NEL MONDO DEI LEUDI

Il Leudo racchiude buona parte della storia marinara della Liguria. A Riva Trigoso, ogni famiglia possedeva un Leudo

Il Leudo é stata una imbarcazione da carico, probabilmente, di origine catalana. Simile l’albero inclinato, la coperta a ‘schiena d’asino’, il bolzone ed anche le linee d’acqua. Ed é anche vero che in tutta la Linguadoca-Roussillion si respira la stessa tradizione di Riva Trigoso e Sestri Levante. Nessuno da quelle parti trova il coraggio di liberarsi dei vecchi ‘Catalani’ (Leudi) che si trovano dappertutto, ormeggiati nei porticcioli, imbalsamati davanti alle scuole, nelle aiuole tra i fiori, disegnati sulle maioliche che ornano gli edifici, oppure sono forgiati sui cancelli in ferro battuto. Non manca quindi l’iconografia che racconta d’antiche campagne dell’acciuga che si perpetua ancora ai nostri giorni con gli stessi mezzi ormai motorizzati. A Collioure, Banyuls, Port au Vendres e dintorni, l’attività economica principale, dopo quella turistica stagionale, é la rivendita di acciughe sotto sale e sott’olio di grande qualità. Nella sezione Navi e MarinaiSaggistica navale di questo sito, trovate un racconto dedicato all’argomento. Si chiama MISTRAL.

Siamo indotti a pensare che le condizioni climatiche meteo-marine, ma anche quelle orografiche, corografiche e geografiche-portuali della Francia catalana siano del tutto simili a quelle della nostra Riviera e che le tradizioni commerciali nei secoli passati abbiano anche favorito scambi culturali di marineria tecnica, costruttiva, cantieristica ecc… Da noi il Leudo era principalmente adibito al trasporto di vino, olio, derrate varie, ma anche a quello di carbone e sabbia da costruzione importata dalla foce del Magra, dalla Sardegna e dalle Maremme.

Lo scafo appariva goffo e panciuto, ma era sicuro e manovriero. Navigava con equipaggio ridotto e ormeggiava dovunque senza problemi. La sua coperta ricurva imbarcava mare vivo e lo scaricava immediatamente dagli ombrinali senza accusare, per questo, pericolosi sbandamenti. La sua ampia vela latina era sostenuta da una lunga antenna, ed era in grado di bordeggiare grazie all’albero fortemente inclinato in avanti come gli antichi sciabecchi arabi. Il lungo bompresso acchiappava tanto vento sulla prua e dava slancio e penetrazione allo scafo che, come vedremo, aveva molte peculiarità tecniche di assoluta originalità e funzionalità. Di questa collaudata imbarcazione si vedono oggi soltanto alcuni ‘esemplari’ naviganti, grazie soprattutto alla passione di quei pochi skipper-armatori, che sono gli unici eredi, testimoni e portatori di una eredità storica meravigliosa.

Le foto che seguono sono state scattate nel Museo Marinaro Tommasino-Andreatta di Chiavari per gentile concessione del Comandante Andreatta, Direttore e Curatore del Museo stesso.

Modello diLeudo vinacciere’

(Museo Marinaro Tommasino-Andreatta, Chiavari-foto C.Gatti)


Modello di ‘Leudo vinacciere’ visto dall’alto

(Museo Marinaro Tommasino-Andreatta, Chiavari-foto C.Gatti)

Modello diLeudo vinacciere’ con le vele inferite

(Museo Marinaro Tommasino-Andreatta, Chiavari-foto C.Gatti)

Molti particolari tecnici sono visibili in questo modello di ‘Leudo vinacciere’

(Museo Marinaro Tommasino-Andreatta, Chiavari-foto C.Gatti)


Due Leudi in primo piano. Mostra Mare Nostrum Rapallo 2010- ( foto C.Gatti)

In alto sulla bacheca un Leudo rivano. Mostra Mare Nostrum Rapallo 2010 – (foto C.Gatti)

Una mitica FLOTTA di LEUDI ci lega al Nostro Passato Marinaro

Sebbene siano ormai in via d’estinzione con il loro ‘mitici’ personaggi, i Leudi sopravvivono intatti nella nostra letteratura locale, con un’imponente iconografia, ma soprattutto esprimendo il sentimento d’appartenenza ad una tradizione marinara che affonda le sue radici nei secoli e si estende per tutto il Mediterraneo. Non vi é nulla quindi da meravigliarsi se nel comune sentire, il Leudo rappresenta una solida ‘maglia di unione’ per la gente di mare, e non solo, della nostra Riviera.

I 5.000 capitani di mare sfornati dai nostri Istituti Nautici rivieraschi compivano nella bella stagione, ben prima dell’agognato diploma, i primi passi ‘marinari’ proprio sui Leudi, durante la celebre campagna delle acciughe alla Gorgona. Era un rito d’iniziazione, e su questi Leudi minori i futuri ufficiali imparavano innanzitutto a camminare con il piede marino, a convivere con la severa gerarchia ‘familiare’ e s’abituavano a mangiare gallette, pesce vivo, caponate, a dormire su quell’arcuata e scomoda coperta che spesso era spazzolata da mare vivo. Questa dura palestra era soltanto l’inizio di una carriera che continuava nelle estati successive sui Leudi maggiori che arrivavano in ogni angolo del mare nostrum, da Gibilterra al Mar Nero. Per i lettori del nostro sito abbiamo scelto due ‘pezzi’ dello stesso autore: Pietro Berti, un amico, un ricercatore appassionato della nostra storia. Pietro conosce il mare, ma soprattutto il lavoro sul mare che ha esercitato su navi importanti. Il suo range é molto vasto ma, a mio avviso, Pietro dà il meglio di sé nel raccontare il mondo del Leudo’, all’interno del quale si muove con la naturalezza di un membro dell’equipaggio, con la competenza di un costruttore navale, con la maestria di un maestro d’ascia, con la passione di un modellista di valore. Con lui c’imbarchiamo volentieri sul Leudo la cui parola evoca in noi ricordi giovanili di personaggi, di vele e di scafi che imperlavano di bianco il nostro Tigullio e ci ricordano una Rapallo che non c’é più.

Tombolo e Leudi a Rapallo

Rapallo 1902 – Leudi alla fonda davanti a Langano

La Rapallo che non c’é più… (Foto Agenzia Bozzo-Camogli)

Molti di noi, forse inconsciamente, scelsero poi la ‘via del mare’ proprio per quella fantasia e curiosità che ci riempivano gli occhi, ogni qual volta li vedevamo risalire il golfo e approdare sicuri con le botti di vino e di olio in coperta, ma anche con quel profumo dolciastro che aveva sapori lontani…

Carlo GATTI

Rapallo, 02.06.12


LEUDO LIGURE VINACCIERE

di Pietro Berti

Il Leudo è una tipica imbarcazione del Mediterraneo, le cui origini sono tuttora incerte: una delle ipotesi più plausibili ne fa risalire la nascita al Medio Evo.

In origine l’imbarcazione presentava un armo a due alberi inclinati verso prora con vele latine; successivamente avrebbe perso l’albero di trinchetto, sostituito da un bompresso con fiocchi, che rendeva il Leudo più agile da manovrare. Caratteristica era la forma a uovo dello scafo, con il bolzone dei bagli molto arcuato.

Barca marina molto solida, poteva affrontare condizioni climatiche proibitive anche per scafi più robusti e di dimensioni maggiori. Veniva utilizzata prevalentemente per il trasporto ed aveva un dislocamento che variava dalle 15 alle 20 tonnellate, una lunghezza di 15÷16 metri e una larghezza di circa 5 metri. Veniva usata soprattutto da piccole imprese per il proprio traffico di ferramenta, manufatti, attrezzi di vario genere, tessuti, generi alimentari (tipicamente formaggio, farina, legumi e vino, ma non si escludono altri tipi di alimenti).

Unico esemplare esistente di Argano a mano’ per virare il Leudo a riva.

(Museo Marinaro Tommasino-Andreatta. Foto C.Gatti)

Con l’ausilio di molte persone, il Leudo poteva essere alato (leggasi anche “trainato”) sulla spiaggia, offrendo così il vantaggio di poter commerciare con tutti i paesi rivieraschi sprovvisti di un porto o un molo.

Negli anni a seguire il 1900, in Liguria i Leudi ebbero grande diffusione, soprattutto nella riviera di Levante e in particolar modo a Riva Trigoso, tanto da essere poi chiamati anche Rivani.

Leudo – Ferdinando Bregante

DETTAGLI COSTRUTTIVI DEL LEUDO LIGURE

Queste annotazioni sono esposte il più sistematicamente possibile, in modo da descrivere al meglio il Leudo in ogni sua singola parte, per ciò che riguarda i dati tecnici e le misure disponibili. Capiterà spesso di fare riferimento alle misure rilevate sul Leudo – Angela Prima del ‘Bertumelin’, perchè sono per noi abbastanza indicative. Potrà anche capitare di nominare il Leudo del ‘Pizzarello’, ed in tal caso si fa riferimento al leudo – Fratelli Castagnola. Queste misure, come anche quelle del leudo Ferdinando Bregante, sono le più comuni, quindi quelle più utili. Dettagli e misure eccezionali verranno eventualmente evidenziate.

ALBERO

L’albero è costruito generalmente in pitch-pine, o in pino di Corsica, o in pino di Manierta, una località nei dintorni di Riva Trigoso.

Si noti l’inclinazione dell’albero in questo Leudo a Rapallo

La sua lunghezza totale, secondo la tradizione, corrisponde alla lunghezza della coperta. La regola espressa dal comandante G. Pezzolo – Oneto, secondo cui “l’albero di una paranzella sarà lungo tre volte la lunghezza del baglio maggiore” è altrettanto valida, perchè ne abbiamo verificato la corrispondenza. Il diametro, alla mastra di coperta, di un Leudo di 14 – 15 metri, è di 35 – 40 centimetri, mentre il diametro sotto la mandoletta, o calcese, è più o meno la metà. L’estremità inferiore dell’albero, che deve essere inserita nella scassa, termina con un’appendice quadrangolare detta micciotto.

Alla base dell’albero é visibile il micciotto. Leudo ‘Padre Pietro’ Costruttore S.Porcile. (foto C.Gatti)

Il micciotto può avere anche sezioni diverse, a seconda del costruttore.

Particolare della testa d’albero (mandorletta) del Leudo ‘Padre Pietro’ costruito da S.Porcile. (foto C.Gatti)

L’estremità superiore dell’albero è formata dal calcese, ossia la cassa che contiene le puleggie dove scorre l’amante o drizza dell’antenna. In dialetto questa cassa è detta amandoeta (amandueta), ossia ‘mandorletta’, perchè la sua forma è generalmente simile a quella di questo frutto. È composta da un nucleo centrale formato dallo stesso albero, opportunamente riquadrato, con le relative cavatoie, cui vengono poi aggiunte le maschette laterali che chiudono la cassa. Un cerchio in metallo, fissato alle estremità della mandorletta, tiene uniti i vari pezzi, contribuendo così a rafforzare il lavoro svolto dai perni trasversali. Dalla testa del calcese sporge l’ultimo pezzo dell’albero, ossia un fuso tronco conico (vedi foto) dove vengono incappellate le sartie. Anche questo pezzo è detto ‘minciotto’ (minciottu), ossia micciotto del calcese. Sopra il ‘micciotto’ viene applicato il pomo della formaggetta. L’albero del Leudo è inclinato in avanti, e se ha un’inclinazione regolare, la cassa dovrebbe cadere quasi sopra l’argano. Questa è una regola tradizionale, ma non vorremmo considerarla come una regola categorica.

Noi abbiamo trovato una foto del leudo – Nuovo Aiuto di Dio, fotografato perfettamente di fianco nel 1935. Rilevando l’angolo d’inclinazione dell’albero, rispetto alla linea di galleggiamento, abbiamo individuato una inclinazione di 17°, misura non distante dalla realtà, che dà peraltro risultati vicini a quelli della regola popolare.

GOLFARI E GALLOCCIE A PIEDE D’ALBERO


Leudo vinacciere ‘Padre Pietro‘. Mastra, boccaporto e tanti altri particolari tecnici, sono chiaramente visibili in questa rappresentazione

In corrispondenza dei quattro angoli della mastra d’albero sono sistemati altrettanti golfari. Il perno di questi passa attraverso la tavola di coperta corrispondente, e pure attraverso la sottostante anguilla, per essere poi fermato da un dado. Il diametro esterno dell’anello è di circa 8-9 centimetri. Ai fianchi della mastra d’albero sono sistemate due castagnole, che sono piccole galloccie a forma di T schiacciata, della lunghezza di circa 25-30 centimetri. Servono per dar volta alle drizze del polaccone, quando queste non sono in uso.

SARTIE

Per sostenere lo sforzo compiuto dall’albero, vengono usate delle sartie mobili, in numero di due, poste sempre di sopravvento alla vela. Ogni sartia è composta di due parti, il penzolo ed il paranco. Il penzolo è un cavo, spesso d’acciaio rifasciato, che porta nella sua estremità superiore una gassa che viene incocciata sul micciotto del calcese. All’estremità inferiore è assicurato invece il bozzello superiore del paranco, che è a due vie. Il bozzello inferiore del paranco viene assicurato alla landa per mezzo di un gancio giunto all’estremità inferiore dello stroppo del bozzello. A mezza via tra il bozzello ed il gancio viene fissato un coccinello, ossia una specie di caviglia, lungo 30 cm, che serve per darvi volta alla cima del paranco. Il gancio è lungo circa 15 cm, mentre la cassa del bozzello è larga circa 12 cm, per 18 di altezza. Lo stroppo del bozzello è in cavo d’acciaio rifasciato, catramato, e dipinto in nero. Le casse dei bozzelli, in genere, sono dipinte in bianco e più raramente sono verniciate a legno. A volte i paranchi sono uniti ai penzoli per mezzo di un grillo, per poterli levare durante le soste in porto.

LANDE

Le lande sono barre metalliche opportunamente sagomate e fissate allo scafo, dove vengono agganciate le sartie.

Particolari tecnici del Leudo ‘Padre Pietro’ costruito da Silvano Porcile (Presidente del Gruppo Modellisti Rapallesi). Le foto che seguono sono state scattate dall’autore che é anche il proprietario del modello. (foto C.Gatti)

Quelle del Leudo sono particolari, sono composte infatti da un tondino, di poco più di 2 cm di diametro, piegato in due in modo da formare alla sua estremità inferiore un anello dove viene inserito il bullone di fissaggio allo scafo. A partire da questo anello, fino all’estremità superiore, i tondini corrono uniti in parallelo. L’estremità superiore viene poi ripiegata verso l’esterno, in modo da chiudersi nuovamente su se stessa, ed accogliere così l’anello dentro il quale si aggancia il paranco di sartia. Proprio sotto la piegatura viene saldato un ferro piatto, rettangolare, con un foro a centro, dentro il quale passa un secondo bullone di fissaggio allo scafo. Questo secondo bullone è fissato all’altezza della tavola di cinta posta sotto il bordo. Generalmente sul Leudo vi sono tre lande per lato, e la loro lunghezza varia a seconda della posizione occupata. Nel leudo Angela Prima, la prima landa è lunga 110 cm, la seconda 113, mentre la terza è lunga 115. Anche se nella realtà non succede sempre, bisogna tenere a mente che una landa correttamente sistemata deve avere la stessa inclinazione della sartia corrispondente. La prima landa è posta alla stessa altezza dell’albero, di poppavia all’ombrinale corrispondente. La seconda è posta a poppavia dell’ombrinale seguente, mentre la terza è ancor più distanziata, infatti copre la distanza di due ombrinali. La prima landa accoglie sempre il paranco di trozza, le altre due le sartie. Nei Leudi minori e in alcuni latini vi sono solo due lande, mentre nei latini più piccoli vi è una sola landa, ed il paranco di trozza funziona pure da sartia.

ANTENNA

Nelle barche a vela latina la vela viene inferita ad un’antenna composta di vari pezzi, giunti da apposite legature dette inghinature. Visibili in questa foto ripresa nel Museo Tommasino-Andreatta di Chiavari.

In questa foto dell’autore, é visibile l’Antenna del Leudo in tutta la sua estensione

(Museo Marinaro Tommasino-Andreatta, Chiavari)

Il Leudo ‘Padre Pietro’ costruito da Silvano Porcile. Notare il disegno molto particolare del timone.

(foto C.Gatti)

Le antenne sono in abete e se ne segnalano due tipi fondamentali, usati sui Leudi maggiori. Come si può vedere dalle più svariate foto di Leudi, il primo tipo è formato da quattro pezzi. Il pezzo di base, con il fuso di maggior diametro è detto carro, ed a questo viene sovrapposto il secondo fuso detto penna. Se il carro è 9/9 di lunghezza, la penna è 8/9. La parte inferiore del carro, dove non viene sovrapposta la penna, resta libera, e vi scorrono le gasse delle orze. Noi, per comodità, chiameremo questo pezzo scorrimento. In base alle proporzioni stabilite lo scorrimento ha una lunghezza di 2/9. Sottoposto al carro, quasi al centro della sovrapposizione, vi è un terzo pezzo più corto detto lapazza. Il quarto pezzo è il pennaccino, o spigone, ed è un elemento mobile, che viene giunto o levato a seconda della vela che si usa, in relazione alla forza del vento. Il pennaccino è lungo 2/9, ma talvolta è di misura superiore. Questo in genere è sovrapposto per la sua metà, sull’estremità superiore della penna. La lapazza, di cui s’è già detto, ha delle lunghezze variabili ed è di diametro inferiore rispetto al sovrastante carro. Il secondo tipo di antenna è anch’esso composto di quattro pezzi, ma distribuiti diversamente. In questo tipo il carro ha la stessa lunghezza dell’antenna completa, meno il pennaccino, quindi 10/9 rispetto il tipo precedente. Nella parte inferiore abbiamo la solita lapazza, mentre nella parte superiore troviamo una lapazza molto lunga detta controlapazza. In pratica la controlapazza copre la lunghezza corrispondente a quella della sovrapposizione del tipo precedente, ossia 7/9. Naturalmente anche qui il quarto pezzo è il pennaccino. Sui latini si usano delle antenne aventi le caratteristiche di base dei tipi precedenti, ma senza lapazza. Contrariamente ad un’opinione assai diffusa, i fusi del carro e della penna non sono giunti tra loro nella parte di maggior diametro, perchè quest’ultima è posta sempre verso il basso, o se meglio aggrada, in direzione della prora. Prima d’essere giunti, carro e penna vengono spianati o scanalati nella parte che dovrà aderire, mentre la lapazza presenta un incavo che si adatta al pezzo sovrastante. Un elemento caratteristico dell’antenna del Leudo, è l’estremità inferiore del carro, detta muro de porco (muru de porcu), ossia muso di porco, per via della sua forma, peraltro adatta ad accogliere il salame della vela. In casi più rari s’è visto qualche muso di porco formato a collo di bottiglia. Appena più sopra al muso di porco troviamo un tacchetto di forma trapezoidale, e con un foro a centro. Questo tacchetto ha varie funzioni. Da una parte è utile a bloccare lo scorrimento delle orze verso il basso, ma la sua maggior funzione è quella di accogliere nel suo foro la sagola dell’angolo di mura della vela, ed anche la sagola che assicura il salame della vela nella sua posizione, quando non è in tensione. Per aggiungere il pennaccino sull’estremità della penna si usano due sistemi. Il primo è basato sulle normali legature, il secondo si basa su un sistema più funzionale che facilita il lavoro e che descriviamo qui di seguito. Innanzitutto si fa notare che in questo caso viene sistemato, all’estremità superiore della penna, un doppio collare metallico detto trucco (truccu), ossia trucco, o ingegno. Il collare che va fissato alla penna ha una sezione quadrangolare, che impedisce lo scorrimento laterale. Il collare superiore ha invece forma d’anello. In questo caso basta dunque infilare il pennaccino nell’anello, così chè, con una sola legatura, fatta all’estremità inferiore del pennaccino, il tutto viene saldamente fissato. Per le misure dei diversi diametri d’antenna, sarà utile fare riferimento alle misure riportate in fondo al capitolo. In ogni caso il complesso di sovrapposizione carro – penna – lapazza è grosso modo uguale, o appena superiore al diametro dell’albero all’altezza della mastra. A costo di sembrare ripetitivi, ma per aver una maggior chiarezza, riportiamo qui di seguito alcuni studi empirici, ma documentati, utili a ricavare in diversi modi le proporzioni delle antenne, quando si manchi di misure esatte:

1) – Regola del comandante G. Pezzolo – Oneto: L’antenna di una paranzella è lunga tanto quanto il baglio massimo moltiplicato per quattro. Aggiungiamo che s’intende l’antenna senza pennaccino.

2) – Regola esposta nel nostro testo: Carro 9/9 – Penna 8/9 – Lunghezza totale antenna senza pennaccino 10/9 – Lunghezza totale antenna con pennaccino 11/9 – Scorrimento del carro 2/9 – Pennaccino 2/9 – Lapazza 3/9 almeno. Le lunghezze di lapazza e pennaccino possono essere un poco superiori.

3-A) – Proporzioni rilevate da una foto: Lunghezza totale dell’antenna senza pennaccino 169/169 – Carro 152/169 – Penna 134/169 – Scorrimento 33/169 – Lapazza 30/169 – Pennaccino 22/169 – Antenna con pennaccino 176/169.

3-B) – Dalle stesse misurazioni, facendo il confronto con una lunghezza in coperta di metri 14, 50, abbiamo ricavato un altro modello di rapporti tra le parti: Coperta m. 14, 50 – Larghezza m. 4, 83 – Lunghezza antenna senza pennaccino m. 19, 33 – Carro 1750/1450 – Penna 1550/1450 – Scorrimento 38/1450 – Distanza tra muso di porco e lapazza 35/1450 – Lapazza 35/1450 – pennaccino 26/1450.

4) – Misure rilevate da un’altra foto: Penna 128/167 – Carro 140/167 – Lapazza 33/167 – Scorrimento 29/167 – Pennaccino 43/167 – Antenna con pennaccino 195/167.

NOTA: Il confronto tra l’antenna numero 3 e quella numero 4, calcolando che, entrambe debbano essere sistemate su una stessa barca, ci porta alle seguenti considerazioni, che pur confermando una regola generale, ci danno una certa elasticità di scelta. Nel tipo numero 4, vi è una lapazza più lunga dello scorrimento. Nel tipo numero 3 vi è una lapazza più corta dello scorrimento. Il pennaccino del numero 4 è quasi il doppio del numero 3.

BRAGON O PAROMA

Per sospendere l’antenna, oltre alla drizza, era usata un’apposita braga d’acciaio rifasciata di cuoio.

Leudo ‘Padre Pietro’ Particolari tecnici descritti nel testo di Pietro Berti.

(foto Carlo Gatti)

Si tratta sostanzialmente di un anello di cavo trincato in modo da formare due gasse con redancia, nelle quali vengono direttamente assicurati i cavi della drizza. Nel caso dei Leudi più moderni, i cavi della drizza sono assicurati al bragotto per mezzo di ganci. Stando alle foto, questo sbirro è piegato a U intorno all’antenna, e viene stretto ad esso per mezzo di una legatura.

STRINCAFIA

Un elemento che a prima vista non si nota, tra quelli che compongono i guarnimenti dell’antenna, è quella manovra che rivani e sestresi chiamano strincafia. Si tratta di una sagola la cui estremità è assicurata al bragotto di sospensione dell’antenna, lateralmente alla stessa. Da qui, la cima passa sotto la prima inghinatura, a proravia del bragon, quindi scavalca il dorso dell’antenna, per ripercorrere la strada inversa sul lato opposto dell’antenna. A volte la sagola ritorna direttamente dallo stesso lato. Questa manovra serve a spostare più avanti, o indietro, l’antenna nella braga di sospensione, in modo da posizionarla meglio, a seconda delle necessità.

TROZZA

Mentre la drizza ed il bragon servono a sospendere l’antenna, la trozza ha il compito di farla aderire all’albero. La trozza del Leudo è composta in due pezzi ben distinti, oltre al paranco. Il pezzo posto sopravvento all’antenna è formato da un anello di cavo di 2 cm. di diametro, trincato in modo da formare due gasse di diversa misura. La gassa maggiore, che circonda la parte superiore del bragotto d’antenna, è rifasciata di cuoio, mentre l’altra gassa si stringe intorno ad una specie di bigotta ovale, in legno, detta moka, nome che è attribuito per estensione a tutto il pezzo. Il pezzo posto di sottovento è formato da una cima addugliata (raddoppiata, piegata in due) e trincata in vari punti, in modo da formare vari occhielli, ed una gassa all’estremità superiore. Questa gassa, anch’essa rifasciata, agguanta il bragotto proprio sotto la gassa della moka, mentre il penzolo avvolge l’antenna e l’albero, infilandosi poi nel foro della moka, in modo da formare un cappio. Il tutto è tesato, fissando il paranco agli occhielli del penzolo ed alla prima landa di proravia del Leudo.

ASTA DI FIOCCO

In questa foto del Leudo ‘Padre Pietro’ si nota la parte interna dell’asta di fiocco. (f. C.Gatti)

Particolari tecnici della coperta-prora del Leudo ‘Padre Pietro’. (foto C.Gatti)

Per tesare il fiocco viene usata un’asta che, passando attraverso un foro praticato nell’impavesata, alla destra del dritto, sorge 8 o 9 metri oltre la prora. Quest’asta è lunga generalmente due volte il baglio massimo. Il micciotto dell’asta viene inserito dentro una scassa posta in coperta, mentre l’estremità opposta è formata da una varea che ha le forme di un piccolo calcese ad una sola cavatoia. Dentro questa cavatoia scorre la drizza prodiera o di mura del fiocco. Questa drizza è detta pure del carambollo, perchè termina con una gassa, impiombata sul maniglione che fa parte del carambollo, e del quale parleremo più avanti. Sul leudo Angela Prima, il diametro maggiore dell’asta è di circa 20 cm, mentre la parte di minor diametro, ossia dove inizia il calcese, è circa la metà. Spesso per sostenere lo sforzo dell’asta, vengono usati dei venti, o sartie laterali, che vengono incappellati al calcese, ed assicurati a piccoli anelli posti sul mascone. Il carambollo è un anello, o canestrello, che scorrendo sull’asta permette di tesare il polaccone, fiocco. é formato da un anello di ferro rifasciato con lezzino (specie di spago), che porta, contrapposti l’uno all’altro, un gancio ed una maniglia a U. Il gancio è sistemato verso poppa e serve ad agganciare la mura del polaccone, mentre il maniglione, come s’è già detto, serve ad assicurare il carambollo alla drizza. La colorazione dell’asta è uguale a quella dell’albero.

ORZE

Le orze sono manovre volanti che scorrono sulla parte inferiore del carro dell’antenna e servono ad orientare l’antenna ed a posizionarla dalla sua parte prodiera. Sul Leudo ve ne sono due, formate da un bozzello ad una cavatoia con uno stroppo lungo che forma all’estremità opposta, una gassa, dentro la quale scorre il carro dell’antenna. Lo stroppo è formato da un lungo anello di cavo d’acciaio rifasciato con corda catramata. La parte centrale di questo stroppo è unita da diverse legature o trinche. La lunghezza dello stesso stroppo deve consentire al bozzello di lavorare all’interno dello scafo. Il bozzello dell’orza è generalmente dipinto in bianco, oppure è lasciato a legno. Dentro il bozzello scorre una cima, che ha, ad uno dei due capi, una gassa impiombata. Assicurando la gassa ad una galloccia e tesando la cima, si manovra l’orza, portando l’antenna nella posizione voluta. Le orze sono tradizionalmente di diversa lunghezza. Quella più corta è detta orzapoppa o orza, quella più lunga è detta davanti o poggia. Il davanti è più lungo per poter passare di proravia alla pernaccia, ritornando successivamente a bordo sul lato opposto, lasciando allo stesso tempo una buona libertà di movimento al bozzello. L’orzapoppa, essendo già libera, non ha bisogno della stessa lunghezza. La gassa del davanti è sistemata a poppavia di quella dell’orzapoppa, perchè questo permette alle orze di strozzare tra le loro gasse il carro dell’antenna, mantenendolo in posizione. Non è comunque un errore vedere orze di eguale lunghezza, sopratutto nei Leudi più moderni. Le orze antiche erano in canapa, con un diametro equivalente a quello di un cavo d’acciaio rifasciato.

AMANTE O DRIZZA D’ANTENNA E SCIONCO.

Bozzello che serviva alla manovra dell’Antenna che portava inferita la vela del Leudo

(Museo Marinaro Tommasino-Andreatta di Chiavari – foto C.Gatti)

Per issare o ammainare l’antenna viene usato un complesso composto da un paranco.

Bozzello a 5 cavatoie

e da una cima piegata a doppino detta drizza o amante. La drizza scorre nelle cavatoie del calcese ed è trattenuta, nella sua parte poppiera, dentro un apposito foro trasversale praticato nella taglia, ossia il bozzello superiore del paranco di drizza. L’estremità opposta è assicurata al bragotto di sospensione dell’antenna, per mezzo di due diversi sistemi. Se si tratta di Leudi antichi, l’attacco è fatto direttamente sul bragotto, infilando il cavo nella redancia, ripiegandolo su se stesso, e trincandolo opportunamente. Nei Leudi moderni le gasse all’estremità della drizza sono anch’esse guarnite con redancie, ognuna delle quali contiene una coppia di ganci contrapposti, che si agganciano alla redancia del bragotto. Per evitare che i ganci possano scapolare inavvertitamente, questi vengono bloccati con una legatura di lezzino catramato. In alcuni casi più recenti, i ganci sono stati sostituiti da più comodi e funzionali grilli. La parte di drizza che si trova di proravia all’albero, e che è giunta all’antenna, deve formare sempre una mezza volta, sia quando l’antenna si trova a dritta dell’albero, sia quando si trova a sinistra. Per ottenere questa mezza volta bisogna fissare la drizza all’antenna, tenendo però il carro verso poppa. Naturalmente i marinai sapevano dare la mezza volta senza fare tutta questa fatica, ma per un modellista navale, questa è una via più sicura e comoda. Le drizze antiche erano fatte di canapa incatramata, quelle moderne sono di cavo d’acciaio rifasciato. L’operazione di fasciatura viene fatta nel seguente modo. Si intregna il cavo, ossia si sistema nel vuoto tra due legnoli, dello spago tipo lezzino, in modo da far riempimento, quindi, dopo aver dato due o tre mani di minio a olio, si fanno delle bende di tela iuta con le quali si fascia il cavo. Qualcuno usava impregnare le bende con ‘breck’, ossia un composto di sevo e catrame. Fatto questo si prende la ‘magnëta’, o ‘maglietto’ da fasciare, e con comando catramato o lezzino, si fascia il tutto, ripassando, a lavoro finito, un’altra mano di ‘breck’. Il cavo non viene poi impiombato sulla redancia, ma raddoppiato su questa, e fermato da tre legature apposite.

Per manovrare la drizza è usato un apposito paranco detto scionco, formato da due grossi bozzelli di forma diversa l’uno dall’altro, detti taglia (quello superiore) e taglione. Il taglione è generalmente a forma di parallelepipedo, con cinque cavatoie, sui fianchi, due robusti listelli verticali sorgenti, che servono a dare di volta alla cima del paranco. Il taglione del Ferdinando Bregante misura, senza galloccie laterali, 70 cm. di altezza, cm. 38 di di larghezza, e 40 cm. di profondità. A circa 10 cm. dal bordo inferiore troviamo un foro trasversale, di circa 7 cm. di diametro, dove passa la catena che serve ad assicurare il taglione sui golfari della mastra dell’albero. Il taglione è formato da strati di legno, e porta cinque cavatoie. I quattro strati che dividono le cinque cavatoie sono spessi cm. 2, 5, mentre il vuoto delle cavatoie è di 4 cm. In altri casi, anche se personalmente non l’abbiamo mai visto, il taglione è ricavato da un blocco unico di legno. La taglia è ricavata normalmente da un solo blocco, ed ha una forma ben diversa. Vista di fronte rammenta il busto di un uomo. La parte inferiore è piuttosto squadrata e porta quattro cavatoie, mentre la parte superiore, nel punto corrispondente al collo, porta una quinta cavatoia. La parte estrema, corrispondente alla testa si allarga nuovamente, ma senza raggiungere la larghezza della base. Osservando la taglia di fianco, possiamo vedere, vicino ad entrambe le estremità, due fori passanti da parte a parte. Nel foro inferiore, che si trova sotto le cavatoie, viene inserita la cima del paranco, mentre nel foro superiore, di maggior diametro, viene inserito il cavo della drizza d’antenna. La taglia che abbiamo avuto la fortuna di ritrovare misura cm 68,5 di altezza, cm. 15,5 di profondità minima (in basso) e cm 18,5 di profondità massima. Esistono altre forme di bozzelli da scionco, diverse da quelle descritte. Alcuni taglioni hanno ad esempio una sola galloccia, o meglio una castagnola, posta di fronte sotto le cavatoie, mentre esistono delle taglie, anch’esse abbastanza diffuse, formate da strati di legno, come i taglioni, e con tutte le cavatoie messe in fila. Queste sono di circa la metà dell’altezza del taglione, hanno la forma di un normale bozzello, e la drizza vi viene assicurata come un normale stroppo. Sia nella taglia di questo tipo, sia nel taglione, viene sistemato un listello orizzontale, che distanzia i due blocchi dall’albero ed impedisce che la cima del paranco possa sfregare direttamente contro lo stesso, rovinandosi.

OSTINO E BRAGOTTO DELL’OSTINO

Leudo ‘Padre Pietro’ costruito da Silvano Porcile. Particolari tecnici descritti nell’articolo.

(foto C.Gatti)

Ad una certa altezza, sulla penna, viene sistemato uno sbirro, o anello di cavo, che serve a sostenere l’ostino durante la navigazione, o l’amantiglio, quando l’antenna è in posizione di riposo. Vi sono due tipi di bragotti. Il primo è formato da uno sbirro guarnito con una apposita caviglia detta coccinello. Questo coccinello è sistemato nella parte inferiore, e vi viene incappellato lo stroppo del bozzello dell’ostino o dell’amantiglio. Il secondo tipo è uno sbirro semplice stroppato sull’antenna, e nella cui gassa scorre direttamente la cima dell’ostino. In questo caso si dice che l’ostino lavora a ‘cavo sordo’. Il bragotto dell’ostino è detto ‘moaè de l’osta’ (muè de l’osta), ossia madre dell’ostino.

AMANTIGLIO

L’amantiglio è quella manovra volante formata da un paranco ad una via, che in realtà non è altro che una delle drizze del polaccone, usata per sospendere l’antenna quando è in riposo. I bozzelli di questo paranco sono più piccoli di quelli del paranco di sartia.

FORCELLA PER POGGIARE L’ANTENNA.

A poppa, su entrambi i basti, troviamo un foro dove viene inserita una forcella, usata per poggiarvi l’antenna, quando è a riposo. Questa forcella è in ferro, ma supponiamo che nei leudi antichi vi fossero forcelle in legno.

Legenda di una ‘vela latina’

VELA

Non è facile avere la giusta forma della vela del Leudo, perchè non si trova sempre una foto ben inquadrata che ci consenta di valutare le giuste forme. In ogni caso le documentazioni iconografiche in nostro possesso, ed una certa esperienza raggiunta con l’esecuzione di diversi disegni e modelli, ci hanno permesso di individuare un metodo empirico di lavoro, che non si discosta molto da quelli che dovevano essere i canoni reali di esecuzione. Ovviamente mancano i calcoli per dare la giusta pancia ad una vela vera. Dobbiamo innanzitutto prendere come base alcuni elementi:

A ) – La lunghezza dello scafo tra i dritti, per ottenere la lunghezza del bordame, o cazzaggio.

B ) – La lunghezza dell’antenna, sollevata alla massima altezza di lavoro, col muso di porco accostato al fianco della pernaccia, per ottenere la lunghezza dell’antennale o inferitura.

C ) – In base ai precedenti elementi possiamo individuare la caduta della vela, che è data dalla distanza che corre tra l’angolo superiore, o di penna, e l’angolo di scotta della vela.

FERZI DELLA VELA

Ogni vela è composta di parecchi ferzi, o strisce, di tela olona, di un tipo con trama più sottile del normale. Ogni ferzo è largo 36 – 40 cm. A circa 2 cm. da ogni bordo del ferzo corre una riga celeste, che serve a dare la misura della parte di tela che deve essere sovrapposta con quella corrispondente del ferzo successivo. Una volta sovrapposti i due ferzi, si fanno le cuciture parallele. Nella cucitura dei ferzi, come abbiamo visto, non si usa la doppia piegatura, che è usata invece per la vaina, cioè il bordo della vela su cui viene poi cucita la ralinga o gratile.

BORDI DELLA VELA

Il perimetro del bordo della vela è formato da una doppia piegatura della tela, detta vaina, e sulla quale viene poi cucito il gratile, ossia una cima continua di circa 3 cm di diametro. La cima del gratile delle vele più moderne può essere formata da un cavo d’acciaio di minore diametro. In questo caso il cavo è rifasciato. Nella pratica marinara ogni bordo della vela cambia nome a seconda della sua posizione. Il lato che viene inferito all’antenna si chiama antennale, invergatura o bordo di inferitura. Su questo vengono assicurati i gerli di inferitura. Nel caso del Leudo, se si esclude la parte di antennale corrispondente alla parte del carro che resta libera per far scorrere le orze, i gerli sono sistemati sul gratile tra ferzo e ferzo. Il bordo poppiero, verticale, si chiama caduta. In questo caso, stando ad alcune notizie orali, la cima del gratile corre all’interno della piegatura della tela. Il bordo inferiore è detto cazzaggio, bordame, piede o linea di scotta. Il gratile in questo caso è incatramato, perchè viene più facilmente a contatto con l’acqua. In ogni caso la porzione di gratile che striscia contro l’albero è sempre rifasciata con tela. Sul gratile del cazzaggio, a circa un metro e mezzo dall’angolo di prora, se non più, viene fissata l’estremità poppiera di una gassa a doppino, rifasciata di cuoio nella parte prodiera, e trincata in più punti in modo da formare la gassa che viene incappellata al muso di porco, o punta del carro d’antenna.

ANGOLI DELLA VELA

Ogni angolo della vela ha un proprio nome a seconda della posizione occupata. L’angolo di penna, ossia quello superiore, è formato dalla trincatura del gratile attorno ad una redancia tonda. L’angolo inferiore poppiero detto scotta, è formato invece dalla semplice trincatura della ralinga, che forma così una gassa, allo stesso modo di quanto succede per l’angolo prodiero, detto di mura.

TERZARUOLI.

Per ridurre la vela in caso di cattivo tempo, o di venti più gagliardi, venivano usati i matafioni di terzaruolo, ossia delle sottili cordicelle poste su due o tre file, dette mani o bande di terzaruolo. Nella vela maestra, la più grande, vi sono tre mani di terzaruolo. La prima in alto è detta ‘primmo’ (primmu), la seconda ‘segunda’, la terza ‘darè’, ossia didietro. La linea formata dalla banda di terzaruolo è rinforzata, per compensare la maggiore usura. Ogni banda, o mano di terzaruolo, parte grosso modo dall’angolo di mura, e termina con un occhiello di cavo, sul gratile di caduta della vela, dalla metà della caduta stessa in su. Ogni matafione attraversa la vela, passando per un occhiello fatto nella banda di terzaruolo. Opportuni nodi, praticati nel cavetto del matafione, impediscono allo stesso di sfuggire dalla sua sede.

L’ultimo Leudo di Sestri Levante: ‘Nuovo Aiuto Di Dio’

ALTRI DETTAGLI DELLA VELA

Sul cazzaggio della vela, a circa metà della sua lunghezza, troviamo un piccolo stroppo con coccinello. Questo serve per agganciarvi la drizza del polaccone, quando si deve issare il bordo per raccogliere meglio il vento, o per distaccarlo dalla coperta quando tocca. Allo stesso modo si può sollevare il bordame sino all’altezza dell’antenna, per il soleggio, o asciugatura della vela.

POLACCONE

Assume questa denominazione il grosso fiocco usato sul Leudo, e su alcune altre barche a vela latina. Ve ne sono di varie misure, in genere tre. Non abbiamo segnalazioni precise sul modo di individuare l’esatta angolatura del polaccone. Normalmente resta delimitato dal carambollo, dal paranco di drizza e dall’angolo di scotta, che dovrebbe cadere grosso modo all’altezza dell’argano di prora. Se togliamo il coccinello, che si trova sull’angolo di penna di taluni polacconi, non abbiamo particolarità evidenti. L’angolo di mura ha una redancia tonda, l’angolo di scotta è formato da una semplice gassa.

VELATURA DI CATTIVO TEMPO.

Sul Leudo si usavano tre ordini di vele, a seconda delle condizioni del tempo. Con tempi duri si usavano le vele minori, che avevano anch’esse due mani di terzaruolo, per ridurre ulteriormente la vela. A volte la vela di cattivo tempo era montata su una seconda antenna, naturalmente più corta, per cambiarla più facilmente, senza mandare gli uomini a riva. Altre volte si usava una piccola vela quadra, detta trevo, e montata anch’essa su un proprio pennone. Altri dettagli più precisi sulla velatura e la manovra nel cattivo tempo, li troveremo più avanti, nel capitolo sulle manovre della vela.

Pietro BERTI

Leudo – FELICE MANIN

Scheda Tecnica:

Anno di Costruzione: 1891

Cantiere di Costruzione: Genova

Tipologia: Leudo Rivano

Lunghezza: 16 mt

Larghezza:  5,6 mt

Superficie Velica: 160 mq

Sede: La Spezia

Il Leudo Felice Manin fu varato nel 1891 a S. Michele di Pagana, e più precisamente in località Trelo, dallo scalo del padre del Mastro d’Ascia Attilio “Tilio” Valle. Secondo il Registro Navale del 1948 si tratta di una barca di 24,89 tonnellate di stazza lorda e 18,92 di netta, avente le seguenti dimensioni di stazza: m. 15,60 x 4,86 x 1,87. Nel 1893, benchè di proprietà di Emanuele Ghio ‘Cumbinemu’ di Renà (Riva Trigoso), appare sotto gli armi di Teresa Lena e Teresa Stagnaro, famigliari di Emanuele, mentre in seguito figurerà come armatrice Maria Ghio di Giovanni. Come ha raccontato il nipote Evaldo Chiappara, lo stesso armatore gestì pure il Leudo Enrico, la PareggiaBattista e la ScunaAlba.

Col Felice Manin e con le altre barche il ‘Cumbinemu’ trafficava in una vasta zona del Tirreno, toccando i porti di Ischia, dell’Elba, della Sicilia, della Sardegna ed anche dei porti francesi di Nizza e St.Raphael. Le merci trasportate di preferenza erano formaggi, vini, conserve, pesce secco e salato, legumi, lana grezza, ed anche tessuti lavorati a mano. In questa attività Emanuele era coadiuvato dai fratelli Giovanni- ‘Giuan’ e Bartolomeo – ‘Orbu’, mentre tra gli uomini che fecero parte dell’equipaggio si ricordano i Rivani Gio Batta Ghio – ‘Baciciotto’ e Andrea Brusco – ‘Do Caro’. Il Felice Manin, considerato barca solida ed ottimo veliere, fu condotto per svariati anni da Emanuele, ma l’incidente avvenuto nell’inverno del 1925-26 a Sestri Levante, segnò la sorte dell’armatore.

In quel periodo il ‘Cumbinemu’ faceva base a Lerici, dove aveva iniziato il commercio dei vini al posto di quello dei formaggi, che in quel momento non andava molto bene. Dovendo ancorare a Sestri Levante, dove non aveva un ormeggio fisso, fu sistemato nel primo posto liberatosi, nei pressi del cosiddetto ‘Scoglio Lungo’. Avvenne che, per il montare di una burrasca, il Leudo ruppe gli ormeggi e finì sugli scogli, subendo forti danni alla carena. Per recuperare i documenti e parte del carico Emanuele si tuffò parecchie volte nell’acqua gelida buscandosi una broncopolmonite che lo portò alla morte il 9 Febbraio 1926. Dato che per gli eredi non era possibile provvedere alle spese di riparazione, il Felice Manin venne acquistato, così come si trovava, dall’armatore Rivano Giovanni Castagnola fu Giovanni del casato ‘Sellai’. Quest’ultimo lo affidò per le riparazioni al Mastro d’Ascia Prato ‘O Rosso’, che operava sulla spiaggia di Portobello a Sestri Levante. Questi risistemò il Leudo, che fu poi calafatato da Angelo Cademartori ‘Cileto’ di Cavi di Lavagna, aveva lavorato anche nel cantiere di ‘Loenzin’ Figallo a Lavagna, durante la costruzione del Leudo Sestrese San Marco. È forse in quest’occasione che l’albero originale del Felice Manin fu sostituito da un secondo albero più corto, ricavato dal pennone maggiore di un grosso veliero. Il Castagnola impose alla barca il nuovo nome di Giovanni e Paolo e, nel 1930-31 lo iscrisse al Registro Navale Italiano. È curioso notare come anche il Giovanni e Paolo venne armato successivamente da altri membri della famiglia, ossia Maria Castagnola, ed in ultimo, dopo la scomparsa di Giovanni dal fratello Paolo ‘Paolin’.

Il Leudo della famiglia Castagnola asciuga le vele

Sotto i Castagnola il nostro Leudo riprese i traffici del formaggio. Durante la Seconda guerra mondiale il Giovanni e Paolo fu danneggiato leggermente da una bomba. Tirato in secco nei pressi dell’officina di Stagnaro, a Riva Trigoso, sulla riva destra del torrente Petronio, fu riparato e rimesso in attività. A parte quest’incidente il Leudo fu fortunato, perchè non disponendo ancora del motore, introdotto verso il 1946, non venne mai requisito per scopi bellici. Nonostante l’applicazione del motore navigò più spesso a vela, come se il motore non esistesse, poi nel 1957, quando il ‘Paolin’ cessò la sua attività armatoriale per divenire rappresentante di formaggi in Sardegna, per conto di una importante casa commerciale, il Giovanni e Paolo fu acquistato da Carlo Schiaffino di Santa Margherita Ligure, che lo ribattezzò Padre Carlo, un nome scelto tra una rosa di nomi possibili, comprendente i nomi Padre Angelo e Padre e Figli. Verso il 1960-62  si vede il Padre Carlo in una foto di Cesare Ferrari, scattata nel porto di Marciana Marina, nell’Isola d’Elba. Nel 1964 furono sostituiti, presso il Cantiere Canale di Lavagna, sia il timone, che il motore e l’asta del fiocco, mentre l’antenna era già stata sostituita in precedenza. Per quanto riguarda l’antenna quella vecchia s’era incrinata, quindi per rinforzarla le era stato aggiunto sul lato inferiore un prolungamento, o Lapazza, che le dava una forma irregolare e che si nota nelle foto del periodo 1957-60. Il motore installato, motore ausiliario diesel da 60 cv, non era nuovo ed era stato tolto dal Leudo di Attilio Bregante. Nel 1971 lo scafo venne pitturato di verde, ma questo colore fu tolto perchè non piaceva. Nel 1976, fu rivenduto a nuovi proprietari, che dopo averne iniziato la trasformazione in barca da diporto lo abbandonarono sullo scalo del cantiere di Nicolò Muzio ‘Mingo’, a Renà, una spiaggia a levante dei grandi Cantieri Navali. Qui venne cambiata l’opera morta e furono fatti dei rifacimenti quali la grossa tuga poppiera, eliminata successivamente dopo il recupero della barca. Nel 1981 il Padre Carlo è acquistato da Luigi Cappellini che, stimolato da alcuni appassionati, ne iniziò il restauro. Il lavoro di ripristino dello scafo ha richiesto la sostituzione di diversi corsi di fasciame ed il completo ricalafataggio. Per quest’ultima operazione sono stati usati circa 50 chili di stoppa, e lo stucco è stato composto miscelando minio, biacca, caolino e olio di lino, come si usava un tempo. Il calafataggio è stato eseguito da Giovanni Sacco di Genova Pra, un calafato del ramo industriale del porto di Genova. La riattrezzatura della parte velica ha richiesto la ricostruzione dell’antenna e dell‘asta di fiocco, entrambe in lamellare, e delle varie manovre sia fisse che correnti. Quest’ultimo lavoro è stato portato avanti sotto la guida di Tomaso Stagnaro ‘Marcello’, un anziano di Riva Trigoso, già comandante della Goletta VinaccieraPadre Merica, dei Lena di Sestri Levante. Lo stesso aveva già riattrezzato, negli anni precedenti, il Leudo – Nuovo Aiuto di Dio di Mosè Bordero. All’atto del restauro, il Leudo disponeva di un motore Arona HMS 60 diesel, che è stato revisionato completamente dalla casa produttrice. Ripreso il nome originario di Felice Manin, ed assunta la nuova matricola 2 GE 4235 D, viene varato il 3 luglio 1982, avendo come madrina la signora Astrid Muckermann, direttore della Consornautica di Genova, ed alla presenza di una vasta folla di curiosi. Purtroppo un incidente al motore, immediatamente dopo il varo, guasta l’allegria della giornata. Successe che, non avendo messo l’olio nel carter dopo la revisione, le bronzine si fusero, ed il Leudo dovette fare una sosta forzata nel porto di Sestri Levante. Rinato a nuova vita il Felice Manin, che all’epoca alzava le insegne del Velamare Club di Milano, compì la prima traversata verso la Sardegna, dove partecipò alla Regata delle Barche d’Epoca a Porto Cervo, vincendo un premio quale barca più antica. In questo periodo, durante un bordo con vento teso, si aprì una fessura nell’albero, che corse il rischio di spaccarsi. Per questo fu necessario rinforzarlo alla base con cerchioni di ferro. In autunno il Leudo venne esposto sul piazzale antistante la Fiera di Genova, in concomitanza col Salone Nautico.

Dopo la parentesi Genovese, il Felice Manin si dedicò a varie attività. Durante questo periodo, nel quale fu fondata la società Carloforte, il Leudo fu impegnato in una campagna-sub alle Isole Siciliane. Si trattò di un periodo di transizione, nel quale, tra un lavoro e l’altro, si cercò di far rendere la barca per poter coprire le spese sostenute durante i lavori. Fin dall’epoca del varo si pensò ad una iniziativa che qualificasse anche culturalmente l’operazione di recupero del Leudo, e questo favorì la nascita dell’Istituto di Restauro e Cultura Navale Felice Manin, che però alla lunga non riuscì a funzionare appieno, sia per gli impegni di Cappellini, sia per le difficoltà di collegamento tra i soci. Non fu comunque un lavoro inutile, perchè prese corpo l’idea di inserire concretamente il Leudo nell’ambito delle iniziative Colombiane che dovevano concludersi nel 1992, in occasione del Quinto Centenario della scoperta dell’America. Nacque così l’idea di compiere la traversata dell’Atlantico sulla rotta di Cristoforo Colombo. I lavori di miglioramento della barca ebbero dunque nuovo impulso, specie per quanto riguardava la sicurezza della navigazione. Venne impiantata una nuova radio e delle più moderne apparecchiature di navigazione. Oltre a questo, in previsione di una lunga permanenza in mare, vennero sistemate a bordo delle apparecchiature frigorifere e di surgelamento, oltre ad un impianto per la desalinizzazione dell’acqua.

Dopo un primo annuncio ufficiale dell’impresa, vi fu un susseguirsi di manifestazioni preparatorie. Nei giorni 25-26-27 Agosto 1984, il Leudo partecipò come Ospite d’Onore alla seconda Regata delle Vele Latine di Stintino, in Sardegna. Immediatamente dopo mise la prora su Noli, in concomitanza con la Regata Storica dei Rioni. In questa storia, Noli assume un significato particolare, perchè fu da quì che iniziò oltre Cinquecento anni fa la grande avventura Colombiana. Colombo s’imbarcò a Noli, allora Repubblica Marinara, per recarsi in Inghilterra, ma a causa di un naufragio si ritrovò in Spagna, dove in seguito si mise a cercare i finanziamenti per la sua impresa. Dopo Noli, il Leudo si trasferì a Genova, dove, attraccato alla radice di levante di Ponte dei Mille, completò i preparativi per la partenza, prevista dalla darsena del Salone Nautico. Le tappe previste per il viaggio, Genova, Barcellona, Siviglia, Palos, Lisbona, Canarie, San Salvador, Miami, Washington e New York.

Nella realtà, per motivi tecnici, Palos e Lisbona verranno saltate. A Miami, il Leudo dovrà partecipare come ospite al Miami International Boat Show, gemellato per l’occasione col Salone Nautico di Genova. Inizialmente l’equipaggio doveva essere composto da Luigi Cappellini (skipper), Lucio Napolitano, Umberto Terso, Riccardo Garampi, Roberto Barbi, Alberto Venza, Franco Bevilacqua, Armando Prisco e Alvaro Mazzanti. Purtroppo, Napolitano, Barbi, Bevilacqua, Prisco e Mazzanti in seguito rinuncieranno e verranno sostituiti da Franco Tornambè, Maurizio Benazzo, Mauro Albonico, Adriano Borgna e Carlo Martinoli. La partenza del Leudo destò molto interesse ed entusiasmo, ma anche molti timori, specie tra i Rivieraschi. Qui i vecchi marinai dei Leudi affermarono che il Leudo, pur essendo una buona barca, non era adatto ad una simile traversata, avendo oltretutto la bella età di 93 anni.

Il rimorchiatore India e il Leudo Felice Manin il giorno della partenza per l’America

(foto P.Berti)

Nonostante questo il Felice Manin, che innalzava anche la bandiera dell’UNICEF, quale messaggero di pace, partì la domenica del  21 ottobre 1984 dalla darsena della Fiera di Genova, salutato da una folla numerosa, e scortato dai rimorchiatori India e Capotesta, oltre che dallo Jawl Elpis, che fu la prima barca di Sir Francis Chircester, il noto navigatore solitario. Iniziò così la grande avventura che portò il Felice Manin dallo scalo di S. Michele di Pagana, dove fu varato, fino a San Salvador, dove giunse il 30 gennaio 1985, alle ore 17,30 italiane, dove fu accolto calorosamente dalla popolazione locale.

Pietro BERTI