I FILETTI DEL MONTANA

I FILETTI DEL MONTANA

Era un pomeriggio torrido d’estate.
-Giumìn- dissi- qualè stata la volta che te la sei vista più brutta, sul mare?-
-Certamente a Bandar Abbas, nel '79-
-E' stato durante una tempesta?-
Lui rise e negò col capo:
-No. Ero sulla terraferma, coi piedi ben piantati per terra!-

-Eh...?-
-Quando si naviga capitano i momenti brutti, ma te lo aspetti, perché il mare è forte e imprevedibile. E’ molto peggio subire quello che non dipende dal mare!-
-Cioè?-
-I dirigenti che ti mandano allo sbaraglio, per esempio!-

-Beh, non capisco lo stesso!-
-In una guerra civile, per esempio, o una rivoluzione!-
Mi venne in mente solo allora l'episodio, raccontatomi dalla figlia di Giumìn quando eravamo due giovani gazzelli. -Bandar Abbas...un momento... non è quel porto del Golfo Persico dove hanno portato a morire la Michelangelo?- -Certo, proprio lì!-
Tacqui, perché ricordavo l'episodio.
Sua figlia, nonché mia socia di maggioranza da 38 anni, mi aveva già raccontato quell'avventura:
-Lo sai che mio padre è stato con la Michelangelo ad Ambarabas, nel Golfo Persico?-
-Dove?- ribattei, maligno - Ambarabàs, Ciccìs, Coccòs... le tre civette sul comòs?-

“Scemo!” aveva ribattuto “per poco lui ci ha lasciato la pelle, laggiù, sai? Vergogna!”
Che figura da fesso! Dopo tanti anni me ne vergogno ancora.

Era sera d'estate, dunque, e Giumìn si faceva vento con una copia della “Settimana Enigmistica”. Sorseggiavamo una bibita, e dalle finestre entrava un'aria rovente.
-Che caldo...- dissi.

-Mai caldo come là. Nessun posto al mondo è caldo come il Golfo Persico!-
Giumìn era rimasto coinvolto in uno sporco affare.
La rivoluzione di Khomeini.


T/n MICHELANGELO – In partenza da Genova.

Viaggio Inaugurale

-Che bella nave era, la Michelangelo, la più bella di tutte! Peccato che sia stata costruita quando già tutto il mondo andava in America volando! La “Mike”! Sono stato Direttore di Macchina, lì. Quando arrivavamo a New York l'operatore del porto ci salutava così: “Hello, Mike!”-



-... ed è finita a morire a Bandar Abbas-
-Già. Era diventata una perdita economica enorme, una voragine! Pensa, oggi la gente farebbe a pugni per fare una crociera Vintage sulla Mike o sulla Raffaello, ma allora le crociere non erano di moda. Rheza Palhavi, lo Scià di Persia, le aveva pagate in petrodollari sonanti e aveva deciso di farne caserme-scuola per la sua Marina Militare. Le ha ancorate vicino alle basi, di fronte all'isola di Qeshm, nello stretto di Hormoz-
-E tu come sei finito lì?-
-Come ti dicevo, conoscevo la nave perché ero stato Direttore di macchina. La Direzione della Compagnia ha proposto a me e ad altri ufficiali una trasferta per istruire i persiani sulla condotta delle macchine. Naturalmente non hanno calcolato che ci mandavano allo sbaraglio!-

-Nel bel mezzo di una rivoluzione... -
-Hanno detto che non c'era alcun pericolo per noi. Invece gli americani della base lì vicina se l'erano già svignata e tutta la Persia eruttava fuoco e fiamme!-
-Ma, scusa, non ti eri informato prima di partire?-
-Chi si immaginava una situazione come quella, allora?

-Sicché sei andato all’avventura... - dissi con un po’ d’ironia.
Giumìn sembrò adombrarsi
-Certo, siamo partiti senza immaginare che ci cacciavamo in un ginepraio! Ho firmato un contratto di trasferta di tre mesi!-
-Scusa, Giumìn, scherzavo!-
-Appunto! Non c'è da scherzare. Pensa: una pianura di sabbia rossa, sabbia e baracche e poco altro.

La MICHELANGELO E LA RAFFAELLO nella rada di Bandar Abbas (IRAN)



In mezzo a quel nulla una base della Marina persiana, e la magnifica Michelangelo che cominciava a fare la ruggine. E una folla di persone che non ci volevano. Appena scesi a Bandar Abbas il mio amico Galleno, di Chiavari, mi ha detto: “Cosse g'han 'sti chì, Marcheise, da amiàne stortu?”

“Nu u so, Galèn...” ho risposto “a pa: na pignatta c'a bugge!”

La radio parlava di Rivoluzione Islamica-
-Che allora non si sapeva cosa fosse...-
-Già. L'abbiamo capito subito a nostre spese, però!-
Fece una smorfia e disse:
-“Bella Madonna ca-a...” mi ha detto Galleno “l'è mai puscibile che se parte in missile da e Indie u ne vegne propiu a picca: in te braghe a niatri?” Ebbene, andò proprio così!-
Certo, pensai: l'Occidente non aveva realizzato appieno le proporzioni della crisi, o forse aveva fatto finta di nulla. - Cercai di consolare Galleno - disse Giumìn- “Vedrai, quando saremo sistemati a bordo sarà diverso...”. Ci avevano detto che ci saremmo stati accolti dagli ufficiali della Marina persiana, e uno di loro in effetti ci aspettava in coperta, ma capimmo presto che Mustafà, coi suoi baffetti, contava tanto quanto il due di briscola!-
-In che senso, Giumìn?-
-Il nostro ruolo sulla Mike era soltanto di consulenti. Dovevamo in teoria controllare i sistemi della nave e insegnare a mantenerli in attività. In realtà...-
-In realtà vi siete trovati fra l'incudine e il martello...-
-Già. Anche tra gli ufficiali si respirava un'aria sinistra: hai presente la calma prima della tempesta?-
-Io non ho mai navigato, Giumìn, ma spesse volte ho conosciuto la calma prima dei temporali. C'è un'aria particolare, hai ragione!-
-Eh, vabbè...-
Mi fece capire garbatamente che un temporale non è proprio una tempesta...
-Così siamo saliti a parlare con Mustafà-
-L'ufficiale di coperta... -
-Già, il due di briscola. A pensarci oggi, credo fosse solo un poveraccio che cercava di barcamenarsi. Sembrava un don Abbondio coi baffetti, un vaso di coccio tra i vasi di ferro!- -Bella immagine, Giumìn!-
-Grazie. Non mi permetto di giudicarlo, né voglio dire che i suoi colleghi fossero pazzi, ma si sentiva che avevano contro di noi una rabbia atavica. Incomprensibile, soprattutto. Noi non gli avevamo fatto niente, anzi, eravamo lì solo per aiutarli, capisci?-
Credetti di capire il loro smarrimento, e annuii.
Avevo provata una sensazione simile a Sharm El Sheik, nel 2000, mentre leggevo un libro in spiaggia. Sulla copertina campeggiava la figura di un pugnale arabo. Un bagnante del luogo, in vacanza come me, mi aveva rivolto di colpo la parola: “Hey!” mi aveva detto. Gli avevo sorriso e lui... aveva fatto il gesto di estrarre un coltello e colpirmi.
“Un idiota!” avevo pensato, lì per lì, ma l'anno dopo, a settembre, avevo capito il senso del suo gesto.
-Tornando a Mustafà- proseguì Giumìn- ...insomma, pareva che facesse fatica a tenere buoni i suoi. A suo modo era un vero gentleman. Però era un gentleman secondo il costume arabo...-
-Cioè?-
-Diceva sempre di si, va bene, domani, e l'indomani eravamo punto a capo. Gli chiedevo: “Quando arrivano i rifornimenti per noi, Mustafà?” “Tumorru” diceva, e non arrivava un accidente di niente. “Quando arrivano?” chiedevo il giorno dopo “Suun comin, tumorru”-
-E non si arrivava niente!-
-Già, niente di niente. Cercavo di arrivare a un accordo e lui si profondeva in scuse. Spiegava che mancavano i camion, che mancava la gente, che il pesce era scappato via dal Golfo, eccetera. La conclusione era sempre la medesima!-
Ridacchiai:
-Già, l'immagino. “Tumorru”!-
-Certo. Ora, come Direttore di macchina era mio compito approvvigionare la mia gente, ma come avrei potuto, senza rifornimenti? Saremmo morti di fame: io, gli ufficiali e la bassa forza!-
-Mi rendo conto... bloccati lì, dentro a una nave in disarmo, circondati da una folla ostile e numerosa...-
-Per di più anche alcuni tra i miei hanno iniziato a mugugnare. Hai presente i sindacati degli anni '70?-

-Si, me li ricordo-
-Remavano contro, pretendevano, volevano scioperare. Non capivano che bastava incrinare appena il vetro per farci fare tutti a pezzi!-
-Contro il loro stesso interesse?-
-Già, non è incredibile? Facevano assemblea, contro il “Padrone”-
Sorrisi:
-Che eri tu?-
-Che ero io, capisci? Mi ci vedi?-
Giumin è l'uomo più mite che si possa immaginare, sempre pronto a comprendere e a mettere pace. Provai a figurarmelo circondato da cialtroni e fanatici. Si, pensai, doveva essere stata ben dura, per lui!
-Insomma, gli bolliva la “bujacca”, di qua e di là... bolliva la nostra e bolliva la loro. Tutto contribuiva a logorarmi i nervi! La Compagnia continuava ad assicurarci aiuto, protezione, bla bla... consigliava di fidarci degli ufficiali persiani!-
-Cioè di Mustafà!-
-Si, Mustafà!-
Fece una smorfia.
-Cos'hai fatto, allora?-
-E' successo un miracolo! Al culmine delle disgrazie sono arrivati Pasquariello e il pick up della base americana, che non si sa come era rimasto a nostra disposizione, e funzionava...-
-Chi era Pasquariello?-
-Pasquariello Carmine, da Torre del Greco, un genio. Fu la Madonna a suscitarlo, proprio quando non sapevo più dove sbattere la testa. Venne a trovarmi una sera, in cabina. “Comandante Marchese”, disse, “chisti ce vonno fammurì!

Chista è fame...” “E allora che cosa proponi?” ho detto io “Perché non andiamo a comprare al mercato?” ha detto lui, e io ho riposto “come si fa ad andare a comprare al mercato tipo massaie, in un casino come questo?” Eppure, in quei momenti qualcosa scatta. Quando ci hai pensato tanto arrivi a capire che pensare non serve a nulla. C'era naturalmente il pericolo che ci facessero fuori, ma la fame è una molla potente, sai?-
-Il ragionamento non fa una grinza!-
-Avevo il vantaggio dei dollari. Come responsabile degli uomini tenevo la cassa della Compagnia, per pagare i rifornimenti a Mustafà!-
Spalancai gli occhi, incredulo:
-Sei uscito fuori di lì coi dollari addosso?-
-Per forza. Con cosa potevo pagare? Avevo una cintura porta soldi coi soldi. Io, Pasquariello, e il Pick up. Lui comprava e io pagavo-
Sgranai gli occhi:
-Voi due soli?-
-Proprio così. Ma non fu merito mio. Fu l'abilità di Pasquariello a salvarci la vita. Cominciò a concionare coi venditori del mercato, pescatori, ortolani, macellai, pollaioli...-
-Ma come faceva? Parlava l'arabo?-
-Macché, parlava in napoletano! E quelli lo capivano, cioè, in qualche modo si capivano! Litigavano, contrattavano, tiravano sul prezzo e alla fine è avvenuto il miracolo!-
- Cioè?-
-Lo stimarono!-
-Per i dollari?-
-Mah, anche! Credo però che non fosse solo per quello. Gli arabi hanno un talento commerciale, lo sai...-

-Già-
-Hanno riconosciuto il talento del commerciante! Ti ho sempre detto che i napoletani sono un grande popolo, che si mette in moto nei momenti di necessità...-
Giumìn stimava molto le doti partenopee. “Grandi doti e gran difetti”, diceva.
-Dopo tre o quattro giorni abbozzava a capirsi sui prezzi, e dopo dieci rispondeva pure in arabo. Io l’aspettavo chiuso nella Jeep e pregavo che riuscissimo a portare al cuoco abbastanza da mangiare per tutti!-
-E ci siete riusciti!-
-Foscia!... dopo una settimana venivano ad aspettarci fuori dalla nave con le mercanzie. Quanto pesce, e buono! Alla fine arrivava di tutto, pane, uova, carne di montone e d'agnello!-
Sgranai gli occhi.
-Alla fine quasi mi divertivo. “Quasi”, bada! La sera io facevo la lista della spesa dell’indomani, poi me la mettevo nel taschino della giubba e salivo sul ponte a parlare a Mustafà. Gli chiedevo i viveri per l'indomani, e lui
diceva ...-
-“Tumorru”, credo...-
-Già, tumorru, suun, gias coming..., e iniziava la discussione che durava circa mezz'ora. Alla fine mi chiedeva le palanche dei rifornimenti, e ricominciava la discussione. Altra mezz’ora. Lui mi chiedeva di nuovo i soldi, e io...-
Scoppiai a ridere:
-E tu gli rispondevi ... tumorru, suun, jast comin ...-
Annuì ridendo:
-Si. L'indomani andavamo al mercato e tornavamo coi rifornimenti freschi. Messi a posto gli stomaci, tutto si calmò. Gli ufficiali iraniani si massaggiavano la pancia nel sentire il profumo della cucina e ci chiedevano qualche piatto!-
-Ma Mustafà non ci faceva la figura del fesso?-

-Vai a capire! Si instaurò un quieto vivere tipicamente arabo. Mustafà sapeva che io sapevo, e io sapevo che lui sapeva. Discutevamo seriamente ogni sera e ogni mattina, io gli chiedevo i rifornimenti e lui mi chiedeva i soldi!- -Voleva il pizzo?-

-Macché, era miliardario di famiglia! Era una pura questione di forma. Quando usciva faceva sempre in modo che qualcuno dei suoi sentisse che mi chiedeva i soldi. Diventò una specie di canzonetta. I miei lo chiamavano “U Tumorru”. “Cosse u t'ha ditu staseia u Tumorru?”- mi chiedeva Galleno. “Taxi, c'u te sente!” gli rispondevo io “Figurite se u capisce u zeneize?”-
-E tu?-
-Io gli davo la risposta più logica: “Manimàn u ghe l'ha imparou u Pasquarìn!”-
Finalmente Giumin rise davvero:
-Ti sei divertito, in buona fine!-
-Macché! A questo punto ci si sono messi quei “macacchi” che c'erano tra di noi, a farmi tribolare!-
-I sindacalisti?-
-Già. Alcuni erano vere carogne e sobillavano gli altri col loro atteggiamento. Ma io ormai mi ero scafato-
-Cos'hai combinato, Giumìn?-
-All'ennesima assemblea, quando hanno minacciato di andarsene, invece di mettere pace come al solito...-
-...li hai mandati a quel paese!-
-Macché! Li ho invitati a partire... ho che nessuno li avrebbe trattenuti. Così hanno fatto marcia indietro, e si sono messi la lingua in tasca!-
Giumìn, vero gentleman, non avrebbe mai detto dove si erano messi davvero la lingua...
-Il peggiore di tutti, un tuo conterraneo di Sestri, l'ho anche incontrato dal barbiere, pochi mesi fa. Vecchio io, vecchio lui. Pontificava con le mani in tasca, sbruffone come allora. Mi ha riconosciuto e se l'è squagliata. Aveva paura che raccontassi al barbiere la brutta figura che ha fatto! Se ne ricorda ancora!-
Era tutto contento che quel macacco se ne ricordasse ancora!
Il che mi fece piacere, e mi fece sperare con tutto il cuore che non considerasse anche me un macacco per averlo trapiantato a Sestri ponente, paese di ferri arrugginiti, dalla sua amata Pra, terra di basilico
-Galleno gli aggiunse pure un insulto, tanto preciso che non te lo posso ripetere. Comunque finalmente arrivammo al termine del nostro turno. Avevo perso dieci chili, ero magro e smilzo come quando è finita la guerra, nel '45. Quando l'aereo è decollato, ti giuro, ho visto tutti farsi un segno della Croce. Tutti quanti. Anche i comunisti, di nascosto!- -Che avventura!- ho detto.
-Ah!- ha aggiunto poi- Non ti ho ancora raccontato il meglio! I “filetti del Montana”!-
-Filetti del Montana? In mezzo al deserto?-
-La base americana aveva dei rifornimenti che i marines non avevano fatto in tempo ad evacuare, e le celle frigorifere si stavano scaricando. Una sera è salito a parlarmi Pasquariello: “Comandante Marchese” ha detto “alla base ci sta un mucchio di carne che tra poco va a male. Potremmo portarla qui...” “Qui? E’ imposs...?” Mi sono fermato subito, però, sia perché ci aveva salvato la vita, sia perché da quella bocca non potevano uscire che lampi di genio. “Spiegati!” gli ho detto “Comandante, gli arabi non mangiano quella carne perché è macellata nel sangue!” “E quindi, a noi cosa c’importa... Pasquariello?” gli ho detto. “E’ di prima qualità” ha detto lui “un bendidio, comandante!” E io: “Quanta ce n'è?” “Una, due...” “Due quintali? “No, ehm...” ha detto “tonnellate... forse quattro!” “Quattro tonn...!” “Ehm, comandante, che vi devo dire? Quando la carne è in padella non si capisce più com'è stata macellata” “E allora?”ho detto “Ecco, ci sta a Hormoz 'nu paesano che tiene il ristorante e l'albergo. Se si porta via i filetti tutti assieme dà nell'occhio, ma se li viene a prendere qui poco a poco... comandà, se le celle si spengono tutto quel bendidio va a male. Le nostre funzionano ancora bene...” -

-Ah, ho capito! S’era messo d’accordo con paesano!-
-Sai cosa ho fatto? Mi sono tolto il berretto con la visiera e mi sono grattato la testa!-
-Ti prudeva la testa? -
-No. Non volevo fargli capire che mi levavo tanto di cappello!-
Ho annuito, d’accordo con lui.
-Comunque ci sbafammo un mucchio di carne del Montana e io recuperai una parte del peso che avevo perso. Ne portammo anche a quelli della Raffaello, che stavano peggio di noi. In più quel bravo ragazzo di Pasquariello ci portò, per riconoscenza del suo paesano di Hormoz, un po' di “formaggio!”-
Stetti a lungo con gli occhi spalancati, poi compresi: -Formaggio? Ah, ho capito!-
-“Formaggio”, si. Così la storia ebbe un lieto fine, ti pare?- -Beh, mi pare proprio di si- -Soprattutto tornammo a casa salvi!-
-Aveste dei fastidi durante il viaggio di ritorno? Se non erro i diplomatici dell'ambasciata americana sono stati sequestrati in quel periodo...-
-No, per fortuna non è successo niente. Solo durante il trasferimento all’aeroporto abbiamo assistito a una cosa orribile! La lapidazione di una donna! Sentivamo le urla di terrore della donna e il ringhio della folla inferocita. Sembravano gli ebrei che gridano “Barabba”! Quando penso alla Passione di Gesù risento sempre l'urlo di quella folla, e le implorazioni della sventurata...-
Giumìn abbassò la testa sul collo e ci pensò su, poi la rialzò di scatto e i suoi occhi presero un'espressione intensa:
-La folla è bestiale, caro mio... sembrava di stare in un girone dell'inferno, coi diavoli che ballano la giga. Poi il nostro autobus è stato preso a sassate, e io mi sono sentito un verme-
-Un verme? E perché?-
-Perché pregavo che non finissimo come quella donna...- -Già!-
-Per fortuna però siamo ripartiti, e quella banda di folli è sparita alla nostra vista. Fin quando l'apparecchio non ha staccato le ruote da terra, però, te lo giuro, nel mio didietro non ci sarebbe passato neanche un filo di ragnatela!- Sospirò, e io sospirai con lui.
-Beviamoci sopra, Giumìn, è passata!-
La sera d'estate era scesa, magica, e si era levato un vento fresco.

Fine.

CARLO LUCARDI

Rapallo, 9 Ducembre 2019


QUALI SONO LE NAVI PIU’ IMPEGNATIVE DA MANOVRARE? 2a parte

 

QUALI SONO LE NAVI PIU’ IMPEGNATIVE DA MANOVRARE?

2^ parte

di John GATTI


Nell’articolo precedente abbiamo parlato delle navi di piccole dimensioni senza bow thruster.

Proseguiamo:

  • Petroliere di misure medio-grandi con pescaggi rilevanti.

Per associazione di idee penso alla “calma”, allo “slow motion”, mi viene in mente un elefante che cammina lento ma inesorabile.
Per gestire bene queste manovre, l’impostazione è la cosa più importante.

Le forze che si utilizzano sono notevoli e i mutamenti dinamici che provocano non sono immediati e tendono a durare nel tempo.
In altre parole, se utilizziamo un
rimorchiatore a tutta forza per fare accostare la poppa, impiegherà tempo a far partire il movimento e altro tempo, eventualmente, per arrestarlo. Sembrano considerazioni banali, eppure quasi tutta la difficoltà sta nel preciso controllo delle forze in gioco e nella percezione dei movimenti inerziali innescati:

  • conoscere la potenza necessaria e per quanto tempo utilizzarla;
  • dove impiegarla;
  • quando cominciare a contrastare il movimento che si è creato.

Le dimensioni, il rischio di inquinamento e i potenziali danni che potrebbe provocare una nave con una massa così importante urtando una banchina, le fa entrare di diritto tra le manovre più delicate.

A questo proposito mi viene in mente una situazione particolare in cui mi sono trovato tanti anni fa…


Petroliera in manovra.

“Ero al comando di una petroliera da 52.000 di GT, e dovevamo caricare da una nave ferma all’ancora in Indonesia (transhipment).

Prima di continuare il racconto devo aggiungere qualche informazione:

– Conoscevo molto bene la nave perché ne avevo seguito l’allestimento in fase di costruzione e c’ero stato imbarcato da primo ufficiale per due volte;

– eravamo partiti dall’Italia scarichi e mi ero trovato a manovrare in spazi ristretti in arrivo a Port Said;

– oltre che durante il transito nel Canale di Suez;

– nello Stretto della Malacca;

– a Singapore dove avevamo fatto bunker e in arrivo in Indonesia.

Cominciamo da qui.

L’attraversamento dello schema di separazione del traffico tra Singapore e Pulau Sambu (Indonesia) non era dei più semplici: il fatto di dover partire da fermi per entrare in una corsia molto trafficata e, successivamente, dover effettuare un’inversione a “u” per immettersi nella corsia giusta, obbligava a manovre ben studiate. La difficoltà successiva era data da due isolotti: bisognava uscire perpendicolari allo schema di separazione, passare in mezzo ai due isolotti, fermarsi alla giusta distanza dalla storage tanker ship ancorata poco distante da terra, dare fondo e aspettare il pilota per l’ormeggio. Tante manovre concentrate in poco tempo… ma la nave era scarica.

Restammo due giorni affiancati alla storage tank, due giorni molto impegnativi perché, al di là delle operazioni commerciali, avevamo dovuto risolvere diversi problemi tecnici. Risultato: quarantott’ore senza chiudere occhio.

Per il disormeggio non era previsto il pilota. Dovevamo staccarci dalla nave e andare poco lontano a dare fondo in attesa dei documenti del carico.

Nel frattempo un’altra petroliera aveva raggiunto la zona di fonda e c’erano sempre i due isolotti…

La manovra di disormeggio non presentò particolari difficoltà, ma la stanchezza mi fece abbassare la guardia e non mi resi conto che, rispetto a due giorni prima, la situazione era completamente cambiata: in quel momento, sottraendo il peso della zavorra, avevamo circa 50.000 tonnellate in più a bordo!

Accostai tutto a sinistra convinto di schivare agevolmente la nave all’ancora, ma la risposta al timone fu “pachidermica”. Quando mi resi conto che a nave carica la curva di evoluzione sarebbe stata molto più ampia, sentii il cuore aumentare il ritmo e la forza. Sul Ponte di Comando tutti gli occhi erano puntati su di me ma, a dispetto di quello che provavo, restai impassibile. Aumentai la macchina fino ad Avanti Mezza. Ci volle ancora qualche minuto per capire che l’incremento di potenza aveva dato i suoi frutti restringendo il cerchio di evoluzione. Passammo, vicini, ma passammo.


Allibo. Immagine tratta da marineinsight.com.

Il mare è grande, ma può diventare piccolo come un bicchiere d’acqua.

Una frase che trovo molto appropriata per la situazione che avevo appena vissuto.

Può sembrare un racconto banale a cui ho dato troppo peso, ma vi assicuro che quel giorno ho imparato una lezione importante: pianifica sempre le manovre e non sottovalutare le situazioni, neanche quelle apparentemente più semplici.

Mi vengono in mente un altro paio di occasioni in cui sono caduto nella trappola della sottovalutazione, ma le racconterò in un’altra occasione.

A chi non lo avesse già visto, consiglio di cliccare qui per approfondire l’argomento seguendo una manovra con gli occhi e le osservazioni del pilota.

  • Portacontenitori, Ro-Ro e portamacchine tra i duecento e i quattrocento metri.

Le dimensioni e i pescaggi, per alcune di esse, sono gli stessi delle petroliere di cui sopra. Cambiano la potenza dei propulsori, la presenza delle eliche di manovra, la superficie velica e la tipologia di carico.

In effetti la dinamicità della manovra, rispetto alle navi cisterna, è completamente differente. Devo generalizzare, altrimenti non basterebbe un libro… Sappiamo, infatti, che ogni manovra è diversa dall’altra, che il pescaggio, l’assetto, il vento, la corrente, la potenza della macchina indietro rispetto all’avanti, ecc., sono solo alcuni dei parametri che cambiano, a volte radicalmente, le carte sul tavolo. Però, se vogliamo restare allineati all’esempio precedente, qui, invece che allo “slow motion” e agli elefanti, mi viene da pensare alla guida di una macchina potente su di un fondo sdradale scivoloso. Le risposte della macchina, del timone e dei thrusters, come pure quella dei rimorchiatori, sono apprezzabili in tempi brevi, rendendo la manovra piuttosto dinamica. Questo è dovuto al rapporto favorevole tra peso e potenza disponibile ed alle forme degli scafi. In queste manovre le difficoltà maggiori sono date, generalmente, dagli scarsi spazi disponibili unite a condizioni meteomarine negative. I container in coperta o la forma a parallelepipedo delle portamacchine, le rendono particolarmente sensibili al vento e, a seconda dei pescaggi, sono spesso anche condizionate da eventuali correnti.

Manovre impegnative? Direi che nella scala valutativa potrei posizionarla su di un valore medio, ma pronto a crescere con l’aumentare delle dimensioni e in presenza di vento.

Anche per questa tipologia di nave vi consiglio la visione dei video che abbiamo preparato qui.

L’articolo continua con la valutazione, dal punto di vista manovriero, di altre navi. A presto.



 

Rapallo, 29 Dicembre 2019


 

 


 


ANCHE NOI PARLIAMO DI ORCHE ...

ANCHE NOI PARLIAMO DI ORCHE ...

Non siamo degli esperti, ma credo che neppure tutto ciò che si sente e si legge su questi cetacei provenga da gente illuminata…

Tuttavia, tra breve, prendo in prestito da FOCUS che ringrazio, 10 punti che mi sembra gettino non solo un po’ di luce sulla misteriosa apparizione di quattro orche fuori del porto di Voltri-Pra, ma ci aiutano a capirne di più su questi mammiferi dalla pessima fama  del tutto gratuita … Ricordate il film “L’ORCA ASSASSINA”?

Di recente una scienziata ha dichiarato che non risulta da alcuna statistica al mondo che un’orca abbia attaccato un essere umano.

L’orca è un affascinante mammifero marino, appartiene alla stessa famiglia dei delfini (Delfinidi, Cetacei Odontoceti) e non è un pesce! L’orca è un cetaceo.

I cetacei sono un infraordine di mammiferi marini che presentano un corpo fusiforme simile a quello dei pesci, il corpo assicura un’ottima idrodinamicità. Tuttavia, i cetacei non hanno le branchie ma sono dotati di respirazione polmonare, per questo emergono spesso dall’acqua per poter incamerare ossigeno. I cetacei sono i delfini, le balene, le orche e il beluga.

Come tutti i mammiferi, anche l’orca partorisce. La “gravidanza” dell’orca dura molto tempo! Dopo circa un anno e mezzo di gestazione, la femmina partorisce un solo piccolo. Il parto avviene nelle acque basse. Dopo il parto, questo incredibile mammifero marino porta subito il piccolo nato dai suoi “parenti”. Già, le orche vivono in gruppo creando delle vere e proprie comunità.

L’orca è un mammifero dall’indubbia intelligenza, tanto da attuare dei veri e proprio comportamenti sociali. Ogni comunità di orche sviluppa dei particolari versi di comunicazione e anche le cure parentali sono peculiari. Non sempre il “papà” riesce a distinguere il suo piccolo, quindi i maschi finiscono per prendersi cura di tutti i piccoli del loro gruppo così come se fossero loro figli.

Ogni femmina affronta un intervallo tra un parto e l’altro, tale pausa varia dai 3 agli 8 anni. Il motivo di questo lungo intervallo? L’orca ha bisogno di tempo perché le cure parentali sono prolungate.

La femmina raggiunge la maturità sessuale a 10 anni, il maschio deve aspettare i 16 anni per potersi riprodurre.

I figli delle orche restano nel loro gruppo di appartenenza fin all’età adulta, a questo punto le madri si assicurano di avere una discendenza aiutando i propri figli a cercare un partner per la riproduzione.

Cosa mangiano?

Le orche sono mammiferi fortemente sociali. La caccia si svolge in gruppo e le prede dipendono dall’habitat che colonizzano. Alcune comunità si nutrono principalmente di pesci, altre orche, invece, si nutrono soprattutto di mammiferi marini come foche, leoni marini o addirittura balene.

La preda più sorprendente è lo squalo. Le orche si nutrono di diverse specie di squalo, tra queste figura anche lo squalo bianco. Per molto tempo lo squalo bianco è stato ritenuto il superpredatore degli oceani, tuttavia, delle recenti osservazioni hanno evidenziato le fragilità di tale predatore.

Anche se lo squalo bianco ha una forza e dei sensi incredibilmente sviluppati, le orche, agendo in branco, riescono ad avere il sopravvento.


1. Socievolezza
Le orche sono animali estremamente socievoli. Si muovono in branchi (detti pod) anche di 40 esemplari. E cooperano nella ricerca del cibo.

2. Dialetto orchese
Usano sofisticati sistemi di comunicazione, sembra addirittura che branchi diversi utilizzino il proprio "dialetto".

3. Misure
Le orche possono arrivare a pesare fino a 8/10 tonnellate. I maschi arrivano anche ai 10 metri di lunghezza. E i cuccioli? Misurano anche 2,5 metri.

4. Aspettative di vita
Un'orca può vivere fino a 80 anni (la media è comunque sui 50 anni). Ma in cattività i tempi si riducono drasticamente a 30 anni.

5. Intelligenza emotiva
Le orche possiedono una parte del cervello che gli esseri umani non possiedono. Secondo gli scienziati, questa parte riguarderebbe l'emozioni e la consapevolezza.

6. Pinna stanca
I maschi di orca sono dotati di una pinna dorsale che nell'1% dei casi può collassare. Secondo i ricercatori questo accade in seguito a combattimenti con altre orche, o a causa della vecchiaia e dello stress. Il film Blackfish asserisce che il 100% dei maschi di orca in cattività presentano questo difetto.

7. Mamma orca
La gravidanza delle orche dura 17 mesi. E nascono cuccioli in un periodo compreso tra i 3 e i 10 anni.

8. Nomi e soprannomi
L'orca è conosciuta (soprattutto nel mondo anglosassone) come balena assassina. Orca viene invece dal latino "orcinus", aggettivo che sta per "appartenente al regno dei morti". Un'altra ipotesi è che derivi dal latino "orca", cioè barile per la forma del corpo.

9. Specie
Il biologo canadese Michael Bigg negli anni 70 avrebbe foto-identificato 10 tipi di orca, diversi tra loro per forma della pinna dorsale, e per le dimensioni.

10. Dentoni
L'orca ha denti lunghi 10 cm che le servono per nutrirsi di foche, leoni e tartarughe marine e persino balene. Alcuni esemplari come il maschio dell'orca di Patagonia sono particolarmente temerari e si spingono fin sulla spiaggia, rischiando di arenarsi, per catturare le otarie che poi offriranno in pasto ai cuccioli che li aspettano al largo (vedi video in basso).

John Gatti, Pilota del porto di Genova é l'autore delle tre foto che seguono.



L'evento eccezionale non si verificava dal 1985 quando, esemplari della stessa specie, furono avvistati a Sanremo e Finale Ligure.

Il 23 maggio del 2015 ho pubblicato sul sito di Mare Nostrum Rapallo una ricerca sul SANTUARIO DEI CETACEI da cui ne riporto alcuni stralci che potrebbero spiegare la presenza delle orche a ponente di Genova.


Il Settore viola della carta sopra riportata mostra IL SANTUARIO DEI CETACEI nel Mar Mediterraneo che bagna le coste della Toscana, Liguria, Provenza e Corsica.


Il 9 maggio partecipai al convegno AMA IL TUO MARE, vedi locandina. Nella sua introduzione, il relatore dott. Guido Gnone ci spiegò che il Torrente Polcevera (tra Ge-Sampierdarena e Ge-Sestri Ponente) segna il confine tra le due Riviere della Liguria, almeno per quanto riguarda il Santuario dei Cetacei.

A Levante la piattaforma continentale, che comprende metà Liguria e buona parte della Toscana (Fosso Chiarone), é ampia e degrada lentamente verso il mare aperto. In questo habitat sabbioso si sono adattati i delfini Tursiopi che sono presenti in gran numero e si possono ritenere stanziali.

A Ponente del Polcevera, la piattaforma continentale é molto stretta e precipita subito verso fondali che raggiungono e superano talvolta i 2.000 metri. Questo habitat, caratterizzato da fiordi abissali, costituisce il polo d’attrazione per molti mammiferi marini che dispongono di grande capacità polmonare e sono adatti alla caccia in apnea.

Una serie di fattori caratterizzano l’area del SANTUARIO DEI CETACEI:

- l’azione dei venti di maestrale e di tramontana

- del gioco delle correnti

- la condizione di omeotermia invernale consentono il rimescolamento delle acque e la conseguente risalita in superficie dei sali nutritivi, che in altri mari rimangono in gran parte confinati nelle acque profonde.

L'apporto di tali sostanze permette lo sviluppo del fitoplancton, che si trova alla base della rete alimentare e costituisce il nutrimento dello zooplancton, a sua volta preda di pesci, cefalopodi e mammiferi marini. Il gamberetto Eufasiaceo Meganyctiphanes norvegica, infatti è l'alimento principale della Balenottera comune (Balaenoptera physalus), la quale, insieme ad altre sei specie di cetacei, frequenta regolarmente le acque del Mar Ligure.

L'abbondanza di nutrimento fa sì che, nell'ambito del Mar Mediterraneo, le acque alto-tirreniche rappresentino una delle aree a maggior concentrazione di cetacei. Ognuna delle specie presenti è caratterizzata da un habitat preferenziale, strettamente correlato alla profondità del fondale; possiamo così distinguere specie costiere, di scarpata, pelagiche. Tuttavia, non esistendo in mare confini precisi, i mammiferi marini possono spostarsi liberamente ed essere talvolta avvistati in zone inusuali.

In altre parole si può dire che le particolari caratteristiche chimico-fisiche indotte dalla morfologia e dalla circolazione delle acque, rendono il tratto di mare tra Sardegna, Toscana, Liguria, Principato di Monaco e Francia una delle zone più ricche di vita del Mediterraneo.

Si tratta di un’altissima concentrazione di mammiferi marini che sono rappresentati da dodici specie : la balenottera comune (Balaenoptera physalus) il secondo animale più grande al mondo (secondo solo alla balenottera azzurra), il capodoglio (Physerter macrocephalus), il delfino comune (Delphinus delphis), il tursiope (Tursiops truncatus), la stenella striata (Stenella coeruleoalba) , il globicefalo (Globicephalua melas), il grampo (Grampus griseus), lo zifio (Ziphius cavirostris). Più rari, la balenottera minore (Balaenoptera acutorostrata), lo steno (Steno bredanensis), l’orca (Orcinus Orca) e la pseudorca (Pseudorca crassidens).

Ci sono voluti dieci lunghi anni, ci spiegarono nel 2015, affinché si giungesse alla creazione del Santuario Internazionale dei Cetacei del Mediterraneo. Sono stati anni di lavoro e impegno per molte persone che hanno creduto in un progetto e insieme sono riuscite a realizzarlo.

Nel 1992 venne effettuato un censimento sulla superficie di quello che sarebbe divenuto il Santuario dei cetacei da parte dell'Istituto Tethys, da Greenpeace e dall'Università di Barcellona , che consentì la stima numerica delle stenelle (32.800 esemplari) e delle balenottere comuni (830 esemplari) presenti nella zona nel periodo estivo.

Da quanto riportato sopra (ricerca che feci nel maggio 2015) non appare così strano che quattro orche possano essere arrivate nelle acque dell’Alto Tirreno attratte, non solo da circa 800 balenottere stanziali, ma anche da quel cibo prediletto da tutti i cetacei che si trova negli alti fondali del ponente ligure e che é stato spiegato molto efficacemente dal dott. Guido Gnone, coordinatore della ricerca-scientifica dell'Acquario di Genova, responsabile del progetto di ricerca Delfini Metropolitani.

Questo particolare, a mio avviso tutt’altro che insignificante, spiegherebbe anche la circostanza per cui le quattro orche, in questi 18 giorni, non siano mai state avvistate a levante del Porto di Voltri-Prà.

 

CARLO GATTI

Rapallo, Martedì 17 Dicembre 2019


GENOVA CITTA’ DEI PAPPAGALLI…


GENOVA CITTA’ DEI PAPPAGALLI…

Robinson Crusoe è un romanzo di Daniel Defoe pubblicato nel 1719 con il titolo originale The Life and Strange Surprising Adventures of Robinson Crusoe e considerato il capostipite del moderno romanzo di avventura e, da alcuni critici letterari, del romanzo moderno in generale. Tutti noi futuri uomini di mare ci siamo abbeverati a quella fonte, ma non solo noi ovviamente… Tuttavia, in noi quel romanzo ha lasciato delle tracce che ogni tanto affiorano, come oggi …

Il romanzo racconta le fantastiche avventure del ragazzo di nome Robinson Kreutznauer, figlio di un mercante tedesco trasferitosi a York, chiamato da tutti Crusoe, che, desideroso di avventure fra i sette mari, si imbarca su una nave all' età di 19 anni. La nave naufraga, ma Robinson non si scoraggia.

Purtroppo viene catturato durante un altro viaggio da pirati di Salè e rimane prigioniero per alcuni mesi. Fortunatamente Robinson riesce a fuggire e si ritrova in Brasile, dove allestisce diverse piantagioni.

La sfortuna non abbandona Crusoe; durante un nuovo viaggio intrapreso allo scopo di acquistare schiavi, la nave su cui viaggia affonda al largo del Venezuela, presso la foce del fiume Orinoco e il giovane si ritrova ad essere l'unico sopravvissuto di tutto l'equipaggio. Crusoe, dopo un momento di smarrimento, esplora l'isola e pian piano la colonizza tutta. Vi rimarrà ventotto anni, solo, senza compagnia, ma si adatta con facilità alla nuova vita e cattura per compagnia un pappagallo parlante. Durante la permanenza su quest'isola scrive un diario in cui racconta le sue esperienze e avventure. In seguito scopre la presenza di alcuni cannibali, li attacca e ne libera uno che tiene con sé, a cui dà il nome "Venerdì", insegna la Lingua inglese e che converte alla fede cristiana attraverso la lettura della Bibbia.

Dopo tante peripezie torna in Inghilterra dopo un'assenza di 35 anni, scopre di possedere 600.000 sterline grazie alla rendita della piantagione brasiliana, divenuta nel frattempo fiorente, e per poco non muore di sorpresa. In seguito, richiamato da una sorta di nostalgia, vende la sua piantagione redditizia e si trasferisce sull'isola dove era naufragato, di cui assume il ruolo di governatore.

La vera storia dei pappagalli e dei pirati

Il cliché che vuole i corsari accompagnati dai simpatici uccellini è, anche se non ci crede nessuno, del tutto vera. Erano ottimi compagni di viaggio.



“perchè un tempo i pirati portavano un pappagallo sulla spalla?”.


“Da sempre l’iconografia riguardante i pirati li rappresenta con un pappagallo colorato sulla spalla: come mai proprio quest’animale?! Alla nostra domanda ci viene spiegato: Innanzitutto si dice che i pappagalli affascinassero i pirati per il loro piumaggio dai mille colori; inoltre, come si sa, questi animali parlano e sono molto dotati nel fare le imitazioni. Questo apportava un po’ d’animazione nei lunghi viaggi che i pirati dovevano compiere alla ricerca di navi da predare. I pappagalli, poi, si dice che potessero predire i cambiamenti metereologici: se si lisciavano le piume, era segno di temporale in arrivo, mentre se parlavano senza cessa e si agitavano di notte, era segno di tempo incerto e perturbato”.

La gamba di legno, l’uncino, le bandane, barbe, la benda sull’occhio. Sono alcuni dei tratti tipici del pirata caraibico che imperversava nei mari delle Antille tra seicento e settecento, senza dimenticare il più importante di tutti: il pappagallo, come animale di compagnia.

Tra tutti gli stereotipi del filibustiere, questo è – incredibile a dirsi– del tutto vero. Personaggi come Long John Silver, nato dalla penna di Robert Louis Stevenson, avevano un pappagallo con sé. Sulla spalla, in gabbietta. Non si trattava di una geniale invenzione letteraria: nell’età d’oro della pirateria c’erano davvero, e accompagnavano i pirati - e/o corsari - e/o filibustieri a seconda dei casi nelle lunghe traversate sul mare. Da un’isola all’altra, da un veliero all’altro, le giornate passate navigando erano tante e molto noiose.

E allora, un compagno simpatico, che non chiedeva troppo cibo, che non necessitava di spazio, sgargiante e divertente era proprio il benvenuto. Il pappagallo, così, si prestava alla perfezione a questo compito.

E in più, se ci si stufava anche dei pappagalli, li si poteva rivendere. Erano apprezzati per il colore e per la voce, perciò avevano un buon mercato. Sbarcando in un porto qualsiasi, purché non si venisse riconosciuti dalla polizia e messi in galera, non era difficile piazzarli a qualcuno. Certo, poi la bestiola avrebbe ripetuto le bestemmie dei pirati, ma forse anche questo era parte del divertimento.

All’epoca, i pappagalli più richiesti provenivano dai dintorni di Vera Cruz, una regione della costa messicana. E anche oggi, fanno notare gli studiosi, la zona è un centro per il traffico clandestino di pappagalli. Perché i pirati non ci sono più, ma le tradizioni, anche quelle peggiori, restano.

Abbiamo ricreato un po’ di atmosfera per introdurre un argomento d’attualità che interessa Genova, il nostro capoluogo che, non a caso, é terra di naviganti e avventurieri da sempre.

 


Parrocchetti dal collare

La prima coppia di pappagalli era arrivata negli anni Settanta e aveva messo su famiglia a villa Gruber. Si trattava di due parrocchetti dal collare, che hanno dato origine al "quartiere" dei papagalli: oggi sono centinaia, stanno sugli alberi di alto fusto e tendono a dormire in gruppo. Si possono osservare anche nei giardini del centro: "Sono molto diffusi a Levante e in centro, occupano il 28% del reticolo urbano e sono in continua espansione", spiega Aldo Verner veterinario della Lipu ed esperto di fauna selvatica. Sono verdi con il collare nero e di medie dimensioni, (tra i 38 e i 42 centimetri) si riconoscono per la coda lunga, le ali arrotondate e il volo molto rumoroso: "E' soprattutto interessante notare come i parrocchetti dal collare siano riusciti a passare l'inverno e a riprodursi" - aggiunge Vernier.

Amazzone fronte azzurra

Capita di frequente di vederli volare tra gli alberi dei parchi e anche in pieno centro, e infatti Genova viene definita la città dei pappagalli. In particolare, è presente una specie esotica proveniente dalla giungla amazzonica. Si tratta dell’amazzone fronte blu, un uccello che può vivere fino a 70 anni, dalla voce altissima e che in diverse decine ha nidificato all’ombra della Lanterna. La presenza degli amazzoni fronte azzurraosserva Verner – è straordinaria perché sono animali della giungla amazzonica ed è abbastanza strano che riescano a sopravvivere d’inverno. Nidificano nei buchi dei muri e degli alberi e sono presenti nella zona di piazza Corvetto, a Castelletto e in corso Firenze.


Parrocchetto Monaco


Già negli anni ’70 questi pennuti dalla parlantina facile erano presenti ma, spiega ancora Aldo Verner della Lipu di Genova, “sono in aumento, grazie soprattutto alla grande adattabilità di questi animali. Inoltre, se le altre specie presenti, come il parrocchetto monaco (diverse centinaia), popolano anche altre città d’Europa, tra cui Londra.

“Solo a Genova – spiega Enrico Borgo, esperto del museo di Storia naturale ‘Doria’ – troviamo l’amazzone fronte blu in diverse decine di esemplari. Un fenomeno raro, la cui origine è da attribuirsi alla proliferazione dei pappagalli importati sfuggiti alla cattività. La verità è che, mentre il loro numero cresce progressivamente, i pappagalli si stanno espandendo in territori dove prima non si erano mai spinti e questo può diventare un problema.

 

Sono tanti, si stima tra i cinque e i seicento in città, un numero triplicato rispetto a soli pochi anni fa. E proprio ora che se ne avverte meno la presenza nei quartieri dove è iniziato il loro insediamento, i grandi pappagalli verdi - i parrocchetti dal collare e i più rari e pregiati esemplari di amazzone dalla fronte blu (che si trovano allo stato libero, così numerosi, solo a Genova) - minacciano di diventare un pericolo.

Verner è il primo a disegnare un quadro inquietante in cui gli stormi verdi si stanno spingendo - dai luoghi di nidificazione ormai consolidati, in centro e a levante attorno ai parchi - verso la Valpolcevera. Ma anche, sempre più in profondità, nella valle del Bisagno, in zone di campagna dove già la scorsa primavera avevano iniziato a attaccare i peschi ancora in fiore malgrado i tentativi di proteggerli con reti di plastica, inesorabilmente strappate a colpi di becco. “I parrocchetti si nutrono dei vegetali più diversi: spaziano dai piselli, di cui sono ghiotti, a limoni e arance selvatiche che riducono in poltiglia, mangiano i frutti delle magnolie e i semi delle conifere, col loro becco possono frantumare i gusci più duri. E si stanno espandendo, sicuramente per l’alimentazione e forse per la riproduzione, in zone dove prima non si spingevano”.

I parrocchetti dal collare ed Amazzoni nidificano nel cavo degli alberi; meno frequentemente in cavità artificiali. Molto più tipica è la nidificazione dei Monaci che li differenzia da tutte le altre specie di Psittacidi. Essi, infatti, usano costruire un grosso nido comunitario, con diverse camere d’incubazione, abitato dall’intera colonia. Allo scopo usano rami di vario calibro che trasportano alacremente su di un albero ritenuto sicuro per edificare l’abitazione della colonia. Alcuni nidi possono raggiungere dimensioni ragguardevoli (anche alcuni metri di diametro), rappresentando un serio problema nel momento in cui i rami dell’albero non dovessero più essere in grado di reggerne il notevole peso. Purtroppo i parrocchetti monaci, che fanno i nidi all’esterno, sono facile preda di taccole, cornacchie e ratti.

Sono vivaci, rumorosi, colorati e intelligenti ma c’è chi non li ama. Le colonie di pappagallini di un bel verde brillante, i parrocchetti dal collare, sono in espansione a Genova dove trovano un clima ideale. Sono un problema? Le opinioni sono contrastanti. A rigore sono una specie che proviene dall’Africa e sulle nostre coste proprio non ci dovrebbe essere, però ormai c’è. E non vive bene solo a Genova, anche Roma ne ospita colonie molto numerose così come Palermo e Cagliari e diverse altre città italiane.

Fa notare la Lipu – delle specie autoctone. Sono quasi scomparsi invece i primi pappagallini che si ambientarono a Genova negli anni Sessanta,

La sfida è ora come contenere l’aumento di questi uccelli sapendo che per quelli che già vivono nelle nostre città non è più possibile effettuare dei controlli numerici. Il fenomeno non va sottovalutato.

 

CARLO GATTI

Rapallo, 27 Dicembre 2019

 

 


LA GRANDE SPERANZA

 

LA GRANDE SPERANZA

 


Il presepe di BANSKY a BETLEMME. Bansky, tra gli artisti contemporanei più famosi del mondo, ha realizzato un presepe nel suo piccolo albergo a Betlemme, in Palestina. La nuova scena della natività mostra Gesù bambino, Maria, Giuseppe, il bue e l’asinello davanti a un muro di cemento che ricorda quello fatto erigere dal governo di Israele per isolare la Cisgiordania. Nel muro c’é una breccia – che simboleggia la cometa – prodotta da un lancio di mortaio. Sul muro vi sono graffiti con le scritte “Love” e Pax”.

Erano passati più di duemila anni dalla nascita di Gesù a Betlemme. Da allora, ogni anno in tutto il mondo Gesù era tornato a nascere nelle chiese, durante la messa di mezzanotte portando il suo messaggio di pace e di speranza.

Da quel lontano dicembre di Betlemme qualcosa era cambiato nel mondo: era sparita la schiavitù, c’era più giustizia per le donne e i bambini, una vita più lunga per i vecchi, ma non dovunque, non abbastanza.

Quell’anno Gesù voleva tornare sulla Terra per portare il suo messaggio agli uomini che, anche tra l’incenso e le candele, sembravano ciechi e sordi.

Dialogò a lungo con il Padre e infine decise così:

- Padre quest’anno vorrei rinascere uomo vero. Non più nascosto nell’ostia  o raffigurato nelle statue. Voglio essere carne, ossa, sangue: uno, dieci, mille uomini e vedere se qualcosa cambierà.-

- Veramente li avevo creati liberi di scegliere il bene o il male. Così facendo Tu limiterai la libertà di quegli uomini nei quali Ti incarnerai. –

- Solo per un giorno, Padre. Il giorno di Natale. Forse qualcosa resterà nella mente e nel cuore di quegli uomini, anzi di quei bambini, perché sceglierò dei bambini per la mia missione, Padre. – implorò Gesù.

Il Padre, come sempre, accondiscese.

Arrivò il giorno di Natale di quell’anno lontano più di duemila anni dalla prima nascita di Gesù.

In Palestina Omar, un ragazzino di undici anni sta osservando il mucchietto di pietre che ha raccolto, le soppesa ad una ad una per capire se sono giuste per un buon lancio. Gli hanno insegnato che bisogna essere sempre pronti a lanciare pietre contro gli Israeliani, se si presentassero con i loro fucili e le loro odiate divise. In verità i grandi capi stanno trattando la pace, ma il capo del villaggio non si fida e vuole che i ragazzini si mantengano allenati.

Omar ha una pietra in mano e la forte tentazione di lanciarla contro il figlio di un colono, un ragazzo antipatico che si avvicina in bicicletta.

-       Omar, apri la mano e lascia cadere quella pietra. –

La voce è strana, comprensibile eppur debolissima. Omar si guarda intorno, ma non vede nessuno. La sua mano però ubbidisce al suggerimento e si apre, lasciando cadere la pietra. Intanto il figlio del colono si sta riavvicinando e, giunto alla sua altezza, sterza di colpo impolverandolo con la ruota posteriore. Omar in un altro momento l’avrebbe rincorso, afferrato e colpito. Questa volta si limita a scrollare via la polvere, scuotendo la testa. Shimon, il ragazzo israeliano, stupito dalla mancanza di reazione, abbandona la bicicletta e, fischiettando, con le mani in tasca, si dirige a zigzag verso di lui.

Omar lo guarda avvicinarsi e, per la prima volta, vede i suoi occhi, il colore dei capelli, una piccola cicatrice sullo zigomo e si stupisce nel constatare quanto gli assomigli. L’altro gli arriva davanti, gli mette una mano sulla spalla e chiede: - Giochiamo? –

Quel giorno, le pietre preparate per ferire servono per giocare a bocce.

Più a nord, nella fredda Sarajevo una donna sta per partorire un figlio, frutto della violenza e destinato all’abbandono. La ragazza non vede l’ora di sbarazzarsi di quell’essere, che l’ha invasa e fatta soffrire oltre ogni immaginazione. E Gesù diventa Irma, una bambina mussulmana, che la madre ha deciso di allontanare da sé senza uno sguardo. Ma Irma, appena nata spalanca due occhi incredibili: innocenti e saggi, come se conoscesse tutta la storia del bene e del male. Con la manina afferra l’indice della madre, che è costretta a voltarsi verso di lei. Allora, come per incanto la rabbia si trasforma in pianto: Il pianto lava via il dolore, l’umiliazione, l’odio e lascia solo la vita. La ragazza si sente mamma e stringe a sé quell’incredibile figlia dagli occhi saggi e innocenti.

E’ l’alba. Un’alba calda e umida alla periferia di Manaus, quando Conchita si sveglia. Conchita ha appena nove anni, ma già lavora. Un lavoraccio pesantissimo: il suo corpo viene usato per il piacere dei minatori della zona. Anche quel giorno il camioncino passerà e la caricherà insieme ad altre bambine e ragazzine di quella città piena di gente e di miseria. Oggi si sente diversa però, più forte e più ribelle, come scossa dal torpore nel quale abitualmente vive.

Mr. O’Connor è già nella strada e strombazza il clacson per sollecitarla. Conchita prima pensa di non andare, di nascondersi, poi pensa alla sua famiglia che ha bisogno di soldi per mangiare e alle sue compagne di sventura e decide di organizzare qualcosa con loro. Vede la situazione chiaramente e capisce che non può più sopportarla. Sale sul camion che si avventura nella foresta. Le ragazzine dietro nel cassone sono assonnate, tristi e intorpidite e si lasciano sballottare come sacchi senza vita. L’autista urla: Cantate qualcosa voi laggiù. Forza, un po’ di allegria. - Le bambine come automi iniziano una nenia, ma Conchita ordina: - Zitte, non abbiamo motivo di cantare.  - Vi piace la vita che facciamo? – La nenia si smorza e qualcuna risponde timidamente: - No. - Altre aggiungono: - Ci fa schifo. – Altre ancora: - Ma moriremo di fame se non lavoriamo. – Ascoltatemi – mormora Conchita Io non ci sto più. Dobbiamo trovare una soluzione. –

Appena il camion rallenta al guado, scappiamo via. – esclama una bimba.

- E poi? Ci perderemo nella foresta. – replica una più grandicella.

- Non c’è scampo – mormora tra le lacrime la più giovane.

- No, non è vero. Non so ancora come fare. – riprende Conchita - Intanto    preghiamo. Lo conoscete quell’inno alla Madonna che ci hanno insegnato alla Missione? Incominciamo a cantare. Forza! –

“Bella sei come il sole

bianca come la luna

e le stelle, le più belle

non son belle

al par di Te…”

Le voci, prima incerte e tremanti acquistano via via forza e sicurezza e le parole dimenticate ritornano in mente sull’onda della musica.

All’autista, per un attimo, sembrò di tornar bambino a Dublino, quando sua madre lo teneva per mano nella chiesa tra i fumi dell’incenso e la musica dell’organo. Quanto tempo era passato?  Più di una vita gli sembrava.  Era talmente cambiato un’altra persona.  Quelle stupidelle gli facevano venire il nodo alla gola, come si permettevano?  Le avrebbe messe a posto lui adesso.

O’ Connor frena, scende dal camion e di nuovo i ricordi lo subissano. E’ Natale oggi. Questo pensiero lo fulmina e gli impedisce di mettere in atto le sue intenzioni. Lentamente guarda le ragazzine ad una ad una, mentre cantano, e vede le loro facce, la loro età, la loro miseria.

Ragazze, torniamo indietro. Oggi ve la pago io la giornata e.. tra quindici giorni non     so. Arrangiatevi perché io non passerò più a prendervi per portarvi alla miniera. -

A Mogadiscio il camion della Croce Rossa distribuisce pane, zucchero, latte e frutta. La ressa e il vociare attorno sono assordanti e permettono solo ai più forti di avvicinarsi.

Alì è stanco morto, cammina non sa più da quanto. Ha abbandonato il villaggio, la sua capanna bruciata, i suoi genitori morti, ha camminato verso la speranza di sopravvivere. Ormai non ha neanche più fame, vorrebbe solo stendersi e dormire. Qualcuno vicino a lui lo fa, cade a terra senza più forze. E’ un bambino più piccolo di lui, più malconcio. Alì si fa forza, si trascina verso quelle donne con la cuffia in testa e il sorriso sul viso. Allunga una mano, riceve pane frutta, latte. Di colpo gli è tornata la fame, vorrebbe mangiare tutto subito, non fare neppure un passo, ma non può. Una forza sconosciuta lo fa tornare indietro. Raggiunge il bambino a terra, a fatica gli bagna le labbra con il latte, poi sempre di più, finché quello apre gli occhi e beve. Ora anche lui può mangiare e bere. Anche Alì sorride, come le donne con la cuffia, chissà perché, si chiede.

E Gesù quell’anno a Natale fu Omar, fu Irma, fu Conchita, fu Alì.. fu Salvatore, Enrico, Annamaria e… Chissà forse Gesù sei stato anche tu. Non te ne dimenticare.

di  DA BOTTINI

 

Rapallo, 23 Dicembre 2019



TAGAN - IL COLTELLO GENOVESE

TAGAN

IL COLTELLO GENOVESE

Il coltello é, probabilmente, lo strumento più antico nella storia dell’uomo.

Il coltello (dal latino cultellus, diminutivo di culter (cioè coltello dell’aratro). La lama é stata utilizzata come utensile ed arma dall'età della pietra, all'alba dell'umanità. Gli antropologi ritengono che il coltello sia uno dei primi attrezzi progettati dagli esseri umani per sopravvivere.

Le prime lame erano di selce o di ossidiana, scheggiata o levigata ad un bordo, a volte dotate di un manico. Più tardi con gli sviluppi della fusione e della metallurgia le lame sono state sostituite prima dal rame, poi dal bronzo, dal ferro e infine dall’acciaio.

L'importanza dei coltelli come arma è un po' oscurata dalla nascita di armi più efficienti e specializzate, ma una lama è in dotazione dei militari di qualsiasi esercito al mondo.

Dopo questa inevitabile premessa, si può tranquillamente affermare che ogni nazione al mondo abbia sviluppato nel tempo un proprio originale coltello che sopravvive nella tradizione popolare e nella propria storia.

Lo sapevate che il TAGAN fa parte della Storia di Genova?

A partire dal X secolo, a Genova si formò una

Scuola di Scherma Genovese

che prevedeva l’uso di armi tipiche come appunto il coltello genovese, la spada d’abbordaggio genovese e lo spadone genovese.


Questa é la versione moderna del TAGAN


TAGAN - Coltello genovese  di lusso

Versione originale di un TAGAN ritrovato e restaurato

Fonti archivistiche riportano la presenza, fin dalla seconda metà del XII secolo, di un'arte dei coltellieri.

In latino l'arma veniva chiamata cultellus januensis. Coltelli di foggia simile si trovano anche in altre parti d'Italia e Corsica e nelle colonie genovesi d’oltremare, tanto così che spesso l'arma viene denominata coltello alla genovese o all’uso Genovese. Si tratta di un coltello che, oltre che essere stato utilizzato nelle varie attività della vita quotidiana dei genovesi, rappresentava anche un'arma di facile impiego e che spesso veniva utilizzata, purtroppo, in episodi delittuosi sia da persone comuni che da malavitosi. Proprio per questo il suo uso venne in varie occasioni limitato o proibito dalle autorità cittadine. Ad esempio il 9 settembre 1699 il Consiglio dei X della Serenissima Repubblica di Genova assunse uno specifico provvedimento per rinnovare la proibizione dell'uso di tale coltello nella zona del porto.

I genovesi dell’epoca cercarono di camuffare da utensile questo tipo di coltello, ad esempio facendolo passare da attrezzo per conciatori o sellai, in modo da eludere le leggi che vietavano la produzione nella Repubblica di "ferri taglienti". Tale produzione, nonostante le limitazioni, era però diffusa e anche piuttosto apprezzata. Il coltello genovese è caratterizzato da un manico privo di “guardia” con la base marcatamente stondata (smussata, arrotondata).

La lama può essere di varie lunghezze ed è dritta, appuntita ed in genere a un filo e mezzo, ovvero affilata oltre che nella parte inferiore anche nella zona anteriore di quella superiore. Per realizzarne il manico a volte veniva utilizzato il legno di bosso.

Se volete saperne di più su quest'arma, vi segnaliamo la principale opera sull'argomento: A. Buti, "Il coltello genovese. Storie di lame, di armi proibite e di caruggi", Genova 2011.

Orgoglioso senese della "contrada del Nicchio", genovese d'adozione e collezionista da sempre, il professor Andrea Buti, già docente di tecnica delle costruzioni presso la facoltà di architettura, ha ricostruito attraverso la storia di un oggetto particolare, il coltello genovese, una parte inedita e misconosciuta della storia della Superba.

“Nel 1600 e nel 1700, ma già da prima, Genova fu al vertice della produzione e commercializzazione di armi da taglio proibite. I coltelli genovesi appunto, lame micidiali, simili a stiletti, furono messe al bando dal governo della Repubblica e da molti antichi Stati italiani. Vi fu un tempo in cui l'arte dei coltellieri, fondata a Genova nel 1262, annoverò fino a 329 iscritti. Esisteva in città il molo dei coltellieri in fondo a via S.Lorenzo, ma anche una ripa e una loggia dei coltellieri che pullulavano di botteghe in cui si affilavano le lame forgiate con l'acciaio delle ferriere dell'entroterra, a loro volta rifornite col ferro dell'Elba.

Si può ipotizzare che non ci fosse uomo del popolo o dell'aristocrazia genovese che non possedesse un tipico coltello a stiletto, infilato nei calzoni, o celato dentro un'altra arma a punta stondata e apparentemente inoffensiva, magari camuffato da attrezzo per cucire le vele. Il coltello genovese, fu la "spada del popolo", l'arma dei sicari molto prima delle pistole. La statua della Vergine, posizionata per la prima volta nel 1654, era in bilico. Quando fu rimossa sotto due tonnellate di marmo furono ritrovati incastrati alcuni coltelli. Erano stati lasciati come atto votivo dalle maestranze del '600. Li consegnai al museo Diocesano. Ma è l'unico esempio, - si duole Buti- di coltelli genovesi musealizzati”.
Per il resto nulla, questa città continua a ignorare la storia di una sua antica e significativa industria manifatturiera. Lo ha fatto anche quando ho proposto a enti locali di patrocinare il mio volume che peraltro aveva già un editore. Niente, la città è fatta così.

Buti si riferisce a "Il Coltello genovese: Storia di lame, di armi proibite e di caruggi", il volume di cui è autore, appena pubblicato dalla Casa d'aste San Giorgio (100 €), specializzata in armi antiche. Non un catalogo, ma un "mixage", composto da 146 pagine di testo divulgativo, in cui vengono definite le caratteristiche tipiche del coltello genovese rispetto ad altre armi bianche, si ricostruisce la storia materiale dell'oggetto attraverso documenti, spesso inediti, degli Archivi di Stato di Genova e Savona e si rievocano celebri delitti del passato come gli omicidi del pittore Pellegro Piola e del compositore Alessandro Stradella.

Seguono 263 pagine di schede di esemplari di collezioni private o appartenenti a musei, non genovesi. Il volume è illustrato da foto e raffinati disegni. E' in vendita alla casa d'aste a palazzo Boggiano-Gavotti in via S.Lorenzo.

Nella prefazione Vito Piergiovanni, professore di storia del diritto medievale e moderno alla facoltà di giurisprudenza, scrive:

"Sul pesto non avevamo dubbi, sui cantautori anche, ma che si potesse vantare una peculiarità anche negli oggetti da taglio, utensili ed armi volta a volta, in realtà ci sfuggiva. Davvero Genova antica non finisce di stupire!
Il coltello a lama mobile fu sempre arma popolare: a causa dell'ingombro limitato e del costo ridotto, e a causa delle discriminazioni sociali o legali che riservavano il porto delle armi bianche lunghe ai soli nobili. Il “fenomeno” divenne macroscopico quando le autorità decisero, invocando ragioni di pubblica sicurezza, che il popolo non potesse portare armi. Ma, nel caso dei coltelli, divenne arduo stabilire il limite oltre il quale cessavano di essere utensili e diventavano armi, né dall'altra parte il popolo poteva rinunciare, oltre che a un utensile di indubbia utilità, a un'arma da difesa cui si era ormai abituato. Ne seguì una lunga diatriba che vide l'autorità impegnata a proibire le lame eccedenti una certa lunghezza e il popolo industriarsi per forgiare lame sempre più corte, ma di fogge all'occorrenza estremamente pericolose. Come quelle a foglia di salvia, veri pugnali larghi e a doppio taglio, o quelle a foglia di olivo, strette e molto acuminate. Un tipico esempio fu
il coltello “alla genovese” che ebbe larga diffusione nell'Italia del XVII secolo e che in pratica riprendeva la spada “alla frantopino” bandita in numerosi Paesi d'Europa per l'insidiosità. Il coltello aveva un'impugnatura in legno o corno e una lama larga al tallone, che si assottigliava decisamente nel debole a formare uno stiletto a quattro facce con punta acutissima. Venne bandito anch'esso, ma poi riprese forma con una cruna che attraversava la punta e destinazione d'uso - ufficiale - di strumento da sellaio. Poteva perciò essere portato da chiunque dal momento che il cavallo era l'abituale mezzo di locomozione. In Italia i centri di produzione di coltelli, soprattutto a lama mobile, a causa della frammentazione politica del Paese e anche della scarsa circolazione dei prodotti, furono numerosi e ognuno creò proprie tipologie. La ricchezza di forme “italiane” non trova riscontro in altri Paesi europei, sia per il coltello con caratteristiche offensive sia per quello inteso come strumento di uso quotidiano. La scherma di daga e stiletto, insegnata dai maestri d'armi nel periodo che andava dal XIV secolo all'XIX, nel XVII secolo condizionò la creazione di metodi di maneggio che poi si svilupparono in un'arte raffinata ed efficace, continuando poi a evolversi nei miglioramenti sino ai primi decenni del XX secolo. Le regioni del nord Italia, in parte quelle centrali, alcune meridionali e insulari, erano prive di maestri, ma esistevano persone che possedevano solo la conoscenza di poche, definitive, azioni tecniche. L'apprendimento di tali tecniche era detenuto sia dalla malavita, sia dalla normale popolazione. Lo sviluppo di una vera arte di maneggio del coltello si verificò invece in sei regioni: Lazio, Campania, Puglia, Calabria, Sicilia e Corsica. Nelle scuole (ovviamente clandestine) dove s'insegnava ad adoperare il coltello, si seguiva un preciso metodo diverso da regione a regione. Spesso poi gli allievi elaboravano nuove interpretazioni delle azioni tecniche che differivano da quelle dei maestri e capiscuola. Accadeva così che in una stessa città o cittadina, oltre a uno o due metodi principali, ve ne potevano essere altri “contaminati”. Il ritardo, rispetto a vari altri Paesi europei, nel passaggio all'industrializzazione (o almeno a una produzione semi-industriale) nel settore della coltelleria, ha consentito una più lunga sopravvivenza di tipologie legate alla fabbricazione artigianale. I centri di produzione ancora attivi sono Maniago (Pn), sicuramente il più fertile oggi (ma quasi privo di connotazioni tradizionali), nato intorno al 1400, Premana (Co), specializzato soprattutto nelle forbici, Scarperia (Fi), che risale al 1400 fin da principio con la coltelleria, i cosiddetti “ferri taglienti”, Campobasso e Frosolone (Is), anch'essi molto antichi, Pattada (Ss), molto più recente (fine XIX secolo)”.

CARLO GATTI

Rapallo, Mercoledì, 11 Dicembre 2019


METTITI CON LA SCHIENA AL VENTO NELLA POSIZIONE DEL CROCIFISSO…

 

METTITI CON LA SCHIENA AL VENTO NELLA POSIZIONE DEL CROCIFISSO…

Pochi giorni fa, verso le 15, Rapallo fu investita da una burrasca fortissima che ha prodotto danni ingenti e smottamento di massi per i quali ancora oggi siamo costretti a girare per le colline prima di poter scendere a valle. Ma questo non vuole essere un MUGUGNO… e poi contro chi?

Per fortuna quella serie di bombe d’acqua durò solo due ore…

La cosa più strana, ma non troppo, é che secondo l’ARPAL meteo di Genova, in quel pomeriggio stava splendendo il sole …

Nulla di nuovo sotto le stelle! Alcuni anni fa si diceva che le Previsioni del tempo basate su modelli matematici indovinavano soltanto una percentuale del 40%. Per cui si disse con qualche ironia e molte verità, che il problema poteva essere in parte risolto diffondendo previsioni opposte e contrarie a quelle emesse tramite i dati satellitari ottenendo in questo modo almeno il 60% di verità.

A quel punto, un familiare che si fida ciecamente dei dati forniti dal suo cellulare ultimo tipo mi ha chiesto:

Ma come hai fatto a ritornare sempre a casa dai tuoi viaggi con queste indecenti previsioni del tempo che lo Stato (Regione) fornisce e che, sicuramente, ai tuoi tempi erano ancora peggiori?

Ai miei tempi il Comandante si fidava solo di quello che vedeva: onde, vento, colore del mare, tipo di nuvole, volo dei gabbiani ecc…, ma soprattutto era un barometro dipendente. Per lui quello strumento era la voce di Dio. Ne aveva uno sul Ponte di Comando: il barografo, che gli metteva per iscritto l’andamento del tempo, uno in cabina e un altro nella sala da pranzo. Se la lancetta dello strumento tendeva ad abbassarsi faceva una smorfia preoccupata perché, secondo lui, stavamo andando verso una bassa pressione che era da evitare, specialmente se la rotta della nave poteva incrociare il suo centro.

OK! Ma chi vi forniva il Bollettino del tempo? E su cosa si basava?

Le grandi città marittime italiane e straniere disponevano di Stazioni Meteo Costiere che emettevano bollettini del tempo su date frequenze e a determinati orari. I dati emessi erano basati sulle osservazioni effettuate da specialisti dell’Aeronautica Militare per ogni zona del Mediterraneo oppure degli Oceani. Anche le navi oceaniche erano considerate Stazioni Meteorologiche ed avevano l’obbligo di compilare accuratissimi moduli meteo (OBS-AMVER ecc…) che dovevano essere inviati, via Radio, a ben noti Centri Internazionali che elaboravano i dati ricevuti e li trasformavano nelle previsioni del tempo che poi venivano diffuse e captate dalle navi in navigazione.

Mi stai dicendo che l’uomo di mare, prima dell’era satellitare, si fidava di ciò che un osservatore vedeva, elaborava e riferiva?

“Proprio così! Ma il Comandante di una nave, solo in mezzo al mare, doveva fidarsi soprattutto di sé stesso, con le sue personali osservazioni basate esclusivamente sulla propria esperienza”. I Bollettini Meteo che il Marconista (R.O.) di bordo riceveva e consegnava al Comandante erano di grande aiuto e affidabilità, tuttavia, chi ha navigato lo sa bene: esistono aree costiere, ma anche atlantiche in cui le condizioni meteo locali subiscono notevoli “variabilità” dovute a correnti aeree e marine fredde oppure calde, aree cicloniche che si formano velocemente e prendono direzioni poco prevedibili che vanno seguite in tempo reale”.

Ritornando dalle nostre parti, tutti sanno quanto il Mediterraneo sia insidioso un po’ dappertutto specialmente con la “rottura dei tempi”. Ma era davvero così importante il barometro? Possibile che non ci siano anche segnali visivi, premonitori che mettano in guardia il marittimo su cosa può capitargli?

“La materia é vecchia migliaia di anni… ma devi sapere che dopo ogni naufragio la gente di mare sopravvissuta ha imparato qualcosa… forse di non scritto, ma sicuramente di tramandato ai posteri. Di questa materia é formata l’ESPERIENZA… alla quale mi riferivo all’inizio.

Ricordi un aneddoto di quei tempi?

 


La motonave Vulcania in procinto di partire dalla stazione marittima di Trieste alla fine degli anni Venti; in servizio dal 1928 al 1972, fu una delle navi di linea più longeve della storia.

“1962, ero al mio secondo imbarco da Allievo ufficiale sul transatlantico VULCANIA, abbastanza datato, ma di grande prestigio, per di più era dotato di una strumentazione up-to-date per l’epoca: Loran, Omega e due enormi Radar Raytheon. Il Comandante Peranovich, in pieno Atlantico Nord Atlantico abbastanza incazzato, mi ordinò di rilevare il vento servendomi del ripetitore della bussola sull’aletta di plancia.

Visto che gli Allievi Ufficiali non contavano granché… ho pensato che mi prendesse per il c… Poi capii che faceva sul serio perché ordinò al 3° Ufficiale di venirmi a controllare…

Da poco uscito da scuola, avevo la testa piena di Rette di Altezza, formule trigonometriche imparate a memoria ed una infinità di nomi di stelle che in parte ormai conoscevo, ma nessuno mi aveva mai ordinato di rilevare il vento in quel modo e con quella precisione maniacale!

Vista la mia sorpresa, il 1° ufficiale anziano a cui ero stato assegnato, mi prese da parte e mi diede la seguente lezione di meteorologia.

PREMESSA:

In meteorologia la legge di Buys Ballot (dal nome del fisico olandese Christophorus Buys Ballot) afferma che un osservatore nell'emisfero boreale piazzato spalle al vento si trova l'area di depressione davanti a sinistra e di alta pressione dietro a destra, il che significa che l'aria circola in senso antiorario ...

N.B. Nell’emisfero SUD é tutto il contrario.

“Hai mai sentito parlare della legge di BUYS BALLOT?”

“Ho avuto degli ottimi professori, ma nessuno di loro aveva navigato!”

“Si tratta della legge scientifica che per la sua praticità serve maggiormente a chi va per mare in qualsiasi parte del globo terracqueo; già anche in terra! Siamo nell’emisfero Nord.


Se ti metti con le spalle al vento, nella posizione del Crocifisso, l’ALTA PRESSIONE E’ A DESTRA E LA BASSA PRESSIONE E’ A SINISTRA.

Se t’infili nell’area depressionaria ciclonica, il vento ti spinge verso il centro, nell’occhio del ciclone. Devi quindi cercare di evitarla, cioè devi eventualmente correggere la tua rotta ed allontanarti.

Al contrario, l’Anticiclone (alta pressione) tende ad allontanarti dal suo centro: si può dire che é una forza centrifuga ottimale che ruota nel senso delle lancette dell’orologio.


 


 

Quindi anche quando sono in casa, in base al vento che soffia, se mi metto con la schiena al vento so sempre dove si trova la Bassa Pressione che, specialmente  di questi tempi, fa paura…

 

CONCLUSIONE

 

Forse anche nel campo Meteorologico bisognerebbe ritornare un po’ all’antico e anziché guardare il cellulare verso il basso, sarebbe meglio scrutare gli elementi variabili del creato, allo stesso modo come quando “fissiamo” una persona in faccia per capire di che umore sia …

di CARLO GATTI

Rapallo, Venerdì 6 dicembre 2019