IL BAULE DEL MARINAIO - ARTE E MARE - 2

IL BAULE DEL MARINAIO

ARTE E MARE - 2

 

 

Con cinque bambini piccoli, essi salirono su un veliero portando tutto ciò che avevano in un piccolo baule”

La cassetta è il baule che il marinaio porta sempre con sé. Rappresenta la sua identità, il passato e il futuro che appena si intravede fra le condizioni variabili del presente. Può essere di legno intarsiato o povero, solido o deteriorato, non importa, ogni navigante ha la sua cassetta, il senso ben custodito di quel girare apparentemente folle intorno al mondo. Una volta abbandonata la navigazione, chiuso il rapporto professionale con il mare, la cassetta perde la sua attitudine raminga, si distende, comincia ad assorbire vita, esperienza, per diventare archivio e potenzialmente materia narrativa.

Dopo questa premessa, che è la vera definizione letteraria del BAULE del marinaio, devo confessare che forse inconsciamente, attribuivo l’uso del baule del marinaio a quel periodo leggendario legato all’epopea della vela o, tutt’al più, ai primi del ‘900 quando i primi sbuffanti vapori solcavano i mari con tre alberi pronti ad issare le vele di fortuna in caso di avaria alle “novelle” macchine alternative. Si trattava, com’è noto, di una messa in scena degli armatori dell’epoca per tranquillizzare i facoltosi ed elegantissimi passeggeri che, ancora un po’ diffidenti verso i nuovi sistemi propulsivi navali, sfidavano l’ignoto. Il baule carico di prestigiosi vestiti all’ultima moda era il biglietto da visita identitario della Belle Époque. Si dice di esso: quel periodo che va da fine ‘800 allo scoppio della Prima guerra mondiale e che fu caratterizzato da euforia e frivolezza. Bella Epoca perché a seguito di una serie di progressi ed invenzioni si modificò lo stile di vita delle classi borghesi; da qui prese inizio l’idea di viaggiare per fare turismo d’élite. L’ esempio tipico è il TITANIC, una nave di lusso inglese della “WHITE STAR” che si fece simbolo della “BELLE ÉPOQUE” in quanto era grande, moderna e veloce. Un oggetto di lusso per persone molto ricche.

 

Tutto questo mi affiora alla mente trascinandomi un ricordo che solo ora rammento di non averlo mai scritto.

 

Da sinistra, VULCANIA e SATURNIA a Genova

 

 

Era il 1961. Dopo un imbarco di quasi un anno da Allievo Ufficiale di coperta su una petroliera, ebbi la fortuna d’imbarcare sulla nave passeggeri SATURNIA con il grado di Allievo Ufficiale Anziano. Eravamo in partenza da Trieste per il mio secondo viaggio sulla linea Trieste - Venezia - Napoli - Palermo - Palma de Majorca - Gibilterra - Lisbona -Punta Delgado (Azzorre) - Halifax - Boston - New York.

 

 

Mi trovavo tra le scartoffie della segreteria di Coperta, quando percepii un trambusto nel corridoio: due “piccoli di camera” stavano “camallando”, si fa per dire, un ingombrante baule da marinaio verde scuro, bordi e angolari rinforzati con borchie metalliche dorate. Ricordo d’aver detto ai due giovani che quel baule era destinato, probabilmente, ad essere “stivato” nel bagagliaio di bordo.

“Ma no sior, ghe zè una targhetta sul lucchetto: Alloggio Ufficiali – M/n SATURNIA”.

Poco dopo vidi avvicinarsi, col suo inconfondibile “piede marino”, un mio caro amico  camoglino Baj Schiaffino che avevo lasciato qualche mese prima al seguito della mia squadra di pallanuoto di cui era un fervente tifoso.

“Hoo belin, ma cosa ti ghe fae a bordo. Vanni SÛBITO a casa che a squaddra ha l’à bezêugno de ti …”

Baj aveva ragione, avevo lasciato la squadra per una nave passeggeri su cui avevo sempre sognato d’imbarcare… e quella fuga, Baj non me lo perdonò per tutto l’imbarco.

“Dove u l’è u mae beûlo?”

– Il dilemma era risolto – Il baule era proprio il suo!

Baj discendeva da quel ramo degli Schiaffino de Camoggi che da secoli avevano battuto i mari di tutto il mondo. Già, in quella Camogli dei Mille bianchi velieri su cui la tradizione “voleva” che il giovane s’imbarcasse da Allievo e sbarcasse da Comandante: in un solo lunghissimo imbarco. La rottura con la terraferma doveva essere TOTALE per dimostrare innanzitutto a sé stesso amore e dedizione solo per il MARE. Avete capito bene! Da ultimo di bordo a Capitano al comando e in seguito anche Armatore dei velieri di famiglia.

Baj era rimasto “intrappolato” nel solco di quella tradizione old fashion che lui continuava a vivere, come se la marineria fosse tuttora ancorata a quello spirito d’avventura senza tempo che unisce tutti i marinai del mondo da sempre e per sempre avendo per letto il mare e per soffitto il cielo. Baj continuava a vagare sui bordi insieme a tutti gli Schiaffino de Camoggi, ovunque si trovasse, e come loro si muoveva, non solo nel portamento oscillante, ma nel guardare sempre fuori, verso il mare per controllarne l’umore e la forza del vento sulle vele, con quel suo sorriso sempre generoso, ma furbo: “Amîa che no sòn miga nescio!”

Non gli chiesi mai nulla di quella anacronistica presenza do beûlo al seguito… non volevo profanare le sue antiche consuetudini familiari di cui evidentemente andava molto fiero: esibendo quella specie di carta d’identità che solo pochi potevano permettersi. E poi cosa c’era da spiegare ad un giovane come me, al secondo imbarco che il mondo della vela l’aveva conosciuto soltanto di striscio sugli STARS nel golfo Tigullio facendo bordi rischiosi solo per strappare un sorriso alle ragazze straniere… magari dell’entroterra! Questo avrebbe pensato Baj che di Riviera se ne intendeva!

Beh! Qui forse Baj si sbagliava! Anche il suo giovane amico proveniva da una stirpe di naviganti e armatori: i Gazzolo di Ge-Nervi - 25 velieri impiegati sulle rotte del GUANO tra il Cile e Perù ed il Nord Europa. Già! Ognuno ha il suo retroterra spirituale da rispettare e quindi il suo naturale destino da seguire; ma se oggi ricordo ancora quel BAULE della tradizione marinara ligure significa che nel sangue avevamo entrambi gli stessi ricordi ancestrali.

Baj è mancato di questi tempi un po’ di anni fa, ed ho voluto ricordarlo con la scusa do beûlo che racchiude tanti ricordi che in seguito ci hanno legati da Amicizia vera nella sua Camogli:

Società

CAPITANI E MACCHINISTI NAVALI

CAMOGLI

Arrivati al giro di boa, non mi rimane che segnalare un bel libro di Dario PONTUALE:

IL BAULE DI CONRAD

 

 

Una cassa di legno lunga un metro, alta cinquanta centimetri, con tozze zampe quadrate e la base più larga per resistere ai rollii. In passato ogni marinaio degno di tale nome solcava le acque del mondo accompagnato da questa specie di baule, chiamato in gergo “cassetta”, dove riporre i propri effetti personali i beni i ricordi.

Tra le molte sopravvissute agli attacchi del tempo, ne esiste una appesantita dagli anni e dagli oggetti, che riporta su un fianco una sigla incisa con la forza di un coltello, “JTKK”, e una data, “1894”. La sigla altro non è che l’abbreviazione del nome del suo proprietario: Józef Teodor Konrad Korzeniowski, ufficiale della Marina Mercantile Britannica. Il 1894 è l’anno in cui la cassetta è stata calata per l’ultima volta dal ponte di una nave: il battello a vapore Adowa, che avrebbe dovuto salpare per il Québec con a bordo quell’ufficiale di origine polacca, in realtà non ha mai lasciato il porto a causa di un impedimento burocratico.

Un finale in sordina per un uomo irrequieto che fin dall’adolescenza attraversa mari e oceani su ogni barca che gli conceda un incarico, una possibilità, una sfida. Vent’anni di vagabondaggio nei luoghi più selvaggi e remoti del globo, dalle Indie Occidentali alla Malesia e fin dentro il cuore oscuro dell’Africa. Dopo aver affrontato tempeste e bonacce, commerci e intrighi, in quel 1894 Józef Konrad cambia definitivamente il proprio nome in Joseph Conrad, il marinaio esce di scena e cede il testimone allo scrittore.

Con vivace ritmo narrativo, sempre affiancato da uno scrupoloso lavoro di ricerca, questo libro racconta la vita in mare di uno dei maggiori autori di ogni tempo: le imbarcazioni sulle quali Conrad navigò, gli uomini incontrati, le rotte seguite e le avventure fonti di ispirazione per i personaggi, le ambientazioni e le vicende che hanno popolato storie immortali come Cuore di tenebra, Tifone, La linea d’ombra e molti altri capolavori conradiani.

UN PO’ DI CONRAD

Mi si chiede di descrivere brevemente, qui, quest'opera.
Per come la vedo io, questo libro rappresenta lo sfogo di un marinaio che ha visto, praticamente, tutto il mondo, naturalmente dalla parte del mare, in quanto all'epoca viaggiavo già fin troppo per mestiere, da avere voglia di farlo anche da turista.
Ho visto tante cose: Cose antiche, cose moderne, cose affascinanti dal punto di vista naturalistico.
E poi, ancora, ho visto il mare in bonaccia, giorno dopo giorno, per decine di giorni, in oceano, e mi è sembrato la manifestazione della bontà divina.
Poi ho visto quello stesso mare furibondo di rabbia, roba che chi non l'ha visto non può arrivare a crederci, ed anzi adesso, che gli anni sono passati, non riesco più a crederci neppure io, se non facendo uno sforzo mentale, alla fine del quale ancora mi vengono i brividi.
Tutto questo l'ho messo, in questo libro. Ma, soprattutto, ho visto l'uomo.
L'uomo bianco, l'uomo nero, l'uomo giallo, l'uomo rosso.
Ho visto il Cristiano, l'Islamico, l'Ateo, l'Ebreo, lo Shintoista, ed anche altri.
Ho visto l'uomo ricco e potente, ed ho visto l'uomo povero, umile.
Di uomini umili e poveri ne ho visti di più, perché tali erano quelli che popolavano gli ambienti del porto, e delle sue vicinanze.
Ho parlato con quegli uomini. Ne ho osservato il comportamento, ascoltato i discorsi, ed alla fine ho capito che sotto la scorza del colore della pelle, della religione, della lingua, gli uomini, tutti gli uomini, sono abbastanza simili, per lo meno quelli sani di mente, vogliono tutti le stesse cose, che si riassumono poi nel diritto a mantenere la speranza di potere condurre una vita decorosa, migliore di quella vissuta dai loro padri, e di poterne offrire di ancora migliori ai propri figli.
Tutti, a parte i pazzi, vogliono vivere in pace, sognano di vedere riconosciuti i propri diritti, curate le malattie, assicurata la vecchiaia.
Vivono nel terrore che qualche pazzo scatenato decida di portarli in guerra, loro e i loro figli, e trasformi le loro mogli in vedove, le loro madri in vecchie in gramaglie.
In questo libro ho messo anche questo.
Poi, ho tirato giù i miei ragionamenti.
Tranquilli: A parte che il fatto che io, come tutti noi occidentali, sono stato formato nella cultura cristiana, nella qual cosa, tra l'altro, non vedo nulla di male, non ho fedi politiche, e neppure religiose. Ho il cuore, ed ho il cervello. Tutto quanto leggerete, se vorrete, viene dritto da lì: Dal cervello e dal cuore.

IL BAULE DEL MARINAIO

Una carrellata nella storia

 

 

 

 

 

 

 

Carlo GATTI

Rapallo, 28 Novembre 2021


IL DISINGANNO - ARTE E MARE - 1

IL DISINGANNO

ARTE E MARE - 1

 

 

DISINGANNO

Francesco Queirolo, 1753-54

 

 

 

 

 

Il Disinganno

Autore: Francesco Queirolo

1753-1754
Napoli,

Cappella Sansevero

Il disinganno, opera dello scultore genovese Francesco Queirolo realizzata tra il 1753 e il 1754, è uno dei capolavori che decorano la magnifica cappella Sansevero a Napoli. L'opera fu commissionata da Raimondi di Sangro, principe di Sansevero, che voleva dedicarla al padre Antonio, un uomo che condusse una vita dissoluta fino alla vecchiaia, quando invece abbracciò una vita all'insegna di una stretta morale cristiana.

Il gruppo scultoreo rappresenta un uomo avvolto da una rete, mentre un angelo lo sta liberando: la rete simboleggia il peccato, e l'angelo sta quindi aiutando l'uomo a liberarsi dal peccato, per quella che a tutti gli effetti è un'allegoria della vita di Antonio di Sangro. L'angelo ha sul capo una fiamma, simbolo dell'intelletto, e indica il globo ai suoi piedi che invece rappresenta i piaceri mondani. Davanti al globo osserviamo invece la Bibbia, chiaro simbolo della fede. Perché quindi allegoria del disinganno? Perché i piaceri mondani sono visti come, appunto, un inganno, e la fede e l'intelletto aiutano l'uomo a liberarsi dall'inganno della mondanità, e quindi del peccato.

Si tratta di una scultura che colpisce per il suo incredibile virtuosismo, evidente nella rete: è una delle opere più virtuose di tutta la storia dell'arte. La rete, realizzata con formidabile ed eccezionale abilità tecnica, sembra appartenere allo stesso, unico, blocco di marmo a cui appartiene il gruppo intero. Si racconta un aneddoto: pare che Queirolo avesse affidato il gruppo ad alcuni collaboratori per la finitura e la lucidatura. Tuttavia questi avrebbero rifiutato l'incarico per timore di rompere la delicatissima rete che avvolge il corpo dell'uomo: si dice quindi che Queirolo abbia condotto in prima persona tutti i lavori di finitura dell'opera.

FRANCESCO QUEIROLO

GENOVA, 1704 – NAPOLI, 1762

Dopo una prima formazione, nella bottega di Bernardo SCHIAFFINO*F.QUEIROLO si recò a Roma dove fu allievo di Giuseppe RUSCONI. Qui ebbe su di lui particolare influenza Antonio CORRADINI, dal quale ereditò la grazia rococò ed apprese lo straordinario virtuosismo tecnico per rendere nel marmo la trasparenza e la morbida pittoricità dei panneggi. A Roma eseguì le statue di San Carlo Borromeo e di San Bernardo sulla facciata di Santa Maria Maggiore e il busto di Cristina di Svezia (1740); la statua dell'Autunno sulla FONTANA DI TREVI (1749) e il sepolcro della duchessa Grillo in Sant’Andrea delle Fratte (1752).

*Schiaffino, Bernardo Nacque l’8 luglio 1680 dai camogliesi Geronima Olivari e Baldassare Schiaffino e fu battezzato presso la chiesa parrocchiale di S. Salvatore a Genova (Figari, 1988, p. 21), come documenta l’atto di nascita, che smentisce l’anno 1678 proposto da Ratti. scultore italiano (Genova 1678-1725). Allievo di Domenico Parodi, è tra i più notevoli esponenti della scultura genovese del Settecento. Le sue opere, che risentono nella tematica e nello stile di uno stretto legame con la pittura contemporanea, presentano un'eleganza formale che influenzò tutta la scuola genovese (Ritratto del doge Giovanni Francesco Brignole Sale, Genova, Palazzo Rosso; Narciso, Genova, Palazzo Balbi; Vergine col Bambino, Genova, S. Maria della Consolazione). Tenne a Genova una bottega che fu attivissima anche per le corti straniere. Suo allievo fu il fratello minore Francesco Maria (Genova 1689-1765), che completò la sua formazione a Roma presso Camillo Rusconi, derivandone l'impronta berniniana del suo stile (Ratto di Proserpina, Genova, Palazzo Reale; Madonna col Bambino, Genova, cappella del Palazzo Ducale).

Francesco Queirolo lavorò a Napoli dal 1752 soprattutto alla decorazione di quel singolare monumento del simbolismo settecentesco che è la Cappella Sansevero dei principi di Sangro: la sua statua del Disinganno, raffigurato come un uomo avvolto da una rete, è un vero capolavoro del trompe-l’œil in scultura. L’opera infatti stupisce per la resa estremamente realistica della rete che pare stendersi morbidamente sulla figura umana ricoprendo parte del volto e del torso, dove il traforo in marmo supera qualsiasi espressione di virtuosismo tecnico raggiunto in epoca rococò.

 

A questo punto qualcuno si chiederà: ma quale nesso esiste tra l’artista genovese Francesco Queirolo e Mare Nostrum Rapallo?

La mia sensibilità di uomo di mare, mi fa pensare che il genovese, con sangue camoglino: Francesco Queirolo, per la sua fantastica opera IL DISINGANNO, abbia trovato ispirazione in qualche calata del Porto Vecchio di Genova guardando le operazioni di sbarco-imbarco di un veliero dell’epoca. Infatti, fino all’avvento dei containers, le navi usavano “imbragare” con una robusta rete quadrata appesa al bigo di carico della nave, la merce in colli oltre a qualsiasi altro tipo di cassa che si prestasse ad essere avvolta da quella robusta RETE marinara.

Chi ha navigato nel dopoguerra, conosce quello strumento di lavoro con il nome di Giapponese. Si tratta di un mezzo molto versatile e robusto che a volte compare anche in alcuni disegni medievali e anche più antichi, come vedremo, il che dimostrerebbe come la sua praticità (scarso peso e volume) sia stata apprezzata per millenni.

Il nome esotico pare invece si riferisca all’uso che la Marina USA ne fece durante gli assalti delle truppe Americane nelle isole del Pacifico (Seconda guerra mondiale), in particolare per trasbordare velocemente i numerosi militari armati dalle navi-trasporto ai mezzi anfibi destinati ad approdare sulle spiagge occupate dai giapponesi.

Questo tipo di rete a maglie più o meno larghe, venivano anche usate per recuperare naufraghi come mostra la foto che scattai molti anni fa dal ponte passeggiata della m/n VULCANIA durante il recupero dei naufraghi della piccola M/n FIDUCIA, durante una tempesta, non lontano dall’isola di Ustica.

 

 

 

 

 

 

LA GIAPPONESE – UN’ARMA ECCEZIONALE

 

 

Il reziario letteralmente "l'uomo con la rete" era una delle classi gladiatorie dell’antica Roma; combatteva con un equipaggiamento simile a quello utilizzato dai pescatori, una rete munita di piombi per avvolgere l'avversario, un tridente (la fuscina-fiocina) ed un pugnale (il pugio). Non portava alcuna protezione alla testa, né calzature.

Il reziario apparve per la prima volta nell’arena nel I° secolo e divenne in seguito un'attrazione abituale dei giochi gladiatorii.

Sono passati un po’ di anni dai miei tempi… ma credo che, tuttora, un buon Capitano navigante, abbia sempre a disposizione una GIAPPONESE ben curata e pronta all’uso. Ora vi spiego il perché:

Avevamo da poco scalato Ponta Delgada (Azzorre) e, con gran parte dell’Oceano Atlantico di prua, eravamo diretti in Canada (Halifax).  Verso la mezzanotte, durante il cambio di guardia sul Ponte di comando della nave di cui sopra, giunge una telefonata concitata:

 

 

Un energumeno di colore, alto più di due metri, completamente fuori di testa, sta minacciando una decina di passeggeri con la mannaia antincendio. Mandate rinforzi d’urgenza in classe turistica”.

Come ben sapete, in condizioni normali, sulle navi mercantili di tutto il mondo, non sono ammesse armi da fuoco; esiste tuttavia un servizio di sicurezza che negli Anni ’60 era coordinato dal Capitan d’Armi. Sicuramente la telefonata “concitata” era da attribuirsi proprio a questo sottoufficiale.

Probabilmente l’evento molto “delicato” che era in corso in quel momento, non era poi una rarità … Su quei bordi eleganti e raffinati viaggiavano nei Ponti Inferiori anche pescatori di merluzzo, emigranti di tutte le razze e di ogni provenienza… e, nelle lunghe notti atlantiche, alcuni di loro si lasciavano andare ai fumi dell’alcool, a discussioni politiche, forse razziali e non di rado a scene di gelosia… La violenza era sempre dietro l’angolo.

Ma quella volta si trattava di fermare un gigante giovane, atletico e con il volto cattivo… che barcollando e muovendosi come un orangotango inseguiva i passeggeri in fuga che urlavano terrorizzati in preda al panico più totale per la paura di essere fatti a pezzi... Scendemmo di corsa i quattro ponti che ci separavano dalla classe Turistica, ma quando arrivammo sul posto, cinque marò Capi-stiva, novelli reziari, l’avevano già circondato, imbragato, abbattuto sul pavimento e, siccome si agitava ancora pericolosamente, fu colpito alla testa con un randello e quindi trascinato in una cella di sicurezza dove rimase fino a New York, suo porto d’arrivo, per essere consegnato alla Polizia Portuale.

Ogni giorno accompagnavo il mio Capo guardia a visitare l’energumeno che mai rinunciava a minacciarci di “morte sicura” appena la Polizia americana lo avrebbero liberato da quella gabbia…

 

Ringrazio il Maestro di Presepi Pino LEBANO per avermi segnalato l’opera d’Arte:

IL DISINGANNO

 

Carlo GATTI

Rapallo, 25 novembre 2021


IL NAUFRAGIO DEL TRAGHETTO NORDICO ESTONIA

IL NAUFRAGIO DEL TRAGHETTO NORDICO

ESTONIA

Avvenne nella notte del 28 settembre 1994

Si riapre il caso

Sono trascorsi 27 anni dal giorno in cui la nave-traghetto ESTONIA affondò nel mar Baltico, causando la morte di 852 passeggeri. Le persone a bordo erano 989, 137 vennero tratte in salvo.

L’isola di UTÖ è la più bassa nella cartina

Alla una e ventiquattro della mattina del 28 settembre 1994 un accorato Mayday veniva lanciato sul canale 16 dall’operatore radio del traghetto Estonia, di proprietà della compagnia Estline, in rotta tra Tallin e Stoccolma. Nelle gelide acque del mar Baltico, al largo dell’isola di UTÖ, si stava già inesorabilmente consumando una delle più colossali tragedie del mare.

Ecco l’ultima concitata conversazione registrata da una stazione locale e riportata in seguito sul web:

MAYDAY - MAYDAY State lanciando un Mayday? Estonia, cosa sta succedendo? Potete rispondere? – Qui Estonia. Chi c'è laggiù? - Estonia, qui è la Silja Europa. – Parlate finlandese? - Sì, parlo finlandese. – Abbiamo un problemaCi stiamo piegando in maniera preoccupante sul lato di dritta, probabilmente di oltre 20 o 30°. Potete inviare assistenza e contattare la Viking Line? - La Viking Line non è lontana da noi e probabilmente a quest'ora ha già appreso la notizia. Comunicatemi la vostra posizione. – Abbiamo un blackout e noi… io non posso dire quale sia la nostra posizione in questo momento...  - OK, cercheremo di fare qualcosa. – State venendo in nostro soccorso?  - Sì. Puoi darci la tua posizione esatta? - Adesso non è possibile. Abbiamo un blackout a bordo. Gli strumenti sono spenti - OK, proviamo noi a rintracciare la vostra posizione. Solo un momento. Faremo del nostro meglio per venire in vostro soccorso ma dobbiamo prima calcolare la vostra posizione. – Adesso posso darvela.  – Bene! Vai! - Latitudine 58, solo un momento. - OK. - 22 - OK, 22°, arriviamo. – Volevo dire 59, latitudine 59 e 22'. - 59° 22′. La longitudine? - 21° 40′ Est. - 21° 40′ Est, OK. – Qui si sta mettendo male. Si sta mettendo davvero male adesso!!!

Si tratta del più grave naufragio avvenuto in Europa in tempo di pace.

M/S Estonia, memorial, at Ersta nursing home, Södermalm, Stockholm

All’epoca si lessero molte versioni sul tragico naufragio:

“Si è ipotizzato un’esplosione a bordo, forse legata al trasporto di materiale bellico, in particolare tecnologia militare russa contrabbandata in Occidente: misteriosi sabotatori si sarebbero mossi piazzando una carica esplosiva. Era lo strano «bang» udito da uno dei marinai poco prima dell’allarme? Si è anche parlato di una collisione con un sottomarino o all’impatto con una mina, un residuato di guerra. Scenari sui quali – come per tanti misteri navali e aeronautici – si sono aggiunte speculazioni, tesi cospirative, compresa la sparizione di alcuni superstiti. Molta la diffidenza verso gli inquirenti che non avrebbero fatto bene il loro lavoro, non verificando ogni aspetto possibile. In qualche modo si è cercato di chiudere il caso: dunque hanno rinunciato a recuperare il relitto (con i corpi) diventato poi un sacrario. Da rispettare!”

Una doverosa spiegazione: La celata di prua è una caratteristica di alcune navi, in particolare Traghetti Roll-on/Roll-off e traghetti ferroviari, che permette alla parte superiore della prua di articolare su e giù, fornendo l'accesso alla rampa di carico e al garage che è lungo quanto la lunghezza della nave, nelle navi moderne possono esserci anche 3 piani-auto.

Nel corso degli ultimi 25 anni le celate di prua sono state progressivamente soppiantate dai portelloni di prua che agiscono come le valve di una conchiglia e si ritengono essere più sicuri delle celate prodiere. In una celata di prua, le forze che agiscono su di essa in seguito all'impatto del moto ondoso, vengono assorbite dalle cerniere e dalle serrature che possono cedere in seguito a sollecitazioni particolarmente intense. Con i portelloni di prua, la forza delle onde vengono assorbite dalla circostante sovrastruttura di prua.

Il relitto fu ispezionato con un ROV già pochi giorni dopo il naufragio dalla Rockwater A/S. Il rapporto ufficiale sostenne, ed è valido ancora oggi, che il disastro dell’ESTONIA fu causato dal cedimento della celata di prua che, staccandosi completamente permise al mare di invadere l’enorme garage della nave, ormai senza protezione, causando dapprima un forte sbandamento a dritta e, nel giro di pochi attimi, il suo rovesciamento con tutto il suo carico di vite umane, per poi inabissarsi su un fondale di circa 80 metri.

Come si può vedere nella prima foto della nave (inizio articolo), la prora non è proprio visibile dal Ponte di comando, e l'equipaggio non si sarebbe reso conto dell’apertura e repentino stacco della celata che, secondo alcune testimonianze, non sarebbe stata neppure segnalata dai sensori di sicurezza posti su di essa.

Tra gli innumerevoli contributi che si trovano in rete, la breve video-simulazione mostrerebbe che poco più di 30 minuti sarebbero trascorsi tra lo stacco della celata ed il naufragio. Ma è andata veramente così?

 

Simulazione di una notte di terrore

SONO PASSATI 27 ANNI - SI RIAPRE IL CASO

Il 28 settembre 2020 diversi quotidiani hanno riportato la scoperta di un taglio di 4 x 1,2 metri nello scafo dell'Estonia. La falla riscontrata riaprirebbe un ventaglio di altre possibili indizi che avrebbero potuto causare l'affondamento della nave.

Lo si deve a due ricercatori: Henrik Evertsson e Bendik Mondal che, sfidando tutti i divieti, hanno ispezionato il relitto a circa 80 metri di profondità e prodotto fotografie che sono state presentate in un documentario per Discovery Networks.

Due uomini coraggiosi e determinati sono balzati all’attenzione del mondo marinaro mondiale! Si deve a loro se oggi gli inquirenti sono in grado di istruire un PROCESSO su basi nuove, con la speranza che le 852 vittime possano avere finalmente giustizia. Lo squarcio lungo la fiancata costituisce una prova reale, irrefutabile, ma anche allarmante comunque la si voglia esaminare.

A questo punto è facile immaginare il riemergere di tutte quelle ipotesi che a suo tempo erano state scartate:

- contrabbando di materiale bellico sull'Estonia da parte degli occidentali!

- La reiterata presenza di un “sottomarino fantasma” sulla scia di fatti riscontrati nel periodo post guerra fredda.

Il fatto poi che negli ultimi anni le Autorità locali abbiano posto il divieto di avvicinamento al relitto prendendo a pretesto la sacralità del “cimitero sottomarino”, ha alimentato sospetti, diffidenze e critiche da più parti.

I tre STATI maggiormente coinvolti (Svezia, Estonia, Finlandia) hanno recentemente deciso di riaprire l'inchiesta.

ESTONIA Ormeggiata nel porto di Tallin

(Foto dell’autore)

Chi scrive ha avuto l’occasione di viaggiare più volte sul traghetto ESTONIA impiegato fin dall’inizio della sua carriera sulla rotta Stoccolma-Tallin, e ricorda di averne decantato ogni volta, sia la modernità che la puntualità e l’efficienza.

In particolare posso affermare di conoscere molto bene il modo di navigare dei Nordici e le acque difficili in cui operano, per cui posso affermare di non aver mai creduto alla versione ufficiale che avrebbe causato quel disastro. Dirò di più: nell’ambiente svedese dei Piloti portuali e Comandanti amici di vecchia data, la teoria dello stacco della celata fu considerata una versione “accomodante” per mettere un velo pietoso su una dinamica da “guerra fredda” che doveva rimanere segreta per ragioni di Stato.

Per comprendere meglio la permanente tensione tra gli Stati sulle sponde del BALTICO, dall’epoca della GUERRA FREDDA, vi segnalo un mio scritto di 10 anni fa in cui racconto la storia dell’ammutinamento di una fregata sovietica (1975).

L’ammutinamento della fregata STOROZHEVOY Ispirò il film ‘Caccia a Ottobre Rosso’ <- vai all'articolo

L’episodio della fregata Sovietica rimase avvolto nel mistero per decenni e venne alla luce dopo la caduta dell’Unione Sovietica ma la Svezia, in particolare, ne fu sempre al corrente perché vi un intenso traffico radio appena la nave militare sovietica mise la prora in direzione della costa svedese.

Nel 1981, un sottomarino sovietico si incagliò sulla costa meridionale della Svezia, a 10 chilometri da una importante base navale svedese. I sovietici affermarono di essere stati costretti a entrare nel territorio, mentre la Svezia, dopo aver rilevato la presenza di uranio-23 all'interno del sottomarino, credeva che il sottomarino li volesse attaccare.

Alla fine, dopo giorni di forte tensione, il sottomarino sovietico ritornò nelle acque internazionali e la Svezia rimase vigile, ma “silenziosa” … per molti mesi successivi.

Nel 1982, molti sottomarini, imbarcazioni specializzate ed elicotteri svedesi andarono a caccia di una di queste imbarcazioni non identificate per un mese intero, solo per arrivare - ogni volta - a mani vuote.

Il 19 ottobre 2014: “Intrigo a Stoccolma, sui fondali della Svezia è caccia a un sottomarino russo. Ma Mosca smentisce”.

2020 - I Paesi della regione hanno ripetutamente denunciato l'intensificarsi delle attività militari russe ai loro confini: nel mese di settembre, la Svezia aveva protestato formalmente con Mosca dopo che due aerei militari russi avevano violato il suo spazio aereo.

L’ombra di una grande superpotenza sull’altra sponda del Baltico, che controlla senza tregua le proprie acque territoriali per contrastare possibili sconfinamenti ed intrusioni straniere nelle proprie acque territoriali ha ormai, come abbiamo appena visto, una sua diffusa letteratura.

La geo-politica internazionale, sulla quale occorre naturalmente vigilare, esige comportamenti di grande prudenza! Come si dice in termini marinareschi, i Paesi piccoli sono costretti ogni volta, ad “abbozzare” per non peggiorare la situazione da cui potrebbero solo rimetterci su molti piani! Questo, in estrema sintesi, è il pensiero dominante della gente del Nord che guarda ad Est con una certa comprensibile ansia.

Il confronto tra NATO - PATTO DI VARSAVIA si gioca su quella striscia di mare che si chiama Baltico.

Da questa presa di coscienza nasce la convinzione popolare svedese e non solo, che il traghetto ESTONIA sia entrata in collisione con un sottomarino di nazionalità sconosciuta, ma non tanto… che avrebbe procurato la falla da cui sarebbe entrato quel flusso d’acqua di mare che la fece sbandare e poi affondare.

Carlo GATTI

Rapallo, 20 Novembre 2021


LA STORIA DEI BLUE JEANS

LA STORIA DEI BLUE JEANS

Il termine blue jeans” deriva probabilmente dalle parole:

Blue de GENES

Blu di Genova.

 

Genova Capitale Mondiale dei JEANS

"Da sempre senza tempo, vestito da tutti e promotore di libertà e cambiamento sociale, il jeans si propone oggi come punto di partenza per ri-immaginare il rapporto tra un capo di abbigliamento che ha fatto epoca e i linguaggi, le espressioni artistiche che dal successo del jeans hanno tratto ispirazione".

 

 

Da giovedì 2 a lunedì 6 settembr2021 si è svolto a Genova un grande evento che molti di voi avranno seguito: Genova Jeans che ci ha portato a percorrere le tante vie di questo indumento che, per noi di una certa età, ha fatto parte della nostra storia giovanile, e lo è tuttora che tali non siamo più.

“E’ nata così la Via del Jeans, come Carnaby street a Londra, sull'asse Via Prè, Via del Campo e Via San Luca, dove vogliamo attrarre commercianti, imprenditori e artigiani per farne un hub anche turistico e culturale di questa produzione". Manuela Arata, presidente del Comitato promotore di GENOVA JEANS, spiega così lo spirito della manifestazione che anima alcuni punti di Genova per promuovere il Made in Italy di qualità nel centro storico medievale dove dal milleduecento il jeans veniva prodotto, commercializzato e utilizzato.

 

SOTTORIPA

Con i suoi 900 metri di copertura è stato il più lungo centro commerciale del medioevo. Il suo porticato venne costruito per volere dei Padri del Comune a partire dal 1125 fino al 1133, addirittura 30 anni prima dell’erezione delle Mura del Barbarossa e, per questo, costituisce la più antica opera pubblica di rilievo. Il suo percorso si snodava da Porta S.Fede fino al Molo Vecchio senza però soluzione di continuità. Ne sono testimonianza il breve tratto fra Vico San e Vico del Campo, detto “Sottoripa La Scura” per via della sua sopraelevazione e per i porticati più bassi e arretrati rispetto alla ripa. Sarà questa la zona destinata nel ‘600 al Ghetto ebraico.

A partire da quegli Anni ’50, quando questo pantalone marinaro si acquistava soltanto nell’angiporto di Genova e, per noi studenti del Nautico, era come procurarci un’uniforme che ci faceva “sognare” sulle rotte di via Pré e Sottoripa alla scoperta dell’America dei films con James Dean e Marlon Brando, tra gli echi della Beat Generation, di Kerouak (On the road) e di altri  tra cui ricordo Peter Orlovsky, Allen Ginsberg e Gregory Corso, mentre caroggi sembravano galleggiare sulle note della leggenda del Jazz: Charly Parker venerato dai Beat.

Il “mercatino di Shangai” a Genova

Baia piratesca e luogo incontrastato di sbarco dei Jean

Fra via Gramsci e via Pré, in piazza S. Elena, sorgeva un tempo un mercatino che i genovesi familiarmente chiamavano “di Shangai”. Il nome aveva un sapore esotico che ben si addiceva a quell’angolo di traffici cosmopoliti; la struttura nacque infatti nel secondo dopoguerra proprio per rifornire chi imbarcava e sbarcava dalle navi, ma anche per alimentare il contrabbando di molti ambiti prodotti...

 

Del “mercatino di Shangai” resta indelebile il ricordo per chi, come noi da ragazzi ci aggiravamo incuriositi tra quelle bancarelle convinti di vivere in un pezzetto di America, e con la convinzione di poterci trovare di tutto. Infatti fra le bancarelle si trovavano gli occhiali Ray-Ban (“Nan, son fatti per te questi occhiali, ti stan che è una meraviglia”), le gomme da masticare Brooklyn a prezzi stracciati, le penne Parker, gli accendini Ronson, la cioccolata, le sigarette di contrabbando, i capi di vestiario (che arrivavano direttamente dall’America, grossolonamente imballati), i primi Levi’s, i giubbotti Baracuta, le prime felpe blu; e inoltre costumi da bagno, tute da sci, il dentifricio Colgate americano, il già famoso Listerine, dolciumi vari (in particolare cioccolato svizzero), magliette Saint Tropez minipull, borse pseudogriffate, attrezzature militari e per i clienti affezionati  anche armi bianche USA della Seconda guerra mondiale con relativi sacchi a pelo, macchine fotografiche con obiettivi in dotazione (alcuni di produzione sovietica e giunte a Genova chissà come), i primi mangiadischi, il dopobarba inglese Old Spice, lamette da barba, pomate tipo il Prep, il Vix Vaporub, ecc. ecc.

Andare a Genova significava, per noi della riviera, il mitico incontro con il Mondo d’oltremare che ci aveva riportati all’esistenza civile quando i segni dei bombardamenti ancora ci ammonivano tra le case diroccate. E alla sera tornavamo a casa felici alzando i “nostri trofei di tela” che non provenivano dalle Crociate… ma dal centro storico de Zena, un incantesimo da cui non ci siamo mai più liberati!

Sono ormai passati 60 anni e, con il “piede marino” nel frattempo acquisito per davvero, con meno entusiasmo, ma con tanta curiosità, ho fatto scoperte interessanti sui Jeans che vorrei condividere con voi nella consapevolezza, ormai provata, che da Genova sia “partita” non solo la Scoperta dell’America, ma anche la nascita dei Jeans. Le due “scoperte” sembrano concettualmente molto distanti, ma hanno in comune una certa INTERNAZIONALITA’ di fondo per cui si somigliano in un marchio speciale che viene da molto lontano: DALLA STORIA DI QUESTE PARTI!

Credo, anzi ne sono certo, che al giorno d’oggi il jeans, in tutte le sue sfaccettature, sia il capo più venduto e più richiesto al mondo, poiché apprezzato da qualsiasi classe sociale, età e sesso.

Vediamo di cosa si tratta!

Il primo cenno viene ricondotto alla città di Genova nel XVI secolo e più precisamente al porto antico dove questa tela di colore blu veniva creata e usata per la fabbricazione delle vele dei brigantini e per i cagnari: quei teloni da copertura per le stive di carico delle carrette fino agli anni ’50-’60 del Novecento, in quanto molto resistenti, durature e facilmente lavabili.

Con le grandi emigrazioni, intorno all’ottocento, la tela blu di Genova arrivò in America dove venne utilizzata per creare abiti da lavoro per i minatori. Ed è proprio qui che il nome originario cambiò in blue jeans. Fu infatti nel 1873 che nacque il primo jeans denim grazie a Levi Strauss il quale aprì a San Francisco un negozio di oggetti per i cercatori d’oro e ideò il primo jeans.

Di seguito i cow-boys del Far West utilizzarono il tessuto per confezionare non solo i pantaloni ma anche delle robuste giacche.

Da qui iniziò l’uso del jeans un po’ ovunque diventando un capo usato dai militari, dalle truppe garibaldine, dagli attori cinematografici di cui abbiamo fatto cenno, dai ragazzi universitari e infine facendo il suo ingresso nel mondo della moda.

Con il tempo si sono moltiplicati i modelli: a campana, a tubo o sigaretta, attillato, a cavallo alto, a cavallo basso, con zip e con bottoni, così come sono cambiati i colori sfruttando tantissime tonalità.

Dagli anni ‘90 sono iniziate ad andare di moda le versioni  vissute del jeans:  delavè, bucati, strappati, arricchiti da pietre, secondo le fantasie degli stilisti.

Un capo, il jeans, che si lascia strappare, rammendare e arricchire pur non perdendo il suo fascino.

Ma ora facciamo ancora un passo indietro nella storia alla ricerca delle radici di questa incredibile storia:

Gli antenati dei JEANS

BADIA DEL BOSCHETTO

L'abbazia di San Nicolò del Boschetto, più conosciuta semplicemente come “badia del Boschetto”, è un edificio religioso nel quartiere genovese di Cornigliano; il complesso, costituito dal monastero e dalla chiesa, oggi affidata ai sacerdoti orionini, è situato nella bassa val Polcevera, sulla sponda destra del torrente, alle prime pendici del colle di Coronata, dove resistono ancora filari di bianchetta, vermentino, rollo e naturalmente il pregiatissimo vino bianco di Coronata.

Il complesso, costruito nel XV secolo, ai tempi della già ricordata Scoperta dell’America, è tuttora denominato Boschetto per la fitta vegetazione che un tempo lo circondava, in parte è ancora presente alle sue spalle, nonostante la zona, un tempo agricola, abbia assistito nei primi decenni del Novecento a un grande sviluppo industriale il cui stabilimento porta un celebre nome: ANSALDO ENERGIA.

 

 

L'abbazia del Boschetto e lo stabilimento Ansaldo

 

A breve distanza sorge la seicentesca villa Cattaneo Delle Piane, detta dell'Olmo, sede della FONDAZIONE ANSALDO, che raccoglie archivi cartacei, fotografie e filmati d'epoca provenienti da molte storiche aziende genovesi.

 

 

Blu di Genova

Nell'epoca di maggior splendore dell'abbazia, durante la Settimana Santa si svolgevano grandi celebrazioni, anche con la messa in scena di sacre rappresentazioni. In quell'occasione nella chiesa venivano esposte delle tele raffiguranti episodi della Passione di Gesù, dipinti sulla robusta tela di fustagno blu utilizzata dagli scaricatori del porto detta blu di Genova, antenata della celebre tela JEANS. sono oggi conservate nel Museo diocesano di Genova. Queste tele, complessivamente quattordici, realizzate fra il XVI e il XVIII.

GARIBALDI e le sue truppe

L'Italia del Risorgimento vestiva in blue-jeans . I più vecchi jeans del mondo sono infatti quelli che indossava Giuseppe Garibaldi: hanno 162 anni e sono conservati al Museo Centrale del Risorgimento, a Roma, esposti in una speciale bacheca del Vittoriano. In tela di Genova e lunghi fino alla caviglia, con quei calzoni indossati sotto la camicia rossa, Garibaldi fece lo sbarco a Marsala e la guerra in Sicilia, nel maggio 1860. Hanno un segno particolare: una toppa sul ginocchio sinistro, anch’essa in jeans, che copre uno strappo. Strappo rimasto a lungo, e che fa di Garibaldi anche un innovatore: oggi, i jeans strappati all’altezza del ginocchio sono infatti quelli che vanno più di moda. Si racconta che lo strappo sia il risultato di un attentato cui scampò il condottiero protagonista del Risorgimento italiano.

 

 

I pantaloni jeans di Garibaldi con la famosa toppa sulla gamba sinistra”

E ancora leggiamo: “Giuseppe Garibaldi, alla guida della Spedizione dei Mille, indossava i jeans. Persino con la toppa. Siamo nel 1860 e l’Italia sta per essere unita. In partenza dallo scoglio di Quarto a Genova, il patriota indossa un pantalone di fustagno blu, conservato oggi al Museo centrale del Risorgimento a Roma. Il filo che lega le tappe della storia dell’indumento più usato al mondo parte proprio dal capoluogo ligure: jeans infatti è un tipo di tela ruvida e resistente di origine genoveseUsata già prima di Garibaldi da chi lavorava in porto, arriva oltreoceano e dall’America rimbalza nuovamente in Europa nel corso dei secoli. Fino a diventare il capo di abbigliamento simbolo della parità fra i sessi, della contestazione giovanile, della libertà, del rock, del punk, del rap. Ma non senza polemiche, giudizi, divieti. Tanto che il dress code di alcune compagnie aeree fino a qualche anno fa lo vietava nelle prime classi”.

NOTA BENE:

In America i jeans sono stati indossati come capo alla moda solo dagli anni '80 in poi. Prima non era consentito presentarsi al ristorante e venivano indossati solo nei fine settimana come capo sportivo. Il passaggio dei jeans da pantalone da lavoro a prodotto di moda, diventando un prodotto di culto, è stato un evento davvero unico. Sono per molti il simbolo dell'identità dell'America, dell'idea del sogno americano e dei suoi motti come "destino - manifesto" - "libertà" e "avventura".

Chiudo con questo pensiero personale:

-Le moderne bandiere hanno un antenato nei vessilli, drappi di stoffa che venivano usati fin dai tempi antichi, per rendere riconoscibili gli eserciti o i loro reparti.

-L'uso delle bandiere così come si intendono oggi risale invece al periodo delle crociate: infatti vennero dipinte croci di colore diverso su drappi di stoffa per identificare la provenienza dei crociati.

Queste due premesse sottintendono entrambe, da sempre, il significato di guerre e contrapposizioni tra i popoli della terra.

Forse l’unica BANDIERA INTERNAZIONALE assolutamente trasversale, apartitica ed apolitica potrebbe essere quella in tela BLU DI GENOVA che la maggioranza dei cittadini del mondo, senza alcuna imposizione, ha scelto d’avere a contatto con la propria pelle.

 

Carlo GATTI

Rapallo, 14 Novembre 2021


L'ODISSEA DELLA SAINT LOUIS

 

L’ODISSEA DELLA ST. LOUIS

13 Maggio 1939

LA NAVE CARICA DI EBREI IN FUGA DALL’EUROPA E’ RESPINTA DA CUBA E DAL NORD AMERICA

17 giugno del 1939

LA NAVE RIENTRA IN EUROPA (ANVERSA)….

 


LA SAINT LOUIS IN PARTENZA DA AMBURGO

 


Abbiamo preso in prestito la copertina di questo libro, perché assolutamente ricca di significati allegorici ed emblematica di una vergognosa pagina storica che merita di essere conosciuta, ricordata, raccontata e tramandata a tutte le generazioni affinché non sia dimenticata.

«Un uccello non ha bisogno di passaporto, né di biglietto, né di visto — e un uomo invece viene messo in galera se non è in possesso di uno solo di questi tre pezzi di carta?» così scrive Joseph Roth nel 1937 nella premessa alla nuova, programmata edizione del breve, appassionato saggio Ebrei erranti, giungendo all’amara conclusione che «i torturatori degli animali vengono puniti mentre quelli degli esseri umani sono insigniti di importanti onorificenze».


QUADRO STORICO

Quando il nazismo sale al potere, la persecuzione dei dissidenti e dei ‘non ariani’ determina un esodo di massa dalla Germania che, in un periodo di grave crisi economica, è guardato con preoccupazione dai governi europei: questi istituiscono dispositivi per controllarlo o contenerlo, stabilendo quote di immigrazione sul modello di quelle già poste in essere dagli Stati Uniti, che in nessun modo e per nessuna ragione è possibile superare. Che donne e uomini appartenenti alla cosiddetta ‘razza ebraica’ cerchino rifugio e protezione per salvare le proprie vite in Francia, Belgio, Svizzera, o altrove, è ininfluente: per l’Alto Commissario per i Profughi dalla Germania nominato dalla Società delle Nazioni nel 1936, per assicurare ai ‘non-ariani’ e agli oppositori del regime nazista la “possibilità di reinsediamento in Europa o oltremare”, il compito è arduo. E anche la Conferenza internazionale di Évian, indetta dal presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt nel luglio 1938, per una soluzione condivisa al problema dei profughi dalla Germania, si conclude con un nulla di fatto: soltanto la Repubblica Dominicana è disponibile ad alzare la propria quota di immigrati (accoglie infatti circa centomila profughi ebrei) e soltanto la città internazionale di Shangai non ha ancora introdotto il visto di ingresso (e nell’ultimo anno prima della guerra dà asilo ad altri ventimila rifugiati ‘non ariani’ in fuga dalla Germania). Fuggire? Dove? “Iniziare una nuova vita? Quale?” si chiede lo scrittore tedesco Fred Uhlman, esule in Francia, in Storia di un uomo (1960).

L’Olocausto ebbe luogo all’interno del più ampio contesto della Seconda Guerra Mondiale, il più esteso e distruttivo conflitto della Storia. Attraverso la realizzazione di un vasto e moderno Impero nell’Europa Orientale, Adolf Hitler e il regime nazista volevano creare nuovo “spazio vitale” (Lebensraum) per la Germania; un piano che prevedeva l’eliminazione delle popolazioni locali. L’obiettivo nazista di rafforzare la razza superiore tedesca portò alla persecuzione e l'assassinio degli Ebrei e di molti altri.

GERMANIA - Il 15 settembre 1935 vennero promulgate le leggi di Norimberga. Nel corso del 1936 gli ebrei vennero banditi da tutte le professioni: in tal modo, fu loro efficacemente impedito di esercitare una qualche influenza in politica, nella scuola e nell'industria.

ITALIA - 17 novembre 1938 vennero approvate le leggi razziali in Italia. I provvedimenti antisemiti non arrivano come un fulmine a ciel sereno. Da tempo il regime fascista si serve infatti del razzismo sia per sostenere l’espansione coloniale, sia per scaricare le responsabilità dei fallimenti su alcuni capri espiatori.

EUROPA - Il primo settembre 1939.

La Germania diede inizio alla Seconda Guerra Mondiale con l'invasione della Polonia, Negli anni successivi, i Tedeschi invasero altri undici paesi. La maggior parte degli Ebrei europei viveva in paesi che la Germania nazista avrebbe occupato o con cui si sarebbe alleata durante la guerra.


AGLI EBREI NON RIMANE CHE LA FUGA OLTRE L’OCEANO ATLANTICO DOVE SI RESPIRA ANCORA ARIA DI LIBERTA’

SARA VERO’?

 

Il 13 maggio del 1939 il transatlantico tedesco ST.LOUIS parte da Amburgo e fa rotta per Cuba. A bordo ci sono 937 ebrei in fuga dalla follia nazista. Siamo alla vigilia della guerra più sanguinosa nella storia della umanità.


Il capitano del Saint Louis, Gustav Schröder

(1855-1959)

Inviato a Calcutta nel 1913, aveva provato sulla sua pelle l’esperienza della prigionia

La speranza nella patria della Libertà e della Democrazia alimenta le speranze dei passeggeri pur sapendo che negli States il partito dei NON INTERVENTISTI è fortissimo e Franklin Delano Roosevelt non vuole deludere nessuno, anche se è noto che la sua influentissima consorte Eleonora è di tutt’altra idea! Per cui una certa prospettiva di sblocco della situazione si fa largo nei loro cuori disperati.

Viene inviata una richiesta di aiuto direttamente al presidente Franklin D. Roosevelt, una richiesta che non avrà mai risposta. Se non una. Il Dipartimento di Stato invia un telegramma agli esuli: "I passeggeri dovranno iscriversi e aspettare il loro turno nella lista di attesa per ottenere il visto, solo allora potranno entrare negli Stati Uniti".

Al comando di quella nave c’è Gustav Schröder un comandante tedesco non ebreo che fa la differenza. Un uomo che si vergogna profondamente di Hitler e di tutto ciò di esecrabile che sta facendo al suo stesso Paese e all’Europa intera. Ma sulla nave di bandiera tedesca è lui che comanda anche se gli è chiaro che gli ebrei in Germania hanno già perso tutti i diritti, ma il COMANDANTE è un vero “uomo giusto” e ha già messo in conto che se andrà male, farà il giro dell’Oceano Atlantico e tornerà indietro con lo stesso carico umano.

A Cuba le cose non vanno come sperato, gli ebrei non possono sbarcare se non dietro il pagamento di una tassa. Di che si tratta? A metà gennaio del 1939, il governo aveva emanato il decreto n° 55 secondo il quale ciascun “rifugiato”, avrebbe dovuto versare una somma di 500 dollari per il visto d’ingresso. Il ministro dell’immigrazione, Manuel Benitez, decide di sfruttare questa situazione definendo i passeggeri a bordo della St. Louis come turisti e mettendo in vendita dei “permessi di sbarco” per una somma “non ufficiale” di 150 dollari ciascuno. Ma succede un fatto imprevisto, un ordine che forse viene da lontano!

Il presidente cubano Federico Laredo Brú ordina di far applicare il decreto n° 937 (correttivo del n° 55) che obbliga, di fatto, al pagamento dei 500 dollari a ciascun passeggero della St. Louis. Soltanto 29 passeggeri riescono sbarcare a Cuba, per gli altri la somma è irraggiungibile.

Gustav Schröder si rende conto che Cuba è solo l’inizio del calvario, ma non desiste, non è il tipo che si arrende senza combattere, a bordo lo sanno tutti e forse la speranza è riposta in lui più che su i sedicenti “democratici” della terraferma: sanno infatti, ormai da tempo, che se la Germania odia gli ebrei, le civili nazioni europee (e con esse gli Stati Uniti) non li amano, tant’è che si guardano bene dall’accoglierli! Il Comandante sa che gli rimangono poche opzioni sulle rotte del NORD: poche tenui speranze, ma non lascerà nulla d’intentato.

MIAMI – USA


Il 2 giugno la Saint Louis salpa da L’Avana: “Il governo cubano ci sta costringendo a lasciare il porto. – ha dichiarato due giorni prima in un comunicato stampa Gustav Schröder – Ci hanno permesso di rimanere qui fino all’alba di venerdì, poi dovremo levare le ancore. La partenza non è frutto dell’interruzione dei negoziati, ma espressa volontà delle autorità cubane. Io e l’armatore rimarremo in contatto con tutte le organizzazioni ebraiche e con qualunque ufficio governativo che sia disposto a collaborare per addivenire a una soluzione favorevole per i passeggeri. Per il momento costeggeremo le coste degli Stati Uniti”.


Il
4 giugno gli Stati Uniti chiudono formalmente i propri porti al transatlantico:

“I rifugiati tedeschi sono in attesa del loro turno per accedere negli Stati Uniti”. – dichiara il Direttore della Sezione visti del Dipartimento di Stato –

“Del resto la quota di immigrati ammessi per quest’anno è già stata raggiunta”.

La S.Louis fa rotta per Miami.

La speranza nella patria della Libertà e della Democrazia alimenta le speranze dei passeggeri per cui una certa prospettiva di sblocco della situazione si fa largo nei loro cuori disperati.

Viene inviata una richiesta di aiuto direttamente al presidente Franklin D. Roosevelt, una richiesta che non avrà mai risposta. Se non una: Il Dipartimento di Stato invia un telegramma agli esuli: "I passeggeri dovranno iscriversi e aspettare il loro turno nella lista di attesa per ottenere il visto, solo allora potranno entrare negli Stati Uniti".

Ma è il presidente Roosevelt a dire la parola definitiva, a fronte della campagna di stampa del “New York Times”, degli appelli del capitano della Saint Louis, della disponibilità all’accoglienza del Governatore delle Isole Vergini degli Stati Uniti: ed è no!




Il 6 giugno la nave si lascia di poppa il porto di New York City e nella scia l’illusoria promessa della Statua della Libertà che affonda nella propria ipocrisia.

La storia della St.Louis fa il giro del mondo. Molti giornali cominciano a parlare di queste persone in fuga dal nazismo, ma solo pochi giornalisti statunitensi suggeriscono di accoglierli in America.

CANADA – OTTAWA

Anche Ottawa-Canada rifiutò di soccorrere la nave, e così altri paesi del Sudamerica.

La stampa internazionale diffonde la notizia della nave che non trova un modo per far sbarcare i passeggeri, ma non organizza una vera campagna mediatica a sostegno dei passeggeri. Sono pochi i giornalisti statunitensi che suggerirono di accoglierli in America.

Il 7 giugno 1939 il transatlantico tedesco St.Louis è costretto ad allontanarsi dalle coste del Nord America per tornare in Europa.

VERSO L’EUROPA

A comandante Schröder non resta che tornare in Europa, ma non in Germania. Decide di non consegnare la nave agli armatori senza garanzia per i suoi passeggeri. La nave arriva ad Anversa e i passeggeri sbarcano sperando nelle nazioni ospitanti: Belgio, Olanda, Gran Bretagna e Francia.  Ma la Germania nazista si prepara ad invadere l’Europa e l’epilogo sarà devastante anche per molti di quei passeggeri.

Il ritorno a casa - (Le statistiche dei profughi).

 

Dopo numerose peregrinazioni, il 17 giugno del 1939 la nave riesce a tornare ad Anversa: il Regno Unito accetta di accogliere 288 passeggeri, mentre i restanti rifugiano in Francia, Belgio e Paesi Bassi. Secondo Scott Miller e Sarah Ogilvie  (qui un estratto del libro):

“dei 620 passeggeri della St. Louis che tornarono nel continente Europeo, (…) 87 furono in grado di emigrare prima che la Germania iniziasse l’invasione dell’Europa occidentale il 10 maggio 1940. 254 passeggeri in Belgio, Francia e Paesi Bassi morirono dopo quella data durante l’Olocausto. Molte di queste persone furono assassinate ad Auschwitz e Sobibór; i restanti morirono in campi di internamento o nel tentativo di nascondersi o eludere i nazisti. 365 dei 620 passeggeri che ritornarono nel continente Europeo sopravvissero alla guerra”.

L’avventura della St. Louis ha ispirato racconti, libri e anche un film (Il viaggio dei dannati di Stuart Rosenberg, 1976).

L’odissea dei passeggeri della Saint Louis è un’ulteriore testimonianza che tutto il mondo sapeva cosa la Germania nazista stesse perpetrando nei confronti del popolo ebraico, così come oggi l’Europa è perfettamente a conoscenza dell’Olocausto dei migranti.

IL DESTINO DEI PASSEGGERI

 

Al capitano Gustav Schrö der, che dopo la guerra, fu insignito dell’Ordine al Merito della Germania e nel 1993 come Giusto fra le nazioni, non restò che tornare in Europa e prospettare l’avaria della nave o l’affondamento volontario della St. Louis lungo la costa dell’Inghilterra (ci sono due versioni), per costringere gli Inglesi, il Belgio, la Francia, l’Olanda ad accettare i profughi ebrei rimasti a bordo.

 

Utilizzando il tasso di sopravvivenza degli ebrei in diversi paesi, Gordon Thomas e Max Morgan-Witts, autori del libro Voyage of the Damned: A Shocking True Story of Hope, Betrayal, and Nazi Terror, stimarono che circa 180 passeggeri della St. Louis rifugiati in Francia, più 152 di quelli rifugiati in Belgio e 60 di quelli rifugiati nei Paesi Bassi sopravvissero all’Olocausto. Degli originali 936 rifugiati, stimarono un totale di circa 709 sopravvissuti e 227 uccisi. Successive ricerche da parte di Scott Miller e Sarah Ogilvie del United States Holocaust Memorial Museum danno un più preciso ed alto numero di deceduti, per un totale di 254 morti.

 

PERIODO BELLICO

 

1940/1944 - La St.LOUIS divenne “nave-alloggio” della marina tedesca.

30 agosto 1944 – Fu pesantemente danneggiata da un bombardamento alleato a Kiel.

 

DOPOGUERRA


1946 - Fu riparata e usata come nave-Hotel ad Amburgo.

1952 -La nave fu messa fuori servizio nel 1952.

Corsi e Ricorsi Storici - (G.B.V) …..

E’ stato scritto: “Perseguitati in patria, indesiderati all'estero. Ieri gli ebrei, oggi i cosiddetti migranti. Tre volte vittime: dell’odio in patria e contemporaneamente del rifiuto di accoglienza degli Stati, della indifferenza e dell’egoismo della maggioranza della gente, che sa e volge la testa dall’altra parte”.

 

ALBUM FOTOGRAFICO

DELLA ST. LOUIS E DEI SUOI PROFUGHI





La Saint Louis nel porto de L’Avana (fine maggio 1939)



La partenza della Saint Louis da Amburgo, il 13 maggio 1939: i profughi ebrei gioiscono nel lasciare la Germania


Due giovanissime profughe affacciate a un oblò della Saint Louis, nel porto de L’Avana (fine maggio 1939)




Il gruppo della famiglia Heilbrun a bordo della Saint Louis (maggio 1939)

 

ST. LOUIS

Dati nave:

Data varo: 2 Agosto 1928

Cantiere di Costruzione: Bremer Vulkan (Brema)

Armatore: HAPAG

Stazza lorda: 16.732 t.

Lunghezza: 174,90 mt

Larghezza:   22,10  mt

Pescaggio:     8,66 mt

Equipaggio:  670

Motore: 4 doppeltwirkende MAN-Sechszylinder-Zweittakt-Dieselmotoren

Potenza: 12.600 PSe

Eliche:   2

Velocità: 16,5 Kn

Trasporto Passeggeri: I.Klasse, 270 – II Klasse, 287 – Touristenklasse, 413

Bibliografia:

Fonti: I libri di riferimento sono citati nel testo

Immagini ed altri dati: Siti web Tedeschi-Inglesi-Italiani

 

Carlo GATTI

Rapallo, 1 Novembre 2021