LA STORIA DI SAN PE’

L’ultimo marinaio del ‘900…

 

Il Comandante Repetto Giovanni, detto San Pé, nacque a Carloforte, (Isola di S.Pietro) nella Sardegna sud-occidentale ai primi del ‘900. Discendeva da una famiglia di Rapallo che era stata rapita dai corsari magrebini nel corso delle incursioni saracene del ‘500. Nessuno di quella sfortunata stirpe rapallina riuscì a riscattare i Repetto per farli rientrare nel Tigullio. Tuttavia, la storia, a volte é migliore degli uomini che la scrivono… e i discendenti, con quel cognome molto comune dalle nostre parti, dopo secoli di patimenti si ritrovarono a possedere un appezzamento di terra, chiamata “Ciassa da Bobba” che si trova su un leggero altopiano nel centro dello scoglio sardo dove, ancora oggi, si parla il genovese di Pegli.


Bobba – Carloforte – Isola di San Pietro Sardegna

Un po’ di storia:

Grati per la soddisfacente sistemazione, i nuovi abitanti dell’isola eressero una statua in onore del Re Carlo Emanuele III di Savoia nella piazza principale del Paese (U Pàize) che fu chiamato Carloforte come segno di riconoscenza e fedeltà. A San Carlo Borromeo fu invece dedicata la Chiesa parrocchiale. Il Re donò per l’occasione un pregiato quadro raffigurante il Santo Patrono, ancora oggi situato nell’abside della Chiesa. Nel 1770 una seconda comunità di coloni provenienti da Tabarka s’insediò nella vicina Isola di Sant’Antioco, sul lato prospiciente l’Isola di San Pietro, dove fu fondato il paese di Calasetta. Evidentemente, i conti tra i tabarchini e i berberi nord-africani non si erano chiusi definitivamente. Infatti, il 3 settembre 1798, nelle primissime ore del mattino, gli equipaggi di tre navi corsare algerine sbarcarono nel porto di Carloforte e l’isola subì una feroce incursione piratesca. 933 carlofortini (circa la metà degli abitanti dell’isola) furono catturati, deportati e tenuti schiavi a Tunisi per cinque anni, fino al 24 giugno 1803, giorno in cui furono riscattati con una onerosa cifra da Carlo Emanuele IV di Savoia e poterono ritornare in patria.

Durante il quinquennio di schiavitù, il prigioniero Nicola Moretto, un ragazzo che era riuscito a farsi benvolere dal suo padrone e quindi a godere di qualche libertà, rinvenne sulla spiaggia di Nabeul vicino a Tunisi, una statua lignea. Quel pezzo di legno, nonostante fosse consumato dalle burrasche e corroso dalla salsedine, conservava ancora i lineamenti di una Madonna con il Bambino. Il ragazzo, come preso da un incantesimo, la nascose nel suo mantello e la riportò a casa difendendola dalla curiosità degli altri servitori musulmani. Riuscì a fatica a consegnare la statua a don Nicolò Segni, che dopo una sommaria ‘ritoccata’ la pose subito in venerazione.

Il ritrovamento, é facile immaginarlo, fu accolto come un segno tangibile della protezione della Vergine e, improvvisamente, il morale dei deportati passò dalla disperazione alla speranza, e quindi alla fiducia in una prossima liberazione. Fu un evento miracoloso? Quei 933 disperati lo interpretarono, sicuramente, come un segno del cielo che avrebbe dato, prima o poi, i suoi frutti. Da quel fatto ebbe origine il culto della “Madonna dello Schiavo” protettrice dei Tabarkini.

Si tramanda che persino i musulmani, che venerano Maria (Maryam) e credono nella sua eccellenza e verginità, guardarono a quel ritrovamento con profondo rispetto e, da allora in poi, trattarono con maggiore rispetto gli schiavi cristiani.

Metà della sua carriera, il giovane Repetto la svolse come padrone marittimo al comando di piccole navi, poi decise di trasferirsi con la famiglia nel continente… un ritorno nella terra dei “pegioti” che diedero coesione e identità alla comunità genovese che rafforzò nel tempo forti legami con Pegli. Per la verità Sampé non ebbe mai simpatia per i rapallini responsabili, secondo lui, di aver abbandonato i suoi avi nelle mani di un Magistrato del Riscatto genovese che fu a “stato paghe” dei Lomellini che, a sua volta se l’intendeva con i tunisini di Tabarka per via del prezioso commercio del corallo.

San Pé lascia l’isola

La scusa ufficiale di quel rientro in Liguria per parenti e conoscenti era il conseguimento della laurea dei due figli all’Università di Genova, ma c’era anche una verità del tutto personale: fin da ragazzo San Pé aveva sognato di fregiarsi del titolo di Capitano di lungo corso, un titolo a cui aspirava per onorare la memoria dei nonni caphorniers dei quali si parlava ancora “au schéuggio”.

Sampé studiò notte e giorno a bordo delle vecchie carrette nel periodo di bonaccia tra le due guerre, e ci riuscì da privatista ottenendo il diploma al Nautico San Giorgio di Genova. Tuttavia, contro ogni aspettativa di chi era convinto di conoscerlo bene, continuò la sua carriera navigando nel navalpiccolo, come allora si chiamava quel mondo di navi che solcavano soltanto il Mediterraneo. Un piccolo universo che Sampé conosceva meglio di chiunque altro. Fece quella scelta per non rinunciare al grado di Comandante, senza il quale pochi del suo entourage avrebbero capito l’inevitabile retrocessione ad ufficiale di coperta al lungo corso, con scarse possibilità di ripassare al Comando.

San Pé continuò a navigare con il passaporto fino alla veneranda età di settantacinque anni, poi andò in pensione, nel periodo in cui i controlli dello Stato erano evanescenti, sia sulle irregolarità delle navi sia sulla salute dei marittimi. San Pé si ritirò a vita privata, trascorrendo il suo tramonto esistenziale sulla passeggiata di Pegli, su quel lungo “ponte di comando” da cui osservava a levante le petroliere arrivare e partire nel canale del Porto Petroli di Multedo, sotto i passaggi radenti di rumorosi aerei passeggeri e, a ponente, le navi lunghe 400 metri, prendere il pilota e infilarsi tra le gru davanti al centro abitato di Voltri-Prà.

La sua vita movimentata, giunta ormai al traguardo finale, si concluse con la visione extraterrestre di mega-navi comandate da Capitani di lungo corso che avevano la sua stessa cultura marinara. Sampé chiuse gli occhi a 98 anni di età, soddisfatto d’aver dato il suo contributo di marineria a quei cento anni di storia che avevano cambiato il mondo delle navi.

Chi era San Pé?

I suoi ricordi di gioventù risalivano ai primi imbarchi sui leudi che trasportavano i minerali, estratti dalle caverne di Buggerru, al porto di Carloforte dove venivano caricati sui bastimenti a vela..A bordo di quei legni fece le sue prime esperienze venendo a contatto con anziani marinai ormai in disarmo, ma che avevano ancora tanto da raccontare e da insegnare ai giovani di buona volontà. Piano piano il suo orizzonte si allargò in direzione dei quattro venti, ma il suo modo di pensare la navigazione non andò mai oltre quel cerchio che lambiva le sponde del Mare Nostrum di cui conosceva, alla stregua di un pirata del passato, umori, rumori, odori, tane, anfratti, baie e baiette, punte, promotori e insenature. Spesso San Pé nominava quei siti con lo strano linguaggio di chi aveva un improbabile grado di parentela con la “seaspeak” internazionale. Tuttavia, quando per pura curiosità qualcuno di bordo andava a cercarli sulla carta nautica, non ne trovava traccia. Erano nomi di fantasia. Si, proprio come “svalutation” di Adriano Celentano… e, guarda caso, Sampé amava lo “svitato” alla follia. Entrambi avevano la stessa opinione della comunicazione:

“la gente ama sentirsi dire le “belinate” che sa già o che non saprà mai… e ciò l’esime dal farsi scrupoli di coscienza… Intanto lo dice Celentano in TV”!

Amava distribuire pillole di saggezza ai giovani che l’ascoltavano ammirati: “nascondere la propria ignoranza dietro una “buffonata alla Celentano”, è come prendersi la rivincita verso quel mondo che vede nella lingua inglese la soluzione di tutti i problemi della globalizzazione”.

In quella ormai lontana gestione della scienza nautica pre-tecnologica, una plausibile spiegazione a quei “misteriosi” punti geografici imparati a memoria dai vecchi naviganti c’era, ed era questa: essi venivano usati nelle rispettive lingue del Mediterraneo, ma a bordo s’imbastardivano con i dialetti costieri dei nostri marittimi, e tali “suoni” rimanevano storpiati per sempre, nella convinzione che quei nomi fossero “originali” e da preferirsi a quelli stampati sulle carte che erano stati imposti dagli imperialisti inglesi, francesi e americani… (così raccontavano!)

San Pé si difendeva dai ritmi della scienza che avanzava dicendo:

“Noi gli abbiamo sempre chiamati così! Forse con tutti i colpi di stato che ci sono stati nel Nord Africa, qualcuno avrà cambiato i nomi…”

Tuttavia, fin da ragazzo, il suo pensiero era immerso nella dura realtà dei colpi di mare e spesso sosteneva:

“i fatti contano più delle parole, le quali sono usate, spesso, come ami per pescare i “boulagi” (pesci stupidi), cioè i creduloni…”

All’epoca della vela, prima di ogni viaggio, il mozzo San Pé faceva il giro delle bancarelle per recuperare vecchie carte e portolani salvati dalla demolizione o, più spesso di giorno, ma anche di notte…, “salpava” bussole, bozzelli, pulegge ed anche cavi dai relitti spiaggiati sulla costa con lunghe apnee subacquee.


Di lui si racconta che avesse la fissa per la “ruota del timone” alloggiata su ogni ponte di comando presente nel suo raggio d’azione, e che di notte si arrampicasse sulle navi alla fonda per rapinarle, anche in presenza di guardiani o marinai addormentati. Egli stesso raccontava, sotto lo sguardo incredulo dei suoi amici del porto, d’aver rivisto quelle imbarcazioni navigare usando la chiave inglese… al posto della ruota a caviglie.

Quel lavoro gli procurava qualche soldo e molta considerazione da parte dei vecchi padroni marittimi che già intravedevano nel suo coraggio “corsaro”, un futuro da capitano. Infatti, appena i tempi lo consentirono, lo istruirono secondo scienza e coscienza e se lo portarono a bordo con il titolo di “marò contrabbandiere…”.

Un nomignolo affettuoso che spesso veniva assegnato ad un folletto porta fortuna.

Iniziò così, con molta intraprendenza e curiosità, il suo lungo tirocinio fatto di esperienze pratiche alla scuola dei grandi marinai di quel tempo.

All’epoca, sebbene circolassero navi a motore anche grandi e se ne avesse puntualmente notizia, la mentalità dei tanti San Pé considerava la presenza del motore nella pancia di un Leudo, o di un qualsiasi veliero costiero, alla stregua di un infido estraneo che toglieva loro il sonno…

Era impossibile abituarsi a quel rumore senza pause che, oltretutto, faceva scappare anche il cibo fresco di ogni giorno: i pesci azzurri che lasciavano il posto a tavola a quei fumi insopportabili e pericolosi per la salute.

Al contrario, il vento era per i silenziosi marinai dei leudi, il propulsore ideale che la natura forniva senza chiedere nulla in cambio, e per chi lo sapeva catturare, era anche molto più efficace del motore.

Come i pescatori cercavano il pesce per campare, così i marinai dei leudi cercavano il vento per fare miglia su miglia per “sbarca u lunaio”. Purtroppo, quando il motore soppiantò la vela in tutte le statistiche del mondo, iniziò il grande esodo dei vecchi marinai che si portarono i loro segreti del mestiere nell’oltretomba motivando così il loro pensiero:

“Perché passare le consegne ai giovani traditori del vento che scappavano sui bastimenti ad elica?”

E spiegavano:

“Perché regalare i segni delle frustate prese a Capo Horn e nel Leone a gente che domani imbarcherà sui vapori e non farà più i bordi per rimontare il vento? I novelli marinai andranno sempre dritti in cerca di porti dove sbarcare ed imbarcare merce al ritmo di: ‘avanti marineros’. E prenderanno facciate contro il muro del Mistral, della Bora, del Candia e del Meltemi …! Noi invece andavamo sempre in cerca di ridossi per sopravvivere nell’attesa di venti favorevoli. Si navigava e si riposava randeggiando le coste senza sfidare l’ignoto.

Sul leudo vinacciero” di mio nonno per passare la vela latina da un lato all’altro dello scafo, servivano 4 0 5 marinai svegli, esperti e sincronizzati come un cronometro. Era una manovra difficile e pericolosa, ci volevano braccia allenate e potenti come bighi di forza. Un “mozzo bagascetto inesperto” veniva spedito fuori dai coglioni, perché non sapeva muoversi sulla coperta a schiena d’asino, tra bozzelli che facevano l’altalena da una paratia all’altra… Era meglio una testa di c… in più che un mozzo di meno…”

Un vecchio proverbio ricorda:

– Fa comme o demöa che pè andà a poppa o giâva l’erbo de prua.

– Fare come lo sciocco che per andare a poppa girava l’albero di prua.

San Pé non vede l’ora di descrivermi quella manovra come se la facesse dal vivo…

“Servono quattro o cinque persone. Il timoniere allenta la scotta e mette la barca al vento. Un marinaio allenta la sartia sopravvento ed un altro cazza la cima dell’amante dell’antenna in modo che non scivoli verso prua ed allenta la l’amante della trozza in modo che l’antenna sia più libera. Un altro marinaio tende l’amante della drizza in modo che l’antenna si alzi fino a che il corso superi il capo di banda ed entri dentro la barca. Uno deve togliere l’imbracatura dell’antenna dal dritto di prua e lasca l’orza davanti a quella di poppa. Un marinaio prende la cima della scotta e la sposta dal lato opposto. Un altro marinaio prende la base dell’antenna e la porta alla base dell’albero. In due si mettono alla base dell’albero e fanno girare la base dell’antenna dalla parte opposta mentre un altro marinaio cerca di non far sbattere la vela. Contemporaneamente un altro marinaio è pronto a tendere la trozza. Si tende l’orza davanti e la mura; si abbassa l’amante della drizza fino a far tornare la base dell’antenna al suo posto. Il timoniere fissa la scotta e mette la barca al vento. Su un leudo la manovra dura una trentina di minuti. Si deve tener conto che alcune volte non si fa tutta questa manovra. Non facendola, la vela andrà a sbattere contro l’albero formando quasi una doppia vela. Navigando in questo modo, si ha l’andatura chiamata: a daredosso.

A distanza di oltre 70 anni i peli del mio naso puzzano ancora di bitume, di biacca e di salmastro. Quei ricordi me li porto sulla pelle e su questo nasone che ha fatto ridere il Mediterraneo, specialmente quello arabo ed ebreo che, al contrario del mio, sembrava il tagliamare di un falco pescatore”.

San Pé, un filosofo del mare

– Lascià andà l’aegua inzù

e o vento in sciù.

– Lascia scendere l’acqua e salire il vento (non ti opporre al destino)

Il grande oceano di San Pé si muoveva lunatico e malizioso nella fascia passante da Gibilterra a Suez, ma nulla lo attirava fuori da quei passaggi. La sua storia marinara ignorava, senza pregiudizi e curiosità, le lontane scoperte geografiche con tutte le loro novità…

In quella specie di grande lago, le rotte erano strade da scegliere a seconda delle stagioni e lui avvertiva sulla pelle quando era il momento di avanzare, arretrare o deviare e spesso diceva: “L’importante é arrivare, non quanto ci si mette!”

Aveva una specie di sensore, piazzato chissà dove, che agiva sulla sua pressione sanguigna. Il maltempo gli avvinazzava il naso come un pagliaccio da circo, e funzionava da barometro tendente al brutto per tutto l’equipaggio.

San Pé ripeteva: “Il bollettino del tempo che riceviamo via radio, altro non è che l’opinione di quei “marescialletti” che portano a casa lo stipendio, senza rischiare la pelle come i marinai, quindi: calma e gesso, la burocrazia la lasciamo agli scribacchini, al resto dobbiamo pensarci noi”.


Per San Pé era più facile entrare in sintonia con un gabbiano che con l’addetto al servizio meteo dell’aeronautica che, nei giorni di pioggia, per fare pochi metri di strada, apre l’ombrello per non bagnarsi l’uniforme.

“Cosa abbiamo in comune con loro?” – diceva grattandosi il naso – “neppure l’acqua dei piovaschi, che per noi sa di sale, di sabbia del Sahara, di minio ed è pure diuretica!”

Quando i ochin xeuan in tæra unn-a burriann-a a no l’è lontann-a.

– Quando i gabbiani volano a terra, la burrasca è vicina.

Poi, la sua solitudine diventava romantica:

Se invece osservi attentamente il comportamento di ogni singolo gabbiano dandogli la stessa importanza che merita un tuo caro amico, lui si esprimerà con gli occhi, con il corpo e con le ali. Se lo sai interpretare, lui è meglio di Civitavecchia Radio che lavora sulla 1888 Kc, è meglio di un drone moderno che lanci a grandi altezze per spiare il cielo.

L’ochin (il gabbiano) é sereno quando naviga sulla tua stessa rotta, mentre sollevi aria calda che lo spinge in alto senza faticare. Ti sta vicino aspettando un po’ di cibo per poterti accompagnare. Anche lui naviga tutto il giorno, ed ha le tue stesse paure, perché deve nutrirsi, veleggiare, riposare ma anche scappare verso terra quando il vento rinforza. Il gabbiano ha i nostri stessi problemi esistenziali: se il tempo peggiora, lui lo sente prima di noi perché abita qui tutto l’anno e da sempre. Vedi? Oggi segue noi; 2000 anni faceva le stesse cose con le navi onerarie dei romani.


L’ochin ogni tanto parte per la tangente e va a volare sopra le nuvole fino a prendersi il suo bollettino personale. Più sale e più riesce a vedere oltre l’orizzonte, ma essendo anche un sensitivo, come spiegano le antiche leggende, capta gli urli striduli dei suoi simili francesi portati dal vento del Leone laggiù, sulle rive di Sète e La Nouvelle, dove la nostra rotta termina e s’infila a “porto cosce”… L’Ochin li sente, li vede e legge le loro ansie nei cerchi che disegnano il cielo tra le raffiche del vento.

Ma in quota il vento è più forte e più freddo, e il gabbiano con una stretta virata ritorna in picchiata sulla nave per avvisarci che il MISTRAL è incazzato con qualcuno, forse con le navi e con i marinai che sporcano e offendono le sue creature. Le burrasche e le tempeste esistono solo perché esistono gli usurpatori del bene di Dio”.

Una nave sta uscendo dal canale di Multedo e San Pé inforca i binocoli ed osserva:

“Il giovane ufficiale che vedi sull’aletta di plancia è distratto e pensa che l’ochin in volo accanto a lui sia soltanto un famelico opportunista… A quel moderno navigatore hanno insegnato a fidarsi soltanto della tecnologia che avanza su un terreno di puttanate chiamate “modelli matematici” che s’illudono di fornire certezze per migliorare la sicurezza del marinaio e della nave.

Chi veu passà per belinon, giudighe ô tempô.

– Chi vuol passare per fesso, giudichi il tempo.

I bollettini del tempo sono ciclici e vengono emessi su determinate frequenze, ma la matematica lavora sul presente che, al momento della trasmissione, appartiene già al “passato”. A noi interessa solo il futuro. Cosa succederà tra qualche ora? I dubbi trasmettono dubbi, mai certezze! Noi che navighiamo pieni di dubbi, possiamo solo rimediare ricorrendo ai ricordi di quelle esperienze vissute sulla nostra pelle.

In mare, per “esperienze” s’intende quella serie di errori che hanno una loro antica etichetta: “comme no pigialo in to cù!

La matematica è difficile da capire, specialmente quella che racconta delle musse…”

Per il comandante San Pé, il volo del gabbiano é il migliore bollettino dell’aeronautica naturale. Ma che vuol dire?

Ero un ragazzino e finita la scuola m’imbarcavo sui leudi che veleggiavano al largo di Carloforte, non lontano dagli isolotti del Toro e della Vacca, per la pesca delle acciughe. A quel tempo non c’erano le radio portatili e le TV a tenerti compagnia e questi due scogli sembravano distanti un oceano dalla terraferma. Gli anziani di bordo erano l’unica voce di terra, i loro racconti erano la nostra radio. Non si perdeva una parola dei loro racconti di guerra, di mare, dei santi protettori, delle superstizioni, dei pesci di ogni tipo. Il tempo che occorreva per riempire le corbe e rientrare in porto, era pieno di racconti vissuti, non solo, ma anche di favole e tanta fede nella Madonna di Carloforte, in Sant’Erasmo e ai tanti miracoli che sempre dispensavano ai marinai.

Sant’Ermo in cöverta o lava cöverta e corridô.

– Fuochi di Sant’Elmo in coperta preannunciano pioggia a lavare coperta e corridoi.

 

“Gabbiani” da POESIE

Non so dove i gabbiani abbiano il nido,

ove trovino pace.

Io son come loro,

in perpetuo volo.

La vita la sfioro

com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo.

E come forse anch’essi amo la quiete,

la gran quiete marina,

ma il mio destino è vivere

balenando in burrasca.

Vincenzo Cardarelli

 

E i gabbiani? “Già, i gabbiani li avevamo sempre addosso, specialmente quando salpavamo le reti ed erano affamati di pesce fresco. Ma ogni marinaio parlava sempre con lo stesso ochin che gli andava vicino per farsi coccolare: quando poi era sazio, si faceva pure la pennichella. Forse erano gli ochin che ci sceglievano e ci ammaestravano per evitarci guai maggiori. Ma se il tempo peggiorava, il gabbiano lo sentiva anche prima del barometro, diventava nervoso, scrollava spesso le ali e poi partiva improvvisamente, prendeva quota e saliva molto in alto fino a scomparire. Andava a scrutare il cielo, le nuvole e l’orizzonte, il colore del mare e le creste bianche ancora lontane che annunciavano la burrasca. Poi scendeva a cerchi concentrici fino a posarsi sulla coperta in cerca di caldo e del suo amico.

Apriva e chiudeva il becco velocemente per dirgli che aveva visto il tempo gramo all’orizzonte. Era il suo linguaggio e noi avevamo imparato a capirlo.

Quando presi il comando, battezzai col nomignolo Giuan l’amico gabbiano che mi aveva adottato. Era il più attento dell’equipaggio ed era imbarcato senza paga! Man man che la depressione atlantica s’avvicinava, il suo nervosismo era palese e contagioso. Subito sgombravo la coperta dalle cose ballerine, facevo rizzare le ceste del pescato, si toglievano gli attrezzi e approntavamo la vela latina per andarci a cercare un ridosso.

Giuan aveva sempre ragione! Anche il colore del mare ci dava i suoi segnali d’allerta, da verde appena increspato si trasformava in mare lungo che arrivava in abito grigio un po’ striato, lacerato e montagnoso trascinandosi profonde ferite e ricordi di violente burrasche”.

Ecco chi sono i veri lupi di mare: quei marinai che osservano i gabbiani salire per calibrare la densità delle nuvole, e poi scendere penetrando il colore del mare striato dal vento.

I lupi di mare appartengono ad una razza che si è estinta con l’avvento del motore. In terra si odono le favole diffuse sui pontili turistici per quei cazzoni della domenica che sfidano il mare per vantarsene il giorno dopo con i colleghi dietro una scrivania. I veri lupi di mare fiutano le burrasche in arrivo e scappano in tempo per salvare l’equipaggio, il carico e sanno come evitare i danni alla barca.

“Quando il nostro vecchio Capitano spariva per un attimo dalla coperta, gli altri si allarmavano: ‘u comandante u l’è andato a controlla u barometro’.

Quello strumento è una calcolatrice che tira le somme di tutti i segnali percepiti a bordo. Se la sua tendenza è a scendere, la fuga verso il ridosso sarà rapida e sicura”.

In tempo di tempesta, ogni scoglio è porto.


Questo è il viso tagliato e bruciato dal sole, dal salino e dai colpi di mare di uno dei tanti San Pé che hanno donato la propria vita al Mare Nostrum.

Sampé si è cammallato un testone di capelli neri e ondulati fino a tarda età e spesso ripeteva d’aver coltivato quelle onde per esorcizzare quelle che il Padreterno gli inviava come monito per i suoi peccati. Le orbite quasi sempre gonfie, facevano filtrare dalle palpebre due occhietti neri e sospettosi che nessuno ebbe mai l’occasione di vederli nella sua grandezza e rotondità.

Non rideva spesso per non esibire la maschera ridicola che gli si formava sul volto avvinazzato e involgarito dal quel naso che gli fu schiacciato dalla maldestra rollata di un bozzello penzolo a bordo del leudo “Bastiano” di suo nonno Zeppin.

Ma il più delle volte si “vendeva” quella ‘prua rincagnata’ come un trofeo guadagnato sui ring di mezzo mondo e se qualcuno gli faceva notare che le date non quadravano, rimediava raccontando di una scazzottata coi magrebini in cerca di guai… nell’angiporto di Djerba.

Del pugile, peso mosca, aveva soltanto quel naso minaccioso. Le sue spalle ricordavano un paraegua serou e le braccia magre potevano sollevare si e no un sacco da marinaio già svuotato. Le sue gambe arcuate lo facevano rollare anche quando camminava nella ciassa du pàize: segno evidente di una stabilità più marinara che terrestre.

Piuttosto basso di statura, passava inosservato come quei piccoli gozzi “cornigiotto” del ponente genovese che hanno la prua a rientrare, e li guardi soltanto per la curiosa pernaccia che hanno sul dritto di prora.

Nella sua vita di bordo, San Pé era stato più in mare che a casa, ma la sua famiglia non era l’equipaggio di cui si sentiva un benevolo Capitano, un compagno autorevole di viaggio, ma mai un padre. Sampé non era nato per fare da padre a qualcuno, neppure a quelli del suo sangue che l’aspettavano sulle alture di Pegli, di cui parlava poco, ma si capiva che proprio là si annidavano le uniche persone che gli mancavano di rispetto. Spesso diceva che “la confidenza porta all’irriverenza”.

Maina diffiçile da contentà; quando o lè a bordo ô vô ê a cà, quando ô l’è a cà ô vou êse in mà.

– Il marinaio è difficile da accontentare; quando è a bordo vorrebbe essere a casa e viceversa.

Aveva due figli maschi che pensavano, con una certa crudeltà, che il mare “rimbambisce i marinai e li rende inadatti alla vita di terra!” Anche i nipoti la pensavano ormai allo stesso modo e Sampè glielo leggeva negli occhi, ed era ormai consapevole che a nessuno di loro interessava minimamente ascoltare le sue avventure di mare. Una vita senza senso? Chi lo sa? Forse è il destino che accomuna tanti malati del ferro…

Ma San Pé non reagiva più di tanto, in casa si era ormai identificato nel classico ospite che dopo tre giorni puzza, proprio come il pesce… Infatti, appena il tempo era scaduto, il suo pensiero correva a consolarsi a bordo dei suoi barchi popolati da spiritelli ignoranti, taciturni e di buon comando, che bevevano ogni cazzata espressa dal loro Capitano senza discutere, non per paura del diavoletto con il naso schiacciato, ma perché non gliene fregava un cazzo, come il loro piccolo duce, del mondo riparato, all’asciutto, a ridosso delle dighe, delle montagne, dei preti e di quei politici che non sanno neppure che le navi e i marittimi esistano al largo da Ciassa da Bobba..

In quarantenn-à ö mainà ö sö menn-à.

– In quarantena il marinaio….si annoia.

San Pé si sentiva in qualche modo un privilegiato che poteva comandare – almeno – quando era a bordo… e decideva da solo il da farsi per sopravvivere ed essere considerato per quello che era e faceva, senza gloria e senza onore.

A casa, se c’è il temporale, qualcuno chiude le finestre, magari stacca la corrente e non c’è bisogno di guardare i gabbiani ed il colore del mare per conoscere l’intensità della pioggia in arrivo.

In mare, il Capitano deve prevedere, vedere e provvedere a tutto prima che succeda il casino! Ecco l’ansia che sbarca e poi reimbarca con il marinaio fino alla posa in sicurezza del Libretto di Navigazione tra i cimeli di famiglia…

Avete capito che l’uomo di mare in casa rompe solo le balle perché ha la mania del rispetto degli orari di bordo, precisi nel mangiare, nel dormire e nel passeggiare sull’aletta, che a casa è il classico poggiolo… Ma non sopporta neppure quel telefono che squilla dalla mattina alla sera, e tutto è preceduto da urli e rumori strani che vengono dalla strada, dalle TV dei vicini di casa e dalle pignatte della cucina che sembra quella di un manicomio e poi precisa:

“A bordo si usa il telefono solo per le emergenze: incendio a bordo, uomo in mare, il motore che va fuori giri, lo scafo che fa acqua per una falla ed ogni rumore sospetto ti fa salire il cuore in gola.

In terra ci sono quegli anonimi ospiti che entrano ed escono come se la casa fosse un porto di mare, ma che in realtà è più simile ad un casino di via Pré… Per me la casa è piena di clandestini!

Belin, a bordo il direttore di macchina quando viene sul ponte, chiede il permesso per rispetto, non tanto del Comandante, quanto perché è l’unico luogo sacro della nave! A casa mi svegliano a tutte le ore con quei c… di cellulari, entrano nella stanza senza pensare che sono sbarcato e mi trovo a casa mia, nel mio letto!

Belin! non ne posso ciù!” Se non fossi così vecchio sarei già scappato con la prima nave in partenza da Ponte dei Mille, magari come un clandestino magrebino, e non mi avrebbero più visto”.

Ogni volta che San Pé sbarcava, queste scene si ripetevano ed erano sempre le stesse, nervose e un po’ comiche da cui si capiva che il tempo necessario per ambientarsi in famiglia era sempre troppo breve.

La gente di mare teme solo gli umori del vento che solleva il mondo e glielo rovescia addosso sbattendoli da paratia a paratia come i pesci rondine. Quella valanga di acqua salata gli fa una gran paura! I marinai non volano e non sorvolano le onde come fanno i gabbiani, e sanno che un buon Capitano è l’unica assicurazione che hanno sulla vita. Ecco perché a bordo LUI ha sempre ragione! Ecco perché lo scorbutico San Pé era amato dal suo equipaggio che ripeteva alla noia: “Lui sa sempre come riportarci a casa…”

Persino il direttore di macchina, l’unico che poteva permettersi di contraddirlo, con molta prudenza, gli lasciava sempre l’ultima parola. Se il Capitano era sereno anche la navigazione scivolava via come l’olio e il vento in poppa. Se il tempo s’imbruscava anche San Pé diventava un po’ nervoso ed anche i suoi pensieri cambiavano colore.

San Pé sapeva che la nave era la sua casa, ma ne percepiva chiaramente i confini: viveva in quell’ambiente senza gradi di parentela con l’equipaggio, per lui i marinai erano inquilini in affitto, provvisori e saltuari che avevano un contratto di lavoro da rispettare, ma che occorreva tenere sotto pressione, per farli lavorare. Per lui l’armatore era una vecchia volpe, che non capiva un cazzo di mare ma aveva bisogno che qualcuno navigasse per lui fino alla vecchiaia con navi che erano da demolire alla fine di ogni viaggio in corso. I macchinisti erano infidi perché si occupavano solo della parte bassa del centro nave, come se il resto dello scafo non fosse di loro competenza. Ma qualcuno che facesse girare quell’elica del cazzo ci voleva a bordo. Quegli ometti neri e sporchi di grasso che scendevano e salivano dalla macchina con in mano lo straccetto bianco, bucato e intriso di rumenta li considerava soltanto come operai abusivi imbarcati per caso dai sensali dei caroggi.

San Pé aveva provato il vero amore soltanto sui barchi di legno dei primi decenni del ‘900.

La sua mentalità, ormai lo avete capito, era rimasta ancorata ai leudi ai velieri, ai pinchi, alle paranze… sui quali esisteva un Capitano che interpretava gli ordini del Signore dei cieli, quindi di chi comandava veramente manovrando il vento e il mare per far girare il mondo.

In seguito l’uomo, con l’avvento della tecnica, si è montato la testa, si è sostituito al Padreterno ed ha voluto il bastone del Comando facendosi chiamare Comandante!

Per Sampé avevano diritto di chiamarsi marinai soltanto chi sapeva impiombare i cavi di canapa e d’acciaio, rammendare i cagnari, armare bighi di forza, asciugare le stive a regola d’arte, costruire fardaggi e qualsiasi tipo di tapullo, sostituire draglie, amantigli, pescanti, usare il cemento a pronta presa come un “massacan” di professione, tenere le pitture e pennelli in ordine e manutenere cavi, cime, bozzelli e pastecche come ai tempi della vela.

La nave doveva essere sempre pitturata, anche se vecchia e vicina alla demolizione. Essa doveva essere elegante e pulita come il vestito dell’armatore che dava loro da vivere. Per San Pé era inconcepibile entrare in un porto con la nave “arrumentata”. Non era dignitoso per il Comandante che avrebbe dimostrato al mondo di non saper comandare, ma lo era soprattutto per il suo datore di lavoro che aveva un nome dignitoso da difendere su tutte le “Piazza Banchi” del Mediterraneo.

Il suo sogno ricorrente era la leggendaria epopea della vela popolata da quei fantasmi che si arrampicavano come scimmie sugli alberi inclinati del veliero sotto i colpi di mare gonfiato dal vento “ruggente”. Quando i marinai erano tutti eroi sotto gli occhi di pochi testimoni che gli volavano intorno con le ali plaudenti, oppure gli nuotavano a delfino sotto la prua sbandata a sottovento.

Sant’Antonio Sant’Antonio, t’æ a barba d’öu se ti ne mandi o vento in poppa, ma se no ti t’arregordi de nöi, ti l’æ de stoppa.

– Sant’Antonio, Sant’Antonio hai la barba d’oro se ci mandi il vento in poppa, ma se ti dimentichi di noi, ce l’hai di stoppa.

San Pé era un Capitano la cui autorità gli era conferita dalla sua storia personale. Una specie di “crociato” che correva su tutti i mari con la benedizione di quel Dio supremo che lo avrebbe protetto dalle malefatte del maligno, dalle tempeste di Eolo che non aveva pietà dei marinai.

Per questo ruolo San Pé si era scelto la sua dottrina. Poche idee ma chiare:

In mare non ci sono certezze – Non ti puoi rilassare – Il mare non ascolta le tue debolezze – Il mare non accetta le tue bugie perché ti legge dentro – Il mare non sopporta le sfide.

– Pochi sono gli uomini che possano dare del tu al mare, ma non lo fanno mai! Perché in mare non ci sono taverne e l’unico Tabernacolo dove ripararci, il primo della storia moderna, è il ventre di Maria che fu la prima Chiesa di Cristo. Ecco perché noi dell’Isola adoriamo la Madonna dello Schiavo!

Da millenni e per ogni situazione, il marinaio ha coniato proverbi per il suo vecchio mare, anche per il comandante della Costa Concordia:

CHI CASCA IN MARE E NON SI BAGNA, PAGA LA PENA”

San Pé, come la maggior parte dei marinai, fin da ragazzo aveva capito quanto la sua vita fosse nelle mani del cielo. Questa era la sua forza! Ma la sua impostazione mentale gli proibiva di chiedere Grazie e Miracoli, non aveva mai chiesto alla Madonna di Carloforte di aiutarlo a salvarsi da una tempesta, lui chiedeva un aiuto per aggirare la tempesta. In questo passaggio c’era tutto il suo modo di interpretare l’Arte della Navigazione, che non era improntata alla paura dell’elemento in cui era nato, ma al raziocinio e alla fede di chi aspira all’umiltà e alla prudenza per partire ed arrivare, sempre!

La sua accortezza aveva quindi una radice mistica!

Sampé portava al collo una catena con un ciondolo molto particolare.


U Sordo

Ero un ragazzino! Gli uomini erano tutti imbarcati e sull’isola c’erano solo gli anziani pescatori. Spesso andavo a trovare “U Sordo” mentre

rammendava le sue reti all’interno di una profonda nicchia nella roccia che era intasata di attrezzi da pesca, cumoli di reti da riparare e tante conchiglie colorate, valve e bivalve di ogni colore e misura, coralli senza valore, ma anche anfore ancora ben conservate che teneva nascoste e al buio. Barba bianca, cuffia di lana ognitempo, camminava sempre senza scarpe e i pantaloni arrotolati fino alle ginocchia. Quella era la sua uniforme. Le sue mani grandi e nodose non sembravano adatte a maneggiare filo e aghi eppure riparava reti per tutti i giovani pescatori che ogni notte si avventuravano in mare aperto.

La sua grotta emanava odore di alghe e di bitume come il suo maglione frastagliato di posidonia. Quel mitico antro dal sapore antico aveva qualcosa di magico che solo lui, col suo carisma poteva incarnare.

Ogni volta che decidevo d’andarlo a trovare, mi rifornivo di vino e qualche sigarette che “salpavo” in giro… Quello era il sistema migliore per far parlare U Sordo.

Ma quel giorno fu lui a pormi una domanda:

“Vuoi andare a navigare?” Capii che voleva darmi dei consigli raccontandomi qualche sua avventura. Dopo la mia ovvia risposta, posò il guardamano, e lasciò l’ago infilato nella tela olona, mi fissò con quegli occhioni neri da magrebino che erano ricoperti da sopracciglia bianche e folte che formavano una visiera naturale.

“A scuola t’insegneranno a far di conto, ma l’arte del navigare la dovrai imparare da solo! Io affrontavo il Mar di Sardegna a ponente do Paize soltanto con il tempo assicurato e d‘estate, senza mai allargarmi più di due miglia dalla costa. Da quella parte il mare ti frega ed il vento sa come bastonarti. Non ti fidare!

Fin dai tempi delle navi onerarie dei romani, chi si mollava da qui per raggiungere Marsiglia con rotta diretta, ci lasciava la barca e la vita perché prima o dopo faceva in conti con il Mistral. Questo succede ancora oggi dopo 2000 anni. Persino i grossi traghetti della Tirrenia, se hanno dei lupi di mare al comando, passano da levante perché arrivano prima e in sicurezza.

Ho pescato e dragato i fondali di ponente per oltre 60 anni e quello che ti ho detto è tutto scritto sul fondo: un cimitero di navi. Ci sono file lunghe miglia e miglia di anfore gettate in mare per alleggerire la nave, alcune di queste le ho recuperate e le tengo nascoste come monito per mostrarle ai futuri marinai come te. Dai retta a me, passa sempre da levante anche con navi più grandi di un pinco, anche con navi a motore. Se devi andare a Marsiglia, Barcellona, Valencia e Gibilterra, passa da levante. Se c’è il Leone lo senti già nel golfo di Orosei. Arriva fino alle Bocche di Bonifacio e studia bene il vento e le nuvole. Se hai il minimo dubbio prosegui per Capo Corso, se c’è scirocco a levante, prima o dopo fa il giro a libeccio e poi sfonda a Maestrale e lì sei scoperto. Calcola bene e poi buttati sul Tino, se va male lo prendi al “giardinetto” e te ne vai a ridosso finché sfoga girando a tramontana. Quando il vento ha fatto tutto il giro dell’orologio vai a randeggiare le coste dell’intera Liguria tenendoti sotto costa il più possibile. A Marsiglia ci arrivi di sicuro! Le miglia che hai perso facendo il giro, hanno allungato la vita tua e del tuo barco.”

Frastornato da quella confessione… San Pé riprende ammirato il racconto di quel pomeriggio.

“Rimasi silenzioso ed incredulo, ma presto mi convinsi che la saggezza dimorava nell’animo marinaro di quell’uomo che parlava solo per il mio bene.

Quella lezione mi entrò in testa per sempre. Più in là nel tempo capii che U Sordo aveva più esperienza di mare di tanti “diplomati” che in Mediterraneo avrebbero capito quella lezione di navigazione quando ormai era troppo tardi. Il mare si fa amare e si fa odiare perché ti mette sempre alla prova, fino all’ultimo giorno prima della pensione.

Di quell’indimenticabile incontro con U Sordo nella sua tana, mi rimasero due tatuaggi marchiati a fuoco:

Nei miei oltre 70 anni di navigazione passai a ponente della Sardegna e della Corsica soltanto quando vi fui costretto dalla destinazione del carico. E non me ne sono mai pentito!

Quel pomeriggio U Sordo mi regalò un antico monile. Se l’era trovato impigliato nella rete. Lo raccolse e se lo appese al collo come una reliquia per sentirsi da quel giorno un anonimo sacerdote del Mediterraneo. Quel pomeriggio me lo volle donare, forse per sigillare la nostra amicizia, o più probabilmente per testimoniare il passaggio di consegna da una vecchia vita di mare ad una nuova, per risorgere lui stesso nel segno della continuità della fede e dell’amore verso il mare.

Da quel giorno, questo monile lo porto sulla mia pelle, giorno e notte. Quel simbolo era già stato sul torace di un marinaio ai tempi di Gesù Cristo, un cristiano della prima ora che mostrava con orgoglio la propria fede.


Il Chrismon é un antico simbolo religioso cristiano. Esso rappresenta il nome di Cristo, il termine proviene dalle parole latine “Christi Monogramma” che significa monogramma di Cristo. Il simbolo é formato nella sua versione base da due lettere, una X e una P, che in greco corrispondono a “chi” e “rho”, il monogramma di Cristo é denominato pure Labarum, o “Chi Rho”, da cui si deduce facilmente il motivo della scelta delle due lettere X e P. Inoltre le suddette lettere contengono un secondo significato, la P e’ impostata in modo tale da somigliare ad un bastone da pastore, e la X una croce, a testimonianza del fatto che Gesu’ Cristo e’ un buon pastore per il suo gregge, e cioè’ per la Chiesa Cattolica.

 

CARLO GATTI

5 dicembre 2016