARE
Cristoforo Colombo, il concittadino più famoso che Genova può vantare, spesso viene ricordato quasi per obbligo istituzionale, perché esiste il Columbus Day, (anche se qualche sciagurato in America ha cominciato a contestare l’evento decapitando teste alle statue dedicate al buon Cristoforo) e perché comunque sono 529 anni dalla scoperta dell’America.
La mattina del 12 ottobre 1492, la fortuna decise che Colombo sarebbe arrivato su di un’isola, oggi isola di San Salvador, e aprisse di fatto un nuovo mondo.
L’idea era completamente diversa, Cristoforo Colombo cercava l’Asia pensando a una terra più piccola rispetto a quella reale e fu una vera fortuna per lui andare a sbattere su quel grande Continente che oggi è l’America Latina, visto che fino a due giorni prima rischiava l’ammutinamento dei suoi, esasperati da tanta navigazione senza vedere un lembo di terra. Convito di arrivare in Asia sbagliò i suoi calcoli e fu così che un grosso errore cambiò il mondo.
Da quel giorno si è aperta una porta, un mondo nuovo che ha cambiato la storia del pianeta, sia dal punto di vista geo politico che da quello alimentare, basti pensare all’ananas, ai pomodori, al mais, al peperoncino, alla patata, al cacao, al tacchino, ai fagioli e a tanti altri frutti provenienti da quella immensa terra, divenuta poi terra di conquista.
Non vogliamo entrare nello specifico, ci sarebbe da scrivere per mesi, ma l’idea che spesso storicamente, Cristoforo Colombo venga ricordato quasi in sordina e per obbligo istituzionale, un pochino dovrebbe far riflettere, sarà stato un avventuriero, un navigatore senza scrupoli, come scrivono i suoi detrattori, ma comunque è grazie a lui che oggi esiste il mondo che conosciamo, è stato lui il primo ad aprire la strada definitiva a quello che sarebbe stato il Continente che oggi conosciamo e secondo noi, andrebbe valorizzato meglio, sia come Genovese, che come cittadino uomo di mondo.
Alcuni riferimenti dello stesso autore:
IL TRATTATO DI TORDESILLAS
Carlo Gatti
https://www.marenostrumrapallo.it/tordesillas/
CENNI SULLA COCCA, CARAVELLA E CARACCA
CIVADA E CONTROCIVADA
https://www.marenostrumrapallo.it/crisco/
IL RELITTO DELLA SANTA MARIA
VERO O FALSO?
Carlo Gatti
https://www.marenostrumrapallo.it/santamaria/
MARINAI E FEDE
Carlo Gatti
https://www.marenostrumrapallo.it/cri/
Bibliografia
Cristoforo Colombo - di Paolo Emilio Taviani:
Scienza nautica iberica (1400-1600) https://it.wikipedia.org/wiki/Scienza_nautica_iberica_(1400-1600)
L’EREDITA’ DEI COLOMBO – Istituto Idrografico della Marina – Giorgio Bazzurro
La Mia Gente – IL SECOLO XIX – stampato 18.2.1983 – Il Capitano coraggioso – pag.81
Guida ai velieri di tutto il mondo dal 1200 a oggi. Attilio Cucari – A.Mondadori Edit. 1976
Carlo GATTI
Rapallo, 7 Novembre 2022
LA GALEAZZA - Una meteora che fu molto visibile ed efficace durante la BATTAGLIA DI LEPANTO
LA GALEAZZA
Una Meteora che fu molto visibile ed efficace nella Battaglia di Lepanto
Nel XV secolo, sulla spinta delle scoperte geografiche e dell’esplorazioni del nostro globo, la storia navale cambia passo: dalla navigazione costiera si passa alla navigazione oceanica. Gli scenari geo-politici sono cambiati e le maggiori flotte del Mediterraneo studiano nuove tecniche di costruzione che siano in grado di affrontare le sfide oceaniche. L’idea del REMO che era stata la protagonista indiscussa per millenni sta per essere confinata in ambiti locali dove resiste tuttora, ma tra le tante situazioni che stanno per cambiare nel mondo emerge la necessità “commerciale” di navigare giorno e notte, in tutte le stagioni e con qualsiasi forza del mare.
Galeazza Veneziana
La GALEA, come abbiamo già visto in diverse nostre immersioni nella storia navale, fu tra le imbarcazioni maggiormente usate nel Mediterraneo, sia negli scambi commerciali che nei combattimenti navali tra il XIII al XVII secolo, anche se scafi che presentavano le stesse caratteristiche solcavano i mari già da due millenni.
La GALEA era molto duttile, infatti impiegava la propulsione velica per i trasporti commerciali (le galee di mercato) e quella remiera per gli abbordaggi militari, e sempre per le manovre di routine. Il secolare successo di questo strumento navale lo si deve proprio a questo duplice utilizzo che privilegiava tuttavia il campo militare.
La GALEA aveva una forma stretta e allungata e la presenza di rematori a bordo (almeno duecento) non permetteva di trasportare grossi carichi. Per questi motivi la GALEA è sopravvissuta così a lungo: i mercati da conquistare e da difendere si trovavano entro spazi di mare limitati, riparati e collegabili per molti mesi l’anno.
Nel secolo della Battaglia di Lepanto, la galea era una nave di circa 300 T. di dislocamento, completamente pontata da prora a poppa, con circa 1,5 m. di opera morta e circa 1 m. di pescaggio, lunga da 40 a 50 mt. e larga circa 6 mt. Gli armamenti erano leggeri, di solito pochi cannoni a prora e a poppa.
Come abbiamo accennato nell’introduzione, venendo meno l'importanza dei traffici commerciali mediterranei, Venezia ebbe la necessità di convertire le "Galee grosse” (commerciali) in navi da guerra: da questa “visione” nacque la GALEAZZA, invenzione esclusiva della Repubblica di Venezia che segnò - nel XVI secolo - la trasformazione della Galea in unità militare moderna e molto evolutiva per l’poca. L’idea fu molto apprezzata dall'ammiraglio veneziano Francesco Morosini che la scelse come ammiraglia della flotta.
La GALEAZZA fu costruita a Venezia a partire dal XV secolo. Aveva bordi alti con casseretto e castello, armata di tre alberi a vele latine (trinchetto, maestra e mezzana) e bompresso, era lunga 50 mt - larga 5 metri.
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il ponte di coperta era libero per la manovra delle vele
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nel ponte inferiore aveva trentadue banchi con una forza motrice fino a 150 rematori in doppia fila di remi a scaloccio*. Disponeva quindi di una propulsione mista.
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Disponeva infine di una batteria di 36 grossi cannoni e altri minori installati sui fianchi.
La galeazza, utilizzata per la prima volta dai Veneziani di Sebastiano Venier nella battaglia di Lepanto, rappresentò l’ulteriore passaggio dalla galea al galeone.
*Remi a scaloccio: remo a scaloccio per indicare un tipo di remo lungo e pesante che, manovrato da tre o più rematori posti sullo stesso banco, era in dotazione a galee, dette anch'esse galee a scaloccio in contrapp. alle galee sensili (v. sensile).
LA GALEAZZA
In Guerra
Galeazza dell'Armada spagnola
UNA VERA INNOVAZIONE
Rinforzata sui fianchi con piastre di acciaio
la GALEAZZA era quindi la CORAZZATA del XVI secolo
Gli storici dell’epoca riportano che l’impianto velico e quello remiero della GALEAZZA avevano un equilibrio perfetto: la sua pesantezza non influiva sulla velocità, e neppure sulla manovrabilità nel confronto con qualsiasi Galea del tempo. Oltre ai potenti cannoni e alla corazzatura delle murate, la GALEAZZA disponeva di un ulteriore vantaggio strategico per la sua forza difensiva: era stata progettata per essere "INABORDABILE" grazie alla sua notevole altezza. Nella Battaglia di Lepanto fu un elemento decisivo per la vittoria della Lega Cristiana.
La prima apparizione delle galeazze fu nella Battaglia di Lepanto (7 ottobre 1571), durante la quale vennero schierate sei galeazze veneziane, come avanguardia in ognuno dei tre settori dello schieramento cristiano, al comando del provveditore Francesco Duodo.
Le Galeazze furono private dei loro equipaggi di spadaccini e soldati esperti nello scontro corpo a corpo sfruttando la loro Inabordabilità. Al loro posto furono posizionati plotoni di Archibugeri Spagnoli che incrementarono enormemente la potenza di fuoco delle già potenti navi da guerra Veneziane.
Per assurdo, l'uso della Galeazza raggiunse il suo apice proprio in questa battaglia che fu però anche il canto del cigno visto che l'uso delle navi a remi venne a morire dopo questa battaglia.
Nel dipinto e nei modellini sotto riportati si possono notare molti particolari tecnici che riguardano la velatura con la sua attrezzatura, la disposizione dei remi e quella dei cannoni oltre a molti particolari della stessa costruzione ed architettura navale della Galeazza.
Segnaliamo per gli appassionati di STORIA il libro:
Non appena in Occidente si sparse la voce della prossima uscita in mare della flotta islamica turca papa Pio V decise che quella era l'occasione buona per realizzare un progetto che sognava da tempo: l'unione delle potenze cristiane per affrontare gli infedeli in mare con forze schiaccianti, e mettere fine una volta per tutte alla minaccia che gravava sulla Cristianità. Quando divenne sempre più evidente che la tempesta era destinata a scaricarsi su Cipro, il vecchio inquisitore divenuto pontefice, persecutore accanito di ebrei ed eretici, volle affrettare i tempi.
È la primavera del 1570. Un anno e mezzo dopo, il 7 ottobre 1571, l'Europa cristiana infligge ai turchi una sconfitta catastrofica. Ma la vera vittoria cattolica non si celebra sul campo di battaglia né si misura in terre conquistate. L'importanza di Lepanto è nel suo enorme impatto emotivo quando, in un profluvio di instant books, relazioni, memorie, orazioni, poesie e incisioni, la sua fama travolge ogni angolo d'Europa. Questo libro non è l'ennesima storia di quella giornata. È un arazzo dell'anno e mezzo che la precedette. La sua trama è fatta degli umori, gli intrecci diplomatici, le canzoni cantate dagli eserciti, i pregiudizi che alimentavano entrambi i fronti, la tecnologia della guerra, di cosa pensavano i turchi dei cristiani e viceversa”.
LEPANTO: Nome medievale dell'odierna cittadina greca di Naupatto, posta sulla costa settentrionale dello stretto che separa il Golfo di Corinto da quello di Patrasso. Nel 1407 Lepanto venne in potere dei Veneziani; nel 1499 fu conquistata dai Turchi; riconquistata dai Veneziani di F.Morosini; poi di nuovo dai Turchi 1699, rimase a questi fino al 1828.
LA BATTAGLIA DI LEPANTO
A difesa degli interessi dell'Occidente cristiano si costituì una coalizione, la Lega Santa, voluta anche da papa Pio V (1566-72): vi parteciparono le repubbliche marinare di Genova e Venezia, lo Stato della Chiesa e la Spagna. Fu allestita una flotta grandiosa, oggi diremmo EUROPEA, al comando di Don Giovanni d'Austria, fratello di Filippo II. Con questo schieramento: al centro Don Giovanni, a sinistra il veneziano Agostino Barbarigo, a destra il genovese Giovanni Andrea Doria, ammiraglio di Filippo II, e sulle retrovie lo spagnolo marchese di Santa Cruz.
Nel Link che segue potete trovare TUTTI i nomi delle navi della Lega Cristiana e dei loro Capitani, posizione e schieramenti.
https://it.wikipedia.org/wiki/Ordine_di_battaglia_della_battaglia_di_Lepanto
Il 7 ottobre 1571 si svolse lo scontro decisivo nel mare greco di Lepanto: i Turchi subirono una sconfitta senza precedenti perdendo quasi tutte le loro navi.
Non essendo storici di professione, abbiamo scelto alcuni eccellenti articoli, naturalmente semplificati per ragioni di spazio, affinché ci aiutino a capire le cause e le conseguenze della battaglia di Lepanto.
STORICA – NATIONAL GEOGRAFIC
7 ottobre 1571: la battaglia di Lepanto
Il 7 ottobre del 1571 si ebbe la più grande battaglia navale della storia moderna. Oltre 400 galere e 200mila uomini si affrontarono in una battaglia più "terrestre" che navale, in cui l’artiglieria europea ebbe la meglio sulla marina ottomana.
GLI SCHIERAMENTI
A sinistra la Lega Santa. Nello schieramento sono ben visibili in prima linea le 6 Galeazze che manderanno a picco molte galere turche
La mappa, disegnata secondo le indicazioni del geografo Egnazio Danti, è posta all’interno della Galleria delle carte geografiche del Vaticano.
Da anni le navi turche imperversavano nel Mediterraneo occidentale. Le coste italiane e spagnole erano costantemente minacciate e Malta fu sul punto di essere presa nel 1565. Davanti al crescente pericolo, la Spagna, Venezia e gli Stati pontifici formarono un’alleanza per fermare l’avanzata turca. Si costituì così la Lega santa, che riuniva, sotto il comando di don Giovanni d’Austria, figlio illegittimo dell'imperatore Carlo V e fratellastro del re Filippo II, lo Stato pontificio, l’Impero spagnolo, le Repubbliche Marinare di Venezia e Genova, i cavalieri di Malta, i ducati di Savoia, Urbino e Lucca e il granducato di Toscana.
Riunitasi a Messina, l’armata cristiana salpò verso le acque greche a metà settembre del 1571.
Cipro, dopo la capitolazione di Famagosta, era appena caduta in mani ottomane, ma rimaneva la possibilità di sconfiggere la flotta turca attraccata nel golfo di Lepanto, all’imboccatura del golfo di Corinto.
A prima vista, le forze sembrano equilibrate, ma la realtà è un’altra. Agli ordini di don Giovanni d’Austria vi sono 36mila soldati di fanteria, più circa 34mila marinai e galeotti sferrati a cui vengono distribuite spade per prendere parte all’arrembaggio. Altri 20mila sono rematori forzati; di loro, quelli che non sono schiavi cominciano a scatenarsi alla promessa di libertà e indulto delle loro pene se dimostrano valore nel combattimento. Nelle fila ottomane gli uomini di armi sono meno, intorno ai 20-25mila. Ma fra i turchi un alto numero di galeotti è costituito da schiavi, in gran parte cristiani, quindi non sono molti gli uomini che gli ottomani possono liberare perché li aiutino in battaglia. Pertanto la flotta della Lega santa dispone del doppio o addirittura del triplo di combattenti rispetto al nemico, fatto che sarà determinante nell’esito della battaglia.
Il 7 ottobre del 1571 si ebbe la più grande battaglia navale della storia moderna. Oltre 400 galere e 200mila uomini si affrontarono in una battaglia più "terrestre" che navale, in cui l'artiglieria europea ebbe la meglio sulla marina ottomana.
La battaglia, la quarta in ordine di tempo e la maggiore, si concluse con una schiacciante vittoria delle forze alleate, guidate da Don Giovanni d'Austria, su quelle ottomane di Müezzinzade Alì Pascià, che morì nello scontro.
La battaglia di Lepanto è storicamente importante anche perché è la prima vittoria delle forze cattoliche occidentali sui turchi, protagonisti di un forte movimento espansionistico che procede incontrastato fino alla guerra di Cipro.
I cristiani riescono a vincere la battaglia di Lepanto grazie ad un'abile manovra del veneziano Sebastiano Venier. La vittoria della Lega Santa è schiacciante.
Il comando supremo fu affidato a don Giovanni d'Austria, mentre Marcantonio Colonna (uomo di fiducia del Papa) e Sebastiano Venier, rispettivamente comandanti della flotta pontificia e veneziana, vennero nominati suoi luogotenenti.
Dati degli schieramenti e immagine tratti da Wilkipedia
GLI SCHIERAMENTI
Flotta della Lega
Il centro dello schieramento cristiano cattolico si componeva di 28 galee e 2 galeazze veneziane, 16 galee spagnole e napoletane, 8 galee genovesi, 7 pontificie, 3 maltesi, per un totale di 62 galee e 2 galeazze.
Lo comandava Don Giovanni d'Austria comandante generale dell'imponente flotta cristiana: ventiquattrenne figlio illegittimo del defunto Imperatore Carlo V e fratellastro del regnante Filippo II aveva già dato ottima prova di sè nel 1568 contro i pirati barbareschi. Affiancavano per ragioni di prestigio la sua galea Real spagnola: la capitana di Sebastiano Venier, settantacinquenne Capitano Generale veneziano, la Capitana di Sua Santità di Marcantonio Colonna, trentaseienne ammiraglio pontificio, la capitana di Ettore Spinola, Capitano Generale genovese, la capitana di Andrea Provana di Leyni, Capitano Generale piemontese, l'ammiraglia Vittoria del priore Piero Giustiniani, Capitano Generale dei Cavalieri di Malta.
Il corno sinistro si componeva di 40 galee e 2 galeazze veneziane, 10 galee spagnole e napoletane, 2 pontificie e 1 genovese, per un totale di 53 galee e 2 galeazze al comando del provveditore generale Agostino Barbarigo, ammiraglio veneziano.
Il corno destro era invece composto di 25 galee e 2 galeazze veneziane, 16 galee genovesi, 10 galee spagnole e siciliane e 2 pontificie, per un totale di 53 galee e 2 galeazze, tenute dal genovese Gianandrea Doria.
Le spalle dello schieramento erano coperte dalle 30 galee di Alvaro de Bazan di Santa Cruz: 13 spagnole e napoletane, 12 veneziane, 3 pontificie, 2 genovesi. L'avanguardia, guidata da Juan de Cardona si componeva di 8 galee: 4 siciliane e 4 veneziane.
In totale la flotta cristiana si componeva di 6 galeazze, 206 galee, 30 navi da carico, circa 13000 marinai, circa 44000 rematori, circa 28000 soldati con 1815 cannoni.
Flotta ottomana
"I Turchi schieravano l'ammiraglio Mehmet Shoraq (detto Scirocco) all'ala destra con 55 galee, il comandante supremo Mehmet Alì Pascià (detto il Sultano) al centro con 90 galee conduceva la flotta a bordo della sua ammiraglia Sultana, su cui sventolava il vessillo verde sul quale era stato scritto 28.900 volte a caratteri d'oro il nome di Allah. Infine l'ammiraglio, considerato il migliore comandante ottomano, Uluč Alì (Giovanni Dionigi Galeni), un apostata di origini calabresi convertito all'Islam (detto Occhialì), presiedeva all'ala sinistra con 90 galee; nelle retrovie schieravano 10 galee e 60 navi minori comandate da Amurat (Murad) Dragut (figlio dell'omonimo Dragut Viceré di Algeri e Signore di Tripoli che era stato uno dei più tristemente noti pirati barbareschi)".
LIMES - Rivista di Geopolitica
Nel 1571 turchi e cristiani ingaggiano la battaglia navale assurta a emblema dello scontro tra Oriente e Occidente. Le cronache narrano di astuzie tattiche e gesta eroiche. Secoli di storiografia ‘politica’ e di rievocazioni popolari hanno creato miti distorti. Che è ora di sfatare.
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Sono 441 anni che la memoria di Lepanto ci ossessiona.
L’eco della remota battaglia navale combattuta quel lontano 7 ottobre (una domenica), anno di grazia 1571, tra l’armata multinazionale cristiana della Lega Santa al comando di don Giovanni d’Austria e la flotta ottomana del kapudan pasa Müezzinzâde Ali, con un complesso di 499 navi, 2.565 cannoni e ben 172 mila uomini ¹, non cessa ancora di porci interrogativi.
A cominciare dal fatto che l’epica battaglia di Lepanto con Lepanto c’entra ben poco, in quanto si svolse all’imboccatura del Golfo di Patrasso, a mezzogiorno della congiungente Punta Scrofa-Isola di Oxia, cioè a quaranta miglia dalla base turca di Lepanto ², dove l’armata di don Giovanni non sarebbe di fatto mai arrivata.
Nella grande battaglia navale combatte e muore ³ la migliore gioventù europea del tempo; se...
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Sui numeri di Lepanto gli storici antichi e moderni non sono mai stati d’accordo. Stando alle fonti documentarie più sicure, si arriva alle cifre di seguito riportate (tra parentesi le variazioni più significative). Per la flotta cristiana, 6 galeazze, 208 (207 o 209) galee, 28 mila soldati, 56.420 marinai e remieri, 1.815 pezzi di artiglieria. Per quella ottomana, 225 (222, 282, 290) galee, 60 galeotte, 34 mila soldati, 54 mila marinai e remieri, 750 pezzi di artiglieria.
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Per l’esattezza a 36,6 miglia nel Golfo di Corinto, al di là dello stretto chiamato all’epoca «dei piccoli Dardanelli», dove la flotta della Serenissima si sarebbe spinta solo un secolo dopo, durante la guerra di Morea, con le campagne militari di Francesco Morosini «il Peloponnesiaco». Il genovese Marcantonio Montefiore, correttamente, aveva intitolato la sua opera De pugna navali cursolaria Commentarii,al pari di relazioni anonime redatte all’indomani dei fatti che parlavano tout courtdi Giornata delle scorciolare. Ma tale denominazione non era destinata ad affermarsi, sia perché ritenuta troppo riduttiva per cotanto evento, sia perché sembrava ammiccare troppo a quella battaglia di Curzola/ Curzolari del 1298 in cui i veneziani erano stati solennemente battuti dal genovese Lamba Doria. Tanto che qualche altra relazione a stampa del tempo aveva cominciato a parlare di «vittoria a quaranta miglia sopra Lepanto», ovvero «iuxta Sinum Corinthiacum» ,nei pressi cioè del Golfo di Corinto (cioè di Lepanto, come allora anche si chiamava), o ancora a Lepanto «haud procul hinc», non lontano di qui, come dice Bernardino Di Leo nel suo De bello turcico . L’entusiastica esclamazione attribuita a Pio V («Suonate le campane, a Lepanto abbiamo vinto») ebbe probabilmente peso determinante.
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L’armata cristiana alla fine della giornata conterà 7.650 caduti (di cui 4.836 veneziani) e 7.800 feriti (e solo 14 galee perse), mentre quella turca, oltre a 25 galee distrutte, 170 galee e 20 galeotte catturate dai cristiani, arriverà a contare, tra morti, dispersi e feriti, 20/25 mila (Gargiulo), 25 mila (Beeching), 30 mila (Iachino), o 35 mila (Capponi) perdite. Cfr. H. INALCIK , «Lepanto in the Ottoman Documents», in G. BENZONI (a cura di), Il Mediterraneo nella seconda metà del ’500 alla luce diLepanto, Firenze 1974, Olschki, pp. 185-192.
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Che nella battaglia si comportò eroicamente, riportando due ferite d’archibugio al petto e alla mano sinistra. Quando don Giovanni, nel congratularsi con lui a fine battaglia, gli chiese di porgergli la mano, Cervantes gli porse la mano sinistra, maciullata e bendata, dicendo: «Altezza, questa gliel’ho già data!».
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Cioè Corfù, Igoumenitsa, Cefalonia e quindi, entrando nel Golfo di Patrasso, costeggia l’estremità meridionale dell’isola di Oxia, l’unica delle antiche Curzolari (Echinadi) che non sia stata cancellata dalle sabbie del fiume Acheloo (Aspropotamo), come ce la descrive N. CAPPONI, Lepanto 1571. La Lega Santa contro l’impero ottomano, Milano 2008, il Saggiatore, pp. 267-268.
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Le galeazze si distinguono dalle galee ordinarie per dimensioni, alberatura, numero di remi e altezza delle murate (che rendono più difficile l’abbordaggio) e, soprattutto, per la possibilità di disporre le artiglierie (più numerose e di maggior calibro) non solo nelle «rembate» di prora, ma in veri e propri castelli di poppa e di prua. L’handicap era costituito dalla scarsa manovrabilità.
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La flotta della Lega Santa era formata, da sinistra, dalla squadra gialla (al comando di Agostino Barbarigo, con 53 galee), azzurra (don Juan, 61), verde (Doria, 53), con una riserva costituita dalla squadra bianca (Alvaro de Bazan, marchese di Santa Cruz, 38). Quella ottomana, da destra, era al comando di Mehmet Shauruk (con 55 galee), quindi il kapudan pas˛aAli (90) e infine Uluç Ali (rinnegato calabrese conosciuto come Ucciallì «il Tignoso», 90); retrogradia Amurat Dragut (10 galee e 60 legni minori).
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La galee avevano l’artiglieria principale disposta a prua, in linea di chiglia, sicché per puntare l’artiglieria si doveva puntare la galea stessa contro il nemico!
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Cfr. R. GARGIULO, La battaglia di Lepanto, Pordenone 2004, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, p. 140 e 147.
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Secondo la versione più accreditata kapudan pasha sarebbe stato ucciso da un soldato spagnolo, tal Bisogno, che spiccatagli la testa dal busto l’avrebbe portata a nuoto a don Juan. Questi avrebbe deprecato il gesto, anche se nulla impedì che, issata su una picca, la testa di Ali fosse esposta sulla poppa della Real.
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Come si esprime uno dei più severi critici del Doria, il padre domenicano A. GUGLIELMOTTI in Marc’Antonio Colonna alla battaglia di Lepanto(1862), ora in Lepanto 1571, a cura di E. Ferrante, supplemento alla Rivista Marittima, gennaio 2005, p. 62.
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Rispettivamente 11 veneziane, 2 siciliane, due sotto i vessilli pontifici (la S. Giovannie la Fiorenza), la Piemontesa del duca di Savoia e la capitana (come allora si chiamavano le navi ammiraglie) dei Cavalieri di Malta.
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I Doria erano sempre stati degli asientistasche armavano, come altri armatori genovesi (Imperiali, Grimaldi, Lomellini), galee in assetto di guerra e le noleggiavano al re di Spagna; quindi badavano bene a non esporre troppo le loro navi in combattimento. Una sonora sconfitta per l’armata collegata cristiana fu riportata nella battaglia di Prevesa, nella cui ricorrenza, il 28 settembre, si celebra ancor oggi la festa della Marina militare turca!
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Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II,Torino 1982, Einaudi, vol. 2, pp. 1181- 1184.
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Con la promozione agiografica di san Giustina, la cui festa liturgica cadeva proprio il 7 ottobre, da martire minore a santa della Vittoria e il rilancio del culto mariano di santa Maria della Vittoria e della Beata Vergine del Rosario.
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Per una rassegna critica al riguardo, a titolo esemplificativo, cfr. L. VON PASTOR , Storia dei Papi.Dalla fine del medio evo, Roma 1950, Desclée, vol. 8 (1566-1572), pp. 575-579; R. D’A NTIGA, Venezia e l’Islam. Santi e Infedeli , Limena (PD) 2010, Casadei Libri Editore, pp. 55-77 e E. F ERRANTE, «Lepanto, la Lega Navale e la memoria storica», Lega Navale , settembre-ottobre 2011.
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Nella battaglia di Prevesa, all’imboccatura del Golfo di Arta, le forze navali della Lega Santa promossa da papa Paolo III, pur superiori di numero, persero alla fine (tra affondate e catturate) ben 39 navi con 3 mila persone ridotte in schiavitù.
LE ARTIGLIERIE
Cannone Navale a Lepanto
GITTATE
Un cannone da 8 libbre aveva una gittata media di circa 504 metri, ed una massima di circa 3150 metri. La spingarda da 2 once, di solito montata su cavalletto, caricata con un'oncia di polvere otteneva una gittata media di circa 500 metri, ed una massima di circa 2204 metri.
Segnalo alcuni LINK per gli appassionati di armi navali del secolo preso in esame. Si tratta di Studi Accademici molto approfonditi che riportano numerose tabelle di artiglierie dell’epoca della Battaglia di Lepanto con tutti i dati relativi.
BOLLETTINO D‟ARCHIVIO DELL‟UFFICIO STORICO DELLA MARINA MILITARE
MARCO SANTARINI
LE ARTIGLIERIE DELLA MARINA VENETA NEL XVI SECOLO
ASPETTI STORICI E DI IMPIEGO RELATIVI ALLE ARMI IN SERVIZIO E STIMA DELLE PRINCIPALI CARATTERISTICHE TECNICHE DELLA COLUBRINA DA 50
https://www.marina.difesa.it/media-cultura/editoria/bollettino/Documents/2011/dicembre/santarini.pdf
Artiglieria Medievale: Bocche da Fuoco nel XV Secolo (I)
https://zweilawyer.com/2016/09/28/artiglieria-medievale-xv-secolo/
Schede di dettaglio
L’armamento delle torri
https://virtualarchaeology.sardegnacultura.it/index.php/it/siti-archeologici/eta-medievale/torri-costiere-di-arbatax/schede-di-dettaglio/1279-l-armamento-delle-torri
RIFLESSIONE FINALE:
di Wlodzimierz Redzioch
Ci sono delle battaglie che decidono delle sorti delle nazioni, dei continenti, del mondo. Le sorti dell’Europa, che rimase cristiana, furono decise in tre storici scontri: a Poitiers, dove nel 732 i Franchi guidati da Carlo Martello (690-741) sconfissero l’esercito musulmano; nel 1571 nel Golfo di Lepanto, dove nella battaglia navale la Lega Santa vinse contro gli Ottomani; nel 1683 a Vienna, dove il re polacco Giovanni Sobieski (1629-96) riportò una grande vittoria sui Turchi che assediavano la città. Quest’anno si celebra il 450° anniversario della battaglia di Lepanto, quindi è il momento opportuno per ricordare sia la battaglia, sia i suoi simboli: gli storici vessilli delle navi.
Chiesa S.Stefano Vessillo nave Al’ Pascià – Foto Wlodzimierz Redzioch
Per molti secoli l’Europa venne minacciata dall’Impero ottomano, che riuscì a conquistare una parte consistente del nostro continente. L’Europa non è diventata musulmana grazie, tra l’altro, a quell’epica vittoria sulla flotta del sultano che è passata alla storia come la battaglia di Lepanto, cioè la battaglia navale combattuta dalla Lega Santa nel golfo di Corinto (7 ottobre 1571). Due vessilli sono i simboli di questa storica battaglia: il vessillo della nave dell’ammiraglio pontificio Marcantonio Colonna (1535-84) e il vessillo della nave di Don Giovanni d’Austria (1547-78), comandante della flotta della Lega Santa. Il vessillo di Colonna si trova attualmente nel Museo dell’Arcidiocesi di Gaeta (venne conservato per tanto tempo nella cattedrale di quella città marinara), invece il secondo è conservato nel Museo di Santa Cruz a Toledo. Ma non tutti sanno che in Italia, a Pisa, si trova anche un altro simbolo della battaglia: lo stendardo della nave del comandante in capo ottomano, Alì Pascià (?-1571).
UNA CURIOSITA’ A NOI VICINA:
Chiesa parrocchiale di Santo Stefano D'AVETO (GE) – Santuario della Madonna di Guadalupe
Nella chiesa della vicina Santo Stefano D’Aveto viene conservata un’immagine della Madonna di Guadalupe portata nel santuario nel 1804 dalla chiesa di San Pietro in Piacenza. Il santuario conserva dal 1811 anche una tela che raffigura la Vergine donata all’edificio dal cardinale Giuseppe Maria Doria Pamphilj, segretario di Stato di papa Pio VII. Si narra che questa tela fosse sulle navi del suo antenato Andrea Doria* nel 1571, durante la Battaglia di Lepanto. Il quadro, copia dell’immagine impressa sulla tilma, gli era stato donato all’ammiraglio dal re di Spagna Filippo II. La chiesa di stile gotico toscano fu ricostruita nel 1928 in sostituzione della vecchia settecentesca di cui rimane il campanile. L’altare maggiore espone ai lati del vecchio quadro due pale dedicate a Santo Stefano ed a Santa Maria Maddalena. Le parti in legno sono state eseguite da maestri della val Gardena.
* GIOVANNI ANDREA DORIA
La battaglia di Lepanto (1571) rappresenta l'evento bellico più noto a cui abbia partecipato il Principe Giovanni Andrea Doria ma costituisce anche un punto focale della storia europea sotto molteplici aspetti (politici, militari, religiosi e tecnologici).
Il principe Giovanni Andrea Doria era il figlio di Giannettino e pronipote del GRANDE AMMIRAGLIO genovese ANDREA DORIA.
CARLO GATTI
Rapallo, 28 ottobre 2023
LA MADONNA DELLE MILIZIE DI SCICLI (RAGUSA)
LA MADONNA DELLE MILIZIE DI SCICLI (RAGUSA)
QUANDO IL PERICOLO VENIVA DAL MARE
“ MAMMA LI TURCHI! ”
- Paura e terrore in un modo di dire -
Nel lembo di terra più a SUD della Sicilia, tanto cara ai followers del commissario Montalbano, oltre al mare e ai paesaggi incantevoli di quella regione fantastica che tanto ci ricorda la nostra Liguria, abbiamo scoperto molti tesori d’arte barocca ed anche un’antica tradizione che merita di essere conosciuta.
UN PO’ DI STORIA
Secondo un’antica leggenda, nel 1091, quindici giorni prima di Pasqua, sulle coste di Donnalucata si sarebbe combattuta una sanguinosa battaglia tra l’esercito Normanno di Ruggero D’Altavilla e gli invasori arabi guidati dall’Emiro Belcàne. Il conflitto si risolse in favore dei Cristiani grazie al miracoloso intervento della Madonna che avrebbe scacciato i turchi con la spada sguainata.
Il racconto dell’aggressione col tempo si è trasformata in leggenda, poi in tradizione ed infine in profonda devozione creando nella popolazione il culto per la Madonna guerriera. Il popolo fa sua la Festa delle Milizie mettendo in scena il fatto d’armi in modo spontaneo, i cittadini si improvvisano attori lasciandosi andare anche satira politica e sociale.
La Madonna delle Milizie è la patrona di Scicli, insieme a San Guglielmo. La sua statua è custodita nella chiesa Madre dove può essere ammirata tutto l’anno. Il suo nome non deriva dal carattere guerriero ma dal luogo dove si sarebbe combattuta la battaglia, in contrada Mulici che venne italianizzato in Milizie.
Nella foto sopra, i resti del primo duomo di Scicli dedicato a San Matteo.
Situato in contrada Mulici, la tradizione lo vuole costruito nel luogo dell'epica battaglia tra Normanni e Saraceni a memoria e ringraziamento dell'intervento risolutore della Madonna a cavallo.
Non capita tutti i giorni di trovarsi di fronte la statua di una Madonna a cavallo, se poi la Madonna in questione è una guerriera con tanto di spada, si capisce come la Madonna delle Milizie di Scicli sia un’iconografia rara e interessantissima.
Edificato tra il 1093 e il 1098 fu ampliato nel 1391 e ricostruito interamente nel 1721, dopo esser stato distrutto da un terremoto, sulla base del modello precedente. In seguito venne costruito un convento accanto all’edificio. Caratteristica è la torre campanaria che aveva pure la funzione d'avvistamento dominando un vasto territorio. In alto si trova la lapide posta da Ruggero d'Altavilla, che secondo la tradizione volle la costruzione del Santuario, per ricordare l’epica battaglia. In quel periodo iniziò la tradizione processionale che coinvolse tutti i centri abitati dalla zona che invocavano la protezione della Madonna. Nel suo anniversario la battaglia viene ancora oggi messa in scena da figuranti al culmine di una festa molto sentita.
La Festa della Madonna delle Milizie
Si tiene l'ultimo sabato di maggio. Mito, leggenda e tradizione locale hanno costruito, secolo dopo secolo, la storia della Madonna intervenuta per salvare i Cristiani impegnati in battaglia contro gli invasori “turchi” sbarcati sulla costa di Donnalucata, borgo marinaro di Scicli.
Anno dopo anno i cittadini di Scicli, mettono in scena il tentativo di invasione turca e la risposta dei Normanni che nel momento in cui stanno per soccombere vengono salvati dalla Madonna che impugna una spada. In piazza Italia viene allestito un palco con un grande castello medievale a fare da scenografia, qui attori locali, insieme ad attori noti, raccontano le gesta della Madonna davanti ad una grande folla che attende l’urlo: W Scicli, W Maria!
Intorno alle 19 il suono dei tamburi annuncia l’inizio della rappresentazione che culmina con la battaglia e l’intervento della Madonna delle Milizie che entra in scena. I fuochi d’artificio scandiscono le ultime fasi del combattimento e la vittoria dei Cristiani mentre i turchi scappano sulla loro nave. Il canto dell’angelo chiude lo spettacolo e da via all’inizio della processione.
La battaglia si inserisce nella grande lotta tra la civiltà araba e quella cristiana che intorno all’anno Mille riconquistò l’isola.
La rappresentazione in costume è stata raccontata anche dallo scrittore Elio Vittorini: Il garofano rosso, ed è stata inserita nel registro delle Eredità Immateriali tutelate dall’Unesco.
Maria S.S. delle Milizie, un documentario di Alessia Scarso (2013).
CHIESA MADRE DI SCICLI
Dedicata a San Guglielmo
Nella Chiesa Madre di San Guglielmo, a Scicli, a un passo dalla perla del Barocco di Palazzo Beneventano e dalle basole di via Mormino Penna, è custodita un'opera di Francesco Pascucci. Si tratta di una tela della seconda metà del 700 che raffigura una Madonna Guerriera.
Chiesa di San Bartolomeo - Scicli
“Bella Chiesa” in stile barocco siciliano, una tra le più antiche di Scicli, ancora in fase di restauro, è ricca di stucchi dorati e affreschi. Una delle cappelle è dedicata a San Guglielmo con le sue reliquie nella cassa d'argento. La cappella più importante è quella dedicata alla Madonna delle Milizie, di cui si può ammirare un quadro del '700 e una bellissima statua di cartapesta a grandezza naturale che raffigura la Madonna guerriera, unica al mondo, con la corona sui capelli neri veri, la corazza, il mantello azzurro e la spada sguainata in sella ad un cavallo bianco impennato che schiaccia i corpi dei Saraceni sconfitti in battaglia e segna la vittoria dei Normanni. Questa statua unica nel suo genere mi ha ricordato le immagini di Giovanna d'Arco santa ed eroina francese che salvò il popolo dalla tirannia. In tutte le Chiese di Scicli ci sono all'interno due ragazzi del luogo che forniscono informazioni sulla storia e sui dipinti. Peccato che sono tutte da restaurare e non si mettono a disposizione fondi per preservare i tesori italiani nel tempo.
La tradizione religiosa ha ispirato anche la cucina locale
LE TESTE DI TURCO
Un grande turbante ripieno di ricotta
La Testa di turco è il dolce tipico della festa, il nome deriva dalla sua caratteristica forma che ricorda il turbante arabo. Questa delizia somiglia ad un grosso bigné, solitamente è farcito con ricotta, crema bianca o cioccolato. Secondo la tradizione ad inventare il dolce furono proprio gli arabi, si tratta quindi di un dolce dei vinti e non dei vincitori.
La Testa di Turco, in passato si trovava solo nel periodo della festa della Madonna delle Milizie, oggi invece lo si trova tutto l’anno nelle pasticcerie di Scicli.
A SCICLI SULLE ORME DEL COMMISSARIO
SALVO MONTALBANO
I romanzi di Andrea Camilleri sono diventati una delle serie tv italiane più vendute nel mondo. In onda dal 1999, sono stati trasmessi prima su Rai 2 e poi, dalla terza stagione, su Rai 1.18 set 2023.
La serie, oltre a essere stata trasmessa da Rai Internazionale per gli italiani al di fuori dell'Europa, è stata anche trasmessa da televisioni straniere:
Da Wikipedia
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InArgentina, su Europa Europa, con il titolo El comisario Montalbano
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inAustralia, su SBS, con il titolo Inspector Montalbano
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inAustria, con il titolo Commissario Montalbano
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inBulgaria, con il titolo Komisar Montalbano
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inCroazia, con il titolo Inspektor Montalbano
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inDanimarca, con il titolo Kommissær Montalbano
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inEstonia, con il titolo Commissario Montalbano
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inFinlandia, con il titolo Komisario Montalbano
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inFrancia, su France 3, con il titolo Commissaire Montalbano
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inGermania, con il titolo Kommissar Montalbano
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inLituania, con il titolo Komsaras Montalbanas
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inPolonia, con il titolo Komisarz Montalbano
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inPortogallo, con il titolo O Comissário Montalbano
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nelRegno Unito, su BBC Four, con il titolo Inspector Montalbano
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inRepubblica Ceca, con il titolo Komisař Montalbano
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inRomania, con il titolo Comisarul Montalbano
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inRussia, con il titolo Komissar Montal'bano
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inSpagna, su La 2 e 8TV, con il titolo El Comisario Montalbano
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negliStati Uniti d'America, su MHz Networks, con il titolo Detective Montalbano
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inSvezia, con il titolo Kommissarie Montalbano su SVT (coproduttrice della serie)
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inUngheria, con il titolo Montalbano felügyelő
Occorre subito precisare:
Vigàta e Montelusa sono luoghi immaginari che non si trovano sulla carta geografica ma che geograficamente si collocano nel territorio compreso tra la collina di Girgenti e il mare africano. Luoghi semifantastici che, pur avendo dei confini non precisi e dilatati, esistono veramente.
Vigàta è un immaginario comune siciliano creato dallo scrittore Andrea Camilleri, in cui sono ambientate le avventure del commissario Montalbano nell'immaginaria provincia di Montelusa. La località corrisponde nella realtà a Porto Empedocle, comune natale di Camilleri, in provincia di Agrigento.
La Spiaggia di Punta Secca è nota anche per suo il faro, oltre che per la presenza della casa di Montalbano e ovviamente per il suo bel litorale delimitato da qualche scoglio, e che d'Estate è alquanto affollato.
Così scrive il Dott. Gaetano Cascone a proposito del faro:
“Il re delle due Sicilie Ferdinando II (1810 – 1859) promosse a partire dal 1855 la costruzione di numerosi fari nei punti più strategici dell’isola per aumentare la sicurezza della navigazione ed il miglioramento dei commerci. Nella costa meridionale della Sicilia, tra gli altri, furono costruiti i fari della Colombara, di Licata e quello di Capo Scalambri a Punta Secca nel comune di Santa Croce Camerina.
Il faro di Punta Secca fu progettato dall’ingegnere Nicolò Diliberto D’Anna, il quale consegnò gli estimi ed il progetto alle autorità committenti il 24 novembre 1857, al fine di essere sottoposto alle procedure di gara d’appalto.
L’ingegnere Diliberto previde una torre circolare alta 36 metri, il cui muro innalzato con conci (blocchi di pietra) regolari rastremati (cioè che si assottigliano andando verso l’alto) risultò spesso 1,75 metri alla base e 78 cm in cima. Una scala a chiocciola autoreggente su un pilone centrale e ad incastro nelle pareti della torre, composta da 128 gradini in pietra pece di Ragusa più quattro gradini di ferro, permetteva di raggiungere il fuoco della lanterna posto a 33,80 metri dalla base.
Centosette lastre di vetro piombato chiudevano il vano della lanterna, la cui luce doveva raggiungere le 16 miglia marine. Alla base della torre faro, l’ingegnere Diliberto previde un ampio parterre circondato da un edificio ad U composto da due corpi lunghi 21,67 m e da un corpo centrale che li univa di 14,70 m. in questo edificio furono previste diverse stanze ove allocare i due guardiani del faro e le loro famiglie oltre ai locali da destinare ad ufficio e deposito. Il costo dell’opera previsto in progetto ammontò a 12.100 Ducati ed i tempi di realizzazione furono fissati in 9 mesi dall’inizio dei lavori; tempi che furono sostanzialmente rispettati, atteso che l’opera andò in appalto nella primavera del 1858; mentre i lavori furono espletati dall’autunno dello stesso anno e consegnati alla fine della primavera 1859.
Il faro di Punta Secca può considerarsi una delle maggiori opere pubbliche del governo borbonico in provincia di Ragusa.” Il faro venne costruito con mattoni di arenaria prelevati in territorio di Scicli e trasportati a Punta Secca mediante grossi barconi.
Accanto al faro è annesso un fabbricato a piano unico della Marina militare. Visibile per 206° (tra 318° e 112°) nella zona mare compresa tra Gela e Cava d’Aliga. Il faro a ottica fissa è catalogato con il numero 2942. Altri due fari sono a Scoglitti e a Marina di Ragusa
…il Faro si chiama di Capo Scalambri…
Tra tutti i comuni ragusani, Scicli è il paese che più di tutti offre scorci per rendere reale la città immaginaria. A Scicli riconoscerete il Commissariato di Vigata, potrete visitare la Stanza del questore di Montelusa, ammirare l’affascinante Mannara e passeggiare sul lungomare di Marinella.
Gran parte di Vigata si trova a Scicli! Nel centro del bellissimo paese barocco vi sembrerà di passeggiare accanto a Salvo Montalbano, sarete abbagliati dalla bellezza dei luoghi cari al commissario e vi sembrerà di sentire la voce di Catarella!
Quando sognate di vivere come il Commissario Montalbano state desiderando di visitare Scicli.
La casa di Montalbano, nelle due foto sotto, si trova a Punta Secca, frazione marinara di Santa croce Camerina, a pochi km da Ragusa.
Carlo GATTI
Rapallo, 18 Ottobre 2023
IL BUCINTORO - VENEZIA
IL BUCINTORO
VENEZIA
Il Bucintoro era una sorta di "palazzo galleggiante" e simboleggiava la potenza e la grandezza della Serenissima Repubblica di Venezia.
PALAZZO DUCALE
Giunto a Venezia nel 1786, Johann Wolfang Goethe ebbe modo di assaporare gli ultimi fasti della Serenissima Repubblica. Tra le attrazioni meritevoli di menzione figurava inevitabilmente il Bucintoro, la più sontuosa e affascinante imbarcazione dell’epoca. Nel suo Viaggio in Italia, l’illustre scrittore così la descrisse: “è tutto un cesello d’oro; è un vero e proprio ostensorio, che serve a mostrare al popolo i suoi principi, in tutta la loro magnificenza. ... Questa nave di gala non è che un autentico mobile d’inventario, che ci ricorda in modo tangibile quello che i veneziani furono, o si lusingarono di essere”.
Una “nave di gala”, da parata e non da guerra, specchio di una civiltà votata alla festosa celebrazione più che alla conquista. In legno dorato, splendeva e si rifletteva nelle acque della laguna e il suo utilizzo era riservato perlopiù a un solo giorno dell’anno, in cui si compiva il rituale secolare dello sposalizio di Venezia con il mare. Nel giorno dell’Ascensione – importante solennità cristiana –, il doge, con la Signoria, i senatori e talvolta qualche ospite illustre, salpava dal molo di Palazzo Ducale per recarsi alla bocca di Lido, dove il lancio dell’anello in mare consacrava il dominio della Serenissima nel Mediterraneo orientale.
Ogni epoca ebbe il suo Bucintoro, il primo risale al XIV secolo, ma fu l’ultimo, quello settecentesco a distinguersi per sfarzo e ricchezza. Realizzato tra il 1722 e il 1728 sotto la direzione dell’ingegnere navale Michele Stefano Conti e dello scultore Antonio Corradini, misurava 35 metri di lunghezza e 7 di larghezza. Nel piano inferiore stavano i vogatori, in quello superiore si accomodavano gli alti dignitari dello Stato. A prua, l’elegante polena presentava Venezia come Allegoria della Giustizia.
Andato distrutto dopo la caduta della Repubblica – alcuni frammenti della decorazione lignea si conservano al Museo Correr –, la sua immagine ci è tramandata dalle descrizioni dei viaggiatori e dai dipinti dei vedutisti veneziani del tempo, Canaletto e Francesco Guardi su tutti.
All’interno dell’esposizione Vita da doge (Palazzo Ducale, Appartamento del doge) è possibile ammirare il modello navale statico del Bucintoro settecentesco in scala 1:25, gentilmente prestato da Historya di Ivan Ceschin.
Origine del nome “Bucintoro”
Il nome “Bucintoro” ha origini nel termine veneziano “buzino d’oro” (burcio d’oro), che è stato poi latinizzato nel Medioevo come “bucentaurus”, facendo riferimento a una presunta creatura mitologica simile al centauro, ma con corpo bovino. Questa denominazione è attestata dallo storico Sanudo.
Tuttavia, alcuni hanno erroneamente suggerito che il nome derivasse da una testa bovina utilizzata come figura di prua della galea. Questa ipotesi è infondata, poiché il termine “bucentaurus” non trova riscontro nella mitologia greca.
È interessante notare che il nome Bucintoro sembrava essere utilizzato genericamente per indicare qualsiasi grande e sontuosa galea veneziana.
Il Bucintoro, come abbiamo appena letto, era una sontuosa e maestosa imbarcazione utilizzata dalla Repubblica di Venezia durante le cerimonie e le celebrazioni ufficiali, in particolare per la cerimonia della Festa della Sensa:
Il rito della "Sposa al mare", in cui il Doge gettava un anello in mare per simboleggiare il matrimonio tra Venezia e il mare Adriatico.
Il primo Bucintoro fu costruito nel 1311, ma fu successivamente ricostruito e modificato nel corso dei secoli. L'ultima versione principale, conosciuta come Bucintoro del 1729, era un'imbarcazione sfarzosa, decorata con dettagli d'oro, marmi pregiati e affreschi. Il valore di quest'opera d'arte e di ingegneria navale era immenso, rappresentando la ricchezza e il prestigio della Repubblica di Venezia.
Tuttavia, con l'arrivo di Napoleone Bonaparte e la caduta della Repubblica di Venezia nel 1797, il Bucintoro subì un destino tragico. Nel 1798, Napoleone ordinò la distruzione del Bucintoro come simbolo di potere repubblicano e aristocratico. Fu smantellato e il suo materiale prezioso venne utilizzato per altri scopi. Questo evento segnò la fine definitiva del Bucintoro e simboleggiò il declino dell'antica Repubblica di Venezia.
Il Bucintoro non era un'imbarcazione concepita per la navigazione in mare aperto o per l'uso in battaglia. Era utilizzato principalmente all'interno delle acque lagunari di Venezia durante le cerimonie ufficiali e le parate. La sua struttura e il suo design erano più orientati alla grandezza estetica che alla funzionalità marittima.
Era una nave imponente e ornata, lunga circa 35-40 metri e larga circa 7-8 metri. Il pescaggio (la parte dell'imbarcazione sotto la linea di galleggiamento) doveva essere relativamente basso per consentire la navigazione nelle acque lagunari relativamente poco profonde.
Quanto all'equipaggio, il Bucintoro richiedeva un numero considerevole di marinai, rematori e membri dell'equipaggio per manovrarlo e mantenerlo in ordine durante le cerimonie.
GALEE GENOVESI E GALEE VENEZIANE
Da genovesi ci siamo fatti alcune domande:
Perché Genova non ha avuto il suo Bucintoro? Tra una ricerca e l’altra abbiamo riassunto alcune valide spiegazioni:
Le galee veneziane e quelle genovesi avevano differenze sia in termini di design che di scopo. Ecco alcune delle principali differenze:
Le galee veneziane erano tipiche imbarcazioni a remi della Repubblica di Venezia che godeva di una posizione marittima prominente nel Mediterraneo. Le galee veneziane erano progettate sia per funzioni militari che commerciali. Erano lunghe e slanciate, spesso equipaggiate con numerosi remi per la propulsione. Queste galee potevano avere diverse dimensioni e configurazioni a seconda delle esigenze.
Le galee genovesi, simili a quelle veneziane, erano anch'esse imbarcazioni a remi utilizzate dalla Repubblica di Genova. Avevano design simili a quelle veneziane ma potevano avere alcune caratteristiche distintive: potevano spesso differenziarsi in termini di armamento, disposizione dei remi e uso militare.
Il Bucintoro, come menzionato in precedenza, era un'imbarcazione cerimoniale e rappresentativa utilizzata a Venezia per celebrare eventi ufficiali e cerimonie. La sua forma e il suo scopo erano unici rispetto alle galee veneziane o genovesi. Mentre le galee erano progettate principalmente per la navigazione e il combattimento, il Bucintoro era un "palazzo galleggiante" lussuosamente decorato, simboleggiante il potere e la grandezza della Repubblica di Venezia.
In breve, sebbene ci fossero somiglianze nel design delle imbarcazioni tra Venezia e Genova, il Bucintoro aveva una funzione molto diversa e una veste cerimoniale unica rispetto alle galee veneziane o genovesi.
Entrando meglio nel merito delle differenze possiamo affermare che:
le galee veneziane e quelle genovesi condividevano alcune caratteristiche generali come il design a remi e la destinazione sia militare che commerciale, ma presentavano anche alcune differenze tecniche e di stile. Ecco alcune delle principali differenze tra le galee veneziane e quelle genovesi:
- Le galee veneziane erano spesso leggermente più grandi delle galee genovesi. Le galee veneziane erano progettate con uno scafo lungo e slanciato, mentre le galee genovesi potevano essere più corte e robuste. Questa differenza nelle dimensioni rifletteva anche l'importanza delle due repubbliche marinare e le strategie navali adottate.
- Le galee genovesi erano spesso equipaggiate con più armamenti rispetto alle galee veneziane. Questo rifletteva la natura più marittima e militare dell'approccio genovese. Le galee genovesi avevano solitamente una maggiore capacità di trasportare soldati e armi, mentre le galee veneziane potevano concentrarsi maggiormente sul commercio.
- Le galee veneziane tendevano ad avere un maggior numero di remi rispetto alle galee genovesi. Questo era dovuto in parte all'accento posto da Venezia sulla potenza delle flotte e sull'uso delle galee come mezzo di proiezione di potenza.
- Le galee genovesi potevano avere meno remi, poiché le priorità della Repubblica di Genova includevano anche il commercio e l'espansione marittima, ma non necessariamente in modo così massiccio come a Venezia.
- Le galee veneziane erano spesso notevoli per le loro sculture e decorazioni elaborate e suntuose. Venezia enfatizzava la sua grandezza e il suo status attraverso la bellezza delle sue navi.
- Le galee genovesi, mentre potevano essere ben decorate, erano solitamente più sobrie nell'aspetto rispetto alle controparti veneziane.
- Le galee veneziane avevano una storia di uso sia commerciale che militare, ma Venezia era conosciuta soprattutto per la sua flotta potente e le sue imprese marittime militari.
- Le galee genovesi potevano essere utilizzate sia per il commercio che per la guerra, ma la Repubblica di Genova non era sempre alla stessa altezza di potenza marittima di Venezia, quindi le sue strategie potevano variare in base alle sfide e agli obiettivi.
In sintesi, mentre le galee veneziane e quelle genovesi avevano alcune somiglianze generali, come il design a remi e l'uso misto militare/commerciale, le differenze nelle dimensioni, nell'armamento, nella disposizione dei remi e nell'estetica riflettevano le priorità, la storia e la potenza relative delle due repubbliche marinare.
Venezia era nota per le sue galee altamente decorative e ornate, con attenzione particolare alla bellezza estetica delle imbarcazioni. Genova, d'altra parte, tendeva ad enfatizzare la funzionalità e l'efficienza. Questo potrebbe riflettersi nei dettagli di progettazione e nelle scelte di materiali.
Entrambe le repubbliche marinare possedevano competenze avanzate nella costruzione navale.
UN PO’ DI STORIA … una pagina da ricordare
Veneziani e Genovesi, rivali sempre, anche nemici, ma alleati nella difesa dei valori non negoziabili!
GENOVESI E VENEZIANI
GLI ALLEATI
DELL'ULTIMA, DISPERATA, DIFESA DI COSTANTINOPOLI
Al calar del sole del 29 maggio del 1453, un'ombra impenetrabile si stese su Costantinopoli, l'antica regina dell'Oriente, la città delle meraviglie. Era una data che avrebbe segnato per sempre la storia, quando l'ultimo imperatore romano d'Oriente, Costantino XI Paleologo, difese il suo regno con la forza del coraggio e della perseveranza contro l'assalto implacabile dei turchi ottomani di Maometto II.
La città, ridotta ormai a poco più dell'area cittadina, era circondata da mura imponenti, ma i difensori non superavano le diecimila anime, e contro di loro avanzava una marea umana di giannizzeri e guerrieri ottomani cinque o dieci volte più numerosi. Eppure, nonostante la schiacciante disparità numerica, i difensori non si arresero alla disperazione.
Tra le file dei difensori, si distingueva il valoroso comandante genovese Giovanni Giustiniani, un uomo di ferro, cuore nobile e spada affilata. Guidava con orgoglio i suoi uomini, che nonostante le ferite e la stanchezza, respingevano gli attacchi nemici con un coraggio indomabile. Accanto a lui, i marinai veneziani, con il loro spirito indomito, difendevano la città con fierezza.
Nelle acque del Bosforo, le navi italiane di Genova e Venezia combattevano contro il tempo e le avverse circostanze, cercando di rompere l'assedio. Alcune di esse, nonostante le notizie delle difficoltà che attanagliavano la città, decisero di offrire il loro aiuto, un ultimo gesto di solidarietà verso l'Impero Bizantino.
Ma la sorte era ostile, e quando il destino si rivelò inesorabile, la speranza si dissolse. Le navi turche furono trasportate via terra, aggirando lo sbarramento del Corno d'Oro, tagliando ogni legame di rifornimento via mare. Giovanni Giustiniani, il comandante genovese, fu ferito e portato via dal campo di battaglia, lasciando un vuoto nel cuore dei difensori.
Il 29 maggio, con l'apertura di una breccia nelle antiche mura teodosiane, l'assalto finale dei giannizzeri divenne inarrestabile. Costantino XI Paleologo, il valoroso imperatore si gettò nella mischia con il suo popolo, combattendo fino all'ultimo respiro.
Quando finalmente i turchi ottomani presero la città, l'orrore si scatenò. Le strade di Costantinopoli si riempirono del terrore e della violenza. Santa Sofia, il sacro luogo di culto, fu invasa da un'ondata di sanguinosa brutalità. Cristiani, latini e ortodossi, si erano riuniti per pregare, ma la loro preghiera fu spezzata dal massacro.
I preti furono trucidati mentre celebravano la messa, alcuni sgozzati sull'altare stesso. Maometto II, il conquistatore, che aveva nutrito un grande rispetto per la città, si sentì impotente di fronte al furore dei suoi uomini. Decise di annullare i tre giorni di saccheggio previsti, poiché capì che non sarebbe rimasto molto della gloriosa Costantinopoli.
E così, la città che aveva sfidato il tempo e la storia, la città delle meraviglie, cadde nelle mani del nemico. Ma il contributo eroico di Genova e Venezia nella difesa di Costantinopoli sarebbe rimasto inciso nella memoria del mondo per sempre.
SCRIPTA MANENT
IL BUCINTORO NELLA STORIA
Il più antico documento scritto in cui questa 'nave di stato' viene chiamata Bucintoro risale al 1252, quando il doge Renier Zeno diede incarico all'Arte dei 'Marangoni' di provvedere alla costruzione del 'Bucentaurum'.
A Venezia il doge fu sempre di famiglia patrizia. Nel 697 si convocò di nuovo l'assemblea generale che, a grande maggioranza, nominò Doge Paolo Lucio Anafesto.
Capo di Stato della Repubblica, secondo la tradizione la carica fu istituita nel 697 da Paoluccio Anafesto e durò fino alla caduta della Repubblica, quando nel 1797 il doge Lodovico Manin fu deposto. Lodovico Giovanni Manin (Venezia, 14 maggio 1726 – Venezia, 24 ottobre 1802) è stato il 120º e ultimo doge della Repubblica di Venezia dal 9 marzo 1789 al 15 maggio 1797.
Nella storia della Repubblica di Genova si susseguiranno al potere dogale complessivamente 184 dogi: 45 nei mandati perpetui e 139 nei mandati biennali.
Nel 1797 le truppe di Napoleone conquistarono Venezia, ponendo fine a una storia lunga undici secoli durante i quali la Serenissima fu una delle potenze più ricche e longeve della storia d'Europa e il cui impero commerciale dominò il Mediterraneo
La storia gloriosa del ‘Bucintoro’ terminava quindi il 9 gennaio nel 1798 con un rogo pubblico nell’Isola di San Giorgio, voluto da Napoleone in spregio a quel simbolo dell’odiato potere della Serenissima.
Il 12 maggio 1797 il Maggior Consiglio di Venezia si riunì per l'ultima volta. In quest'ultima sessione il Doge – o capo di stato – Lodovico Manin esortò i nobili veneziani a proclamare la resa della città alle truppe di Napoleone Bonaparte, che dieci giorni prima aveva dichiarato guerra alla Serenissima e stava preparando l'attacco a Marghera, sulla sponda continentale della laguna. Nonostante Venezia potesse contare sulla sua flotta per difendersi dall'attacco, e adducendo come scusa la preoccupazione per l'incolumità della popolazione, alla fine la capitolazione fu approvata.
Nell'anno in cui Venezia avrebbe dovuto celebrare gli undici secoli dalla sua nascita – nel 697 si costituì come ducato dell'Impero Bizantino – terminò invece la storia di quella che era stata la maggior potenza marittima d'Europa. Anche se in realtà lo stallo di quei giorni era l'ultimo colpo di coda di un'agonia iniziata nel XVI secolo, con l'inesorabile avanzata ottomana: i turchi le sottrassero uno a uno tutti i porti nel Mediterraneo orientale, interrompendo tutte le rotte commerciali dalle quali dipendeva la sua economia. Venezia cercò di reinventarsi come nazione continentale, espandendosi nella Pianura Padana, ma non poteva certo competere con le grandi potenze dell'era moderna come la Francia e il Sacro Romano Impero Germanico. Inoltre dentro la città stessa cresceva l'opposizione a un sistema di governo che, nonostante lo stampo repubblicano, di fatto continuava a rimanere nelle mani dei nobili.
Il quadro di Canaletto: "Il Bucintoro al molo il giorno dell'Ascensione"
Il Bucintoro al molo nel giorno dell’Ascensione è un dipinto di a olio su tela delle dimensioni (120×157 cm). Databile al 1730 circa, oggi si trova nella Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli a Torino.
Questa opera, commissionata dal Conte Giuseppe Bolagnos nominato reggente del Consiglio d’Italia da Carlo VI, rappresenta il momento della festa dell’Ascensione in cui il Doge sul suo Bucintoro si recava in laguna per celebrare lo sposalizio di Venezia con il mare. Gettando un anello in acqua il giorno dell’Ascensione il Doge rinnovava ogni anno il legame tra Venezia e il suo mare. È lo Sposalizio del Mare, cerimonia ripetuta nei secoli per commemorare la vittoria ottenuta intorno al 1000 dai veneziani sui pirati che infestavano l’Adriatico.
In questo giorno si ricordano due eventi: la giurisdizione marittima veneziana e il successo diplomatico di Venezia che ricevette il dominio sull’Adriatico per aver propiziato la riconciliazione fra il Papa Alessandro III e l’Imperatore Federico Barbarossa (1177). È proprio da questo avvenimento, dice la leggenda, che nasce la cerimonia in cui il Doge si reca sul Bucintoro verso il Lido.
Il doge di Venezia sul Bucintoro per l’Ascensione – Francesco Guardi
Fonte: Wikimedia Commons
Francesco Guardi Francesco Guardi (Venezia 1712 – Venezia 1793) - pittore muore il 1 gennaio 1793 riuscendo a risparmiarsi la caduta della Repubblica avvenuta il 12 maggio 1797, dove il doge Ludovico Manin abbandona il Palazzo Ducale ed il governo della città lasciandole nelle mani degli occupanti francesi.
RICOSTRUZIONE DEL BUCINTORO
Bucintoro in Arsenale via al grande progetto - La Nuova Venezia
gelocal.it
https://nuovavenezia.gelocal.it › 2014/03/11 › news › bu...
11 mar 2014 — Via alla ricostruzione del Bucintoro. ... della copia dell'imbarcazione simbolo della Serenissima, distrutta da Napoleone nel 1798.
VENEZIA. Via alla ricostruzione del Bucintoro. Il consiglio della Fondazione ha avviato ieri le procedure per cominciare il lavoro che dovrebbe portare alla realizzazione della copia dell’imbarcazione simbolo della Serenissima, distrutta da Napoleone nel 1798. Una sorta di «risarcimento» quello deciso dalla municipalità della Dordogna, che ha deciso di donare le 600 querce necessarie per realizzare la nuova imbarcazione. Il tutto grazie all’amore per la nuova avventura dimostrato da Alain Depardieu, regista e fratello del celebre Gerard e dal comitato di Paternò. Adesso il legno c’è, qualche sponsor anche. Si tratta di cominciare a lavorare. «Ci siamo scambiati un po’ di idee, per cercare di concretizzare questa splendida idea», dice Orsoni. Il Bucintoro sarà costruito all’Arsenale, dove nella Teza delle Galeazze è custodito lo scheletro della nuova barca, costruito qualche anno fa da Franco Crea e Davino De Poli, fino all’estate scorsa parcheggiato nella «Teza del Bucintoro di Jacopo Sansovino. Un lavoro che dovrebbe dare il via all’idea del nuovo grande museo dell’Arsenale. Gli artigiani che lavorano, i modelli, le ricostruzioni virtuali e storiche.
Progetti e polemiche. Perché ieri si è dimesso in polemica con il sindaco e il Comune il consigliere della Fondazione Roberto D’Agostino, già presidente della società Arsenale spa, sciolta dal Comune dopo l’acquisizione del complesso monumentale dallo Stato. «Non vedo risultati, siamo fermi da un anno», ha detto D’Agostino, «così senza una società che gestisca non si va da nessuna parte». Società che potrebbe anche non essere esclusa dai piani futuri dell’amministrazione. «Entro giugno», dice l’assessore Alessandro Maggioni, «presenteremo i progetti».(a.v.)
CONCLUSIONE:
In una Venezia “intossicata” dal turismo di massa e sempre più snaturata nelle sue dimensioni urbane dalle trasformazioni alberghiere e commerciali che si susseguono incessanti, sarebbe un bel segnale, finalmente concreto, se andasse a buon fine la ricostruzione di un monumento galleggiante della sua storia - altro che navi da crociera che “pascolano” quotidianamente per il Bacino di San Marco - ricollegandosi direttamente alla tradizione dei suoi antichi mestieri artigianali e alla sua tradizione marinara.
La strada da fare è ancora lunga, ma se ci credono i francesi - forse anche perché storicamente un po’ in colpa - sarebbe ora che iniziassero a farlo seriamente anche i veneziani. Quelli rimasti, almeno.
Carlo GATTI
Rapallo, 9 Ottobre 2023
CUTTY SARK - UN CLIPPER NELLA LEGGENDA
CUTTY SARK - UN CLIPPER NELLA LEGGENDA
Il CUTTY SARK in navigazione
FU PROGETTATO PER IL COMMERCIO DEL TE’ TRA CINA E REGNO UNITO, LA SUA BELLEZZA E LA SUA STORIA AFFASCINANTE CONTINUANO A CATTURARE L’IMMAGINAZIONE DELLA GENTE DI MARE (E NON SOLO) IN TUTTO IL MONDO.
Il CUTTY SARK è tuttora un’icona della navigazione a vela simbolo dell’era dei clipper e del commercio marittimo del XIX secolo.
Celebre dipinto del CUTTY SARK
CUTTY SARK nella rada di Sydney
CUTTY SARK ormeggiato forse a Sydney nell’attesa di caricare. Sullo sfondo si vede un altro clipper.
I clipper furono veloci e capienti navi a vela a tre o più alberi adibiti al trasporto delle merci sulle rotte oceaniche che raggiunsero la loro epoca d’oro tra il 1840 ed il 1870. Rimane incerta l’etimologia del termine che viene ricondotta al verbo “to clip” inteso come tagliare i tempi di navigazione o come fendere le onde, oppure anche come volare-frullio di ali.
Il design del clipper è stato innovativo per l'epoca. Era dotato di una carena sottile, un albero molto alto e un grande numero di vele, che gli permettevano di raggiungere notevoli velocità. La sua struttura in acciaio lo rendeva più resistente rispetto ad altri clipper in legno che erano già entrati in linea.
Fu proprio la sua notevole velocità a creargli un alone di leggenda nel mondo di allora. Durante la sua carriera, è stato spesso il veliero più veloce stabilendo record di velocità. Era noto per le sue lunghe scorrerie attraverso l'Oceano Indiano e il Mar Cinese Meridionale.
Il Cutty Sark ha principalmente trasportato tè dalla Cina al Regno Unito, ma ha anche altre merci come lana da Australia e Nuova Zelanda. Tuttavia, con l'avvento delle navi a vapore, la sua carriera commerciale declinò rapidamente. Ricordiamo che proprio il 17 novembre 1869 fu inaugurato il Canale di Suez aprendo così una via marittima che ridisegnerà completamente l’architettura delle comunicazioni mondiali e facendo del Mar Rosso una delle principali arterie dell’economia mondiale e uno dei punti strategicamente più rilevanti del pianeta.
INTERVISTA AL COMANDANTE CICCI PANELLA
Il comandante in pensione Pasquale “Cicci” Panella (nella foto) vive a Santa Margherita Ligure e coltiva un hobby veramente particolare: scrive (solo per gli amici) libri di navigazione astronomica, teoria della nave, magnetismo e, come appassionato di storia navale, ha scritto anche un saggio sul Cutty Sark.
La sua “lontana” passione per questo leggendario clipper, alla fine non poteva che concretizzarsi con la costruzione del modello della nave in scala 1/64, ma diciamolo subito, Cicci ha eseguito la sua opera in modo così accurato da meritare addirittura la Medaglia d’oro al Campionato Italiano di Modellismo Navale Statico Categoria-C1 il 18.4.1999, con il punteggio di 90,00 per la perfezione dell’esecuzione, scelta dei materiali e fedeltà alla costruzione originale.
Comandante, perché proprio il Cutty Sark?
“Perché fra tutte le belle navi che solcarono i “settemari” nell’era d’oro della vela, solo il Cutty Sark è rimasto a testimoniare al mondo moderno, quale cosa piena di grazia e di bellezza fosse un clipper. Nel 1976, trovandomi a Londra per lavoro, mi recai a Greenwich per visitarlo e rimasi letteralmente folgorato da quell’imbarcazione. Acquistai tutta la documentazione ed i piani disponibili a bordo dello stesso Cutty Sark e, appena rientrato a casa mi misi all’opera”.
Cosa occorre ad un modellista navale?
Manualità, conoscenze tecniche e tanta pazienza. Il vero modellista non acquista pezzi prefabbricati e riproduce tutto nei minimi particolari. Quando si guarda un modello si deve avere l’impressione di essere di fronte ad una nave vera.
Cutty Sark, in lingua scozzese, significa “camiciola, sottoveste” e prende il nome dalla polena che n’adorna la prua e raffigura la strega semi-svestita Nannie che tiene in mano la coda di un cavallo. (Nannie è un personaggio del componimento Tam O’Shanter del poeta scozzese Robert Burns). Ci racconta brevemente la leggenda?
La polena del Cutty Sark, raffigurante la strega semivestita Nannie
Essa narra la disavventura di Tam, un ricco proprietario terriero che, in una notte di tempesta, mentre rientrava a casa in groppa al suo fedele destriero, vide vicino ad una chiesa un gruppo di orrende streghe che danzavano al suono della musica fornita da satana in persona. Spaventato a morte, ma sapendo che le streghe non possono traversare i corsi d’acqua, Tam si diresse al galoppo verso il ponte sul fiume Doon ma Nannie, più veloce del cavallo, in un ultimo tentativo di fermarlo, si aggrappò alla coda del povero animale che le rimase in mano. Tam riuscì a passare il ponte e a mettersi in salvo mentre la povera strega dovette accontentarsi del misero trofeo. Questo è il motivo per cui la polena del Cutty Sark, raffigurante proprio Nannie, ha in mano una coda (finta) di cavallo che veniva rimpiazzata dopo ogni traversata.
L’ultimo clipper del té, Il Cutty Sark, fu varato il 22 novembre 1869 nei Cantieri Navali di Scott & Linton di Dumbarton, in Scozia.
Dati tecnici: Lunghezza: 64,72 m – Larghezza: 10,97 m – Pescaggio: 6,40 m – Velatura: 34 vele – Stazza lorda: 962,97 t – Stazza netta: 921,39 t – Max.Velocità Registrata: 17,50 nodi – Equipaggio: 28 uomini .
Nei loro veloci viaggi, i clipper portavano ovviamente vantaggi commerciali ai loro armatori, ma suscitavano tra la gente comune anche aspettative direi sportive.
In effetti, il Cutty Sark fu costruito con i capitali dell’armatore londinese John Willis (chiamato “White Hat”) per battere un altro celebre e quasi simile clipper – il celebre Thermopylae – nell’annuale corsa del tè che si svolgeva sulla rotta Cina-Gran Bretagna. Il titolo di vincitore era assegnato alla nave più veloce che aveva trasportato il primo raccolto di té verde cinese, merce molto preziosa perché richiestissima a Londra.
Il Cutty Sark ebbe una storia quanto mai avvincente. Ce la può riassumere nei suoi tratti principali?
Il suo realizzatore e progettista, Hercules Linton (foto sopra), socio dei cantieri Scott & Linton di Glasgow, fece fallimento prima ancora che la nave scendesse il mare, ma raggiunse comunque il suo scopo: lo scafo era perfetto! Quando il 26 novembre 1869 scese in mare, il Cutty Sark apparve subito come una nave dalle linee stupende ed equilibrate, aveva il fasciame in legno di prima scelta, i ponti in robusto teak e l’ossatura in ferro. Lo scafo era dipinto di nero ed appariva ancora più slanciato per la presenza di una duplice riga di foglie d’orate, a sottolineare l’elegante curvatura del ponte che terminava con una attraente… polena in legno. L’albero di maestra era molto alto e la superficie velica raggiungeva i 2972 mq. Il varo del maestoso clipper coincise, tuttavia, con la fine dell’epopea della vela, infatti, nello stesso anno (1869) fu inaugurato il Canale di Suez. La portata storica della “nuova via d’acqua” fu subito in grado di mutare per sempre la filosofia dei trasporti marittimi mondiali, perché offriva alle più moderne navi a vapore l’enorme vantaggio d’accorciare le rotte orientali evitando il periplo dell’Africa e il temutissimo Capo di Buona Speranza.
Dal 1954 al 21 maggio 2007, quindici milioni di persone hanno visitato il Cutty Sark nel Clipper Ship Museum, situato nel Maritime Greenwich World Heritage a Londra.
Oggi si può tranquillamente affermare che la fama “effimera” del Cutty Sark fu quindi legata, solo e soprattutto, alla “gara del tè ”sulla rotta tracciata tra i porti di Wusong (Shanghai-Cina) e Londra?
E’ vero! Ci mise un po’ di tempo a guadagnarsi la sua meritata fama! Partita per la sua prima traversata alla fine di gennaio del 1870, al comando del capitano George Moodie, la nave fece il viaggio di ritorno da Shanghai a Londra, con il primo carico di tè, in 110 giorni. Il suo rivale, il Thermopylae, ne impiegò solo 105. Nel secondo viaggio di ritorno, il Cutty Sark, partito il 17 giugno 1872, avrebbe forse compiuto una traversata eccezionale se non avesse perso il timone nel corso di una violentissima burrasca nell’Oceano indiano. Il clipper riuscì egualmente a raggiungere Londra coprendo più di 8.000 miglia con un timone di fortuna. L’impresa portò grande credito al Cutty Sark, ma il capitano Moodie si ritirò dal suo incarico e il clipper non si riavvicinò mai più così tanto alla vittoria nella epica “corsa del tè”.
Successivamente, si alternarono al comando del Cutty Sark, ma con scarsi risultati, numerosi capitani: W. Moore, W.E. Tiptaft, (deceduto alla fine di un’ottima traversata), Es. Wallace, suicidatosi per il rimorso di aver lasciato scappare il suo secondo che aveva, sia pur involontariamente, ucciso un marinaio ribelle, l’alcolizzato J. Bruce. Alla fine del suo servizio sotto la bandiera della Marina Inglese il Cutty Sark conobbe un decennio (1885-1895) di fortunata attività, sia come clipper del tè, sia come clipper della lana sulla rotta australiana, via Capo Horn, specialmente quando l’abile marinaio Richard Woodget passò al suo comando e stabilì il nuovo record di navigazione di rientro in U.K. nel tempo ridotto (per quell’epoca) di 67 giorni. Il Cutty Sark si dimostrò imbattibile, ogni anno primeggiò sul suo tradizionale rivale, il Thermopyle, sino a quando quest’ultimo fu ceduto ad un armatore canadese che lo utilizzò nel trasporto del riso dalla Cina alla British Columbia.
Anche i miti devono adeguarsi all’inevitabile parabola della vita. Comandante, quando iniziò il declino del Cutty Sark?
Il suo declino fu molto lento. Sebbene nel 1895 fosse ormai antieconomico, il clipper fu venduto alla Compagnia di Navigazione portoghese Ferreira & CO. di Lisbona che lo modificò sostanzialmente, lo ribattezzò Ferreira, (nonostante l’equipaggio preferisse il nome di “Pequina Camisola”) e lo adibì a viaggi atlantici.
Nel 1916, durante una tempesta al largo del Capo di Buona Speranza, all’ex-Cutty Sark si spezzò l’albero di maestra. Il mondo era in guerra ed il legname per velieri era raro da reperire e il clipper fu riarmato come brigantino a palo, in modo da portare velature economiche perchè meno ampie.
Nel 1920 ci fu un nuovo passaggio di proprietà e quindi un nuovo nome: il Ferreira diventò così Maria do Amparo.
Nel 1922, dopo una sosta di rimessaggio a Londra, fu acquistato dall’inglese Wilfred Dowman che gli restituì il suo nome e, con grande passione filantropica, anche il suo aspetto originale. Con questo suo rinnovato vigore, il Cutty Sark batté le rotte dei possedimenti coloniali portoghesi fra Oporto, Rio de Janeiro, New Orleans e Lisbona. Fino a quando, nel 1938, la sua vedova donò il clipper all’Incorporated Thames Nautical Training College che lo adoperò come nave scuola.
Sopravvissuto ai bombardamenti di Londra durante la Seconda guerra mondiale, il Cutty Sark vive ancora come museo navale galleggiante, testimone della grande tradizione marinara inglese.
Nel 2007 lo storico veliero è stato seriamente danneggiato da un incendio, con ogni probabilità d’origine dolosa. Il caso volle che si salvassero l’alberatura, l’attrezzatura velica e gran parte delle sovrastrutture perché era cominciato un lavoro di restauro. Dello scafo, tuttavia, rimangono oggi solo le costole in metallo e il fasciame bruciato solo in superficie. Il ponte superiore è perduto così come la gran parte di quelli inferiori. La Fondazione che si occupa del mantenimento del clipper ha subito indetto, attraverso il proprio sito internet, una raccolta di fondi straordinaria volta a tentarne il recupero.
Ringraziamo il Comandante Panella per averci fatto rivivere la storia del Cutty Sark nella splendida atmosfera del suo ampio salone dove troneggia questo splendido modello, meta ormai di molti storici e appassionati di modellismo navale e che fu realizzato in ben 14 anni d’artistico lavoro.
MUSEO CUTTY SARK DI GREEWICH
La prora del CUTTY SARK
Il TIMONE ed i numeri per la lettura del Pescaggio di poppa
Le immagini che seguono non necessitano di didascalie
ALCUNI SBIADITI RICORDI PERSONALI ...
Il Cutty Sark è stato preservato e oggi è esposto come museo a Greenwich, Londra. Il museo offre ai visitatori l'opportunità di esplorare la nave e di imparare di più sulla sua storia, sulla navigazione a vela e sul commercio marittimo del XIX secolo.
Il Cutty Sark è stato sottoposto a un importante programma di restauro dopo un devastante incendio nel 2007, che ha causato danni significativi alla nave. Questo restauro è stato completato con successo, e ora la nave è esposta in un bacino appositamente costruito, sospesa sopra l'acqua, creando un'esperienza unica per i visitatori.
All'interno del museo, puoi vedere le esposizioni sulla storia del Cutty Sark, sulla navigazione a vela, sulle rotte commerciali e molto altro. È un'attrazione molto popolare per turisti, appassionati di storia marittima e studenti interessati a imparare di più sulla storia della navigazione.
Visitarlo offre un'occasione unica per immergersi nell'epoca d'oro della navigazione a vela e per apprezzare la bellezza e l'importanza storica di questa straordinaria nave.
Fortunatamente, il Cutty Sark è stato preservato ed è ora una delle principali attrazioni turistiche di Greenwich, Londra. È ancorato in un bacino appositamente costruito e ospita un museo dedicato alla storia della navigazione a vela e alla sua stessa storia.
CONCLUSIONE:
Cosa rappresenta questa veliero nella Storia Navale Inglese?
Possiamo fare una sintesi di quanto abbiamo scritto:
Il Cutty Sark rappresenta un'importante icona nella storia navale inglese, soprattutto nell'ambito della navigazione a vela. Ecco cosa rappresenta:
Era dei Clipper: Il Cutty Sark simboleggia l'apice dell'era dei clipper, un periodo nella storia navale segnato da navi a vela ad alte prestazioni progettate per il trasporto di merci di valore. Durante questa era, i clipper competevano per essere i più veloci e gli affari commerciali più redditizi, e il Cutty Sark era uno dei più famosi e veloci di tutti.
Innovazione Tecnologica:Il Cutty Sark era all'avanguardia per la sua epoca, con una carena sottile, un albero alto e una vasta superficie velica che la rendevano incredibilmente veloce. La sua costruzione in acciaio la rendeva anche più resistente rispetto ai clipper tradizionali in legno. Questa innovazione tecnologica contribuì a definire gli standard per la progettazione delle navi da carico a vela.
Rotte Commerciali Globali: Il Cutty Sark era coinvolto nel commercio globale del tè e di altre merci di valore tra il Regno Unito e l'Estremo Oriente. La sua storia è legata alle rotte commerciali che collegavano l'Europa e l'Asia, evidenziando l'importanza delle rotte marittime internazionali nella storia economica e commerciale inglese.
Determinazione e Rivalità: La celebre rivalità tra il Cutty Sark e il suo rivale, il Thermopylae, incarna la determinazione, la competizione e la professionalità dei marinai e dei proprietari di navi di quell'epoca. Queste competizioni di velocità hanno catturato l'immaginazione del pubblico e contribuito a creare leggende intorno a queste navi.
Preservazione e Museo Vivente: La sopravvivenza del Cutty Sark come museo vivente a Greenwich, Londra, rappresenta un impegno duraturo per preservare la storia marittima inglese. La nave è ora una delle principali attrazioni turistiche di Londra, dove i visitatori possono esplorare la sua storia e imparare di più sulla navigazione a vela e il commercio marittimo del XIX secolo.
Il Cutty Sark rappresenta l'apice della tecnologia navale a vela, l'importanza delle rotte commerciali globali, la competizione tra navi e l'orgoglio dell'Inghilterra nella sua storia marittima. È un simbolo dell'epoca d'oro della navigazione a vela e della determinazione umana nel perseguire la perfezione nautica
Cosa lascia in eredità alle nuove generazioni?
Il Cutty Sark lascia diverse eredità alle nuove generazioni:
Storia Marittima e Cultura: Il Cutty Sark serve come un prezioso legame con il passato, permettendo alle nuove generazioni di esplorare e comprendere la storia marittima britannica e globale. Attraverso il museo e le esposizioni a bordo della nave, i visitatori possono apprendere l'importanza della navigazione a vela, delle rotte commerciali internazionali e del commercio marittimo del XIX secolo.
Innovazione Tecnologica: Il Cutty Sark rappresenta un esempio di innovazione tecnologica per l'epoca in cui fu costruito. Le soluzioni tecnologiche adottate nella sua progettazione e costruzione hanno contribuito a definire gli standard per le navi da carico a vela. Questa eredità può ispirare l'interesse per la scienza e l'ingegneria nelle nuove generazioni.
Competizione e Spirito di Competizione: La celebre rivalità tra il Cutty Sark e il Thermopylae evidenzia il valore della competizione sana e del perseguimento dell'eccellenza. Questa eredità può ispirare le nuove generazioni a coltivare una mentalità di impegno, determinazione e aspirazione all'eccellenza in qualsiasi campo d'interesse.
Conservazione del Patrimonio: La preservazione del Cutty Sark come museo vivente è un esempio di come il patrimonio storico e culturale può essere conservato e reso accessibile alle generazioni future. Questo promuove la consapevolezza dell'importanza della conservazione del patrimonio per le generazioni a venire.
Turismo e Industria Culturale: Il Cutty Sark è una delle principali attrazioni turistiche di Londra. Questo contribuisce all'industria turistica e all'economia locale, offrendo opportunità di lavoro e sviluppo economico. Le nuove generazioni possono apprezzare l'importanza dell'industria culturale e turistica nel contesto moderno.
Il Cutty Sark lascia un'eredità che comprende la conoscenza della storia marittima, l'ispirazione all'innovazione e alla competizione, l'importanza della conservazione del patrimonio e l'impulso economico. Queste eredità possono influenzare positivamente le nuove generazioni e contribuire alla loro comprensione del passato, al loro sviluppo personale e al loro coinvolgimento nella preservazione e promozione della cultura e della storia.
CARLO GATTI
Rapallo, 1 settembre 2023