LA BARCA DI ERCOLANO

Noi siamo la nostra memoria,
noi siamo questo museo chimerico di forme incostanti,
questo mucchio di specchi rotti.

(Jorge Luis Borges)

 

Ricostruzione Virtuale


La scoperta del relitto, noto come LA BARCA DI ERCOLANO, avvenne il 3 agosto del 1982. L’idea di cercare reperti archeologici nella sabbia vulcanica dell’antica spiaggia fu del direttore degli scavi Giuseppe Maggi. Proprio in quel sito, presso i magazzini a ridosso della spiaggia, furono ritrovati oltre 300 scheletri di fuggiaschi ercolanesi i quali, all’interno di quelle robuste arcate abituate a respingere i marosi, si erano rifugiati con l’intento di fuggire alle ire del Vulcano e con la speranza che arrivassero soccorritori a bordo di gozzi di pescatori locali come quello rinvenuto proprio in quel sito. Forse, proprio su questo pensiero si basò l’intuizione del MAGGI.

Purtroppo, riportiamo: “I fuggiaschi furono sorpresi nel cuore della notte dall’arrivo della prima nube di gas roventi, il surge, che, con una temperatura di oltre 400° e una velocità di 80 chilometri orari, raggiunse la città e provocò la morte istantanea per shock termico di tutti gli abitanti. L’arrivo delle ondate di fango vulcanico dal Vesuvio ricoprì poi i resti dei loro corpi, sigillandoli nella posizione in cui si trovavano al momento della morte. Fra gli altri, fu trovato il corpo di una giovane incinta e prossima al parto, dalla quale furono recuperati i resti di un feto di circa otto mesi. I fuggiaschi avevano portato con sé lucerne per illuminare l’oscurità, chiavi di casa, amuleti, strumenti di lavoro, gruzzoli di monete.

Una donna i cui resti erano riccamente adorni di orecchini, anelli e bracciali è stata soprannominata la “Signora dei gioielli”.

(vedi foto sotto)




Nel giorno del ritrovamento della BARCA DI ERCOLANO, fu la chiglia ad emergere per prima. L’imbarcazione era stata completamente capovolta dalla strapotenza dei flussi piroclastici che l’avevano sepolta e nello stesso tempo protetta da una “coperta” di vari materiali vulcanici che, induriti velocemente, assorbirono l’ossigeno residuo e ne conservarono l’ossatura fino ai giorni nostri.

La barca era stata danneggiata da grandi travi cadute dai tetti e dai solai delle case di Ercolano, che sfondarono la chiglia e piegarono il fasciame restando incastrate. La barca era lunga oltre nove metri con una larghezza di 2,20 e un’altezza massima di circa 1 metro dalla chiglia al bordo”.

Ci racconta la guida:

“Dopo le prime fasi di scavo della Soprintendenza Archeologica di Napoli e Pompei, la barca è stata rivestita da uno strato di gomma sul quale poi è stata applicata della vetroresina. Si è creato così un guscio che ha permesso di contenere i resti carbonizzati ed evitare il pericolo del collasso della struttura dell’imbarcazione. All’interno conteneva ancora il riempimento di fango e pesava circa 40 quintali.

La conclusione della prima fase del restauro della barca (realizzato con i fondi del Programma Operativo Regionale Campania 2000-2006) permise così di aprire al pubblico uno dei reperti simbolo dell’antica città e di esporre, per la prima volta, una serie di oggetti collegati al mare e alle attività marinare.

Una serie di prelievi di campioni di legno da varie zone della barca, compiuti durante i lavori di recupero, hanno permesso di individuare i legni utilizzati per la sua costruzione: legni di pino, ontano, faggio e quercia.

Ancora oggi vengono usati gli stessi legni per costruire i gozzi di tutta la penisola italiana.


L’intervento di restauro del 2008 ha previsto il taglio del guscio esterno in vetroresina e la rimozione dello strato di gomma siliconica messo a protezione dello scafo.


È stato poi realizzato lo scavo del deposito vulcanico che ancora riempiva parte dello scafo. Si è quindi proceduto al delicato lavoro di pulizia del legno e al riposizionamento e micro incollaggio dei frammenti e alla stuccatura delle lesioni. Nel contempo è stata realizzata una pulitura meccanica dei chiodi in bronzo. Per ricollocare le parti distaccate sono stati fabbricati supporti in vetroresina colorati.


Questo intervento ha permesso di giungere a una prima esposizione dell’eccezionale reperto, in attesa che con il completamento dei lavori di restauro si ricollochino nella corretta posizione le parti di fasciame ripiegate e asportate dalla violenza dell’impatto durante l’eruzione”.

ESTERNO


Per proteggere la barca gli operai costruirono in fretta un capannone in muratura e lamiera mentre si cercava di estrarre quanto più fango possibile per portare alla luce dati e reperti. Si recuperarono cime spezzate, aghi, cipolline, pettini in bronzo, un cestino di vimini ed altro ancora trasportato chissà da dove dal fango vulcanico.

INTERNI




Grazie al National Geographic, Ercolano faceva notizia nel mondo e intanto, ad esaminare la barca, giungeva nella cittadina vesuviana uno dei maggiori esperti di archeologia navale: J.Richard Steffy dell’Institute of Nautical Archaeology del Texas. Il reperto veniva confermato come un’imbarcazione di nove metri in buono stato di conservazione tranne per un notevole schiacciamento al centro che se non restaurato in tempi brevi avrebbe sicuramente portato dei rischi enormi per la conservazione.

Il restauro è stato effettuato progettando e realizzando un telaio ruotante in ferro per riportare la barca nella giusta posizione. Dopo essere stata ribaltata e parzialmente svuotata all’interno, è stata trasferita nell’area destinata alla futura musealizzazione. Una serie di prelievi di campioni di legno da varie zone della barca, compiuti durante i lavori di recupero, hanno permesso di individuare i legni utilizzati per la sua costruzione: legni di pino, ontano, faggio e quercia.

L’intervento di restauro del 2008 ha previsto il taglio del guscio esterno in vetroresina e la rimozione dello strato di gomma siliconica messo a protezione dello scafo.

 

LA STRUTTURA DELLA BARCA DI

ERCOLANO


ALBUM FOTOGRAFICO

PARTICOLARI TECNICI

DELLA MARINERIA DI 2.000 ANNI FA


 

LA BARCA DI ERCOLANO ERA DESTINATA – CON TUTTA PROBABILITA’ – ALLA PESCA


Secondo gli studiosi la struttura prevedeva la presenza di tre scalmi per lato e poteva essere manovrata da tre coppie di remi. Diversi furono i reperti trovati assieme alla barca e sepolti nel fango. Fra questi la punta di una prua che si è conservata in maniera eccezionale con le tracce di colore con cui era stata dipinta, il rosso cinabro, e perfino un minuscolo salvadanaio in legno con coperchio scorrevole con dentro una monetina d’argento e una di bronzo con il volto di Vespasiano.


LA COSTRUZIONE NAVALE DELL’EPOCA

Completamente diverso dal procedimento attualmente in uso nel Mediterraneo che prevede la messa in opera, sulla chiglia, dell’ossatura interna e il suo rivestimento con tavole di fasciame, in età Greco-Romana, dopo aver sistemato la chiglia, veniva costruito il guscio esterno costituito dal fasciame mentre l’ossatura era inserita successivamente con una funzione di rinforzo interno, detta: costruzione su guscio. Il collegamento tra le tavole del fasciame avveniva coi tenoni, linguette in legno duro inserite in appositi incassi (le mortase) nello spessore delle tavole. I tenoni, infine, erano bloccati da spinotti. In questo modo, le tavole del fasciame potevano mantenere la forma desiderata e il guscio acquistava eccezionale solidità grazie ai numerosi collegamenti interni.


Le navi Romane erano più larghe dell’usuale, spesso oltre un quarto dell’intera lunghezza, per consentire anche in caso di sbarco in terra nemica di accostarsi molto alla riva, oppure di scaricare più rapidamente le merci.

Interno dello scafo

Come abbiamo già visto, la scoperta della barca di Ercolano avvenne il 3 agosto del 1982 quando nella zona davanti alle Terme Suburbane iniziò a emergere dall’interro vulcanico la chiglia di una barca rovesciata dalla furia dell’eruzione. Questa era stata sepolta dai flussi piroclastici rimanendo sigillata nella coltre di materiali vulcanici che si indurì rapidamente garantendo, con la mancanza di ossigeno, la conservazione dei legni.


La barca era lunga oltre 9 m, aveva una larghezza massima di circa 2,20 m e
un’altezza massima di circa 1 m dalla chiglia al bordo. La linea somigliava quindi a quella di un grosso gozzo marinaro moderno. Prevedeva la presenza di tre scalmi per lato e poteva quindi essere mossa da tre coppie di remi.

Lo scafo esterno è formato da tavole dello spessore di circa 3 cm collegate fra loro da incassi con il sistema di mortase e tenoni, uniti poi al fasciame con cavicchi di legno. Sempre con cavicchi è realizzata la giunzione con le ordinate, anche se poi questo collegamento era stato ulteriormente rinforzato con chiodi di rame a testa bombata.


Cestino che contiene un amo e un verricello


I remi della barca di Ercolano

La barca, inoltre, era dotata di un timone esterno a remo che era bloccato da una cima ritrovata (foto sotto) durante le operazioni di estrazione dal fango, impresa non semplice perché, proprio come racconta Maggi nel suo libro “Ercolano. Fine di una città”, da un saggio piccolo che si era aperto all’inizio dello scavo si era passati ad una specie di voragine che pullulava di corpi da salvaguardare. Il tempo a disposizione era poco e i fondi erano finiti.

 


Cima adugliata


SONO PASSATI SOLTANTO 2.000 ANNI…

MA NON SEMBRA …

Ho recuperato alcune foto di gozzi moderni che, con qualche modifica “regionale”, appaiono simili a quello recuperato a Ercolano. Giudicate voi…



GOZZI MODERNI CON TRE SCALMI E REMI



Elementi costruttivi dello scafo in legno







Questi disegni mostrano la sezione trasversale di una nave in legno moderna che è molto simile a quella romana antica. I termini navali delle varie parti sono rimasti sorprendentemente invariati nel tempo.
Ad esempio il vocabolo paramezzale, cioè l’ossatura longitudinale del fondo, deriva dal greco e significa: “quasi in mezzo” per indicare la sua posizione vicino al centro dello scafo. Il vocabolo prora è rimasto uguale a quello usato dai greci e che, come per noi, indicava la parte anteriore della nave. La parola costola, ossatura trasversale del fianco, deriva dal latino costa per indicare la sua somiglianza con l’osso del torace.

CONCLUSIONE

I romani realizzarono una successione di fari posti in vista l’uno dell’altro su tutte le coste del Mediterraneo; questi fari avevano anche lo scopo di inviare dei messaggi a grande distanza attraverso segnali di fumo o di fuoco, impiegando un codice simile all’alfabeto Morse.

Utilizzando questo sistema, i pompeiani richiesero aiuto a Plinio il Vecchio, ammiraglio della flotta imperiale romana di stanza a Capo Miseno, durante l’eruzione del Vesuvio nel 79 d. c.


Da Capo Miseno – Plinio – da naturalista qual’era, aveva già osservato e descritto un’immensa nube incandescente a forma di pino sopra il vulcano e, quando gli giunse la richiesta di aiuto, accorse prontamente con delle navi veloci. Egli attraversò tutto il golfo di Napoli, che era sconvolto dal mare agitato e dalla caduta di una pioggia di pietra pomice, fino a giungere a Pompei.

Durante questa spedizione Plinio perse la vita, ma le sue navi riuscirono a salvare un certo numero di pompeiani.

Dopo l’eruzione comparvero due monti distinti che caratterizzano il golfo di Napoli: il monte Somma e l’attuale Vesuvio.


L’attuale faro di Capo Miseno (nella foto) è ubicato dove sorgeva quello dei tempi di Plinio e dell’imperatore Tiberio, che risiedeva a Capri e che comunicava direttamente con Roma attraverso il sistema di segnali di fuochi prima descritto.

 

Carlo GATTI

 

Ringrazio l’amica Prof. Marinella Gagliardi Santi che mi ha inondato di materiale fotografico del Museo della BARCA DI ERCOLANO.

Sappiamo quanto le zone archeologiche di Pompei, Ercolano e Torre Annunziata siano state fonti ispiratrici per i suoi pregiatissimi libri!

 

Rapallo, 30 Agosto 2021