ASCOLTA IL DELFINO

ASCOLTA IL DELFINO

Vivono nel mare, insieme alle balene e alle meduse, anche la Verità, la Vita, la Sapienza.

Lungo i secoli molti marinai, pescatori, bambini le hanno incontrate, ma nessuno ha mai creduto ai loro racconti. Così, ancora oggi, molti ignorano questi tesori del mare.


Un bambino viveva su un’isola del Mediterraneo con il suo papà, che faceva il guardiano del faro. La mamma non aveva resistito a quella vita solitaria ed era ritornata al suo lavoro in città.

Sull’isola non abitava nessun altro, ma il guardiano del faro aveva molti amici. Spesso venivano a trovarlo.


A Carlo, il bambino, piaceva vivere sull’isola. Passava il tempo nell’orto del papà o sulla spiaggia in amicizia con gli animali e la natura. L’unico suo cruccio era la nostalgia della mamma. Quando questo sentimento lo assaliva con più forza, si sedeva sulla spiaggia a buttare pietre in mare e a leccarsi le lacrime, che non riusciva a trattenere.


Un giorno, mentre era in questo stato d’animo, apparve davanti a lui un’onda altissima e trasparente come cristallo.

- Chi sei? – chiese il bambino.

- Sono la Verità- rispose l’onda.

- Allora dimmi, la mia mamma mi vuole bene? – domandò Carlo.

- Sì, non sa neppure lei quanto – disse di rimando l’onda.

- E come faccio a farglielo capire?-

- Io sono la Verità. So come sono le cose e le persone, ma non so cambiarle. – rispose l’onda appiattendosi.


Prima che l’onda scomparisse del tutto, Carlo vide un delfino trapassarla ed agitare la coda in segno di saluto.

- Ciao delfino. – gridò Carlo.

Poco dopo il mare cambiò di nuovo aspetto. Proprio lì, davanti al bambino, si formò una chiazza, un laghetto quasi. Questo specchio d’acqua appariva sempre diverso: liscio e piatto come una lamina d’acciaio, poi increspato e azzurro, verde agitato, blu profondo, trasparente e leggero come aria.

- Come sei bello, mare! – esclamò Carlo.

- Io sono la Vita. Sono mutevole. Ricordati che mi hai trovato bella. Se non cambierai idea, io ti darò molto. – disse la Vita, mentre continuava a cambiare faccia.

- Io rivoglio la mia mamma. – disse Carlo quasi piangendo.

- La riavrai – disse il delfino balzando fuori dallo specchio della Vita.

- Come?- gridò Carlo, ma il delfino e lo specchio della Vita erano già scomparsi.

Tutto rimase tranquillo per un certo periodo, mentre Carlo stava ancora sulla spiaggia. Rifletteva su quanto aveva visto e non si decideva ad andarsene.

Ecco di nuovo il mare mutare. La superficie si appiattì, il colore s’ intensificò in un turchese denso e consistente. Era veramente bello, ma intimoriva quasi: l’acqua sembrava marmo.

Il colore parlò a Carlo: - Io sono la Sapienza. Abito il mare e gli uomini non mi amano. Cosa vuoi da me, Carlo?-

- Io vorrei il ritorno della mia mamma – rispose il bambino intimidito – Mi manca solo questo.-

- E’ un bisogno vero – sentenziò la Sapienza – Non stancarti di ripeterlo alla mamma e al papà. Capiranno. Ricordati, non stancarti, sii tenace. Concluse la Sapienza inabissandosi con il suo colore, mentre il delfino la seguiva verso il fondo.

Carlo tornò al faro contento e agitato. Non vedeva l’ora di raccontare tutto al suo papà, che quella sera aveva a cena parecchi amici.

Appena il bambino incominciò a raccontare, gli adulti si scambiarono occhiate d'incredulità e derisione.

“Bella fantasia” disse uno, “Diventerà un romanziere” aggiunse un altro.

- Dai, Carlo, smettila – gli intimò infine il papà.

Carlo, però, si sentiva forte e sicuro e continuò il suo racconto senza farsi intimidire. Alla fine alcuni amici avevano l’aria seria e preoccupata.

- Questo bambino sta troppo da solo. Devi provvedere, Maurizio. Meglio un collegio, di una vita così isolata.-

I consigli si susseguivano, quando un lampo squarciò le tenebre della notte e sul mare apparvero insieme la Verità, la Vita e la Sapienza, con il delfino che nuotava da una all’altra. Fu un attimo, il tempo di un fulmine, ma tutti zittirono, videro e , forse, qualcosa capirono.

- Domani, telefonerò alla mamma e parleremo di te. – disse il papà a Carlo.


La mamma non vedeva l’ora di essere cercata: il lavoro da solo non le bastava.

- Ho già in mente la soluzione – disse al marito – Tornerò sull’isola. Posso lavorare con il computer e, una volta alla settimana, io e Carlo andremo insieme in città per organizzare il mio lavoro e fare la spesa. Forse così funzionerà. – concluse.


Carlo era felicissimo della decisione della mamma, il suo papà anche.

Stavano correndo insieme sulla spiaggia per festeggiare, quando apparve il delfino.

- Ciao delfino, grazie. – disse Carlo.

- Io ti ho salvato – rispose il delfino – Tu, crescendo, salva il mare.-

- Lo farò, se m'insegnerai – gridò Carlo, mentre il delfino spariva.

E questa volta sentì anche il suo papà.

 

ADA BOTTINI

Rapallo, 26 febbraio 2017

 


UN AFFRESCO DEL MONDO DEI BARCACCIANTI

UN AFFRESCO DEL MONDO DEI BARCACCIANTI

Il m/r TORREGRANDE in un dipinto di Marco Locci

In piena notte fui svegliato dalla voce assonnata del Capitano d’Armamento della Società Rimorchiatori Riuniti. Ero convocato d’urgenza sull’ormeggio di Ponte Parodi (Porto di Genova).  La petroliera inglese SANTORINI, 40.000 tonnellate di stazza lorda, si era arenata sulla costa sud orientale della Sardegna. TORREGRANDE e CASTELDORIA erano stati scelti per l’operazione di disincaglio.


Molo Giano-Anni ’60 – Nella foto si nota la prora di un rimorchiatore portuale guarnita di “paglietto” (parabordo) usato soltanto in porto per spingere sul fianco di una nave nella fase finale dell’ormeggio in porto. Il paglietto veniva tolto in navigazione d’altura. Sullo sfondo la Torre Piloti ricostruita nel 1947 dopo essere crollata due volte durante i bombardamenti della Seconda guerra mondiale. La struttura esiste tuttora ed è assegnata ad altri servizi nautici.


Porto di Genova. M/r SVEZIA – Ultima generazione Voith Tractors. Notare la versione moderna del “paglietto” di prora.

“Abbiamo provveduto al rinforzo dell’equipaggio – m’informò il dirigente con un certo rammarico, consapevole dello spostamento forzato delle mie ferie. - Ho fatto togliere il “paglietto” di prora dalla squadra d’emergenza. Abbiamo provveduto a fare il pieno di bunker. Troverete pronto tutto l’occorrente, comprese le provviste per tre giorni. Contatterete la nostra Agenzia di Olbia che provvederà a mandarvi un mezzo con le provviste che gli ordinerete via radio. Lei sarà il capo convoglio”.

Pur essendo abituato a quel giro di chiamate, sempre notturne, sempre in inverno e con il mare che monta la diga, l’adrenalina mi entrò in circolo rapidamente senza rendermene conto. Durante il veloce viaggio da Rapallo a Genova, elencai mentalmente tutte le operazioni necessarie che non sarebbero mai venute in mente a chi non era interessato “direttamente” al disincaglio. Mi concentrai sulle carte della Sardegna orientale, sulla scelta del personale di rinforzo: 1° ufficiale di coperta, 1° ufficiale di macchina, marinaio, mozzo, marconista, sommozzatore, bombole, cavi nuovi, materiale per tamponare le falle ed infine i documenti per la “pratica di partenza” in Capitaneria.


Anni 2000 - Porto di Genova – Sulla testata di Ponte Parodi sono ormeggiati prora a terra i rimorchiatori in attesa della chiamata operativa. Sullo sfondo é visibile: l’entrata della Vecchia Darsena e parte del “nuovo look” del Porto Antico.

Era il 1969. Giunsi a Ponte Parodi tra il lusco e il brusco. Buona parte della “Terza Flotta” (così chiamata la flotta RR di allora) era nervosamente in movimento, sovrastata da nuvole di vapore. Quattro navi stavano pendolando in rada nell’attesa del pilota e gracchiavano in VHF chiedendo istruzioni.


Il TORREGRANDE (in primo piano) visto da un passacavi di bordo

Il Torregrande era ancora al suo posto, con la prora a terra, nella stessa posizione in cui l’avevo lasciato la sera prima. Il suo “naso” senza paglietto gli restituiva eleganza, ma senza quella bardatura medievale, perdeva aggressività come se, improvvisamente, fosse stato relegato a compiti di retrovia.

Per salire a bordo i marinai avevano sistemato una stretta passerella di legno dondolante che non prometteva nulla di buono...

La prua del Torregrande era molto più alta della banchina, ma nessuno aveva pensato a collegare, forse per la premura, uno scalandrone più decente.

Di solito si saliva sulla prora del rimorchiatore a filo banchina, e poi si trasbordava saltando da una coperta all’altra sino a giungere a destinazione. Ma quella mattina ancora buia, i rimorchiatori portuali avevano lasciato l’ormeggio per l’imboccatura e il “bestione d’altura”, alto, maestoso e senza “damigelle” legate al suo fianco, era legato di punta a Ponte Parodi, in solitario e con poche cime sottili.

Mi avviai con fare sbrigativo sull’asse di legno, con il solito sacco di tela olona che usavo per le trasferte brevi. Purtroppo sottovalutai la potente “smacchinata” dell’ultima “barcaccia” (rimorchiatore in tono affettuoso...) in partenza che diede un colpo di maglio sul fianco del Torregrande che si traversò facendomi perdere l’equilibrio. Il sacco cadde in mare insieme all’asse di legno che avevo sotto i piedi. I miei 30 anni mi permisero di rimanere appeso ai maniglioni del paglietto finché giunse il nostromo Zeppin richiamato dalle mie imprecazioni... Per fortuna mi stava aspettando sulla prora, ansioso di dirmi tante cose... e appena percepì il pericolo chiamò rinforzi e in tre riuscirono a sollevarmi sul copertino e a recuperare con la gaffa il mio sacco “galleggiante”.

“Belin Comandante! Voî pe pöco cazeîvi in mâ comme u Fiesco

(per poco cadeva in mare come il Fiesco)”. Borbottò preoccupato il mio fedele nostromo.

Vorrai dire come un belinone..”. – risposi trafelato - ma felice come fossi giunto in zona medaglie al bordo della piscina - Grazie per il salvataggio. Fatemi sapere chi é quel tanghero ... lo ringrazierò a modo mio, con la stessa moneta.”

Il tempo “maneggevole” ci mise tutti di buon umore e, allontanandoci da tanti occhi indiscreti, mi sentii finalmente “libero” di decidere e risolvere i problemi imminenti alla mia maniera.

Il marconista Gino si mise subito in contatto con la nave in difficoltà, e seppi che in seguito ad un blackout del motore, la SANTORINI aveva scarrocciato verso la costa andandosi ad appoggiare con la prora sulla scogliera che scendeva a picco su una spiaggia di sabbia. Il resto dello scafo sembrava libero e non incagliato.

Il direttore di macchina Silvan giunse sul ponte di comando per avvisarmi che il motore era a pieno regime. Alla nostra abituale velocità di 13 nodi, potevamo coprire la distanza di 310 miglia in 25 ore.

Con quella bonaccia, prima ancora d’entrare nel clima della “spedizione”, l’equipaggio si radunò spontaneamente sul ponte di comando. Capii che l’idea prevalente era di tornare sulla scena del delitto: il Comandante appeso come un salame al posto del paglietto di prora...

Giocai d’anticipo e chiesi al nostromo: “Zeppin, ma com’è la storia del Fiesco?”

Il nostromo Zeppin era il più anziano di bordo ed anche il marinaio più esperto. A lui spettava di prendere la parola, anche perché la frase: per poco facevi la fine del Fiesco” sembrava una delle numerose frasi del suo repertorio, un po’ sibilline e tanto storpiate che erano destinate a fare il giro di tutti i bordi di Ponte Parodi suscitando ilarità e commenti sui marinai carlofortini dei quali, per la verità, nessuno osava mettere in dubbio le qualità marinaresche, lo spirito di servizio e l’inesauribile laboriosità.


“Leudi Surairi” (zavorrai) alla foce del Torrente Petronio a RIVA TRIGOSO. A prua si nota la passerella molto stretta su cui i marinai transitavano in equilibrio con la coffa colma di sabbia e pietrisco sulle spalle. I leudi adibiti a questo tipo di trasporto erano chiamati SURAIRI in dialetto rivano, ed i suoi marinai FROISCIU. Tra i vari tipi di Leudi, a detta degli esperti, il “Zavorraio” aveva la linea più ELEGANTE rispetto ai Vinacceri e ai Formaggiai.


Leudo a Rapallo

E’ un modo di dire nella marineria di Carloforte. – precisò Zeppin - Da ragazzo navigai parecchi anni sui leudi “vinacceri”, “formaggiai” e “zavorrai”. Con questi ultimi si trasportava sabbia di fiume destinata all’edilizia dei costruttori del Tigullio. Il leudo pescava poco, si dava fondo la “zappa” (ancora) di poppa e si portava la prora a pochi metri dalla spiaggia dove si caricava. Il collegamento tra la prora e la battigia era un asse di legno lungo e molto flessibile. Scendere a terra con una coffa di sabbia sulle spalle, a parte il peso, era una specie di danza, ma se si perdeva il ritmo, era facile cadere in mare con la coffa in testa. Quanto capitava, la reazione del Capitano era sempre la stessa: pe pöco t’andavi in mâ comme u Fiesco. Ma mai nessuno mi spiegò il significato di quella frase. Forse non lo sapeva nessuno, così l’abbiamo sempre ripetuta a memoria come le scimmie”.

Radio cucina diffuse prontamente in genovese i suoi “giornali radio”…

Zeppin: (nostromo) Chi à premûa vadde adaxo.

(Chi ha premura vada adagio)

In effetti il Comandante aveva premura si partire…

Zagallo: De nëutte tûtti i gatti son bardi.

(Di notte tutti i gatti sono grigi)

Il cognome del Comandante era noto…

Zagallo (lo spiritello dispettoso): No te lasciâ di pê se ti no é attaccôu de man.

(Non lasciar andare i piedi, se con le mani non sei attaccato)

Per fortuna ero attaccato…

Bobby: (1° Uff.le) Se i belinoin avessan e äe, saieva de lungo nûvio.

(Se gli sciocchi avessero le ali sarebbe sempre nuvoloso)


Quando giungemmo in vista della SANTORINI, mi accorsi sul radar che la nave era staccata dalla scogliera. Si era disincagliata da sola. Chiamai il Comandante e chiesi se avesse ancora bisogno di noi.

“Abbiamo a disposizione pochi giri di macchina – rispose preoccupato – Ho bisogno che il vostro sub s’immerga di poppa per farmi una perizia su eventuali danni subiti dal timone o dall’elica. Temo che non sia tutto in ordine. Sentiamo forti vibrazione che da poppa arrivano fino al ponte di comando.

“OK Comandante. Stia tranquillo! Dugga, il nostro esperto sommozzatore, si é fatto cinque anni di guerra, quasi tutta sott’acqua. Il Mediterraneo é un cimitero di navi, ha fatto tanto allenamento! Andrà subito a poppa, ma poi gli farò ispezionare tutto lo scafo.

“Molto bene faremo così. Poi decideremo insieme il da farsi”.

Dugga rimase in acqua circa un’ora ed il suo rapporto fu impietoso per il Comandante della nave, ma molto vantaggioso per la nostra Società.

La petroliera UK era andata per scogli... Due pale dell’elica erano completamente piegate. Del timone era rimasta soltanto la parte alta appesa ad un solo agugliotto.

Più brevi del previsto furono gli accordi intrapresi tra gli armatori delle due unità. L’ordine mi venne confermato con un telegramma che m’invitava a prendere immediatamente la nave a rimorchio con destinazione Genova.

Mi recai sul Ponte di Comando della nave per concordare la rotta, l’assetto e le comunicazioni. Con me salirono a bordo il D.M. Guido Bianchi per carpire notizie sull’avaria del motore, il 1° Ufficiale di coperta Giorgio Ghigliotti che insieme al nostromo Zeppin si recarono a prora per occuparsi degli attacchi da rimorchio che avevo predisposto.


Il Comandante greco di nazionalità inglese parlava, come tutti i levantini, un ottimo italiano-marinaro. L’incaglio ed i danni che ne sono derivati, sono sempre vissuti da chi é al comando, come una sconfitta personale che potrà pesare in qualche modo sulla sua carriera. L’armatore e le Assicurazioni gli chiederanno molte spiegazioni sul suo operato di marinaio.

Il suo sguardo triste mi spinse a dargli tutto il mio appoggio morale e tecnico per ciò che rimaneva del viaggio. Ricordo che durante la navigazione, ogni due ore ci sentivamo sul Walky-Talkye e, dopo le prime conversazioni esclusivamente tecniche sulla navigazione in corso, prendemmo confidenza e si passò a parlare di sport, di musica, e poi delle nostre rispettive famiglie.

Il viaggio si concluse felicemente e con Capitan Lazzare diventammo amici......

P.S.  Sul sito di Mare Nostrum Rapallo, nella Sezione NAVI E MARINAI-Saggistica Navale,  il lettore può trovare il saggio:

QUANDO I FIESCHI FINIRONO A BAGNO...

Carlo GATTI

Rapallo, 10 Febbraio 2017

 


MACAIA e CALIGO

MACAIA e CALIGO

A Primavera in Rapallo si terrà il Raduno Regionale dei suonatori di campane, organizzato dall’Associazione  Campanari Liguri, che sta tornando a rivivere per merito dei suoi associati, coinvolgendo sempre più giovani, indispensabili campanari di domani. In Liguria poi abbiamo addirittura un “suonare alla ligure” ed i campanari utilizzano per farlo, i “pestelli”, che battono su robusti tasti; pare siano rimasti gli unici ad usarli.


I nostri campanili si evidenziano in quanto sono sproporzionatamente alti rispetto alla Chiesa cui appartengono.

 

Li hanno costruiti così svettanti perché il loro suono, anche quando scandivano le ore, doveva essere facilmente udito da tutti, compreso i contadini  sparpagliati  a coltivare l’avaro terreno lungo le strette valli; per tutti era l’”orologio” che ritmava le varie fasi della giornata. Solo così l’onda, piovendo dall’alto, poteva giungere il più lontano possibile.

Non tutti sanno però che di analoga funzione ne fruiva anche chi andava per mare; fungevano da faro senza luce, da bussola e da “radar” in un’epoca nella quale pochi avevano l’orologio, se non lavoravano nelle ferrovie e nessuno possedeva gli altri due supporti: oltretutto il radar ancora non esisteva.

 

Abbiamo accennato a quanto il campanile rappresentasse  anche una indispensabile sicurezza per chi era impegnato nella pesca a breve e medio raggio, sino a divenire vitale se si era colti dall’improvvisa foschia, il terribile <caligo>, che con la sua densità ovattata faceva perdere totalmente  l’orientamento, così come erano indispensabile in certe notti che, divenendo improvvisamente buie e tempestose, era vitale localizzarne i rintocchi, unico sistema per dirigersi verso terra; così le torri campanarie sono state utilizzate per secoli.

Ed è a questo punto che entrano in scena “macaia” e “caligo”.

Edoardo Firpo nella sua < Mattin de frevâ > così canta il ‘dopo maccaja’:

A tramontann-a de vei

al’à scorrio a maccaja

e netto o çê a l’à lasciòu.

In sce-a cianùa marinn-a

sciorte de nuvie perfette.

E case i schêuggi a collinn-a.

son serræ dentro un cristallo.

Dai limpidiscimi monti

nasce unna strana creatua,

leggera leggera, ch’a dua

appena-a o tempo de moï.

Traduzione: La tramontana di ieri ha scacciato l’umidore e limpido cielo ha lasciato. Sulla pianura del mare escono nuvole perfette. Le case, gli scogli,la collina son chiusi in un cristallo. Dai limpidissimi monti nasce una strana creatura ,leggera leggera, che dura appena il tempo di morire.

In effetti la “maccaja”, così la si scrive in dialetto, è parola ligure di probabile origine greco/latina’ malacia’; sta ad indicare una singolare condizione meteorologica che si verifica in particolare nel Golfo di Genova, quando spira vento di scirocco, con cielo coperto e tasso di umidità elevato.


Di lei ha scritto Cristiano De Andrè nella sua  Notti di Genova < Genova apriva le sue labbra scure/ al soffio caldo della maccaja>, la stessa che rende inutilizzabili i bicchieri se non ben lavati.

Tutt’altra cosa e assai  più pericoloso è invece il <Caligo> ovvero la ‘nebbia di mare’.


La nebbia, spesso presente altrove, da noi si forma improvvisamente solo quando giunge il flusso mite dell’anticiclone africano e trova un mare ancora freddo: scorrendovi sopra fa condensare rapidamente le goccioline appena evaporate, rendendo invisibile tutto attorno.  Si forma preferibilmente  in Aprile e Maggio, mesi in cui il mare, che funziona come un  condensatore, ha ancora una temperatura invernale; mai in autunno, quando il mare è ancora caldo dall’estate.

Oggi il caligo non gode più della triste fama di un tempo, perché a bordo tutti hanno una  bussola quando non anche il radar ma, un tempo, in loro mancanza, era provvidenziale l’intervento delle campane.

In quei frangenti, le donne dei pescatori, sempre in eterna ansia, correvano dai Parroci, svegliandoli se di notte o allertandoli  se di giorno, affinché suonassero le campane con uno suono cadenzato seguito da un certo silenzio prima di riprendere, così che chi era in mare potesse percepirne il caratteristico segnale e verso di esso orientarsi, perché il caligo è come un materasso di fitta nebbia, adagiato per uno spessore non eccessivo sul mare, ma talmente avvolgente da far perdere l’orientamento specie ai sottili e bassi gozzi. Quel suono ripetitivo e alternato cessava non appena, solo a pochi metri da riva, spuntava dalla nebbia una prua di qualche gozzo che, alla voce, orientava anche gli altri.

Lo so perché sono un “prain” e vedevo le donne, e pesciæ-e, quelle che avrebbero dovuto poi andare a vendere il pesce, raggruppate sulla battigia in angosciante attesa a pregare e scrutare: i capelli arricciati dalla bruma, l’una vicina all’altra, stringendosi nei loro lisi scialli

Ecco perché abbiamo ricordato i campanili parlando di  … mare.

A Prà, sino a pochi anni fa centro di pescatori, il piccolo campanile di San Rocco, era praticamente sulla spiaggia perche lì avevano edificato la demolita Chiesetta.

Chiudiamo con questa vecchia filastrocca:

Alto svetta il campanile

Sotto un celo primaverile

Poi scampana allegramente

Per avvisare tutta la gente

Che c’è festa in tutto il mondo

Fin nel mare più profondo

Forte suona la campana

Nella valle più lontana

Per portare in ogni cuore

La certezza dell’amore

 

Renzo BAGNASCO

Rapallo, Martedì 7 Febbraio 2017

 


COMANDANTE E.STAGNARO-LO SCHINDLER DEL MARE

Il Comandante

EMANUELE STAGNARO

Nacque a Lavagna

Finse di non sapere… e salvò 1500 ebrei con la nave ESPERIA

Fu definito LO SCHINDLER del mare


Quadro Storico:

Il 10 giugno di 77 anni fa Benito Mussolini annunciava l'avvenuta dichiarazione di guerra a Francia e Gran Bretagna, sancendo così l'ingresso dell'Italia nel Secondo conflitto mondiale. L’immediato contraccolpo fu il BLOCCO di ben 214 navi italiane superiori alle 1.000 tonnellate che si trovarono fuori dalle acque nazionali. Di queste, 38 si autoaffondarono, 20 riuscirono a violare il blocco, 16 furono catturate o autoaffondate nel tentativo di violarlo, 47 furono impiegate in guerra dagli alleati di cui cinque affondate nel corso dello sbarco in Normandia, e ben 8 affondate per cause imputabili ad eventi bellici, ancor prima dell’entrata in guerra dell’Italia. L’impresa dell’ESPERIA avvenne 21 mesi dopo l’entrata in vigore delle Leggi Razziali in Italia, quando ormai gli ebrei italiani erano ben consapevoli di ciò che sarebbe accaduto al loro popolo, di lì a poco, nel cuore dell’Europa. In tutti gli ambienti diplomatici e non solo, si mormorava dell’imminente entrata in guerra dell’Italia al fianco della Germania. Chi di loro aveva le giuste conoscenze e le disponibilità finanziarie, provvide a fuggire con qualsiasi mezzo.


1919 – Riva Trigoso - Varo del Piroscafo ESPERIA, costruito per la ADRIATICA S.A. di Navigazione.

Lunghezza: 151,20 mt. Larghezza: 18,80 mt. Stazza lorda: 11.398 tonn.


La nave ESPERIA in navigazione. Era definita la “ballerina del Mediterraneo”.

In questo tragico inizio delle ostilità, s’inserisce la storia del salvataggio compiuto dal Comandante Emanuele Stagnaro che, pur consapevole dell’ordine ricevuto di rientrare immediatamente in Italia, diede la priorità al salvataggio dei suoi passeggeri e poi rientrò in Italia.

A parlare per la prima volta dell’inedito salvataggio fu sul Corriere della Sera il 10 febbraio 2004. Il fantasma uscito dall’ombra della Grande Storia aveva un nome: James Hazan, che all’epoca del viaggio verso la salvezza era un bambino di sette anni che viaggiava sulla nave passeggeri italiana ESPERIA con il padre Itzhak Hazan, diplomatico egiziano di origine ebraica, collaboratore dei servizi segreti britannici. Per la verità, alcuni storici, dopo accurate ricerche negli ambienti marittimi, appurarono alcune incongruenze: date non coincidenti, numero dei passeggeri trasportati troppo elevato per quel tipo di nave, e si chiesero e si chiesero per quali motivi quel “naufrago”, dopo aver nuotato 64 anni nell’infinito mare dell’oblio, si era deciso a raccontare al mondo quello straordinario salvataggio. Probabilmente “L’AFFAIRE” è tuttora vincolato ad alcuni sigilli degli Archivi segreti di qualche nazione coinvolta, tuttavia si spera che il mistero possa quanto prima liberarsi dai nodi che lo tengono ancora parzialmente legato.

Diciamo subito che, a nostro modesto parere, quel viaggio rientrava probabilmente in un “charter fuori linea”, organizzato in segreto producendo carte false a tutti i livelli di controllo; il che spiegherebbe i vani tentativi compiuti per ricostruire date e dettagli del viaggio, il numero eccessivo dei passeggeri e, cosa di non poca importanza, la nave era anche fornita di cucina “KOSHIER” e delle tipiche stoviglie con la croce di David per ospitare gli ebrei fuggiaschi.

Ecco come si svolsero i fatti. Nel giugno del 1940, mentre la nave passeggeri Esperia della Adriatica A. di Navigazione, dopo il suo ennesimo viaggio (Genova, Napoli, Siracusa, Alessandria, Caifa, Beirut e ritorno) sta per approdare ad Alessandria d'Egitto. Come un fulmine a ciel sereno, il Comandante Emanuele Stagnaro riceve un telegramma dal Capitano d’Armamento della sua Compagnia di Navigazione: “l'Italia è entrata in guerra. Alessandria è sotto il controllo degli inglesi, ora nemici. Vi ordiniamo di rientrare in patria riportando indietro i passeggeri.” La questione è molto delicata, a bordo ci sono ben 1500 profughi ebrei provenienti dagli Stati europei sotto occupazione tedesca, che si sono imbarcati a Napoli in cerca della salvezza sulla rotta del Medio Oriente. A bordo le cabine potevano ospitare soltanto 375 passeggeri, ma la caccia agli ebrei era iniziata da tempo e l’idea di fuggire da quella terribile persecuzione li spinse ad adattarsi a qualsiasi soluzione trovata dal bordo. A questo scopo, furono ricavati altri spazi tra il pozzetto di prua e il corridoio della stiva n° 1. Non erano spazi comodi, ma erano pur sempre vivibili considerando la brevità del viaggio: 3 giorni di navigazione mediterranea.

Il comandante si consulta con Itzhak Hazan, suo grande amico, che viaggia con la famiglia. Insieme a un altro egiziano, Cesar Douek, e a pochi uomini fidati dell'equipaggio (il Radiotelegrafista e il Direttore di Macchina) decidono, su indicazione dell'intelligence inglese, di approdare a Mex, nell’angiporto di Alessandria che si trova ancora sotto controllo egiziano. Il Comandante E. Stagnaro sbarca tutti i passeggeri senza destare alcun sospetto e riparte immediatamente per Napoli superando il “blocco navale inglese”. Ritornato in Italia senza “il suo prezioso carico umano”, Stagnaro dichiara di aver ricevuto il telegramma quando aveva già ultimato lo sbarco dei passeggeri. Vista anche la stima di cui godeva, la sua dichiarazione venne accettata ed è in questo modo fu archiviata, nel massimo silenzio, l’inchiesta pendente a suo carico. Con questo coraggioso ATTO DI VALORE di enormi proporzioni, visti i tempi, Emanuele Stagnaro riuscì a salvare tutti i 1500 ebrei imbarcati a Napoli rischiando il sequestro della nave come preda bellica, la prigionia per tutto il resto della guerra appena iniziata, insieme al suo equipaggio, nonché l’internamento dei passeggeri in un campo di concentramento.

Questa incredibile storia di solidarietà umana entrò nell'oblio più totale, fino a che James Hazan, figlio di Itzak Hazan, in una intervista al TIMES del 2003, parlò dell'eroico salvataggio che lo vide felicemente coinvolto. Ad una festa anche la scrittrice Claudia Roden, incontrandosi per caso con James, ricordò di essere stata salvata nel viaggio dell'Esperia.

Times, Corriere della Sera, Mattino di Napoli, Gente e altri media raccontarono la storia del comandante Stagnaro.  I titoli erano pressoché identici: “Un altro eroico italiano che, come Perlasca, Palatucci e tanti altri ha anteposto i valori umani di solidarietà al vantaggio personale.”

Nel marzo del 2004, presenti i parenti, il figlio Cesare di 90 anni e gli amici di suo padre, venne onorata la memoria del Comandante Emanuele Stagnaro con la riconoscenza di Israele e delle Comunità ebraiche. Un ulivo di Gerusalemme fu piantato nei giardini di Sestri Levante a testimonianza del suo EROISMO per sempre.

Sono numerose le storie di salvataggio degli ebrei contro la furia nazista durante la Seconda guerra mondiale, ancora poco note o addirittura rimaste sconosciute. Per alcune vicende è stata chiesta l'assegnazione del titolo di "Giusto tra le Nazioni" alla Commissione dei Giusti di Gerusalemme, presso la quale viene incardinata l'istruttoria.

Emanuele Stagnaro lo vogliono tra i "giusti di Israele", come fu per Perlasca. Onore al capitano italiano che salvò 1500 ebrei a bordo della nave Esperia.

Da quel giorno la carriera di questo valoroso Comandante, costretto ad occultare la propria gloriosa identità nel silenzio più profondo… fu molto breve. Un anno dopo, il 25 giugno 1941, sempre al comando dell’Esperia, mentre era in navigazione da Napoli a Tripoli, fu attaccato da aerei nemici con bombe e siluri. Un secondo attacco lo subì il 30 giugno; la nave si salvò, ma si ebbero tre morti e numerosi feriti. Il terzo attacco avvenne il 20 agosto 1941 e le fu fatale. La nave si trovava al largo di Tripoli quando fu colpita da siluri lanciati da un sommergibile e affondò. Morirono 6 marinai civili; 13 militari tedeschi; 27 militari italiani. Si ebbero 11 feriti. Il Comandante Stagnaro si salvò e riprese il mare compiendo fino in fondo il proprio dovere, finché trovò la morte nell’affondamento del Galilea, avvenuto in poche ore, il 28 marzo 1942, colpito da un siluro sparato da un sottomarino inglese mentre rientrava in patria dalla Grecia con il battaglione Alpini GEMONA.

La nave GALILEA, costruita nel Cantiere San Rocco di Trieste nel 1918 con il nome Pilsa, fu venduta alla compagnia Triestina nel 1935 e ribattezzata Galilea. I documenti del Lloyd di Londra descrivono come una nave "passeggeri" con due eliche e motori a turbina, 8.040 tonnellate di stazza lorda, lunghezza 443 piedi e 8 pollici, larghezza di 53 piedi e 2 pollici ed un pescaggio di 25 piedi e 11 pollici. La velocità nominale era di 13.5 nodi con una portata di 47 passeggeri in prima classe e 148 in seconda.
Durante questo periodo, la Galilea era stata riclassificata come nave ospedale. In questa funzione fu adibita al trasporto di parte del Battaglione Gemona della famosa Divisione Julia (Alpini).

I figli del Comandante Emanuele stagnaro hanno scritto:

Emanuele Stagnaro nacque a Lavagna, da padre rivano, il 31 marzo 1887; giovanissimo rimase prima orfano del padre Cesare, armatore di velieri propri, che morì a seguito di naufragio della propria barca nel Golfo Leone nel 1893, poi della madre Luisa De Paoli.

Superato il corso di studi presso l'Istituto Nautico di Camogli, dove ottenne il diploma di Capitano di lungo corso, intraprese subito la carriera marinara imbarcandosi come "mozzo" sulle "barche" di famiglia in quanto a Riva Trigoso dove era nato il padre Cesare, sussisteva l'attività degli zii e di tanti piccoli armatori conosciuti ed apprezzati da tutte le marinerie, dediti ai traffici commerciali sul mare, in auge in quel tempo.

L'obbligo militare lo adempì, in marina, e successivamente richiamato, nel periodo del conflitto mondiale 15/18 ebbe modo di distinguersi in fatti bellici che lo videro protagonista in quanto, affondata la nave militare sulla quale prestava servizio, meritò, per il coraggioso comportamento, una prima onorificenza al valor militare.

Con innato senso del dovere e positive attitudini percorse la dura carriera del mare, tanto da meritarsi a soli 49 anni la Medaglia d'oro di lunga navigazione. Arrivò con riconosciuto merito al comando di navi prestigiose: in ultimo, prima la m/n Victoria poi l'Esperia, coronando la sua più intima aspirazione, in quanto questa bella nave, nata anche lei a Riva Trigoso, era il suo segreto amore. Furono anni di grandi soddisfazioni che lui, conservava per sé stesso in omaggio al suo carattere severo e insieme riservato, pronto ad eseguire e capace di comandare. La guerra recente, lo trovò al comando dell'ESPERIA, che fu subito requisita e inserita nel "convoglio celere", sulla direttrice Italia - Africa settentrionale.

Purtroppo alle 10.20 del 20 agosto 1941, superato l'imbocco della rotta di sicurezza per TRIPOLI, il convoglio fu attaccato da unità nemiche; una scia di siluro fu avvistata vicinissima all'ESPERIA, senza che fosse ormai possibile eseguire una qualsiasi manovra.

Il siluro colpì la nave a proravia e fu seguito da altri due che esplosero contro il locale caldaie a poppavia; l'ESPERIA, totalmente abbattuta sul fianco sinistro, affondò a 11 miglia dal faro di TRIPOLI.
Le condizioni meteo favorevoli hanno consentito il salvataggio dell'equipaggio e del personale militare trasportato. "Sorretto da alto senso del dovere restava sulla nave in procinto di affondare finché tutto il personale non fosse salvato."
Qualche ora dopo, con un aereo militare si trasferì a Roma per relazionare "Supermarina" sulla dolorosa perdita.

Non furono molti i giorni di riposo; dopo un periodo di servizio quale incaricato dell'armamento della nuova Esperia che era in cantiere, ma senza supplicare particolari agevolazioni, tra l'altro ben meritate, fu assegnato al comando di navi che curavano il rimpatrio di nostri militari dalla Grecia.

Dopo numerose missioni compiute senza gravi incidenti, imbarcò sul "GALILEA" per quello che doveva essere in senso reale, l'ultimo viaggio di rimpatrio dei militari che avevano operato sui fronti balcanici di cui il glorioso battaglione degli alpini "GEMONA" supportava il maggior numero di militari... Poi la tragedia del "GALILEA".

QUESTO RICORDO che vuole essere un tributo spirituale alla memoria di nostro Padre intende anche essere un perenne esempio di quanto si può rimanere indimenticati quando si è saputo coniugare l'esistenza con il dovere e il coraggio fino al sacrificio supremo.


Carlo GATTI

27 Febbraio 2017

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APPENDICE

SANDRO ANTONINI, nato a Sestri Levante nel 1952, è uno storico italiano. Laureato in Scienze politiche con indirizzo storico-politico, si occupa soprattutto di storia contemporanea con particolare riferimento al periodo fascista.

Il falso storico della turbonave Esperia e di millecinquecento ebreii

Per quanto la vicenda di seguito descritta abbia già avuto un’appropriata definizione in sede storica, sembra giunto il momento di ripresentarla in questo libro sul Novecento, perché non solo avrebbe coinvolto il comandante Emanuele Stagnaro, rivano, che negli anni precedenti ebbe l’Esperia al suo comando e perché la turbonave ebbe i natali nel cantiere di Riva Trigoso, quanto e soprattutto perché in molti se ne sono occupati ritenendola veritiera; invece, sono andati clamorosamente fuori bersaglio. Ormai i fatti risultano oltremodo chiari: eccoli, una volta per tutte, di seguito sviluppati e conclusi.

Si è sostenuto a suo tempo, a partire dal febbraio-marzo 2004 (diversi giornaliii, anche stranieri, hanno riportato la notizia), che nel giugno 1940, a ridosso della dichiarazione di guerra, la turbonave Esperiaiii, della società «Adriatica», comandata dal ligure Emanuele Stagnaro, salpò dal porto di Napoli con a bordo circa millecinquecento ebrei, «provenienti da ogni parte d’Europa» (?), con meta finale Alessandria e che il comandante, essendo nel frattempo iniziato il conflitto, avesse ricevuto l’ordine telegrafico di ritornare indietro. Invece preferì disobbedire, accordarsi con gli inglesi ad Alessandria e, l’11 o il 12 giugno, sbarcare in quel porto gli ebrei sottraendoli a una morte quasi certa. Riuscì pure a ritornare riportando la nave Napoli. Così, a grandi linee, il racconto – dovuto da un testimone del tempo – che ha circolato e continua a circolare. Da qui, però, sono sorti dubbi e interrogativi che riteniamo giusto collocare in una luce di verità.

Per esempio i 1.500 ebrei, una cifra enorme per una nave che poteva trasportare, come numero massimo in cabina, 375 passeggeri. Possiamo forse arrivare a 5-600, forzando i codici marittimi. Ma crediamo che se davvero a Stagnaro si fossero presentate 1.500 persone avrebbe, per motivi di sicurezza, rifiutato di farle salire a bordo. E chi, dell’Autorità marittima del porto di Napoli, avrebbe in precedenza accordato il permesso assumendosene la responsabilità? Nessuno, sembra evidente. E poi, con la legislazione razziale in vigore in Italia, che dichiarava espressamente che gli ebrei stranieri presenti sul suolo nazionale avrebbero dovuto essere espulsi, com’erano arrivati, nel paese? Quando? Attraverso quali complicità? E perché se ne volevano andare? Si è detto – e scritto – per fuggire dallo sterminio. Poco probabile, se lo sterminio stesso non era ancora cominciato. Se ne parlò nell’ottobre 1940, nel gennaio 1941 e fino al settembre dello stesso anno gli ebrei tedeschi, a determinate condizioni, poterono ancora lasciare la Germaniaiv. Se ne parlò poi a Wannsee il 20 gennaio 1942, per ratificare decisioni già in precedenza prese. Lo sterminio vero e proprio cominciò nell’ottobre 1941 a Belzec e poi via via negli altri campi e nel marzo 1942 ad Auschwitz-Birkenau, subito con prigionieri russi. Purtroppo, gli ebrei europei non erano a conoscenza del destino che attendeva moltissimi di loro, milioni, altrimenti avrebbero cercato di organizzarsi. Invece furono colti di sorpresa e su di essi fu consumato uno dei crimini più odiosi e nefasti della storia del Novecento. Nessuno, a essere precisi, tranne ovviamente i nazisti, aveva chiaro questo terribile disegno. Diciamo poi che a guerra iniziata, e almeno fino all’8 settembre, gli italiani rifiutarono sempre di consegnare ebrei ai tedeschi, sia quelli che si trovavano sul suolo nazionale che gli altri, quelli presenti sui territori occupati dai nostri militari. La letteratura sull’argomento è copiosa, soprattutto univoca e ormai acclarata: dopo l’8 settembre cambiò tutto, ma questa è una vicenda triste e violenta che non riguarda l’Esperia, del resto già affondata.

Stabiliti tali doverosi presupposti torniamo all’Esperiav, che svolgeva la rotta n. 47, quattordicinale (Genova, Napoli, Siracusa, Alessandria, Caifa, Beirut, Alessandria e ritorno)vi. Ripartiamo dal comandante Emanuele Stagnaro che comandò sì l’Esperia, ma non nel periodo imminente alla dichiarazione di guerra. Infatti (la nostra ricerca principia dal maggio 1940; prima, in base alla storia riportata, avrebbe poco senso) Stagnaro giunse a Genova con la motonave Calitea (normalmente rotta n. 50: Trieste, Venezia, Fiume, Brindisi, Pireo, Rodi, Alessandria via Capo Matapanvii, qui certo in sostituzione dell’Esperiaviii) il 2 maggio 1940 e ripartì il 4 maggio alle ore 16,45ix. Ritornò nuovamente a

Genova il 15 maggio con la stessa nave e ripartì il giorno 17 alle 16x. La motonave Calitea fu una terza volta a Genova il 29 maggio e lasciò gli ormeggi il 31; adesso, al comando non c’era più Stagnaro, bensì il comandante Zanettixi. A questo punto Stagnaro, dopo essere ripartito da Genova potrebbe aver compiuto una parte del viaggio ed essersi imbarcato sulla turbonave Esperia a Napoli (un normale avvicendamento di routine, ma ricordiamo che la rotta dell’Esperia iniziava da Genova), tra il 27 e il 28 maggio per far compiere alla nave l’ultimo viaggio prima della guerra. Oppure potrebbe essere partito prima; in questo caso cadrebbe il presupposto iniziale del viaggio compiuto con i 1.500 ebrei a cavallo della dichiarazione di guerra. Ma supponiamo che Stagnaro si fosse effettivamente imbarcato il 27 o 28 maggio, o il 30 o anche il 2 giugno; sarebbe sempre arrivato ad Alessandria prima della dichiarazione di guerra. Tuttavia, c’è un problema. Perché, da una ricerca condotta con la Biblioteca nazionale di Napoli, risulta che l’Esperia non partì né arrivò nel porto di Napoli tra il 27 maggio e il 9 giugno 1940 e dunque quel famoso viaggio non avrebbe potuto compiersixii. Così, almeno, sfogliando Il Mattino. Concediamo pure, ma è davvero poco probabile, che il giornale possa avere omesso il dato. Tuttavia, se riprendiamo la tabella degli orari (con l’Esperia che iniziava il viaggio da Genova, come doveva essere nella realtà e come non si verificò dal 1° maggio al 9 giugno 1940) e soprattutto il bollettino della Finmare relativo al periodo le cose cambiano alla radice. Infatti, testualmente si legge su quest’ultimo:

Piroscafo Esperia stazza lorda 11398 tonn., varato nel 1919:

Dal 10/6/40 al 16/6/40 in sosta a Veneziaxiii; dal 17/6/40 al 3/3/41 requisito dal Ministero della Marinaxiv; dal 7/3/41 al 22/3/41 in sosta a Genova; dal 23/3/41 al 20/8/41 requisito dal Ministero della Marina. Perduto per fatto di guerra il 20/8/1941. Atto di abbandono notificato al Ministero della Marina in data 6/11/41xv. A questo punto la domanda e dopo tutto quanto abbiamo scritto: se l’Esperia almeno dal 10 giugno 1940 (sicuramente da prima, forse a montare le artiglierie – era attrezzata per questo – all’Arsenale e i tempi necessari a tale operazione non sono certamente brevi) si trovava a Venezia – se fosse arrivata quel giorno da Alessandria avrebbe dovuto partire dal porto egiziano il giorno 6 senza scali intermedi – come faceva al tempo stesso, cioè il 10 giugno, a essere in navigazione verso Alessandria? A titolo informativo forniamo altresì la posizione della motonave Calitea per il giorno 10 giugno, citando la stessa fonte Finmare.

Motonave Calitea stazza lorda 4013,44 tonn., varata nel 1933:
dal 10/6/40 al 13/6/40 a Malta per controllo ed in navigazione per Siracusa.
Alcuni problemi pratici relativi alla presunta entrata nel porto di Alessandria del piroscafo Esperia

nei giorni della dichiarazione di guerra. Ammesso che il comandante Stagnaro abbia potuto soprassedere all'ordine di rientro, sia riuscito a raggiungere il «Mex» (angiporto di Alessandria), per sbarcare i passeggeri avrebbe dovuto interessare l’agenzia del posto. Quella di allora fu la De Castro, oggi inesistente ma il cui palazzo si può ancora vedere in rue El Oreya. Se tutto questo fosse riuscito sicuramente non sarebbe bastata la volontà del solo equipaggio, bensì la complicità di tutto il personale dell’agenzia di Alessandria e di tutte le spie abitanti il porto, oltre a coloro che poi diedero ricovero agli ebrei.

Conclusioni. La storia dei 1.500 ebrei potrebbe anche essere avvenuta? Difficile, quasi impossibile e comunque a precise condizioni. Intanto, occorre ridimensionarne fortemente il numero. Poi, occorre capire come abbiano potuto imbarcarsi, in Italia, tanti ebrei tutti assieme. Occorre poi ricollocare la storia, trovare cioè, con i necessari riscontri oggettivi, una data concreta, che non può per contrarietà dei fatti essere quella della dichiarazione di guerra. Verosimilmente, ammessane la veridicità, il 1939; forse, i primi mesi del 1940. Quindi, è necessario capire chi fosse stato, fra i funzionari dei vari uffici, non ultimo del ministero dell’Interno che gestiva l’intera questione, a fornire i visti di transito agli ebrei, dal momento che si rilasciavano solo a precise condizioni, non ultima il pagamento di forti sommexvi e come si siano comportati gli inglesi al loro arrivo ad Alessandria, perché, per motivi politici, gli stessi inglesi (che avevano mandato internazionale per il controllo della Palestina) respingevano gli ebrei che volessero raggiungere tale territorio. Infine, è necessario capire perché la Delasem, o il Comasebit, organismi specializzati nell’assistenza agli ebrei, che della sorte dei correligionari specie stranieri erano sempre informatissimi, operanti dal 1939 in Italia, non ne avessero mai saputo nulla. Eppure, entrambi,

salvarono molte persone, anche all’estero, per esempio a Rodi o in Jugoslavia e con la guerra già in corso. Sciogliendo, fra l’altro, anche simili e fondamentali interrogativi, sarà possibile far luce su un episodio non solo contraddittorio, ma sul quale, tranne una testimonianza, non esiste alcuna prova.

Nel frattempo, il testimone citato, che risponde al nome di James Hazan, nuovamente interpellato, ha ammesso di non ricordare né date né quanti correligionari fossero davvero imbarcati sull’Esperia e, di fatto, ha preferito non riconfermare la storia. Che del resto, nei termini da lui proposti, è assolutamente priva di senso. Denota, altresì, una scarsa conoscenza della questione ebraica europea così come venne profilandosi dal 1940. L’autore, ha inoltre interpellato, per approfondimenti, Liliana Picciotto, direttrice dell’archivio del Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano, nonché Eugenio Capogreco, direttore della fondazione Ferramonti di Tarsia, località dove esisteva il maggiore campo di concentramento italiano per ebrei stranieri. Entrambi i soggetti convengono che la vicenda, nei termini proposti da Hazan, è da ritenersi un clamoroso falso.

i Queste pagine, opportunamente rielaborate, sono apparse su Il Secolo XIX del 16 marzo 2005, a cura del sottoscritto e del ricercatore dell’Adriatica Franco Prevato, nonché sul mio libro L’ultima diaspora, Genova, 2005, pp. 233-236 e su un altro mio libro, Novecento, alle pp. 97-101. Quanto proposto costituisce una nuova elaborazione, senza peraltro mutare il senso originario.

ii Per esempio il Corriere della Sera, marzo 2004 e, stessa data Il Secolo XIX, Il Mattino, il settimanale Gente nonché, da Londra, Times.

iii La ricostruzione della verità intorno al falso storico dell’Esperia è stata resa possibile dal contributo davvero determinante di Franco Prevato, ricercatore e storico della società «Adriatica», che desidero qui sentitamente ringraziare.

iv E. NOLTE, Controversie, Milano, 1999, p. 30.

v Le navi dell’Adriatica sono sempre state «attrezzate» per il trasporto di passeggeri ebrei i quali potevano usufruire di spazi appositamente per loro attrezzati con cucina kosher e stoviglie distinte dalla croce di David. Gli spazi situati tra il pizzo di prua e la prima casamatta potevano estendersi al corridoio della stiva n° 1; non erano comodi ma... erano pur sempre spazi. Durante il fascismo a bordo delle navi di tutta la flotta vi era un «ufficiale informatore» addetto alle segnalazioni visiva prima, divenute radio, poi. Gli ufficiali informatori erano di sicura e provata fede fascista proprio per i delicati compiti da svolgere divenuti sempre più importanti dopo il 1939. Inoltre sempre dalla fine del 1939 in poi tutte le navi (almeno quelle della flotta pubblica) furono dotate di pezzi d’artiglieria leggera e semipesante i quali erano al comando di un comandante militare e di una scorta di servizio militare spesso formata anche da osservatori tedeschi dopo l'entrata in guerra. L’equipaggio era formato da circa 170 persone tra ufficiali di stato maggiore addetti alla conduzione sottufficiali e «bassa forza».

vi MINISTERO DELLE COMUNICAZIONI, Itinerari e orari dei Servizi Marittimi, fasc. n. 163, Torino, luglio 1939. L’orario era lo stesso per il 1938, per il 1937 e così via; lo stesso per il 1940.

vii Ibidem.

viii Quando su una nave si manifestava un’avaria (e tutto lascia concorrere che un’avaria vi fosse sull’Esperia, varata nel 1919, e una linea anziché un’altra poteva essere «ricoperta» da una nave in sostituzione, rinunciando ad una linea secondaria per favorirne una di primaria importanza. Oltretutto, si spiega perché a comandare il Calitea si trovasse Stagnaro, che da lungo tempo praticava la linea n. 47.

ix Cfr. Il Lavoro, Il Giornale di Genova 3, 4 e 5 maggio 1940, alla pagina marittima: rubrica «Arrivi e partenze nel porto di Genova».

x Ibidem, 15, 16 e 17 maggio 1940.
xi Ibidem e anche Il Secolo XIX 29, 31 e 1° giugno 1940.
xii Cfr. Il Mattino in data dal 27 maggio al 9 giugno 1940, pagina marittima.
xiii Bollettino Finmare, a mani degli autori.
xiv Ciò è confermato dalla pubblicazione Navi mercantile perdute, edita dall’Ufficio Storico della Marina Militare, che riporta la

requisizione della nave dal giorno 17 giugno all’affondamento).
xv Ministero della Marina, attraverso Società Adriatica di Navigazione.
xvi Senza contare che sarebbe occorso un doppio visto, italiano e inglese.

Prof. Sandro ANTONINI

 


VENDÉE GLOBE RACE 2016-2017

VENDÉE Globe Race 2016-2017

…. La regata più pazza del mondo…..

Fu dondata nel 1989 – Per le Classi IMOCA 60

Partenza e Arrivo da LES SABLE-D’OLONNE (Francia)


Nel duello più lungo il bretone  Armel Le Cléac’h vince il giro del mondo 2016-2017

Con il record del mondo abbassato di quattro giorni, Armel Le Cleac'h ha vinto la leggendaria Vendée Globe Challenge, il giro del mondo in solitario e senza scalo che era partito il 6 novembre da Les Sables d'Olonne, un'edizione rivoluzionata dagli scafi dotati di "baffi". Testa a testa con il britannico Alex Thomson durato oltre 25 mila miglia:

Capo di Buona Speranza (Sud Africa)

Al Capo di Buona Speranza fu dato il nome di «Capo Tempestoso» dall’esploratore portoghese Bartolomeu Diaz, il primo europeo a raggiungerlo via mare nel 1488. Nel XV secolo, le navi si trovavano spesso in difficoltà in questo tratto di mare.

Capo Leeuwin (Australia)

Capo Leeuwin è considerato erroneamente il punto più a sud dell’Australia e il punto d’incontro tra l’Oceano Indiano e l’Oceano Glaciale Antartico. Il nome gli fu assegnato nel 1801 dal navigatore e cartografo inglese Matthew Flinderscapo, in onore del vascello olandese “Leeuwin” che per primo lo doppiò, nel 1622.

Pur non essendo il punto più meridionale dell’Australia Capo Leeuwin fa parte delle “boe” naturali, utilizzate dalla maggior parte delle regate intorno al mondo (come la Vendée Globe)

Assieme agli altri due capi nominati fa parte della fascia di latitudine dei "QUARANTA RUGGENTI", così denominata proprio per indicare alcuni dei tratti di mare più pericolosi al mondo.

Se ti è piaciuto questo articolo condividilo con i tuoi amici! Oppure raccontaci quale di queste rotte ti piacerebbe intraprendere, da solo o in compagnia!

Capo Horn (Cile)

Capo Horn è il punto più a Sud delle Americhe, situato in realtà nell’omonima isola, appartenente all’arcipelago della Terra del Fuoco. Venne doppiato per la prima volta dalla spedizione Olandese di Willem Schouten e Jacob Le Marie, che lo battezzarono Kaap Horn in onore della città natale di Schouten.

Si può scegliere di passare in mare aperto, dal canale di Drake, oppure nello Stretto di Magellano, attraverso le isole della Terra del Fuoco, che però offrono un passaggio lento e ricco di insidie. In ogni caso Capo Horn va affrontato nella stagione estiva, quando le giornate durano circa 20 ore e le temperature sono un po meno proibitive.

Il motivo delle violenti tempeste che si infrangono su Capo Horn risiede nella costante presenza di vento da Ovest, che corre lungo l’Oceano australe, unita ad un repentino abbassamento della profondità del mare. Nello stretto di Drake il fondale passa improvvisamente da 4.000 m ad appena 100 me questo causa la formazione di onde estremamente violente. La normalità in estate sono 20-25 knt di vento e 2-3 m di onda ma la Marina cilena rileva spesso venti di 80- 100 knt e onde superiori a 20 m. Se poi consideriamo una temperatura dell’aria che va dai 12°C (in estate) ai -5°C (di inverno), con l’acqua sempre prossima agli 0°C, potrete facilmente capire il perché della fama di Capo Horn.

La mappa indica la rotta della regata VENDE’E GLOBE

http://www.vendeeglobe.org/en/


La 17a RACE

Iniziata il 6 novembre 2016

Terminata il 17 gennaio 2017

Per il vincitore: Armel Le Cléac'h è durata 74 giorni 03h 35' 46"

Sebastien Josse alla partenza del Vendée Globe su Gitana

la Francia s'inchina agli eroi della vela estrema.

I PARTECIPANTI ARRIVATI

Sailor

Yacht

Time

Armel Le Cléac'h

Banque Populaire VIII §

74d 03h 35' 46" (current record)

Alex Thomson

Hugo Boss §

74d 19h 35' 15"

Jérémie Beyou

Maître CoQ §

78d 06h 38' 40"

Jean-Pierre Dick

StMichel-Virbac §

80d 01h 45' 45"

Yann Eliès

Quéguiner - Leucémie Espoir

80d 03h 11' 09"

Jean Le Cam

Finistère Mer Vent

80d 04h 41' 54"

Louis Burton

Bureau Vallée

87d 19h 45' 49"

 

Nándor Fa

Spirit Of Hungary

93d 22h 52' 09"

Éric Bellion

Comme un Seul Homme

99d 04h 56' 20"

Arnaud Boissières

La Mie Câline

/ Conrad Colman

100% Natural Energy

Didac Costa

One Planet One Ocean

Fabrice Amedeo

Newrest - Matmut

Alan Roura

La Fabrique

Pieter Heerema

No Way Back §

Rich Wilson

Great American IV

Romain Attanasio

Famille Mary - Etamine Du Lys

Sébastien Destremau

TechnoFirst - FaceOcean

UN PO’ DI STORIA:

La Vendèe-Globe è una regata per barche a vela che consiste in una circumnavigazione completa in solitaria, senza possibilità di attracco o di assistenza esterna (pena l'esclusione). L'iniziativa è stata fondata da Philippe Jeantot nel 1989 , e a partire dal 1992 si è svolta ogni quattro anni. Per le sue evidenti restrizioni, la regata costituisce una dura prova di resistenza individuale, e viene da molti considerata come la più significativa delle competizioni in ambito velico, è soprannominata « L'Everest de la mer » o « L'Everest des mers », in ogni caso è l'unica regata al mondo in solitario, senza scali e senza assistenza che prevede la circumnavigazione completa del globo. 

La Regata venne istituita nel 1989 dal velista Philippe Jeantot. Jeantot aveva già preso parte alla BOC CHALLENGE (oggi Velux 5 Oceans Race), nelle edizioni 1982-83 e 1986-87, vincendole entrambe: insoddisfatto della formula "a tappe", decise di allestire una nuova regata non-stop, che nelle sue intenzioni doveva rappresentare la sfida per eccellenza per i navigatori in solitaria.

La prima edizione della gara si tenne a cavallo fra il 1989 e il 1990, e fu vinta da Titouan Lamazou; Jeantot stesso vi prese parte, classificandosi al quarto posto . L'edizione successiva fu quella del 1992-93; da allora si è regolarmente svolta ogni quattro anni.

Le Barche

La gara è aperta a ogni imbarcazione a scafo singolo conforme ai parametri della classe OPEN 60 (prima del 2004, la competizione era estesa anche agli Open 50). Alcune peculiarità dell'imbarcazione sono lasciate alla discrezione del partecipante, ma un pacchetto di regole limita o impone parametri riguardanti lunghezza, pescaggio, stabilità e appendici, oltre a una serie di numerose norme legate alla sicurezza.

LA ROTTA DEI CLIPPERS

La Gara

La gara inizia e finisce a Les Sables-d'Olonne, nel dipartimento francese di Vendèe. Sia Les Sables d'Olonne che il Vendée Conseil Général sono sponsor ufficiali della competizione. Il tragitto è sostanzialmente una circumnavigazione lungo la clippers route: da Les Sables-d'Olonne, giù per l'Oceano Atlantico al Capo di Buona Speranza, dopo di che si procede in senso orario attorno all'Atartide, lasciando a sinistra Cape Leeuwin e Capo Horn, infine di nuovo verso Les Sables d'Olonne. La gara generalmente dura da Novembre a Febbraio: è studiata in modo che i partecipanti possano affrontare i Mari Antartici durante l'estate australe.

Ulteriori punti di navigazione obbligatori possono essere imposti in aggiunta al regolamento per una particolare edizione, al fine di garantire la sicurezza dei partecipanti in merito per esempio alle mutevoli condizioni dei ghiacci. Nell'edizione 2004, ai partecipanti fu chiesto di tenersi a nord dei seguenti punti di riferimento:

· un passaggio situato a sud del Sudafrica , a 44 ° Sud, tra 005 ° e 014 ° Est

· Heard Island

· un passaggio a sud ovest dell'Australia, a 47° Sud, tra 103° Est e 113° Est

· un passaggio a sud est dell'Australia, fra 52° Sud, tra 136° Est e 147° Est

· un passaggio nell'Oceano Pacifico, a 55° Sud, tra 160° Ovest e 149° Ovest

· un passaggio nell'Oceano Pacifico, a 55° Sud, tra 126° Ovest e 115° Ovest

Ai concorrenti è concesso star fermi all'ancora, ma non accostarsi a una banchina o un'altra imbarcazione; essi non possono ricevere assistenza esterna, comprese previsioni meteo personalizzate o informazioni sulla rotta. L'unica eccezione è che un concorrente che ha un problema iniziale può tornare alla partenza per le riparazioni, purché sia in grado di riprendere la gara entro 10 giorni dalla data in cui la competizione ha avuto ufficialmente inizio. La gara si caratterizza come una serie di sfide di rilievo, in particolar modo per le impegnative condizioni di vento e onda nei Mari Antartici, la notevole durata di una corsa senza assistenza, e il fatto che la rotta spinga spesso i concorrenti lontano dalla portata di qualsiasi normale risposta in caso di emergenza. Di norma, una significativa percentuale di iscritti è costretta al ritiro, e nell'edizione 1996-97 il velista canadese Gerry Roufs è scomparso in mare. Per contenere i rischi, ai concorrenti è richiesta l'idoneità a corsi di sopravvivenza e pronto soccorso. Devono altresì fornire prove attendibili di una solida esperienza acquisita in materia di navigazione, e queste consistono in due possibilità: o la partecipazione a una precedente competizione transoceanica in solitaria, oppure, naturalmente, aver preso parte a una passata edizione dello stesso Vendée Globe e averla portata a termine per intero. Per regolamento, il passaggio di qualificazione deve essere stato effettuato con la stessa imbarcazione che gareggerà; in alternativa il concorrente dovrà sottoporsi, con la barca che gareggerà, a un ulteriore passaggio transoceanico di osservazione, non inferiore alle 2.500 miglia e da percorrersi a una velocità media di almeno sette nodi (circa 13 km/h). Dal momento che le gare transoceaniche in genere sottostanno a rigidi criteri di idoneità, si ritiene che ogni iscritto al Vendèe abbia accumulato una sufficiente competenza in merito.

I VINCITORI delle varie edizioni:

1989-1990 - Titouan LamazouFrancia – 109 gg 08 h 48’

1992-1993 - Alain Gautier - Francia – 110 gg 02 h 22’

1996-1997 – Christophe Auguin - Francia - 105 gg 20 h 31’

2000-2001 - Michel Desjoyeaux Francia - 93 gg 3 h 57’

2004-2005 - Vincent Riou - Francia - 87 gg 10 h 48’

2008-2009 - Michel Desjoyeaux Francia - 84 gg 3 h 9’

2012-2013 - François Gabart - Francia - 78 gg 2 h 16’

Il fascino della vela

Vittorio Malingri è l'unico italiano ad aver fatto e quasi completato il Vendée Globe, giro del mondo in solitario, con una barca progettata e costruita da solo. Vittorio “Ugo” Malingri, skipper, figlio di Franco, navigatore e progettista, e nipote di Doi, apripista della vela oceanica in Italia. Vittorio (19 maggio, 1961), naviga da quando ha cinque anni. A diciassette anni ha fatto il giro del mondo con la famiglia e, come ama ripetere, da allora “non è mai più tornato”. Ha vissuto sempre a bordo delle sue barche a Cuba, Bahamas, Francia, Panama, Grecia. Non ha mai tenuto il conto delle miglia percorse, anche se si dice che siano attorno alle 400mila. Pragmatico e insieme sognatore, anticonformista, ama la natura selvaggia in tutte le sue forme, non solo quella marina, ed è sempre alla ricerca di una nuova sfida o di una nuova impresa da compiere.
Vero e proprio “maestro di mare”, tra un’avventura nautica e una terrestre, Vittorio ha sempre tenuto su tutte le sue barche - Huck Finn, Moana 60’, Elmo’s Fire, Time of Wonder  e sull’ultima Huck Finn II - corsi di scuola di vela d’altura “Ocean Experience”, ai quali hanno preso parte negli anni oltre un migliaio di allievi. Ha una grande famiglia allargata di cui va molto fiero e che forma da sola un gran bell’equipaggio. Ma la sua crew preferita è quella composta dai figli: Manuele (26), Nico (24), Nina (12) e Mila (6).

CARLO GATTI

Rapallo, 15 Febbraio 2017

 


ABERDEEN, LA CAPITALE DEL PETROLIO EU

ABERDEEN

La capitale del Petrolio EU


Mare del Nord

Aberdeen in Scozia a sinistra - Stavanger in Norvegia a destra delimitano la vasta zona d’estrazione del Mare del Nord impossibile immaginare la nostra società di oggi senza gas e petrolio, che servono per gli autoveicoli, per il riscaldamento, per la produzione di energia elettrica e per tante altre cose indispensabili a garantire il livello di comfort che conosciamo. Tutto il settore è in mano a grandi compagnie multinazionali come Shell, BP, Exxon, Elf, Petrochina, Gazprom, Eni ed altri, che spesso lavorano insieme nella ricerca e nello sfruttamento dei campi di petrolio e di gas perché i costi da affrontare sono altissimi. Gas e petrolio si trovano in molti angoli della terra. In Europa la zona del Mare del Nord è la più ricca di petrolio e gas. L’estrazione riguarda principalmente il territorio inglese e quello norvegese, in parte ridotta quello danese, tedesco e olandese.

Veduta aerea di Aberdeen

Strada principale di Aberdeen

Università di Aberdeen

Regno Unito e Norvegia

Nel Regno Unito tutta l’economia del petrolio gira intorno ad Aberdeen e Glasgow. Sono i due principali centri per trovare un lavoro sulle piattaforme o nell’indotto, come cantieri navali, raffinerie, ditte di catering, agenzie che gestiscono il personale subacqueo. Altre località coinvolte sono Newcastle e i porti che guardano verso l’Irlanda. L’industria inglese, compreso l’indotto, impiega attualmente 260.000 unità. Una sezione a parte è dedicata al settore petrolifero e del gas in Norvegia che rappresenta una delle punte di diamante dell’economia nazionale. Impiega quasi 80.000 persone e costituisce un terzo degli introiti del paese; crea inoltre un effetto di ricaduta anche su altri settori economici chiave, che si giovano dell’innovazione e dello sviluppo tecnologico. Decenni di esperienza nel campo hanno permesso alla Norvegia di acquisire un’industria petrolifera ben sviluppata, più sicura, efficiente e attenta all’ambiente. A livello mondiale la Norvegia si attesta al terzo posto come esportatore di gas e petrolio.


Barche da pesca nel porto di Aberdeen, com’era nel 1955

Aberdeen è una città nel Nordest della Scozia sulla costa del Mare del Nord. La sua economia si basava sull’industria della pesca e sul tessile fino agli anni Settanta, quando la scoperta di grandi giacimenti petroliferi sottomarini l’ha trasformata in uno dei principali centri per l’estrazione del greggio.

Oggi ad Aberdeen grandi compagnie internazionali come l’americana Chevron mettono a punto le più innovative tecniche di perforazione sottomarine. Le sperimentazioni per l’estrazione del petrolio a grandi profondità vengono poi utilizzate per estrarre gas naturale e petrolio nel Golfo del Messico, in Angola,  in Australia, nella Repubblica del Congo e in molte altre parti del mondo.

Aberdeen è la terza città della Scozia, ha circa cinquecentomila abitanti se si comprendono anche le contee circostanti, ma la sua economia è la seconda più ricca dell’intera Gran Bretagna, superata soltanto da Londra. Il reddito medio dei suoi abitanti si aggira tra le le 32 mila e le 49 mila sterline. Il tasso di disoccupazione della città è la metà della media nazionale. Lo stipendio medio per un lavoratore dell’industria petrolifera è di 64 mila sterline, più del doppio della media britannica.

Torre Piloti del Porto di Aberdeen


Il porto di Aberdeen, oggi

I Supply Vessels sono mezzi di supporto alle piattaforme offshore


Una piattaforma petrolifera nel Mare del Nord


Una piattaforma petrolifera Total nel Mare del Nord


This is an undated handout photo issued by Total E&P UK Ltd of Total's Elgin PUQ (Process/Utilities/Quarters) platform. A two-mile exclusion zone has been set up around the offshore platform in the North Sea which has been evacuated after a gas leak, Tuesday, March 27, 2012. The leak on Total's Elgin PUQ platform, about 150 miles (241km) off the coast of Aberdeen, led to the evacuation of all 238 workers on Sunday. (AP Photo / TOTAL E&P UK Ltd) NO SALES.


L'incendio alla piattaforma Piper Alpha nel Mare del Nord, nel luglio 1988. Morirono 160 persone

In questo disegno vengono rappresentate le piattaforme utilizzate in base alla profondità del fondale

A marzo 2016, il numero complessivo di piattaforme operative in attività di prospezione o di estrazione di petrolio e gas, nel mondo, è 1.551: quasi il 12% in meno di quelle in attività a febbraio (erano 1761) e il 18% in meno rispetto a gennaio 2016 (1891).

 

MUSEO MARITTIMO ABERDEEN

 

Aberdeen Maritime Museum is a maritime museum in Aberdeen, Scotland.

The museum is situated on the historic Shiprow in the heart of the city, near the harbour. It makes use of a range of buildings including a former church and Provost Ross' House, one of the oldest domestic buildings in the city.

The museum tells the story of the city's long relationship with the North Sea. Collections cover shipbuilding, fast sailing ships, fishing and port history, and displays on the North Sea oil industry. It also commands a spectacular viewpoint over the busy harbour.

Collection highlights include ship plans and photographs from the major shipbuilders of Aberdeen including Hall, Russell & Company Ltd, Alexander Hall and Sons, Duthie and John Lewis & Co. Ltd and Walter Hood & Co.

Displays include ship and oil rig models, paintings, clipper ship and "North Boats" material, fishing, whalers and commercial trawlers, North Sea oil industry, and the marine environment.

Ricostruzione in scala di una pittaforma offshore

Attrezzature per divers d'alti fondali

 

Il Bar del Museo con molti reperti originali

Anders Lebano, un rapallino "esportato" ad Aberdeen

 

Due Supply Vessels in notturno

CARLO GATTI

Consulenza tecnica di Anders Lebano

Rapallo, 13 Febbraio 2017

 


I BENEDETTINI DI VILLA CELLA (1020 s.l.m.)

I BENEDETTINI DI VILLA CELLA

(1020 s.l.m.)

10 case, due abitanti ed una storia antica

In questa zona montana alle spalle del golfo Tigullio, rimbombano ancora i racconti di quando i maestri d’ascia ed altre maestranze dei Cantieri navali della Riviera, usavano scegliersi il legno per ogni loro esigenza di costruzione e si trasformavano in pellegrini... Non c’erano le autostrade e le ferrovie come al giorno d’oggi, l’unica via per raggiungere le foreste montane dell’Aveto erano le mulattiere. Da Rapallo valicavano il passo il Passo della Crocetta, vicino al Santuario della Madonna di Montallegro, da qui scendevano a Coreglia in Val Fontabuona, proseguivano per San Colombano,  aggiravano il fondovalle del monte Pissacqua e arrivavano a Borzonasca.

Da qui si snodava, in arrampicata, la millenaria mulattiera, una vera “arteria medievale”, che toccava le seguenti località: Squazza, Caregli, Gazzolo, Temossi, Villa Jenzi, La Pineta, Rezoaglio, Villa Cella (fino al 1550)- Foresta del Penna. Il percorso era molto trafficato per gli scambi commerciali che avvenivano tra la Liguria e l’Emilia, e era molto aspro per la conformazione del territorio.

La zona dell’Aveto, oggi Parco dell’Aveto (3.000 ettari), é il più montano dell’Appenino Ligure e ne comprende le cime più elevate fra i 1600 e i 1800 metri di altezza, quali il Maggiorasca (1.799 metri), il Penna (1735 mt), lo Zatta, l’Aiona (1.701 mt), il Groppo Rosso (1.593 mt). Vi erano altre mulattiere, forse più brevi, ma meno organizzate e controllate. Il vero problema per le carovane di muli carichi di merce preziosa era, però, di ben altra natura: il brigantaggio! Il rischio di perdere tutto, anche la vita, era altissimo a causa degli agguati improvvisi e ferocissimi di gentaglia senza scrupoli. Pertanto i convogli erano lunghi e partecipati nel tentativo di contrastare i “Fra diavolo” locali e per aiutarsi reciprocamente nel caso di perdite di animali e per soccorrere eventuali feriti.

 

Qualche chilometro prima di Rezzoaglio c’è una deviazione che sale a Villa Cella. Tra le pagine di un vecchio calendario mi era rimasta impressa la foto di un vecchio mulino con un campanile medievale di pietra locale alle spalle. Dopo molti anni di frequentazione della Val d’Aveto, la ruota di quel mulino era l’unico indizio che destava il mio interesse per quella località.

Complice una serena giornata di sole, giunge il momento di togliermi la curiosità di immortalare quel posto con qualche scatto fotografico. Dopo pochi minuti di macchina e molti tornanti in salita, intravediamo un borgo di poche case all’ombra di un campanile che ha l’aria di nascondere una lunga storia.


La signora Carla Cella (a sinistra nella foto con Gun Gatti), intenta ad erigere un muretto, si gira di scatto e ci accoglie con un sorriso meravigliato: “scommetto che siete venuti fin quassù per fotografare il mulino. Lo fanno in molti e non sanno che quel mulino, divenuto ormai il simbolo del paese, è del 1920, un nulla … nella lunga storia di Villa Cella”.

Lei parla con un accento che non sembra della zona. Abita qui?

Sono nata a Villa Cella, ma abito a Chiavari dove ho insegnato fino alla pensione, ma ritorno quassù ogni volta che posso. Qui rivivo la mia gioventù, il contatto con i miei avi, canto, lavoro e scavo nelle mie radici. Questa che vedete è la casa che costruirono i miei genitori. Il paese è quasi disabitato. Lo tengono in vita soltanto due persone, marito e moglie che hanno le chiavi della Chiesa. Tutti gli altri, nel corso dei secoli, sono emigrati nelle “Meriche”. Ogni tanto qualcuno sente la nostalgia e ritorna col pensiero: e alôa mi penso ancon de ritornâ a pösâ e òsse dôve ò mæ madonâ.

Quando succede, sempre più raramente, si organizza una festa per ricordare parenti e amici, ma anche gli eventi che fecero importante questo borgo che è caduto nell’oblio delle autorità e degli storici che avrebbero il compito di raccontare ai giovani di quando una importante via commerciale passava da Villa Cella portando benessere e civiltà.

Signora, la mia curiosità sta salendo alle stelle. Non ha mai pensato di dedicare un libro al suo luogo natio che oggi ci appare popolato solo di fantasmi del passato, ma che lei sembra sicuramente in grado di far rivivere?

Il libro di Carla Cella

L'Antichissima strada della "Prima Martina" (in nero)

e la strada carrozzabile che collega Villa Cella alla valle (in rosso)

Carta geografica della zona avetana Sud

La mulattiera della Pria Martina indicata sulla carta era già in uso prima del mille. Tra la nostra Riviera e la Valle Avetana per lo scambio dei prodotti. Al passo della Bisinella, la mulattiera entra in quel di Villa Cella, o meglio in Val d’Aveto. La lunghezza del tragitto Chiavari-Borzonasca-S.Stefano d’Aveto, pur tagliando per gli impervi pendii, era lungo e stancante sia per gli uomini che per gli animali. Poi c’erano le stagioni buone e quelle pessime, c’erano i briganti che assalivano le carovane e spesso c’erano morti e feriti. Fu per questi seri motivi che un esiguo numero di frati Benedettini apparvero sulla scena della storia verso il 1000 e si stabilirono qui, dove siamo noi in questo momento, allo scopo di prestare soccorso ai viandanti ed ai loro animali. La loro attività durò per ben cinque secoli.

Si costruirono un piccolo convento adibito anche ad ospedale e poi una piccola ed austera chiesetta che nel tempo fu ampliata e dedicata a S.Michele.

Da chi dipendeva quella comunità di frati?

Nel 1103 frate Alberto inviava una lettera all’Abate della Casa Madre in Cel d’oro di Pavia informandolo di aver terminato la Chiesa ed offrendogli la sudditanza perpetua. L’Abate di Pavia accettava l’offerta e nominava fratello Alberto “Abate” di quella nuova comunità religiosa, autonoma che poteva battezzare, unire in matrimonio, seppellire i morti vivendo nel rispetto e nell’osservanza delle regole dell’Ordine religioso di appartenenza.


L'accesso alla chiesa

Gli alberi sul sagrato


Il Tabernacolo

La statua della Madonna dell'Orto

(da Cristoforo Cella, "Capuré")


La statuta esterna di San Lorenzo, patrono della nuova chiesa

Era nata così, in Val d’Aveto, una nuova “CELLA MONASTICA” – La parola CELLA sostituì col tempo il nome della località Prima Martina. Oltre al borgo, questo parola CELLA, divenne anche il cognome di tutti coloro che vennero ad abitare, nei secoli, vicino al monastero.

Quali testimonianze lasciarono i Benedettini?

I frati, fedeli al loro motto “Ora et Labora”, seppero alternare, in perfetta armonia, momenti di preghiera a momenti di intenso lavoro.

L’operosità, l’ingegnosità, l’ospitalità, il loro “modus vivendi” e la grande opera di redenzione furono un fondamentale faro luminoso di luce Cristiana per tutta la valle. Nel loro cuore albergava veramente la carità cristiana.

- Costruirono, usando con maestria la pietra locale, la sabbia del torrente Ritano, la calce cotta in fornace ed il legname dei boschi attorno.

- Dissodarono e coltivarono le zolle circostanti per produrre quanto necessario al loro sostentamento.

- Nutrirono e soccorsero i viandanti dando loro ospitalità, sia di notte che di giorno, così anche ai loro animali.

- Canalizzarono ruscelli, costruirono dighe, ponti e ponticelli dando origine al fiume Aveto.


- Tracciarono l'antica strada di Arecascine lastricate di ciottoli (u rizzou) ormai levigati dai passi del tempo.


Il tipico segno beneaugurale della croce posto dai Benedettini sulle loro opere

- Tra i resti dei cinque mulini che sfruttavano le rigogliose acque del Ritano, ce n’è uno molto antico che per la sua tipica costruzione non può che essere “benedettino”. Da quanto resta, si deduce che l’acqua proveniente dal fiume, convogliata nel mulino attraverso una canaletta di legno, faceva ruotare la la ruota a palette (turbina), collegata all’albero di trasmissione, in senso orizzontale come il precedente.

- Tale sistema, detto “a ritrecine” è tipico dei mulini dei Benedettini, che grazie a loro si è poi diffuso in tutta Europa, così come il segno ben augurale della croce, inciso sulla macina.

Perché se ne andarono i frati?

Si era ormai giunti al 1500. Nella piana di Cabanne, ormai prosciugata e coltivata, gli abitanti erano numerosi e in continuo aumento: la Chiesa diventa parrocchia (1500) ed una strada comoda e pianeggiante facilitava gli scambi commerciali tra i vari centri. Ormai le merci dalla riviera salivano e scendevano dal passo dei Bosà e non più da quello di Bisinella, cioè percorrevano un’altra strada che, pur partendo anch’essa da Borzonasca, raggiungeva, seguendo il corso del torrente Sturla, gli abitanti di Malanotte, Casè, Stibiveri, La Squazza e quindi Bozzale (Bosà) e Cabanne. Per forza maggiore, il traffico ed i viandanti sulla strada che passava per la “Cella” (strada di Pria-Martina) diminuirono. Il declino fu rapido. Anche Rezzoaglio nel 1525 divenne parrocchia: i fedeli che salivano al Monastero de La Cella, per funzioni religiose erano sempre meno.

Fu così che, dopo secoli di assidua preghiera ed intenso lavoro, essendo stato centro di cultura, punto di riferimento sicuro per l’intera vallata, La Cella Monastica venne abbandonata dai Benedettini che, verso la fine del 1500, fecero ritorno alla Casa Madre, in Cel d’Oro di Pavia. Il complesso rimase ancora Parrocchia per altri due secoli, retto da Sacerdoti.

GATTI CARLO

Ringrazio la signora Carla CELLA per averci fatto conoscere, questo borgo incantato e immobile nel tempo. I suoi racconti pieni di cultura e sentimenti legati a tante storie di guerre, emigrazioni dei suoi antichi e recenti abitanti di Cella, li potete trovare nel suo prezioso libro:

LA CELLA – “RA-ZELLA” – Villa Cella

Finito di stampare nel mese di luglio 2016 da: Azienda Grafica Busco srl - Zoagli

7 Febbraio 2017