La storia di Carmelo De Salvo

reduce dai lager nazisti


Tra il 1933 e il 1945, la Germania Nazista costruì circa 20.000 campi di concentramento destinati alla prigionia di milioni di persone. Noti con il nome di lager, erano usati per il lavoro forzato, per il transito e, fatto storicamente incontestabile, per l’eliminazione in massa dei cosiddetti “Nemici dello Stato”: comunisti, socialisti, social-democratici, Rom, Testimoni di Geova, omosessuali e persone accusate di comportamenti ritenuti asociali o devianti. La direzione dei campi di concentramento era affidata a spietati Reparti-SS che, dopo l’invasione della Polonia (7.7.1939), mantenevano costante il numero dei detenuti lasciandoli morire per sfinimento, malnutrizione, malattie o esposizione alle intemperie. In seguito, per sopprimere il crescente numero di prigionieri, i nazisti optarono per la “Soluzione Finale scientifica” che fu realizzata nei lugubri campi di sterminio a Auschwiz-Birkenau, Belzec, Sobibor, Treblinka ed altri ancora che diventarono in poco tempo vere fabbriche di morte per l’omicidio di massa a livello industriale. Chelmno-Polonia fu il primo campo di sterminio a diventare operativo l’8 dicembre 1941, ma per uccidere Ebrei e Rom era impiegato il gas di scarico, all’interno di furgoni appositamente modificati. Il diabolico progetto raggiunse, tuttavia, la sua massima efficienza con l’impiego del gas Zyclon B emesso attraverso le docce nelle famigerate camere a gas che rendevano lo sterminio  “impersonale” per coloro che materialmente lo portavano a termine. A tre chilometri da Auschwitz, il lager di  Birkenau fu dotato di quattro camere a gas. Nel  periodo in cui le deportazioni raggiunsero la maggiore intensità, ogni giorni vi venivano assassinati 6.000 ebrei che subito dopo erano bruciati nei forni crematori. Con il martirio della Shoah, l’umanità intera scrisse direttamente, o indirettamente con il suo tragico silenzio, le pagine più efferate della storia contemporanea.

Secondo l’Ufficio Autonomo Reduci da Prigionia e Rimpatriati del MINISTERO DELLA GUERRA, al 3 dicembre 1946 rientrarono in Italia 600.000  prigionieri di guerra tra cui molti civili che erano stati strappati dalle  fabbriche italiane e deportati in Germania per sostenere gli sforzi bellici del Terzo Reich. Dopo l’8 settembre del 1943, lager,  campi di lavoro e fabbriche di armi furono, per lo più, le destinazioni dei nostri compatrioti che subirono in quei terribili anni violenze e umiliazioni di ogni genere. Dopo quella fatidica data, 50.000 italiani non fecero più ritorno dalla Germania e i superstiti dovettero  affrontare un deludente rimpatrio fra caos e indifferenza di tanti italiani che si opposero anche con sospetto e incredulità dinanzi ai loro racconti testimoniati, peraltro, da numerosi scritti che formarono nel tempo un vero e proprio  “florilegio delle malvagità”.

La storia che segue é la testimonianza a lieto fine di un nostro concittadino che si é deciso, dopo 66 anni di silenzio, a riportarla alla luce con tutta la documentazione scritta e i  ricordi personali ancora vivi ed indelebili. All’epoca della sua deportazione in Germania, Carmelo di Salvo era un giovane diciannovenne di Palmi (Reggio Calabria). Oggi ha un’età difficile da definire, i suoi 88 anni contrastano con il portamento snello e giovanile; i capelli folti, ondulati e in buona parte imbiancati  si armonizzano con la carnagione liscia, abbronzata e fregiata da un paio di baffetti vispi e maliziosi che destano l’invidia di chiunque, anziano o meno anziano, si aspetti ancora “qualcosa” dalla vita… Carmelo non porta quindi alcun segno delle ferite inferte gratuitamente dai suoi aguzzini nazisti durante l’Odissea che sopportò nel periodo di prigionia in Germania. Carmelo abita da molti anni a Rapallo dove vive da pensionato, coltiva un orto con tanto amore e nei suoi piccoli occhi neri e vispi si coglie lo sguardo severo e indagatore di chi ha visto più volte la morte passargli accanto con la sua ineffabile falce, e si é trovato subito dopo ancora vivo e sorpreso come un miracolato.

Carmelo, sono incuriosito soprattutto dalla vitalità e dalla serenità che emana da ogni poro … Ha qualche segreto da svelarci?

Sono cresciuto in una realtà molto difficile, come può immaginare, ed ero completamente inconsapevole sia dei problemi politici di quei tempi, sia dei pericoli reali che avevo davanti. Ero un bravo ragazzo come tanti, tuttavia l’ambiente della mia Calabria mi costringeva ad essere sempre sulla difensiva. Non ero un violento di natura, ma dovevo dimostrare agli altri di essere un “duro”, dovevo dimostrare forza e coraggio per sopravvivere, per non farmi schiacciare dal gruppo. Bestemmiavo e facevo “cazzate” … e solo in questo modo ero rispettato e mi salvavo dalle continue minacce e dalla violenza che da quelle parti fanno parte della vita quotidiana. La serenità che ho dentro deriva soltanto dalla mia solitaria e meditata conversione a Cristo. Mi sento un miracolato e  quando l’ho capito, ho iniziato un percorso  di fede che mi  ha trasformato interiormente. L’odio che ho provato contro i tedeschi e tutti coloro che mi hanno fatto del male, con il tempo l’ho trasformato in amore e perdono. Sia chiaro, non ho cancellato alcun ricordo, ma ho accettato il mio destino come un dono di Dio.


Carmelo De Salvo

La fede é la vera conquista che mi sono guadagnato nei lager e oggi mi sento forte dentro. Prima di quella brutta esperienza non sapevo neppure che esistesse la fede. Oggi sono sereno e prego anche per i miei aguzzini. Questo é il motivo principale che mi ha spinto a raccontare, per la prima volta, la mia storia di prigioniero che dedico soprattutto ai giovani di oggi affinché non cadano nel tranello d’innamorarsi di certe politiche intrise di fanatismi che possono procurare solo guai come nel passato.

Carmelo, ora entriamo nel vivo della sua storia.

Chiamato alle armi nel febbraio del 1943, fui destinato al 30° Reggimento Fanteria Divisione Assietta a Rivoli Torinese. Il 4.6.43 fui assegnato al 13° Reggimento Fanteria Divisione Pinerolo. Il 7.7.43 partimmo per la Grecia e raggiungemmo Kastoria-Macedonia, dove Il 13 settembre del ‘43 fummo catturati dai tedeschi e da quel giorno cambiò la mia vita. C’imbarcarono a Larissa (Tessaglia, Nord-Grecia) stipandoci in cento soldati ogni carro-bestiame. Si dimenticarono di noi lasciandoci senza cibo e acqua per diversi giorni. La gavetta ci serviva solo per fare i nostri bisogni. A Vienna ci fecero scendere e, colpendoci come animali, ci divisero intorno ad una caldaia, ci diedero  due carote, due patate, un pezzetto di pane e un po’ d’acqua. Tutto puzzava di latrina. Con lo stesso treno ripartimmo per un’altra destinazione sconosciuta. Si trattava del Campo di smistamento denominato “Stettin”. Ci divisero e ci mischiarono con Serbi, Polacchi e tanti altri, ma con il resto degli italiani ci perdemmo di vista per sempre. Mi destinarono a Schweningen nel Baden-Württemberg (45 km a Est di Friburgo) dove rimasi a lavorare tre mesi in un’acciaieria, dopo di ché fui trasferito presso la vicina Villingen. Con il numero di matricola 41665, fui destinato allo stabilimento Kaiser Uhren (ex fabbrica di orologi) che durante la guerra  produceva pistoni, spolette e detonatori per mine. Sotto di noi i tedeschi sperimentavano lanci di razzi che ci tormentavano soprattutto di notte attirando i bombardamenti alleati. Rimasi due anni a lavorare come tornitore su macchine speciali. Imparai in poco tempo il lavoro da un capo officina austriaco che mi prese a ben volere per la mia facilità di apprendere il mestiere ed anche la lingua tedesca. Il padrone della fabbrica, oltre ad essere il sindaco del paese, era anche un colonnello a riposo della Wehrmacht. Vivevo in un campo di concentramento sorvegliato dalle SS che di notte giravano con i cani lupo sotto le luci dei riflettori che spazzolavano il terreno da torri di guardia unite tra loro da muri alti e filo spinato elettrificato. Mi davano da mangiare quel tanto per stare in piedi e lavorare, ma la fame era il mio incubo continuo e la paura di ammalarmi mi torturava, il lavoro era l’unica assicurazione sulla mia misera vita. “Mai di peggio” era il mio motto e tra lunghi pianti notturni, nostalgia e umiliazioni continue dovute alla spietata segregazione, vivevo alla giornata sognando la fine della guerra, la liberazione e il ritorno a casa. Ma un giorno successe un fatto grave che improvvisamente peggiorò di brutto la mia prigionia. La figlia del capo reparto austriaco si era invaghita di me, oppure le facevo soltanto pena. Fatto sta che un giorno Ingrid mi aspettò nel gabinetto del reparto, mi diede due pezzetti di pane spalmato di burro e scappò via come un fulmine. Ricordo che mangiai anche la carta unta che  avvolgeva quel bene prezioso, ma fui subito assalito dal militare di guardia che si mise a urlare, mi picchiò, mi minacciò e mi portò dalle SS dicendo che ero un ladro e sabotatore. Senza neppure ascoltare minimamente le mie “bugie”, fui spedito con una camionetta, sotto scorta armata, verso il campo di sterminio chiamato Campo di Gesù dal quale era impensabile uscirne vivo. Quel campo era sinonimo di morte, rappresentava la fine di tutto e l’incontro con Gesù nell’al di là.  Erano 20 baracche stracolme di militari denutriti di ogni razza. Chi si ammalava veniva ucciso nelle fosse comuni di un bosco vicino. Rimasi più di tre mesi in quell’inferno sopravvivendo con due  patate al giorno ed 1 kg. di pane di segale da dividere tra 25 prigionieri. Sette metri di filo spinato ci dividevano dal resto del mondo. I prigionieri sani  scavavano “fosse comuni” nel bosco da riempire di cadaveri quando il campo superava il numero stabilito d’internati. Ma non avvenivano fucilazioni. Il rito di morte era un altro. Sul fondo delle fosse, simili a trincee, erano stesi cinque fili elettrici scoperti. I prigionieri ammalati o in esubero erano spinti a calci  dentro la trincea e, al segnale convenuto, era data corrente elettrica e la morte per quei poveracci era istantanea. In quel lager si diceva che era il modo migliore per congedarsi dalla vita, il più rapido per liberarsi da altre peggiori atrocità. Fui assegnato anche al trasporto dei “morituri” nelle fosse comuni nel bosco. Tra le tante bestialità cui accennavo, ricordo che due volte la settimana arrivavano medici militari per elaborare esperimenti sui prigionieri. Praticavano punture nelle gambe che subito gonfiavano come palloni. Trapanavano crani per vedere le reazioni dei centri nervosi del cervello. Sezionavano corpi vivi a scopo scientifico. Alla sera le SS si ubriacavano e scommettevano tra loro sparando con le pistole sulla fronte di prigionieri scelti a caso e legati al palo. In questo modo, ognuno di noi aspettava il proprio turno. A volte i “bersagli” erano denudati e le SS si divertivano ad aizzargli contro i dobberman. Dopo oltre tre mesi trascorsi senza speranza in quell’inferno animato da pazzi criminali, una sera si presentarono al comandante del campo due militari che chiesero, a nome della fabbrica Kaiser Uhren, la liberazione della matricola n.43. Il miracolato ero proprio io. Non fu facile. Successe un parapiglia. Nessuno era mai uscito vivo dal Campo di Gesù e la Gestapo si oppose con tutti i mezzi che aveva a disposizione. Alla fine dovette cedere perché l’ordine veniva dall’alto e più o meno recitava: “Il n. 43 é un operaio specializzato che conosce perfettamente certe macchine che producono materiale bellico molto importante per il Terzo Reich in questo momento”. Alla fine fui rilasciato e il comandante mi congedò sarcasticamente con due parole che non ho più dimenticato:  “fortunello! – fortunello!”. Fu un dono del Signore, una Grazia ricevuta. Ingrid aveva pregato suo padre, capo reparto della Kaiser Uren, di convincere l’anziano Padrone, Sindaco e Collonello della Wermacht di salvarmi perché ero un insostituibile operaio di quella fabbrica. Non so se fu l’amore, la compassione o il senso di colpa a muovere quello strano ingranaggio che mi salvò la vita, sta di fatto che ora sono qui per raccontare quell’episodio. Quando ritornai in fabbrica e rividi la ragazza, fu un indescrivibile momento di commozione. Mi confessò che era stata vista consegnarmi quel famigerato pezzo di pane e per quella imprudenza le furono tagliati i capelli a zero. Io negai sempre quel suo gesto generoso e fui condannato a morte proprio perché mentii. Ricevetti anche un altro grande regalo: lo spione tedesco che mi aveva fatto deportare al Campo di Gesù era stranamente sparito. In seguito la ragazza cercò di convincermi a ritornare in Germania dopo la guerra per sposarla e condurre la fabbrica.

Finalmente arrivò il momento della liberazione, ma la delusione fu grande quanto incomprensibile. I Marocchini comandati dal Presidio Francese  ci trasferirono nuovamente in un campo di concentramento costringendoci a vivere nelle stesse identiche condizioni di prigionieri. Eravamo liberi di circolare,  ma era pericoloso allontanarsi dal centro cittadino perchè i tedeschi sbandati e in fuga, temendo forse che potessimo raccontare in patria le loro atrocità, ci davano la caccia.  I francesi ci tennero 80/90 giorni  segregati e guardati a vista. Si é saputo in seguito che intendevano dirottarci in Francia come “manodopera” in conto-riparazione-danni di guerra provocati dall’Italia alla Francia. Per tre mesi continuammo a sopravvivere come nei lager tedeschi. Ci buttavano gli avanzi dai balconi per umiliarci come fossimo cani randagi, e poi ci gettavano addosso pentole d’acqua bollente per provocare le nostre reazioni che, vista la nostra debolezza, non potevano che essere timidamente verbali. Odiammo i francesi forse più dei tedeschi perché non capivamo le ragioni di tanto accanimento nei nostri confronti. La guerra era finita e tanto odio verso di noi era del tutto ingiustificato. Non sapevamo nulla della guerra e di come erano andate le cose. In ogni caso l’Odissea terminò quando gli Americani e la Croce Rossa si fecero carico del  nostro rientro e  la storia si concluse quando un giorno, per me indimenticabile, si presentò un ufficiale italiano della Croce Rossa e c’informò che saremmo presto rimpatriati. Stipati come acciughe arrivammo a Milano dove fummo accolti finalmente da “cristiani”, ci schedarono e dopo le pratiche burocratiche  ognuno raggiunse  la propria  città.


Carlo GATTI

Rapallo, 20.06.11