Rapallo: Il CONVEGNO Interalleato

IL CONVEGNO INTERALLEATO

(Rapallo, 6-7 Novembre 1917)

A cura di Pier Luigi Benatti - Emilio Carta

Sfruttando nel migliore dei modi i vantaggi della posizione centrale, Germania, e Austria Ungheria avevano successivamente eliminato dalla guerra la Serbia, la Romania, la Russia, e solo la disperata resistenza italiana sulla linea del Piave salvò l'Italia dalla rovina. La nostra sconfitta di Caporetto ebbe come conseguenza la riunione degli uomini di Stato Alleati (esclusi i russi) a Rapallo, non tanto per organizzare gli aiuti all'Italia quanto per riuscire a coordinare ed a stabilire una strategia comune.

Anche i generali stavolta si convinsero che occorreva abbandonare le considerazioni di prestigio e di vanità per riunire gli sforzi, e fu creato così il Consiglio Supremo di Guerra: i Primi Ministri d'Inghilterra, Francia e Italia, affiancati dai rispettivi rappresentanti militari (generali Wilson, Weygand, Cadorna) si sarebbero incontrati regolarmente a Versailles assieme al colonnello House che rappresentava il presidente americano Wilson.

Il New Kursaal Hotel, sede del Convegno

Naturalmente il Consiglio non aveva potere esecutivo, perché ciò avrebbe eliminato l'indispensabile controllo della politica sulla strategia e ciò limitò la sua efficacia dal punto di vista strettamente militare; permise però al generale Foch , che presiedeva la commissione militare, di tenere in pugno le riserve per usarle al momento più adatto, fatto, questo, che si rivelò determinante per bloccare le offensive tedesche dell'estate 1918.
Forse non è azzardato ritenere che il buon funzionamento dello Stato Maggiore Unificato angloamericano, che nella seconda Guerra Mondiale prese così importanti decisioni strategiche e guidò su vari continenti eserciti di dimensioni mai viste, sia disceso in piccola parte dall'esperienza conseguente al Convegno di Rapallo.

Il 24 ottobre 1917 col disastro di Caporetto l'Italia tocca il fondo della sua avventura bellica. Le truppe austriache, coadiuvate da quelle tedesche, sfondano la linea di difesa italiana ed avanzano verso la pianura padana.
Attestate lungo il fiume Piave le forze italiane organizzano una provvisoria resistenza mentre la rotta di Caporetto fa comprendere agli Alleati che è il momento di collaborare più strettamente.

A Rapallo il 6 e 7 novembre successivi si tiene così un summit che determinerà, come detto, la nascita del Consiglio Supremo della guerra.
Alla stazione ferroviaria della località climatica ligure giungono così le più prestigiose personalità politiche e militari italiane, francesi e inglesi che si trasferiscono nelle sale del Kursaal New Casino, sede del convegno teso ad una ricerca di una nuova e più unitaria direzione delle forze alleate.
Per l'Italia sono presenti il neo presidente del Consiglio V.E. Orlando, il ministro degli Esteri, Sonnino, i generali Alfieri, ministro della Guerra, e Porro mentre la delegazione francese è composta dal presidente del Consiglio Painlevé, dal ministro H. FranklinBouillon, dall'ambasciatore a Roma Barrère e dai generali Foch, Weygand e Dedondrecourt.

L'Inghilterra partecipa invece con il primo ministro Lloyd George ed i generali Smuts, Robertson e Wilson.
Il Convegno conferma la volontà, già espressa ufficiosamente attraverso i canali diplomatici, di assicurare particolari aiuti all'Italia e la nomina di un Consiglio Supremo Alleato, ma determina anche il siluramento del generale Cadorna - designato rappresentante dell'Italia a tale Consiglio - col passaggio del generale Armando Diaz a Capo di Stato Maggiore.
Lo storico Alberto Lumbroso rivela infatti che l'allontanamento del generale Cadorna venne deciso proprio a Rapallo dai generali alleati Foch e Robertson con il parere favorevole di Barrère e Wilson. La scelta di Rapallo quale sede del con vegno fu dettata da motivi di conve nienza prettamente politica.

Il Presidente del Consiglio 
On. Vittorio Emanuele Orlando

Sempre secondo il Lumbroso inizialmente e’ stato indicato il Veneto, un'idea scartata per evitare a ministri e generali la visione di sfascio e di disordine in cui si trovava in quel momento l'esercito. Vittorio Emanuele Orlando scartò anche Milano per evitare la curiosità della stampa. Alla fine venne deciso il summit nella più tranquilla e riservata cittadina rivierasca.
La sera del 4 novembre a Rapallo si incontrarono fra loro i rappresentanti francesi e inglesi che espressero il desiderio di veder giubilato il generale Cadorna, suggerendone la sostituzione con il Duca d'Aosta.

Il Primo Ministro inglese Lloyd George (a sinistra)

L'assenza di Cadorna - che telegrafò a VE. Orlando di non volersi allontanare dal fronte per stare vicino ai suoi soldati gli fu fatale.
 Allorché V.E. Orlando partì da Rapallo era convinto di poter lasciare Cadorna al suo posto ma il Consiglio dei Ministri fu di tutt'altro avviso. Quando si trattò di scegliere il suo sostituto ogni ministro presentò un proprio  candidato ma alla fine prevalse il parere del generale Alfieri che indicò nel generale Armando Diaz, comandante del XII Corpo d'Armata, perfettamente ignoto ai più, l'uomo della provvidenza. E tale scelta non poteva rivelarsi più felice.

A guerra conclusa sulla facciata del palazzo municipale, a ricordo dello storico convegno, viene posta una targa marmorea. 
'Su questo lembo della ligure sponda le Nazioni alleate nel novembre 1917 sancirono il patto che diede all'Italia l'audacia e la forza donde fiorì il prodigio della vittoria più grande che negli annali del mondo collo stilo d'acciaio ebbe scritto la storia'.
 La targa venne distrutta nel settembre del 1922 dalle squadre fasciste e solo nel 1967 il ricordo dello storico convegno del 6-7 novembre 1917 venne riproposto con un altro marmo nell'atrio del nostro palazzo municipale, assieme a quello dei due Trattati legati al nome di Rapallo.


Rapallo, 04.04.11


LA CRISI DI CUBA vista da un giovane rapallese

LA CRISI DI CUBA INIZIO’ IL 15 OTTOBRE 1962

DURO’ PER TREDICI GIORNI

Testimonianza di un "anonimo" giovane rapallese

Dipende forse da un riflesso condizionato, ma ogni volta che Mosca alza la cresta e minaccia un riarmo nucleare “aggiornato”, il nostro pensiero corre alla Crisi di Cuba del 1962 e ai rischi di olocausto nucleare che in quei giorni minacciò il mondo intero. Crediamo pertanto sia utile ripresentarla ai lettori, soprattutto come effetto “vaccino” per le nuove generazioni.

La cronistoria

Fin dal 1898. Data della sua indipendenza, Cuba era stato un Paese tradizionalmente legato agli Stati Uniti. Ma i rapporti tra i due Stati peggiorarono sino alla definitiva rottura dopo la vittoria di Fidel Castro nella Rivoluzione Cubana del 1959. Un nuovo regime di stampo filo sovietico si era instaurato a poche decine di miglia dalla Florida; questo avvenimento di vastissima portata geopolitica tolse il sonno alla maggior parte degli americani.

Già all’inizio del 1961. L’allora presidente D. Eisenhower aveva interrotto i rapporti diplomatici con il nuovo Stato e lo aveva escluso dall’OEA (Organizzazione degli Stati Americani). Il suo successore, John Fitzgerald Kennedy, arrivò addirittura ad approvare un piano d’invasione dell’isola addestrando e confidando sul supporto degli esuli cubani.

Il 17 aprile 1961. Avvenne lo sbarco delle armate anti-castriste in un punto dell’isola noto come Baia dei Porci. L’operazione si rivelò però un fallimento e Cuba, vistasi minacciata, si rivolse a Mosca e concordò l’installazione di alcune batterie di missili sul proprio territorio.

Nel maggio del 1962. Con una sfida davvero temeraria, il Cremlino concepì l’operazione “Anadyr” e inviò a Cuba, via mare, 50.000 soldati e materiale missilistico.

Con questa mossa spregiudicata, Nikita Kruscev intendeva dimostrare il suo impegno nella difesa dell’alleato caraibico e astutamente guadagnava posizioni strategiche, mostrando i muscoli sia agli Stati Uniti che alla Cina.

Nelle ore più drammatiche di quei tredici giorni che fecero tremare il mondo, un giovane rapallese che preferisce mantenere l’anonimato si trovava in servizio, come tecnico elettronico della NATO, sul ponte di comando della portaerei americana FORRESTAL nel porto di Napoli.

“A distanza di molti anni, quando ormai sono state raccontate tutte le fasi più o meno drammatiche di quei tredici giorni, rimango ancora sorpreso del fatto che si ometta di parlare di un dato obiettivo di cui sono stato testimone.

Durante la Crisi di Cuba, il resto del mondo (compreso i sovietici) non era a conoscenza che gli americani avevano in orbita satelliti spia, capaci di vedere e analizzare un “centimetro qualsiasi” del globo terracqueo, pertanto, i media di tutto il mondo parlarono della superiorità tecnologica degli aerei spia americani U-2, che vennero indicati come gli artefici della identificazione di postazioni missilistiche sovietiche a Cuba. La verità, come ho accennato, fu ben diversa e fece parte di un capitolo militare segreto, che fu dovutamente criptato per molte di decine di anni.

Per ragioni di lavoro, sono stato testimone dei risultati eccezionali forniti da quelle rivoluzionarie tecnologie. Quei nuovi tipi di satelliti geo-stazionari lanciati nello spazio producevano migliaia di foto che piovevano in continuazione sul Pentagono, su i vari Dipartimenti Militari e poi rimbalzavano sui monitors dei Comandi asserviti come quello della portaerei Forrestal, dove io mi trovavo. Sono sempre stato un appassionato di elettronica e capivo perfettamente di vivere un importantissimo avvenimento storico, del quale potevo gustare veramente l’esclusiva. Peccato che non capivo altrettanto bene la loro lingua in codice, ma vi assicuro che i dialoghi concitatissimi delle più alte sfere politico-militari di quel tempo li ho ancora negli orecchi.

Detto questo, sono tuttora convinto che soltanto l’altissima tecnologia satellitare abbia permesso ai politici americani ed ai loro Stati Maggiori di entrare con la dovuta consapevolezza in quel pericoloso scenario, consentendogli di giocare d’anticipo con i Sovietici, usando pertanto la dovuta e controllata determinazione.

Era necessario arrivare alla fase finale della trattativa con i nervi calibrati al punto giusto, per evitare che i “falchi” prevalessero con tesi emotive, guerrafondaie e poco sedimentate nella diplomazia e nel buon senso.

Fin dall’inizio, quindi, le fotografie fornite dai satelliti permisero agli americani di monitorare e analizzare tutte le mosse sovietiche, di studiarne le contromosse e prevenirne le tragiche conclusioni. Ciò che, sicuramente, gli Americani non previdero fu l’estrema sfrontatezza di Kruscev.

Veduta aerea del sito missilistico a Cuba nell’ottobre del 1962

 

Il 30 agosto. Gli americani tenendo ben segrete le fonti satellitari, diffusero le fotografie di una nuova serie di postazioni missilistiche SAM, riprese da un U-2.

Il 4 settembre. Kennedy disse al Congresso, che non c’erano missili “offensivi” a Cuba.

8 settembre. Durante la notte, la prima consegna di MRBM SS-4 Sandal fu scaricata a l’Avana.

Il 16 settembre. Un secondo carico approdò all’isola.

I sovietici stavano costruendo nove siti: sei per gli SS-4 e tre per gli SS-5 Skean a più lungo raggio (fino a 3500 km), l’arsenale pianificato era di quaranta rampe di lancio. Gli MRBM avevano una gittata di circa 1.600 km e potevano minacciare Washington e circa metà delle basi SAC (Strategic Air Command) statunitensi, con un tempo di volo inferiore ai venti minuti.

Novembre 1962. Veduta aerea del sito missilistico di Cuba

Il 19 ottobre. I voli degli U-2 mostrarono che quattro postazioni erano operative.

Il 14 e il 15 ottobre. I rilievi fotografici effettuati da due aerei spia U-2 americani confermarono la presenza d’alcuni missili nucleari sovietici a medio raggio e la costruzione in atto dei relativi sistemi di lancio sull’isola di Cuba. Si trattava di una postazione degli SS-4 vicino San Cristobal.

Il 16 ottobre. Un gruppo di stretti collaboratori del presidente Kennedy si riunì in una seduta speciale Per discutere Il Blocco Navale di Cuba.

Facevano parte di questo gruppo il segretario di Stato Dean Rusk, il segretario della Difesa Robert McNamara, il direttore della CIA John McCone, Robert Kennedy ed un ristretto numero di consulenti politici, militari e diplomatici.

La situazione da affrontare era tra le più difficili e delicate della storia moderna: quale via diplomatica era la migliore per fermare il pericolo di quei missili, con un raggio d’azione superiore ai duemila chilometri?

D’improvviso, quasi l’intero territorio americano rischiava di trovarsi sotto l’effettiva minaccia di apparati missilistici nemici.

l’URSS, con poche e riuscite mosse, aveva acquisito un enorme potenziale di pressione nell’ambito della sfida tra le due potenze.

Gli Stati Uniti dovevano affrontare quello che sarebbe passato alla storia come il picco più alto della tensione durante la Guerra Fredda: una pesante CRISI diplomatica tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica.

In quei giorni, due uomini avevano in pugno il destino della Terra: John Fitzgerald Kennedy e Nikita Sergeevich Kruscev. Ognuno di questi due potentissimi Capi di Stato avrebbe potuto, in quell’ottobre di 45 anni fa, dare inizio alla Terza Guerra Mondiale, che sarebbe stata la più pericolosa dell’intera storia dell’umanità, perché non era mai accaduto prima che due nazioni stessero per usare “Armi Nucleari” capaci d’incenerire una dozzina di volte il pianeta.

Soltanto il 22 ottobre. Dopo giorni di tensione internazionale, tra minacce d’intervento militare ed inutili tentativi di mediazione da parte dell’ONU, il Presidente degli Stati Uniti pronunciò un discorso alla nazione, in parallelo ad un ricorso presentato alle Nazioni Unite.

J.F. Kennedy decretò il blocco navale dell’isola, fissato a 500 miglia nautiche da Cuba, chiedendo contemporaneamente lo smantellamento delle basi missilistiche.

Il mondo venne ufficialmente a conoscenza di una possibile e imminente catastrofe nucleare.

Il cargo sovietico POLTAVA in rotta verso Cuba. I missili sono visibili in coperta. Kennedy decise di rendere pubbliche queste foto per raccogliere il maggior consenso popolare possibile.

Se le unità sovietiche avessero provato a forzare il blocco, il conflitto armato tra le due superpotenze sarebbe drammaticamente ed immediatamente cominciato.

Mercoledì 24 ottobre. La “quarantena” entrò in vigore. Lo stesso giorno Kruscev ordinò alle navi sovietiche di non forzare il blocco per nessun motivo.

La tensione raggiunse l’apice, quando si sparse la notizia che diciotto navi da carico sovietiche stavano dirigendo verso la zona protetta e la marina americana era allertata per il loro affondamento.

A questo punto ci fu, per fortuna dell’umanità, una provvidenziale inversione di tendenza: sedici delle diciotto navi russe avevano cambiato rotta. Il giorno dopo tutte le navi sovietiche erano lontane dalla zona del blocco.

Il pericolo era scampato. Il buon senso delle “colombe” aveva prevalso sui temibili “falchi” presenti in entrambi gli schieramenti.

In una lettera privata, Kruscev s’impegnò con Kennedy a rimuovere i missili già piazzati a Cuba;

in cambio richiese la dichiarazione pubblica di Kennedy che gli Stati Uniti non avrebbero mai invaso l’isola, né appoggiato altri tentativi d’invasione.

Giovedì 25 ottobre. Radio-Mosca trasmise una seconda lettera di Kruscev, nella quale il ritiro dei missili di Cuba era però condizionato alla rinuncia americana ai suoi missili Jupiter installati in Turchia.

Era il 28 ottobre. La crisi poteva dirsi terminata.

QUARANTACINQUE ANNI DOPO….

Secondo il materiale e le testimonianze pubblicate in questi ultimi anni in Russia e raccolte dal settimanale OGGI, il 27 ottobre 1962, con l’abbattimento (mai denunciato all’opinione pubblica) sui cieli di Cuba di un aereo spia americano, si verificò un episodio gravissimo nell’intera vicenda:

l’intercettazione di un sottomarino sovietico

a nord dell’isola che cercava di forzare l’accerchiamento americano di Cuba.

In quella terribile fase che stava per diventare una diabolica corrida tra le navi e gli aerei americani contro i sottomarini atomici sovietici, le forze della US Navy reagirono immediatamente con lanci di bombe di profondità che costrinsero il sottomarino ad emergere ed a comunicare che stava invertendo la rotta.

Secondo fonti storiche sovietiche, i sottomarini sovietici erano quattro ed appartenevano alla 69° Brigata della Flotta del Nord, contrassegnati dalla lettera B e dai numeri 4-36-59-130.

Ognuno dei mezzi era dotato di un missile con testata nucleare.

Gli attimi più difficili li vivemmo nelle acque delle Bahamas –dichiarò Vitalj Agafonov ex-comandante della Brigata dei sommergibili russi nella Campagna di Cuba - quando i nostri sottomarini penetrarono aldilà delle cinque linee americane di sbarramento, superando la soglia limite del blocco anticubano. Fummo circondati da sette navi americane che ci rinchiusero in un anello di ferro. Loro ci mitragliavano dagli aerei che volavano a bassissima quota. Nella zona più difficile finì il B-59, del capitano V.Savitzkij”.

Quello che accadde in quei momenti drammatici della mattina del 27 ottobre a bordo del B-59 è raccontato dall’ufficiale Orlov:

Dentro il sottomarino faceva un caldo infernale 40-50 gradi, in taluni punti anche 60°. Il contenuto di ossigeno era su valori ritenuti già pericolosi. Un marinaio di guardia cadde per terra perdendo i sensi: altri lo seguirono. Stavamo tentando di sfuggire dall’attacco di un incrociatore americano. La fuga continuò per quasi quattro ore. Improvvisamente, gli americani fecero esplodere una bomba vicino a noi.

Tutti pensarono: ecco la nostra morte.

Savistkij, che era al comando della nostra nave, non riuscì a contattare il comandante della nostra Marina. Dopo l’attacco di bombe di profondità, diventò furioso e chiamò l’ufficiale responsabile del missile a testata nucleare e gli ordinò di tenerlo pronto per il lancio.

– Può darsi che siamo già in guerra contro gli Stati Uniti, mentre noi qua stiamo facendo solo chiacchiere –

Gridò, motivando l’ordine di colpire l’America.

- “Adesso siamo pronti a colpirli. Forse noi moriremo, ma li affonderemo tutti quanti, così non copriremo di vergogna la Flotta Sovietica” –

Per fortuna, il comandante riuscì a controllare la sua rabbia e dopo un animato consulto con altri comandanti decise di affiorare…..

Occorre a questo punto fare attenzione alle ultime parole in corsivo: nascondono l’episodio chiave della storia del mondo. Per far partire il siluro nucleare contro l’incrociatore americano BEAGLE e innescare la terza guerra mondiale, sarebbe bastata al comandante l’approvazione dei suoi due vice comandanti. Per il lancio servivano tre “SI”. Per fortuna dell’umanità Arkhipov fu deciso e disse:

“Niet – Non lo lanciamo!”

Un voto contro due. Il B-59 emerse e si arrese. E la terra continuò a girare e le notti a seguire i giorni.

Il capitano di Fregata Arkhipov è stato l’unico dei tre ufficiali a non perdere il controllo della situazione. Il senso della realtà aveva evitato l’olocausto nucleare.

Purtroppo, soltanto da qualche anno si è saputo, con profonda amarezza, che Arkhipov fu arrestato al rientro in patria dai suoi stessi connazionali e poco dopo morì.

La portaerei USS Enterprise (CVN-65) fu la prima portaerei nucleare della storia. Ancora oggi è la portaerei più lunga del mondo, mentre è stata superata per tonnellaggio dalle navi della classe Nimitz.

- il 22 ottobre 1962: il presidente J.F.Kennedy annunciò pubblicamente che erano state scoperte delle basi di missili nucleari sovietici nell’isola di Cuba. La Enterprise entrò in azione appoggiata dalle portaerei Essex, Indipendente, Oriskany e Randolph.

- il 25 ottobre 1962: fu fermata la prima nave sovietica.

- il 28 ottobre 1962: il presidente Nikita Kruscev accettò di ritirare i missili da Cuba.

Con la fine della Guerra Fredda, molti Paesi conobbero la democrazia, ma cessò anche quell’equilibrio stabile tra le due superpotenze che aveva permesso il controllo del mondo in zone d’influenza.

Oggi si vive una fase di transizione out control e si assiste, purtroppo, alla proliferazione nucleare d’alcuni Stati come il Pakistan, la Corea del Nord e l’Iran, considerati a rischio perché guidati da leaders sostenuti da fazioni fanatiche, alle quali potrebbero un giorno dover pagare un conto molto salato!

In questi giorni, non a caso, si parla nel mondo di utopia del disarmo e proprio su questo punto occorrerà che i potenti della terra riflettano con molta lucidità, perché vi è un lato della scienza scientifico-militare che lascia, ora più che mai, esigui spazi alla sicurezza della umanità.

Carlo GATTI

Rapallo, 02.04.11

 


La bella Rapallo

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Rapallo: L'Agonia della carretta LOCARNO

L'AGONIA DELLA LOCARNO

di  Emilio CARTA

Rapallo. Sono ancora tanti i “rapallini” che ricordano il 5 gennaio 1961. «Quel “maledetto” cinque gennaio millenovecentosessantuno - precisano marinai e pescatori del borgo - quando, a causa di una fortissima libecciata, quel piccolo mercantile di 3.897 tonnellate, il Locarno, come una balena ferita a morte, si incagliò sulla scogliera del litorale rapallese».

A provocare tanto sconquasso non c’era il mitico comandante Achab ma, più prosaicamente, un capitano di lungo corso, il quarantenne Vittorio Sallustro da Torre del Greco, che rivisse chissà quante volte, come in un incubo, quella notte di tregenda. A bordo, con lui, c’erano ventidue uomini di equipaggio, molti dei quali genovesi, ed un abissino.

L’ennesima tragedia del mare, che per fortuna non fece vittime, portò il nome della cittadina rapallese sulle prime pagine e sugli schermi di mezzo mondo e venne accompagnata da una serie di iniziative umanitarie e promozionali che oggi, probabilmente - non dimentichiamo che all’epoca correva l’anno 1961 - farebbero sorridere.

«Riuscii a filmare i momenti più drammatici della nave in preda alla tempesta con una piccola cinepresa ad otto millimetri - racconta il rapallese Mauro Mancini - Ricordo come fosse oggi che qualche settimana più tardi, i negozi di souvenirs avevano già in vendita le cartoline illustrate che mostravano il Locarno in mille pose, come una fotomodella, con la prua che sbatteva sulla scogliera del lungomare Vittorio Veneto».

«Fu ancor più simpatica l’iniziativa dei vigili urbani rapallesi - aggiunge Mancini - I “cantunè” offrirono all’equipaggio i pandolci e lo spumante che avevano avuto in dono dagli automobilisti rapallesi per la caratteristica “Befana dei vigili”, un’usanza che in quegli anni si ripeteva un po’ dappertutto».

Il cargo, battente bandiera panamense, era giunto nel porto di Genova il 20 dicembre proveniente da Lubecca e, dopo aver ormeggiato al molo Rubattino, sotto l’occhio vigile della Lanterna, aveva scaricato seimila tonnellate di lingotti di ferro.

Per l’equipaggio, insomma, era stato un Natale sereno, con la veglia di mezzanotte in cattedrale ed i piedi ben piantati sotto la tavola, come tradizione vuole, per tutte le feste comandate.

Il cinque gennaio la nave aveva però lasciato molo Rubattino ed era ripartita con le stive vuote ma con i gavoni di prua e di poppa pieni d’acqua per zavorrare e stabilizzare il mercantile, diretto verso Follonica, in Toscana, per caricare minerale ferroso da trasferire in Germania.

Ma a quell’approdo il Locarno non arrivò mai perché la sua odissea, iniziata davanti al Monte di Portofino, si concluse proprio nelle acque del golfo Tigullio.

Alle dieci del mattino, infatti, il cargo venne avvistato al traverso di Santa Margherita Ligure, a circa un miglio dalla terraferma, dando l’impressione di essere in difficoltà.

Alle sedici il mercantile, lungo centoquattordici metri ed appartenente alla società marittima genovese “San Rocco”, arrivò davanti a Rapallo, all’altezza dell’Excel-sior Palace Hotel. Era ormai in uno stato di ingovernabilità che agli occhi esperti dei marinai - che da terra ne seguivano “a vista” la navigazione - appariva sempre più chiaro.

Il mare lo spingeva alla deriva e, per di più, a causa della forza del mare e del vento, le ancore aravano il fondo sabbioso, senza frenare a sufficienza quella folle corsa verso gli scogli, mentre da bordo gli uomini erano in trepida attesa dell’arrivo dei rimorchiatori.

Alle sedici e trenta il cargo era ormai a meno di trenta metri dal castello sul mare, mentre mezz’ora più tardi la nave si spostò leggermente verso ponente, a nemmeno cinquanta metri dalla balaustra in ferro della passeggiata a mare.

La situazione a quel punto precipitò e la lenta agonia della nave giunse al culmine: la distanza dagli scogli diminuiva progressivamente a venti metri, poi a dieci, a sette, a cinque. Il mercantile infine si coricò leggermente sul fondo sabbioso arenandosi con la prua - alta fuori dell’onda quanto una casa di tre piani - sui macigni posti a protezione del lungomare.

«Fu una scena infernale alla quale assistettero migliaia di persone assiepate sull’asfalto della passeggiata a mare - ricordava anni dopo il rapallese Andrea Pietracaprina - Intanto, a bordo del Locarno, gli uomini d’equipaggio, flagellati dal vento e dalle onde che spazzavano il ponte, apparivano e scomparivano da una parte all’altra della coperta, riconoscibili solo dal luccichio degli impermeabili, per cercare di porre rimedio ad una situazione che appariva ormai senza speranza».

Alcuni rimorchiatori, provenienti dallo spezzino e da Genova non riuscirono ad agganciare lo scafo prima che la situazione precipitasse definitivamente e, per il Locarno, fu la fine.

Alle diciannove e venti i vigili del fuoco genovesi, alla luce di potenti fari, provarono con successo a sparare una sagola a bordo: ad essa, avvolto in un sacchetto di plastica, venne legato un messaggio con la richiesta di conoscere le condizioni dell’equipaggio. Da bordo utilizzando lo stesso mezzo, il comandante rispose che non vi erano feriti.

«Era impossibile comunicare “a vista” anche se vi provarono ripetutamente con i megafoni - raccontava alcuni anni dopo il barcaiolo rapallese Vittorio Pietracaprina - Il frastuono delle onde e del vento, unito allo sfregamento delle lamiere della nave sugli scogli rendeva vano ogni tentativo. Rammento che prima del lancio della sagola a bordo, un radiotelegrafista, da terra, utilizzò il clacson di un’auto appositamente posizionata a poca distanza dal moletto normalmente riservato ai battelli turistici. Cercò di comunicare con l’ufficiale marconista di bordo attraverso l’alfabeto morse e a bordo ricevettero il messaggio anche se nessuno fu in grado di rispondere».

La buona sorte, infine, aprì la propria bisaccia: il Locarno virò di circa novanta gradi distendendosi in senso longitudinale lungo l’asse della passeggiata a mare, con la prua rivolta in direzione levante. La fiancata andò provvidenzialmente  a toccare il moletto d’ormeggio dei “primeri” ed alle quattro del mattino l’equipaggio potè finalmente scendere a terra con l’ausilio di una biscaglina.

A terra li attendevano coperte ed un pasto caldo. Mentre i Vigili del fuoco riponevano cavi e fari, utilizzati sino a qual momento per illuminare a giorno la scena, sulla torretta del castello si spegneva anche la grande stella cometa natalizia.

I tecnici si ponevano intanto i primi interrogativi sulle cause che avevano provocato l’incaglio della nave. Il comandante aveva escluso, infatti, qualsiasi avaria alle caldaie o alla macchina del timone. Priva di carico, e quindi meno resistente alla forza del vento e del mare, la nave, in preda al maltempo, probabilmente non era più riuscita a governare ed aveva cominciato ad andare inesorabilmente alla deriva.

A terra, ovviamente, iniziava il business “made anni Sessanta”, mentre il pittore Nerone Uselli, spalle alle nave, in sommo disprezzo per tutto ciò che era acqua, dipingeva  in un celebre quadro l’apocalittica scena.

All’epoca, chi scrive, frequentava la scuola media statale ricavata nell’ex “casa del fascio” di piazzale Alfieri diretta dalla preside di allora, la professoressa Jolanda Macchiavello.

Confesso che quella mattina di gennaio, uscito di casa e raggiunto ancora insonnolito il lungomare - con i calzoni corti, beninteso, e la pesante cartella di cuoio che mi segava le dita - restai come folgorato da quella nave immane e nerastra, alta quanto una casa di almeno tre piani, che mi si ergeva davanti. Pareva impossibile che un oggetto galleggiante, di tale portata, potesse mai affondare. Eppure era lì, come una sirena ammaliatrice. Ed io, novello e incantato Ulisse, subii il suo irresistibile richiamo: pochi anni dopo mi trovai infatti su un cargo analogo di nome African Monarch e anch’esso battente bandiera di comodo, ma liberiana.

Tito Sansa, all’epoca inviato speciale del settimanale Oggi, in una sua corrispondenza ironica e graffiante, ma soprattutto precisa, da vero lupo di mare, offrì agli affamati lettori uno spaccato da manuale di quell’inconsueto naufragio da salotto definendo quello svoltosi sul lungomare di Rapallo come uno dei più strani drammi del mare dei nostri tempi.

“Tutto è finito bene per le persone, ma ci sono stati anche molti brividi. Un naufragio come questo non s’era mai visto. Di solito le navi vanno a picco nell’oceano in tempesta o si sfracellano su uno scoglio o si incagliano in una rada deserta.

Questo invece è stato un naufragio “fatto in casa”. Se Vittorio Sallustro, il capitano del cargo Locarno, avesse potuto scegliere su un portolano una località per mandare a secco durante una tempesta, col minor danno possibile, la sua nave, difficilmente avrebbe potuto trovare di meglio: si è infilato, infatti, nel punto più stretto al fondo del golfo del Tigullio, arenandosi su un morbido letto di sabbia, proprio di fronte alla “passeggiata”, di una delle più celebri località balneari del mondo.

Ora la nave è incagliata, con le sentine, le stive e la sala macchine allagate, l’elica storta, il timone spezzato. Dalle falle nella chiglia esce e si spande sul mare la nafta, lo scafo emerge tutto, inclinato di quindici gradi su un fianco, pronto a rovesciarsi alla prima forte mareggiata. Ma dieci metri più in là c’è la passeggiata con le palme e le panchine sulle quali, di questa stagione, anziani villeggianti si intiepidiscono le ossa al sole; trenta metri più in là c’è la sfilata degli alberghi. Per i naufraghi ci sono tutte le comodità: lo scalandrone cade proprio al pelo di un moletto, fanno quattro passi e sono all’albergo, camere accoglienti e polli allo spiedo attendono l’equipaggio.

Anche i villeggianti sono soddisfatti. “Che carino è stato il capitano a naufragare qui” dicevano nei giorni scorsi le signore, in gran parte milanesi, fuggite dalle nebbie e dal gelo lombardi. Al riparo, dietro le vetrate dei caffè del lungomare battuto dalle onde, esse avevano assistito con un brivido sottile alle diverse fasi del naufragio, come al cinema; felici che qualcosa di imprevisto movimentasse le tediose giornate di vacanza.

 

IL COMANDANTE AL TIMONE

 

Soltanto ad un certo momento, quando videro lo scafo, enorme sull’acqua, avventarsi con la prora più alta delle case verso gli scogli come se volesse salire sulla terra ed abbattersi sugli edifici, le signore ebbero la sensazione che si trattasse di un naufragio vero e proprio e non di uno spettacolo.

E, lasciato il tè a metà, richiamati i figlioli che stavano con il naso appiccicato alle vetrate, se n’andarono di fretta.

A bordo del Locarno, quel pomeriggio di martedì 3 gennaio, era tutt’altra cosa. Nessuno - almeno così dicono - aveva paura, ma tutti si rendevano conto che le loro vite erano appese ad un filo. Sballottato come un guscio di noce nella rapida di un fiume, il “cargo” andava alla deriva ed ogni minuto che passava la terra appariva più vicina. I campanili e le case sulle colline si muovevano ad una velocità impressionante, ora a sinistra, ora a dritta, poi a prora, poi a poppa, e così via. Era una girandola vorticosa, come se il capitano fosse impazzito e si divertisse a spaventare i suoi uomini.

Ma il capitano non era impazzito. Ritto in plancia, grondante acqua e sudore, capitan Sallustro urlava ordini nel portavoce e, manovrando la barra, cercava disperatamente di mettere la nave alla cappa, cioè con la prora controvento. Impazzito era invece il Tigullio: dal cielo di piombo l’acqua scendeva a secchie rovesce e dal largo battevano contro lo scafo raffiche rabbiose a 70-80 all’ora, ora di libeccio, ora di scirocco, improvvise e a turbine, sicché era difficile affrontarle.

Il mare - ha raccontato un marinaio di coperta - sembrava una padella di frittura, verde e schiumosa; muraglie d’acqua mugghiante, simili a draghi, si abbattevano sulle fiancate e le facevano risuonare come mille tamburi, inondavano la coperta, la spazzavano sommergendola in tutta la sua larghezza, ripiombavano muggendo in mare. E allora il Locarno, che era piombato al fondo di un abisso, risaliva su una vetta e aveva tutt’intorno abissi e seracchi biancoverdi in movimento.

Era quasi impossibile reggersi in piedi: ogni volta che la nave beccheggiava e sprofondava, si piegavano le gambe, quando risaliva sulle creste i piedi brancolavano nel vuoto. Nella sala macchine i fuochisti guardavano preoccupati il clinometro e dalle oscillazioni della lancetta apprendevano che poggiavano i piedi su un ripido pendio. Gli altri, che erano ai posti di manovra in coperta, legati e fradici fino alla pelle, si raccomandavano l’anima a Dio. E l’unica donna a bordo della nave - la moglie del comandante che era salita per un viaggio di piacere - più morta che viva domandava al mozzo diciottenne che l’assisteva in cabina: «Dio mio, ma è questa la vita di mio marito? E’ questo il mare?». «Non lo so signora - rispondeva il ragazzo senza ombra di umorismo - sono al mio primo imbarco».

GOVERNO RELATIVO

 

La danza del Locarno era cominciata appena fuori di Genova. Era ancora notte quando la nave (3.897 tonnellate di stazza, 114 metri di lunghezza, ventidue uomini di equipaggio, tutti italiani, salvo un abissino), mollati gli ormeggi al molo Rubattino, fu presa a rimorchio e condotta fuori del porto. Vi era arrivata un paio di settimane prima, il 22 dicembre, da Lubecca in Germania, con un carico di minerale ferroso. Il viaggio era stato burrascoso, con una tempesta nello Skagerrak,  nebbia nella Manica, una seconda tempesta nel golfo di Biscaglia, una terza tra il golfo di Valencia ed il golfo del Lione, proprio al traverso delle Baleari. Ma il cargo, seppure anziano di trentun anni e ansimante alla velocità di quattro-cinque nodi, se l’era cavata decentemente, senza danni, e gli uomini avevano potuto passare il Natale ed il Capodanno a terra.

Martedì mattina, dunque, il Locarno esce da Genova. E’ diretto a Follonica, in Toscana, per caricare dell’altro minerale da trasportare a Rotterdam, in Olanda. La nave è vuota e alta sul mare, nonostante che i doppi fondi siano regolarmente zavorrati con acqua, e il vento di libeccio la investe in pieno e la fa scarrocciare. Tutti però sono tranquilli a bordo. Che cosa è una bufera in casa nostra in confronto a quelle dell’Atlantico? E’ questione di poche ore, pensano tutti; Follonica è vicina, ci si arriverà prima di sera.

Senonché, man mano che la nave avanza, il tempo peggiora. Il mare è a “forza sei”, Radio Malta dà il gale warning, l’avviso di tempesta  “forza sette-otto” su tutto il Me-diterraneo. Le condizioni di governo della nave cominciano a farsi difficili. In tal caso vi sono due soluzioni: o buttarsi al largo, af-frontando la tempesta, o cercare riparo vicino alla costa. Il capitano del Locarno preferisce questa seconda manovra, fidandosi so-prattutto dei bollettini meteorologici che danno showers costanti di libeccio con tendenza a tramutarsi in ponente.

Giunto all’altezza di Capo Portofino, pertanto, capitan Sallustro vira di bordo e si ripara nella rada di Santa Margherita, in relativa bonaccia, dove getta l’ancora. Sono le dieci del mattino e tutto va bene: le macchine sono ferme, le caldaie sotto pressione, la nave è alla cappa in un posto tranquillo. Senonché il tempo cambia e il libeccio, anziché volgere in ponente, gira in scirocco. Raffiche violente si abbattono ora contro il cargo e le ondate lo scuotono tutto. L’ancora ormai non tiene più, ara sul fondo, e la nave scarroccia, tendendo verso la scogliera di Santa Margherita.

Il capitano allora dà attraverso il portavoce il “posto di manovra”. E’ mezzogiorno, ma è buio e sembra notte. Tutti e otto i forni delle caldaie sono accesi. Si salpa l’ancora ed il comandante urla l’ordine “avanti a tutta forza”. Prende  lui stesso la barra del timone e affronta lo scirocco. Ma l’impeto del vento e del mare è tale che le macchine non reggono la forza del mare. I 2.700 cavalli  vapore  non riescono ad imprimere al Locarno una spinta sufficiente ad avanzare.

La nave è sempre traversata al mare e passa dalla situazione di “governo relativo” a quella di “non governo”. Il timone cioè è inutile e inerte, mancando della spinta che dovrebbe far avanzare la nave. Ormai, è chiaro, non c’è nulla da fare, la nave sta pericolosamente avanzando verso terra, si cominciano a vedere distintamente gli uomini e le case sulla riva di Rapallo.

Allora il comandante urla «Fuori un’ancora!». «Fuori la seconda ancora!». Sono momenti drammatici, perché le catene si sono bloccate nei gavoni e sembra che non vogliano saperne di uscire.

Ma alfine le ancore vengono gettate, con sei lunghezze di catena. Ora la nave è alla cappa, le macchine sono di nuovo ferme, dovrebbe essere finita. E invece neanche ora le ancore fanno presa sul fondo, e continuano ad arare; la terra, gli scogli, le case, gli alberi di Rapallo continuano ad avvicinarsi implacabilmente.

Un nuovo “avanti a tutta forza”, un “indietro a tutta forza” sono inutili; l’equipaggio è sfinito. Il timone si muove inerte tra le braccia del comandante, senza governare, come il volante di un’automobile su un lastrone di ghiaccio. L’elica sembra che giri a vuoto. Il radiotelegrafista Pietro Marcucci, un triestino che ha navigato in tutti i mari del mondo, riceve l’ordine di trasmettere il segnale di distress («stiamo correndo un grave pericolo»), il segnale immediatamente precedente a quello dell’SOS («salvate le nostre anime»). Da Genova accorrono quattro potenti rimorchiatori ma, a causa della furia del mare e dei fondali bassi, non possono avvicinarsi.

Per alcune ore il Locarno resiste ancora, avanti e indietro, cercando di tenersi lontano dalla riva, con disperate manovre. Tutti gli uomini sono ai loro posti, nessuno ha mangiato, le ore passano lente, senza che si riesca ad uscire dalla trappola del Tigullio. Alle cinque del pomeriggio, d’improvviso, la prora, che ora è volta verso la riva e sembra sfiorare le case di Rapallo, tocca sul fondo. E’ un colpo secco, una falla si apre nei gavoni. Ma la lotta disperata continua ancora per ore.

Al largo incrociano i rimorchiatori; da bordo del Locarno vengono lanciati razzi per segnalare la sua posizione. Ma il mare è sempre furioso ed i soccorritori non possono avvicinarsi. Da terra una folla enorme segue con ansia le vicende della nave. Se il vento diminuisse, se il mare calasse, il Locarno potrebbe ancora salvarsi.

Invece il pericolo si è fatto più grave, ci sono scogli da ogni parte, la nave rischia di rovesciarsi, sbattuta avanti e indietro dalle ondate.

Alle dieci di sera un altro urto; stavolta la prora si incaglia. Da terra, dove sono stati accesi potenti fari, si distingue la falla. Ormai le distanze sono ravvicinate, il capitano Sallustro ed il comandante dei pompieri che sono venuti in suo soccorso possono comunicate a voce, attraverso i megafoni. Subito dopo la catena di un’ancora che aveva fatto presa su uno scoglio si rompe.  Il Locarno viene ora trascinato verso il vecchio castello di Rapallo, ma poi il mare cambia direzione e lo riporta verso la spiaggia, sempre sballottandolo. Alle due di notte, l’agonia continua ancora; la nave, che s’è messa al traverso, sbatte contro un moletto che si protende per una decina di metri dalla riva. E’ il colpo di grazia. Sono dieci-venti colpi violentissimi. Anche il timone si spezza, una pala dell’elica si piega. Le stive uno, due e tre vengono sfondate, le tanke sono forate, la nafta comincia a galleggiare sul mare, l’acqua salsa invade lo scafo. Le sentine sono allagate, l’acqua si precipita anche nella sala macchine. I forni vengono spenti d’urgenza per evitare che scoppi un incendio.

Ora è davvero finita; l’acqua in sala macchine significa aver perso completamente il controllo della nave, manca ogni energia, viene meno la luce.

FINALMENTE A DORMIRE

 

Alle tre di notte, a malincuore, il capitano dà l’ordine di abbandonare la nave. La terra è proprio a due passi, ma le ondate sono altissime ed è impossibile scendere in acqua. Allora si improvvisa una teleferica di soccorso. Il nostromo getta una cima e i pompieri fanno salire a bordo un cavo che viene legato ad un picco. Sul cavo, trattenuto dalla parte di terra da una decina di pompieri (per le forti oscillazioni della nave è infatti impossibile agganciarlo ad un sostegno fisso) scende per prima la moglie del capitano, poi, ad uno ad uno, diciannove dei ventidue membri dell’equipaggio, ciascuno col suo fagottino.

A bordo, sulla nave che oscilla paurosamente rimangono il capitano, il radiotelegrafista e un macchinista. Sperano ancora in un miracolo: e se scendessero la nave verrebbe considerata un relitto.

Ma alle sei di mattina, quando il mare comincia a calmarsi un po’ il capitano si rende conto che non c’è più nulla da fare. Anche la stazione radio viene chiusa. Alle nove di mattina i tre uomini a bordo calano una biscaglina e lo scalandrone lungo il bordo. Ora è possibile scendere a terra. Il naufragio, l’incredibile naufragio nel “mare di casa” è terminato: lo scalandrone posa giusto giusto sul moletto, i naufraghi possono andare a mangiare e a dormire all’albergo. Ora incomincia la battaglia tra armatori e assicuratori, incomincia il lavoro di recupero della nave.

Ma perché - ci si domanda - la nave si è arenata? I tecnici daranno le loro risposte. Ma la spiegazione, tutto sommato, è una: il Locarno è una nave vecchia e piccola, troppo debole per affrontare il mare. Ha avuto la fortuna di arenarsi a Rapallo, anziché di sbattere su uno scoglio o di andare a picco nell’Oceano, come le navi sono solite fare».

 

CENERENTOLA

di Pier Luigi Benatti

 

Trent’anni di servizio sono tanti, anche per una nave. Significano il continuo altalenarsi di porto in porto sino alla nausea, una ciclopica montagna di materiali che si sono trasferiti, una babelica torre di casse, di fusti, di sacchi inghiottiti nelle stive e rigurgitati nei docks.

C’è l’assalto di cento tempeste ruggenti, il monotono sgranarsi di un interminabile rosario di vuote giornate di navigazione, la deprimente sosta attraccati a luride banchine, con gli argani che cigolano lamentosamente, le gru che ti frugano le viscere, il turpiloquio sconvolgente degli scaricatori, e l’odore insopportabile di pelli mezze conciate, di sostanze fermentate, di acidi soffocanti, che ti resta addosso per mesi e mesi assieme all’unto ed al catrame dei lubrificanti.

Un’esistenza infelice, da umilissima bestia da soma, in uno scafo arrugginito, maculato qua e là di un minio purpureo, fasciato da strisce di nafta lasciate dal pennello di cento risacche, sotto tutte le latitudini, sì da sentirsi un povero Don Chisciotte dall’armatura goffa, arlecchinesca e sconnessa.

Trent’anni di dura, nascosta, fatica, che l’affetto spontaneo di quel pugno di uomini che ti abitano non riesce a lenire e che si acutizza ogni volta che, nelle vie del grande porto, sfiori una di quelle superbe città viaggianti, tutte nitore e luminosità. Prima di finire laggiù, in fondo al più appartato e periferico dei moli.

E’ la vita del cargo, sotto tutte le bandiere.

Ma sono bastate poche ore, la forza del vento e la fantasia del mare, perché anche una povera nave potesse  rivivere intera la favola di Cenerentola. E così, lasciato il fardello sotto la Lanterna, al calar delle tenebre, questa trascuratissima ancella dell’Oceano, ha fatto la sua comparsa come una grande dama sulla promenade d’una delle più celebrate spiagge alla moda, sotto gli sguardi stupiti dei presenti.

Poi sono giunti i cronisti, i fotoreporters, la televisione; poi il suo nome è corso nell’etere e la sua figura è stata riprodotta sui rotocalchi d’ogni continente; poi la sua vicenda è stata narrata in tutte le lingue e tutti la conobbero.

Ospite d’eccezione, che, increduli, in tanti vennero a curiosare da vicino, dominò sovrana le conversazioni e divenne soggetto d’obbligo per i ricordi fotografici, dando finalmente il cambio al nostro vegliardo castello.

Ma come in tutti i libri di favole, dopo sedici pagine, il racconto è giunto al termine.

Cenerentola se n’è andata verso quell’orizzonte donde era uscita ed è bello pensare che, anche questa volta, alla fiaba non sia mancato il lieto fine. Che importa, infatti,  se si parla di disarmo, di demolizione... l’impronta della scarpetta di questa Cenerentola del mare è lì, su mille giornali, a ripeterci una storia fantastica che sembra irreale, ma che è invece vera.

 

Una testimonianza

Cosa ricordo? Ricordo un pomeriggio livido, fatto di acqua e di vento, tanto vento... L’angolo della tabaccheria Mocellin non dava nessun ridosso, l’ombrello aperto ti spingeva indietro ed il vento ti infilava l’acqua negli occhi e giù per il collo... ma non mollavo; quella “carretta” nera che mostrava larga parte di rosso dell’opera viva cosa vuol fare? Vuol dare una pruata al pontile di Porticciolo?. Accidenti, se volevano dar fondo dovevano decidersi prima! Così non terrà,... è scarica e fa troppa vela, è in un fondale troppo basso, troppe lunghezze di catena da filare per sperare...

Alle sette di sera la prua si alzava ed abbassava producendo un rumore strano e lamentoso su di uno scoglio di fronte all’allora Gran Bar Dedalo; all’alba la nave era parallela alla passeggiata a mare, tenuta a distanza da essa solo dal moletto dei Primeri... sembrava ormeggiata.

E fu una vera “Epifania”, soprattutto per coloro che non avevano mai visto una nave e a quegli ottanta metri di ferro tributavano tutto il loro stupore.

Io guardavo e pensavo: ce ne vorranno di cavalli di forza per portarla via! E vennero sette Fratelli Neri e tirarono per sette giorni... Ma Lei si era scavata il suo letto nella morbida sabbia del golfo ed era tanto stanca. si era rassegnata al Suo destino deciso dagli uomini... Non voleva vedere altri porti... Infatti i rimorchiatori ebbero un fugace successo e poi la dovettero abbandonare per non essere tirati sotto anche loro... Noi eravamo tanto giovani, Emilio. Mi piaceva pensare che le navi avessero un’anima...

Giulio Cuneo

Rapallo, 03.03.11

 


L'800 MARINARO di Rapallo

L’800 MARINARO DI RAPALLO

Era il mio primo imbarco e stavamo navigando al largo del Tigullio. Il Comandante Cesare Cuneo di Rapallo inforcò i binocoli guardò, verso Montallegro e disse:

“Quando un Santuario Mariano svetta su un golfo, testimonia non solo la devozione dei marinai, ma anche la presenza di un'importante tradizione navale”.

Quella frase mi rimase impressa nella memoria, forse perché allora non mi convinse tanto “la tradizione marinara” di Rapallo, la quale aveva cancellato, ormai da quasi un secolo, le tracce marinare di un tempo coprendole, in un solo decennio, con una striscia di eleganti e fastosi alberghi di 1° categoria.

Oggi sono pochi quelli che, rovistando incuriositi tra le ingiallite cartoline d'epoca, rimangono stupiti nel notare, per esempio, che Rapallo è stata sede di un Cantiere Navale importante, che operò dal 1868 sino alla Prima Guerra Mondiale e costruì persino il “Caccin”, un brigantino oceanico di 1.500 tonnellate

Gio Bono Ferrari scrisse: “ La strada delle Saline, quella dalla tipica porta secentesca, pullulava a quei tempi di calafati e maestri d'ascia. E v'erano i ciavairi con le massacubbie ed i ramaioli, nonché i fabbri da chiavarde per commettere i cruammi. E gli stoppieri, i ramieri e il burbero Padron Solaro, socio del camogliese De Gregori, che aveva fondachi di velerie, d'incerate e di bosselli.”

Beh! Oggi si stenta ad immaginare che la zona descritta, sia stata il cuore pulsante dell'industria e del commercio di Rapallo, quando anche la lingua, intrisa di termini marinareschi e mestieri ormai scomparsi, odorava di pece, catrame e rimbombava di echi medievali, ultimi sibili di un'era legata al prezioso legname da costruzione navale.

Il Congresso di Vienna diede il famoso “colpo di timone” e dai riformatori, intellettuali e docenti vennero regole moderne ed una forte spinta a creare una “Nuova Marina Mercantile”, che doveva unificare tutte le tradizioni marinare del Paese e trasformarle secondo una formula tanto breve quanto efficace:

“L'arte del navigare va accompagnata da una scienza del navigare stesso”.

A metà ‘800 si passa dal romanticismo dei “Capitani Coraggiosi” ad una classe di professionisti. Cantieri e Scuole Navali sorgono dirimpettai, perché legati ai “bisogni” della nuova industria marittima che sente avvicinarsi il rombo del motore della Rivoluzione Industriale e quindi la necessità di essere pronti per il passaggio epocale dalla marineria velica a quella moderna. Non ci si può quindi meravigliare se anche Rapallo, così vicina a Genova ed alla formidabile tradizione di Camogli, fosse presa dal vortice del rinnovamento e facendo riferimento sulla notevole tradizione dei suoi naviganti ed emigranti si candidasse come sede di una Scuola Nautica Privata che, infatti, ebbe il suo riconoscimento nel 1853 da parte del Ministero dell'Educazione Nazionale.

Le vicissitudini belliche del periodo pre-unitario rinviarono l'apertura della scuola al 19.11.1861. Ma fu con l'arrivo del preside Edoardo Salviati che gli alunni salirono dall'esiguo numero di 12 agli 82 iscritti, dei quali il 50% erano residenti a Rapallo.

Ma non erano solo rose e nel 1869 una prima Commissione Governativa invitava l'Amministrazione ad assumere docenti che la potevano rendere “Un'Istituzione vera e seria e non un'illusione come lo è al presente”. Il rigore mostrato dal Governo funzionò e nel 1870-1871 Rapallo divenne sede di esame anche per conseguire il grado di Capitano di Lungo Corso.

Nel 1872-1873 la Scuola Nautica di Rapallo ottenne il tanto atteso Riconoscimento Governativo e raggiunse l'apice della sua esistenza. Un “Rapporto Elogiativo” redatto da Giovanni Ardito, Presidente della Giunta di Vigilanza ne rimarcò la crescita per numero di alunni, oltre 300 e per la promozione, 67%. La Scuola acquisì sussidi straordinari dal Ministero ed un posto di rilievo nel Levante, nonostante l'apertura delle scuole di Recco e Chiavari che erano temibili concorrenti rispetto al potenziale bacino d'utenza.

Purtroppo, sulla Scuola Nautica si addensarono improvvisamente nere nubi temporalesche: il Commissario Wladimiro Sablicich, militare severo ed intransigente, dichiarò: “…. quello di Rapallo è un organismo poco corretto perché gli studenti non frequentano per imparare, ma per conseguire la licenza in breve tempo e con il minor studio possibile” . Wladimiro andò giù duro e denunciò “ il quasi analfabetismo di studenti che dopo pochi mesi di corso si presentano all'esame Un candidato non conosce i mesi dell'anno….

Salviati si difese denunciando “….un meccanismo perverso che sussiste nella male intesa concorrenza tra gli Istituti Nautici della zona”. Edoardo Salviati, gran matematico, perdette l'ufficio di Preside. Nonostante la gravità dell'accaduto, la Scuola continuò ad essere frequentata da un buon numero di allievi, ed il 14 febbraio 1875 fu dichiarata - SCUOLA GOVERNATIVA - e nel marzo 1876 - REGIO ISTITUTO NAUTICO -.

Ma la crisi della Marina Velica era nell'aria da tempo ed il Governo preferì concentrare la popolazione studentesca marinara della Riviera nell'Istituto Nautico di Camogli. Queste furono le cause che giustificarono in successione la chiusura degli Istituti di Chiavari, Recco ed infine, il 1 dicembre 1878, quello di Rapallo. Da quel giorno il levante ligure ebbe il suo “Polo Nautico” nel piccolo borgo di Camogli, che diede all'Italia, dal 1800 al 1900, 3700 Capitani di mare, 2932 bastimenti mercantili e più di 500 Macchinisti Navali di prima classe.

Carlo Gatti

Rapallo, 08.03.11



Navi Militari nel Tigullio in oltre cento anni di Storia

HANNO VISITATO RAPALLO

Navi militari nel Golfo del Tigullio in più di cento anni di storia

Maurizio Brescia

foto di Carlo Gatti

Da più di un secolo, la presenza di navi militari nelle acque del Tigullio antistanti Rapallo – come pure Santa Margherita Ligure, San Michele di Pagana e Portofino – è un elemento costante dell’orizzonte marittimo della nostra città. Da sempre legata al mare nei suoi molteplici aspetti, a partire per l’appunto dalle unità navali e mercantili, da quelle da pesca o da diporto, Rapallo ha “ospitato” – nel tempo – numerosissime navi da guerra appartenenti alle Marine delle nazioni più disparate, a testimonianza non soltanto di un fascino più propriamente turistico, ma anche della conoscenza e della valenza internazionale di una città nota e apprezzata in Italia e all’estero sin dalla fine del secolo XIX.

In effetti, galere e navi a vela sia genovesi sia turche erano più volte comparse nel Golfo nei secoli XVI e XVII e, per tutto il Settecento e la prima metà dell’Ottocento, fregate e vascelli francesi, spagnoli e inglesi dettero fondo nel Tigullio in più di un’occasione, in relazione alle vicende diplomatiche e militari che vedevano coinvolta la Repubblica di Genova.

Con il passaggio dei territori della Repubblica al Regno di Sardegna e – soprattutto – dopo la proclamazione del Regno d’Italia (1861), il Golfo del Tigullio e Rapallo iniziarono a vedere rafforzato quel ruolo di “ancoraggio di rappresentanza” (oltreché provvisto di fondo buon tenitore e protetto da buona parte delle traversie di vento e di mare) che, sino ai giorni nostri, avrebbero sempre mantenuto anche in ragione della vicinanza con i porti di Genova e della Spezia.

Per nostra fortuna, l’incremento quantitativo e qualitativo del rapporto tra Rapallo e le navi da guerra in visita alla città iniziò a verificarsi sul finire dell’Ottocento, in concomitanza con lo sviluppo – ormai a livello quasi “popolare” – di due nuove tecniche di documentazione e comunicazione: la fotografia e la stampa periodica locale.

A partire dagli anni Ottanta del secolo XIX la fotografia cominciò, difatti, ad assumere un ruolo documentale sempre più preponderante e – nello specifico campo navale – le immagini fotografiche iniziarono ad avere ampia diffusione presso il pubblico, venendo distribuite o vendute in occasione di vari, cerimonie e parate navali. Tutto ciò coincise con l’accresciuta importanza delle Marine della “belle époque”, strumento di prestigio, di politica estera e di pressione internazionale e utilizzate in queste vesti dalle principali nazioni europee e mondiali.

L’attività dei fotografi locali (che hanno documentato la visita nel Tigullio di numerose unità) si affiancava poi a quella di studi professionali che, dalla Spezia a Taranto, da Tolone a Portsmouth, avviarono proprio in questo periodo una fiorente opera di documentazione storica, ritraendo un gran numero di unità e facendo pervenire sino ai nostri giorni importanti archivi di immagini dai quali – come avremo modo di chiarire più avanti – abbiamo attinto per reperire buona parte della documentazione iconografica inedita che presentiamo in questo nostro studio.

Al tempo stesso, tra il 1890 e i primi anni Cinquanta del secolo XX, veniva pubblicato a Rapallo un periodico settimanale indipendente, il cui titolo – “Il Mare” – ben rappresentava l’intimo legame tra la città, il Mar Ligure e tutto il Mediterraneo. Preciso e puntuale nel citare e commentare gli eventi che vedevano coinvolti Rapallo e i suoi abitanti, “Il Mare” non mancò mai di riportare la presenza di unità militari nelle acque del Tigullio, segnalandone con buon anticipo l’arrivo e informando i lettori sugli incontri di ufficiali ed equipaggi con la popolazione e le autorità locali.

Paradossalmente, la precisione delle cronache de “Il Mare” ha consentito di stilare un completo e dettagliato elenco di pressoché tutte le navi da guerra che hanno visitato Rapallo solamente sino ai primi anni del secondo dopoguerra, quando il settimanale cessò le pubblicazioni. Successivamente, altre testate locali riferirono (peraltro senza le medesime precisione e continuità) sulla permanenza di unità militari nel Tigullio, ma dagli anni Sessanta ai giorni nostri la documentazione disponibile, maggiormente frammentaria e dispersa, non ha consentito di poter concludere la ricerca con analoghi dettaglio e puntualità.

Tuttavia, basandoci sulle cronache locali de “Il Secolo XIX”, su quanto conservato negli archivi del Comune di Rapallo e in quelli di numerosi studiosi e appassionati locali di storia marittima e navale, ci auguriamo che anche la parte di questo articolo relativa agli anni più recenti possa presentare un quadro quanto più completo ed esauriente possibile.

La prima unità “ufficialmente” documentata a Rapallo da “Il Mare” (1898) è l’avviso Surprise, all’epoca utilizzato come panfilo reale dalla Mediterranean Fleet della Royal Navy;. Negli anni successivi, Rapallo ospitò consistenti aliquote della Marina britannica e – in particolare – va ricordata la visita del luglio 1901, quando ben 42 navi da guerra inglesi diedero la fonda nel Golfo del Tigullio; per l’occasione, a bordo della corazzata Renown alzava la sua insegna l’ammiraglio Sir John Fisher che, nella carica di Primo Lord del Mare, tra il 1904 e il 1911 avrebbe rivoluzionato gli ambienti navali europei e mondiali favorendo la costruzione e l’entrata in servizio dell’innovativa nave da battaglia Dreadnought e delle successive unità da essa derivate .

L’Italia, tuttavia, manteneva all’epoca uno stretto legame con l’Austria e la Germania per via della comune appartenenza alla Triplice Alleanza: nel 1908, insieme alle corazzate Napoli e Vittorio Emanuele (con a bordo S.M. il Re) era presente nelle acque del Tigullio la nave scuola Victoria Luise della Marina tedesca e – ancora nel giugno 1912 – nel corso di una visita nel nostro paese, l’imperatore di Germania Federico Guglielmo fece scalo a Rapallo a bordo dello yacht Hoenzhollern scortato dall’incrociatore corazzato Kolberg.

Le ultime unità tedesche in visita a Rapallo furono, nel febbraio 1914, l’incrociatore da battaglia Goeben e l’incrociatore leggero Breslau che – da lì a pochi mesi – avrebbero scritto le pagine di un’autentica epopea dopo lo scoppio della “Grande Guerra”, riuscendo a sfuggire alla caccia della Royal Navy e a raggiungere la Turchia, con la cui Marina prestarono servizio per numerosi anni ancora prima della loro radiazione .

Successivamente agli anni del conflitto 1915-1918, la Regia Marina inviò più volte importanti unità nel Tigullio. Negli anni Venti, le corazzate classe “Cavour” e “Doria” furono spesso alla fonda dinanzi a Rapallo, riscuotendo un notevole successo presso la popolazione locale e i villeggianti, che numerosi salirono a bordo di queste unità. Negli anni Trenta, i consistenti programmi di rafforzamento della flotta italiana fecero sì che nuove e potenti navi giungessero in visita alla città: nel gennaio 1932 gli incrociatori Trento e Trieste (al comando del c.amm. Solari), nel luglio 1934 la Seconda Squadra Navale (con quattro incrociatori classe “Condottieri”, otto esploratori tipo “Navigatori” e la nave appoggio idrovolanti Miraglia), nel luglio dell’anno successivo l’incrociatore pesante Gorizia e nel 1937 – sempre a luglio – la nave da battaglia Cavour al termine del periodo di grandi lavori nel corso dei quali era stata estesamente rimodernata.

Nel medesimo periodo, la Royal Navy (che utilizzava con continuità la Mediterranean Fleet nel ruolo diplomatico e di “presenza navale”) giunse più volte in forze nel Tigullio. Nel luglio 1924 diedero fondo di fronte a Rapallo quattro incrociatori leggeri tipo “C” al comando dell’amm. Gatfield, e analoghe unità si presentarono nei due anni successivi, insieme a varie corazzate e alla portaerei Eagle.; ad aprile del 1929 la portaerei Courageous si trattenne per una settimana nelle acque di Rapallo e negli anni Trenta fu la volta degli incrociatori pesanti Sussex (aprile 1934) e Shropshire (nel 1935). L’ultima unità britannica che visitò Rapallo prima della seconda guerra mondiale, dopo un anno di “vuoto” nel 1936 dovuto alla crisi italo-britannica conseguente alla guerra d’Etiopia, fu – ad aprile del 1937 – la corazzata Barham.

I tragici anni del secondo conflitto mondiale fecero ben presto dimenticare questi “scambi di cortesie” in ambito navale, e gli ancoraggi e i sorgitori minori del Mar Ligure – un’area, va ricordato, quasi di secondo piano dal punto di vista dell’attività operativa delle contrapposte flotte italiana e britannica – dovettero anch’essi vivere un duro periodo di lutti e privazioni. Sicuramente, unità di scorta, ausiliarie e di uso locale fecero scalo a Rapallo e nel Tigullio ma, per numerosi e comprensibili motivi, non esiste una sufficiente documentazione – cartacea o fotografica – della loro permanenza in zona.

Con la fine del conflitto, la mutata situazione strategica internazionale fece del Mediterraneo un crocevia dei movimenti navali delle flotte dell’Alleanza Atlantica e, già a marzo del 1947, erano presenti nel Tigullio due unità inglesi, la portaerei Ocean e il cacciatorpediniere Raider, facenti parte di un gruppo operativo al comando dell’amm. Sir Cecil Harcourt.


A partire da questi anni – e continuando sino al termine della “guerra fredda” nei primi anni Novanta – la presenza navale più consistente e significativa nel “Mare Nostrum” sarebbe però stata quella delle unità della Sesta Flotta della Marina degli Stati Uniti.

Tra il 22 e il 24 giugno del 1949 si ancorò davanti a Rapallo la grande portaerei americana Coral Sea che, all’epoca, insieme alle gemelle Midway e Franklin D. Roosevelt costituiva la classe di unità di questo tipo più grandi e potenti al mondo . Da allora, le navi statunitensi fecero scalo a Rapallo con regolarità e – nel tempo – incrociatori lanciamissili, cacciatorpediniere, unità da sbarco e navi ausiliarie visitarono la città, spesso in veste ufficiale di ospiti dell’Amministrazione Comunale. Non possiamo ricordarle tutte in queste brevi note, e citeremo solamente alcune tra le più importanti: cacciatorpediniere Irwin e H.R. Dickson (marzo 1955), portaerei Randolph (luglio 1965), incrociatore lanciamissili Albany (luglio 1977), nave da sbarco Portland (1980) e l’elenco potrebbe ancora continuare…

Anche La Marina Militare Italiana, ricostituita nel dopoguerra utilizzando le poche unità sopravvissute al conflitto, e dal cui numero andarono detratte le navi cedute ad alcune nazioni vincitrici o demolite su richiesta degli Alleati , riprese ben presto le crociere estive delle proprie unità e, ad agosto del 1949, giunsero in visita a Rapallo l’incrociatore Raimondo Montecuccoli e la corazzata Duilio .

Nell’aprile del 1957 l’intera Squadra Navale, con l’incrociatore Duca degli Abruzzi, si presentò nel Tigullio; nel 1964 giunse in visita l’incrociatore lanciamissili Giuseppe Garibaldi a bordo del quale alzava la sua insegna l’amm. Michelagnoli, “CINCNAV” e futuro Capo di Stato Maggiore della Marina Militare.

Giungiamo così ai giorni nostri, in un periodo in cui la cronaca non è ancora diventata storia: gli scenari internazionali sono cambiati rispetto a quelli del dopoguerra e – con l’uscita dell’Unione Sovietica dall’arena politico-militare mondiale – i rinnovati impegni delle Marine della NATO (a partire da quella italiana) ne hanno portato l’attività operativa in aree diverse dal Mediterraneo Occidentale, e dal Mar Ligure in particolare. Per quanto riguarda la Marina degli Stati Uniti, va poi considerata una sensibile riduzione numerica che, negli ultimi quindici anni, ha portato ad una contrazione nel numero delle unità in servizio attivo, oggi poco più della metà delle quasi 600 navi in servizio nel 1991.

Tuttavia, negli ultimi anni – a dimostrazione dell’importanza “di immagine” che la nostra Marina continua ad assegnare alle proprie unità, e compatibilmente con le esigenze di bilancio – sono giunte in visita nel Tigullio moderne ed importanti unità della Marina Militare, tra le quali vale la pena di ricordare le fregate Libeccio e Scirocco, il cacciamine Termoli e il rifornitore di squadra Vesuvio.

Riteniamo quindi giusto concludere queste brevi note con quanto scrive Pierangelo Campodonico, riferendosi al XVI secolo, ma con parole sempre attinenti ed attuali anche ai giorni nostri: “… Da sempre le navi da guerra sono leggibili non solo secondo la funzionalità militare, ma anche secondo la funzionalità simbolica . . . la dimostrazione di forza, potenza e ricchezza si addice a questo criterio . . .” . E, ci permettiamo di aggiungere, sono anche la fonte di un fascino del tutto unico e particolare come – in più di cento anni – hanno potuto “assaporare” gli abitanti di Rapallo e di tutto il Tigullio.

Maurizio Brescia

Un sentito ringraziamento va al capitano Umberto Ricci – un profondo conoscitore della storia e delle vicende di Rapallo e del Tigullio – che, oltre ad avere “lanciato” per primo l’idea che ha dato origine a questo studio, ha messo a disposizione i propri archivi e la sua completa collezione del periodico “Il mare”.

Anche gli amici Emilio Carta e Carlo Gatti, co-autori insieme al sottoscritto di __________________, hanno fattivamente e generosamente collaborato fornendo fotografie, pubblicazioni ed altri documenti.

 


La concezione che Fisher aveva della "capital ship" era però molto più estrema ed egli, infatti, volle fortemente la costruzione di un congruo numero di incrociatori da batta­glia, ovvero di unità maggiori che, a scapito dei valori della protezione, riunissero in un unico scafo l'armamento prin­cipale di una corazzata e la velocità di un incrociatore.

Il Goeben, in particolare, con il nome di Yawuz Sultan Selim prima e di Yavuz poi, venne mantenuto in servizio addirittura sino all’inizio degli anni Sessanta!

All’entrata in servizio (1946/47) le tre unità (dislocamento oltre 45.000 tonn, lunghezza 300,5 m, velocità 33 nodi e armamento composto da 18 cannoni da 127/54) imbarcavano un gruppo di volo composto da ben 137 aerei.

Alla Francia andarono gli incrociatori leggeri Attilio Regolo e Scipione Africano, nonché un certo numero di cacciatorpediniere; l’URSS ricevette, in conto riparazioni danni di guerra, la corazzata Giulio Cesare, l’incrociatore Duca d’Aosta, la nave scuola Cristoforo Colombo e alcune siluranti; alla Grecia fu destinato l’incrociatore Eugenio di Savoia. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, cui erano destinate le navi da battaglia Vittorio Veneto e Italia (ex Littorio), non richiesero la consegna delle unità ma, per contro, ne pretesero la demolizione.

Si trattava di una delle due corazzate (l’altra era la gemella Andrea Doria) rimaste all’Italia, in base alle clausole del trattato di pace, dopo la conclusione del conflitto.

Comandante in Capo della Squadra Navale.

P. Campodonico, Andrea Doria, Genova, Tormena Editore, 1997 – pag. 124.

Rapallo, 05.04.11


BASE IDRO-268 a Rapallo

 

PRIMA GUERRA MONDIALE

Rapallo ospitò la Base IDRO-268

Squadriglia Idrovolanti

Sul numero del MARE (dicembre 2008), è apparsa la fotografia di un idrovolante e di una nave da guerra all’ancora nel nostro golfo. Questa cartolina è stata oggetto di telefonate e lettere giunte in redazione da parte di numerosi lettori che ne hanno apprezzato la rarità, mentre altri hanno richiesto delucidazioni ed approfondimenti storici. In effetti, la suggestiva cartolina non solo ci ricorda una Rapallo di altri tempi... ma ci propone due spunti “bellici” su cui ora faremo un po’ di luce.

1917 - Golfo di Rapallo

In primo piano, l’idrovolante F.B.A. (Franco-British Aviation Company) della Base Idro 268 di Rapallo, mentre decolla per una missione. In secondo piano, la torpediniera 39 RM (Regia Marina) della 19a squadriglia di Base a Spezia che era adibita alla vigilanza del traffico mercantile nel Mar Ligure.

Dati della Torpediniera 39 RM

- Impostazione 3 luglio 1914 - Varo 12 agosto 1915

- Consegna alla Marina 13 febbraio 1916 - Radiazione 4 gennaio 1923

La Torpediniera 39 R.M. fu costruita per sperimentare un apparato motore misto di macchine alternative e turbine su tre assi nel Regio Arsenale della Spezia su progetto dei Maggiori G.N. De Vito e Boella. Incombevano esigenze belliche e l’unità venne pertanto utilizzata senza ulteriori esperimenti e modifiche. Ma la prova non fu soddisfacente. La torpediniera 39 R.M. fu quindi impiegata soltanto in servizi locali. Incorporata nella 14° squadriglia con compiti di vigilanza foranea nel 1916, fu poi assegnata alla 19° Squadriglia costiera per la difesa del traffico marittimo nazionale nel Mar Ligure presso la quale fu impiegata intensamente e con grande profitto fino alla fine del 1° Conflitto mondiale.

BASE IDRO-268

SQUADRIGLIA DI IDROVOLANTI A RAPALLO

GUERRA 1915-1918

La storia della Base IDRO-268 di Rapallo è contenuta nello Studio N°19.

La storia dell’Aeroscalo di Chiavari-Base Dirigibili Ossevatori nello Studio N°33.

Questi due interessanti fascicoli, che si trovano nel Museo Marinaro Tommasino-Andreatta di Caperana (Chiavari), sono il risultato di una seria ricerca effettuata presso gli archivi dell’Aeronautica Militare dallo storico Dott. Ing. Francesco Casareto, pisano di nascita e chiavarese d’elezione che si è spento all’età di 78 anni il 6 novembre 2007. Segue un breve ricordo del nostro collaboratore Alfredo Bertollo.

E’ stato Francesco Casaretto, (nella foto) insieme ad un altro amico, Giovanni Carosini, che anche  ci ha lasciato, a suggerirmi di fondare l'Associazione “La  Corallina” per le tradizioni liguri di cui io, Alfredo Bertollo, sono il Governatore. Non c'è quasi bisogno di ricordare Casaretto nel Levante ligure perché  tutti quelli che l'hanno conosciuto se lo sono fissato bene nella memoria, sia come personaggio sia come persona di cultura. Era ingegnere – e quasi se ne scusava come se aver avuto una preparazione tecnica provocasse una diminutio capitis allo Storico. 
Era un ricercatore appassionato e i suoi innumerevoli lavori sugli argomenti più disparati relativi alla storia della Liguria  costituiscono un patrimonio eccezionale. Casaretto era un oratore brillante e qualunque argomento egli trattava era gradito al suo affezionato pubblico che lo ascoltava a Genova come a Camogli, Chiavari  e, molto spesso, a Santa Margherita.

I due Studi non sono stati ancora pubblicati, e si presentano come manuali dattiloscritti riservati ad una ristretta élite di studiosi ed appassionati. Si tratta, tuttavia, dell’unica documentazione ufficiale esistente in Liguria, e riguarda un capitolo di storia nazionale che ci tocca da vicino.

Gli obiettivi operativi della base di Rapallo erano due:

a) - L’osservazione della costa da Punta Manara fino a Punta Arenzano.

b) –Il controllo delle rotte navali in entrata/uscita dal porto di Genova.

I nemici da intercettare dall’alto erano i sommergibili degli “Imperi Centrali” che avevano scatenato la cosiddetta “guerra sottomarina illimitata” e trasportavano un consistente potenziale di siluri e bombe di profondità che erano in grado di danneggiare le navi italiane in transito dallo scalo nazionale più importante.

L’altra base per idrovolanti, quella di Arenzano, era responsabile della zona da Nervi a Bergeggi. Il porto di Genova era quindi sorvegliato da due differenti squadriglie di aerei.

Sfogliando la documentazione apprendiamo che la Base è stata scelta per i seguenti motivi:

- Rapallo è riparata dalle mareggiate, dista solo 10 minuti di volo da Genova, l’esproprio del terreno è semplice in quanto una parte é demaniale, l’altra è del Comune, trattandosi di giardini pubblici.

Inoltre:

- La Base deve essere fornita di Idrovolanti F.B.A. “esploratori”, ma gli Hangars devono contenere anche Idrovolanti “da caccia” per difendere la base da eventuali attacchi aerei provenienti dal mare.

- Il giardino del Comune è stato regolarmente requisito in data 21 luglio 1917. Contemporaneamente è stata requisita la villa del Sig Buck (Austriaco) in via privata Macera, da adibirsi ad ufficio ed abitazione degli Ufficiali.

La fama turistica di Rapallo, com’é noto, iniziò con l’avvio dei grandi e lussuosi alberghi all’inizio del ‘900 e andò consolidandosi proprio negli anni antecedenti il Primo conflitto mondiale. Era quindi impensabile e forse anche improponibile, per molti rapallini di allora, che la scelta della base aerea per idrovolanti sarebbe potuta cadere proprio sulla già famosa “perla della Riviera”; ma così fu, ed il “periodo di leva” durò 15 mesi, dalla fine del 1917 al marzo del 1919.

Sintetizziamo ora alcuni curiosi “Atti” amministrativi:

- Il Sindaco di Rapallo, Sig. L.Ricci scrive in data 6 luglio 1917 al Presidente del Consiglio dei Ministri, chiedendo di realizzare l’Idroscalo in altro Comune e in via subordinata di ubicarlo a Prelo di S. Michele.

- La risposta del Comando in Capo del Dipartimento e della Piazza Marittima della Spezia – Comando Difesa Antisommergibili del 21 luglio è negativa!

Ma il sindaco insiste e spedisce in data 18 luglio un’altra lettera-esposto al Presidente dei Ministri, nella quale rileva la difficoltà di collegamenti interni e con Santa Margherita L.- Copia di questa lettera chiamata “supplica” è consegnata al Senatore del Regno N.Canevaro perché la invii al Capo di Stato Maggiore della Marina. Ma il terreno è già stato requisito sei giorni prima della data scritta sulla lettera.

F.3 La freccia indica la posizione degli Hangars adibiti al ricovero degli apparecchi,

nella zona demaniale a ponente del Rio Bogo (Boate).

F.4 In questa fotografia si possono apprezzare i particolari dello scafo, delle doppie ali, del

motore e degli impennaggi. Di questo modello, dall’agosto 1914 al novembre 1918, ne

furono costruiti 2.870 soltanto in Francia. Specializzati come caccia-sommergibili, gli

F.B.A. potevano pattugliare per quattro ore consecutive, alla velocità di 140 km/h.

Erano armati di mitragliere, bombe subalari anti-sommergibili e potevano montare

anche cannoncini.

F.5 Abitacolo di un idrovolante F.B.A. (France-British Aviation)

Gli Aerei

Al 1° dicembre del 1918 facevano parte della Base di Rapallo:

12 Idrovolanti F.B.A. (France-British Aviation) in piena efficienza

2 Idrovolanti F.B.A. non efficienti

1 Idrovolante costruzione “Sopwith Tabloid” in piena efficienza

F.6 Idrovolante Inglese Sopwith Tabloid

Gli aerei F.B.A. furono costruiti (su licenza) dalle seguenti società:

Piaggio di Finale Ligure, S. Giorgio di Genova e dalla SIAE di Sesto Calende.

L’aereo inglese Sopwith fu costruito (su licenza) dalle seguenti società: Ansaldo di Genova, Baglietto di Varazze e Cives di Viareggio. Sulla collocazione esatta di questi due siti, sono in corso accertamenti. Mentre aggiungiamo la ditta DUCROT che consegnò ben 120 velivoli di cui 80 completi - con numero di serie da 6400 a 6480 - e 40 suddivisi in parti di ricambio.

Gli Armamenti: Al 1° dicembre del 1918 la base disponeva di 30 bombe modello Batignolles.

Le armi per i velivoli, munite di circa 8.000 cartucce, comprendevano:

- n. 3 mitragliatrici FIAT

- n. 12 mitragliatrici REVELLI

- n. 2 mitragliatrici LEWIS

Il Personale

Al 1° dicembre del 1918 il personale della Base era composto di:

- n. 1 Comandante della Squadriglia (Ufficiale – Incarico Speciale)

- n. 12 Piloti (4 Tenenti, 1 Sergente Maggiore, 6 Sergenti)

- n. 9 Mitraglieri (compreso il Comandante, 3 Caporali, 5 soldati)

- n. 14 Montatori (2 Sergenti, 1 Caporal Maggiore, 2 Caporali, 9 soldati)

- n. 11 Motoristi (1 Caporal Maggiore, 2 Caporali, 9 soldati)

- n. 5 Meccanici d’Aviazione (1 Caporale, 4 soldati)

- n. 21 Truppa

Incarichi curiosi: 1 ciclista, 2 calzolai, 1 sarto, 1 barbiere, 1 nuotatore.

Riportiamo un esempio mensile di “attività esplorativa”:

Nel mese di gennaio 1918 sono stati effettuati da tutte le Squadriglie del territorio ligure: 366 voli di perlustrazione, quasi 12 al giorno, con una media di oltre 2.000 Km/giorno.

Nella lotta antisommergibile, la Liguria aveva 4 Basi per Dirigibili, dislocate a:

- ARMA DI TAGGIA nome in codice DIRI - 9

- ALBENGA -“- -“- DIRI - 10

- CHIAVARI -“- -“- DIRI - 11 (di cui ci occuperemo prossimamente)

- PONTEDERA -“- -“- DIRI - 12

F.7 Idrovolante da Ricognizione F.B.A. Tipo H in dotazione alla Base IDRO 268 di Rapallo

SCHEDA TECNICA: Velivolo F.B.A. Tipo H

1 Motore= Isotta Fraschini mod. I.F.V 4b - potenza CV 170

Apertura alare= mt. 14,50 - Lunghezza= mt. 10,10 Altezza= mt. 3,35 Superficie alare= mtq. 42,00 - Peso totale= kg. 1.460 Velocità= km. 145/h Quota di tangenza= mt. 4.900 - Autonomia= km. 700

F.8 “Scivolo” per Idrovolanti. Nella foto, un Apparecchio SIAI- S.13

Seguono ora due Rapporti d’incidenti di volo avvenuti nel nostro golfo.

- Rapallo, 2 giugno 1918 Dichiarazione del Sergente Pilota Pezzoli Agostino:

“Ero partito alle 18.15 con l’apparecchio 5242 F.B.A. della CIVES che doveva essermi assegnato per provare il motore unitamente al motorista Umberto Pernigotti. Dopo un giro di golfo mi disposi a scendere sulla linea di ammaraggio consueta. Poco prima del molo di Rapallo, sembrandomi di essere quasi a fior d’acqua richiamai l’apparecchio, ma avendo sentito che questo invece di toccare acqua stava per cadere indietro, compresi di essere ancora molto alto. Tentai rimediare attaccando il motore, e l’apparecchio non cadde di coda, tuttavia, avendo perduta troppa velocità, iniziò una scivolata sull’ala sinistra. Io lo compresi immediatamente e spento il motore mi alzai in piedi per gettarmi fuori ma era troppo basso e non feci in tempo. La stessa cosa fece il motorista. Fummo entrambi travolti sott’acqua, ma ci potemmo liberare quasi subito e venire a galla dove già era accorso il personale della Squadriglia in aiuto. L’apparecchio ed il motore rispondevano ottimamente e l’atmosfera, specialmente nel punto di ammaraggio, era ottima. L’unica cosa che mi ha ingannato è stato il riflesso del sole che avevo proprio in faccia e che mi impedì di vedere bene l’acqua. Mi sento e desidero di tornare a volare il più presto.” Segue firma.

Da un successivo Verbale redatto sulle condizioni dell’Apparecchio, risulta che i danni furono tali da escludere qualsiasi tentativo di riparazione e quindi d’entrata in servizio. I due aviatori se la cavarono con dieci giorni d’ospedale.

Il seguente Rapporto è stato redatto dal Comandante la 268 Squadriglia Idrovolanti. Tenente Maccario.

“Quest’oggi alle ore 10.45 il Sottotenente Agnini Rino Comandante la Sezione Sopwith partiva in apparecchio per un volo di allenamento. Appena alzatosi e cioé poco avanti il molo di Rapallo iniziava un virage cabrato, ma l’apparecchio che non aveva avuto tempo a prendere sufficiente velocità, perdeva quota forse anche perché non abbastanza sostenuto. Data la lieve altezza alla quale si trovava, toccava l’acqua con l’estremità dell’ala destra immergendosi subito di punta. Il pilota fu svelto a tirarsi fuori e se la cavò con le contusioni nell’allegato certificato medico. L’apparecchio venne ricuperato in stato di inservibilità.” Segue firma

Purtroppo, in un successivo telegramma indirizzato al Ministero Guerra Divisione-Stato Maggiore Roma, si legge che: “il Pilota Tenente Rino Agnini è deceduto dopo essere precipitato in mare.”

Si ringrazia sentitamente il Museo Marinaro Tommasino-Andreatta, ed in particolare il suo Direttore e Curatore Com.te Ernani Andreatta, che ha concesso il prezioso materiale in visione al direttivo di Mare Nostrum in occasione della sua “nascita istituzionale”. Si dedicherà alla Base Idro-268 di Rapallo un ampio servizio sulla nota pubblicazione annuale di M.N..

Carlo GATTI

Rapallo, 08.03.11

 

14 maggio 2012.

Il dott. Lucio Ciccone ci ha mandato il frutto di una sua accurata ricerca su FBA di cui noi, ringraziandolo, riportiamo integralmente la sua mail.

C.G.

Egregio Presidente

 

 

nel lungo intervallo trascorso dall'ultima mail ho continuato (e pressocché conclusa) la mia ricerca sull'industria flegrea; nei numerosi testi consultati ho avuto modo di individuare anche dati che - incrociati e verificati per quanto possibile in base alla competenza e alla affidabilità degli autori - mi consentono di aggiungere un altro tassello nel prospetto delle fabbriche meridionali che produssero l'idrovolante FBA.

 

La ditta in questione è la INDUSTRIE AVIATORIE MERIDIONALI S.A., di Napoli, avviata nel luglio 1917 dall'intraprendente finanziere patavino Bruno Canto Canzio. Le sue officine erano collocate in piena mitica area flegrea, cioè a Baia e al bordo del Lucrino, lago costiero utilizzato come idroscalo (e divenuto la base di una Sezione Difesa istituita a tutela del territorio napoletano dopo il bombardamento subito nel marzo 1918 da parte di uno Zeppelin partito dalla Bulgaria).

 

Le INdustrie Aviatorie Meridionali iniziarono con la riparazione di motori Renault e FIAT e poi si dedicarono anche alla costruzione degli F B A su licenza SIAI. Risulta che nel II semestre 1917 furono approntati solo 4 velivoli, che salirono a 44 nel primo semestre 1918 e infine a 52 nel successivo, completando così l'ordinativo dei 100 esemplari.

 

Vale la pena ricordare che ancora per iniziativa della IAM fu effettuato a fine giugno 1917 con un FBA il primo volo sperimentale del servizio di posta aerea Napoli Palermo e ritorno.

 

In area napoletana si occuparono dell'idrovolante in questione anche: 1°) la CATELLO COPPOLA, di Castellammare di Stabia (storica sede di cantieri navali) riuscendo a ripararne solo uno nel primo semestre 1918 e altri 25 nella seconda parte dell'anno; 2°) la L.I.M.A. (Lavorazioni Industriali Meccaniche Affini), di Napoli, che riparò invece ben 223 motori I.F. V4B che li equipaggiavano,

 

Per completare il quadro generale risulta che la CIVES, di Varazze, ne costruì 103 esemplari, e la GALLINARI, di Marina di Pisa, ne produsse 93 (montando anche motori I.F. V6).

 

Mi ha incuriosito il fatto che a Baia (località appartenente al comune di Bacoli) ad insediare nel primo dopoguerra i suoi Cantieri e Officine Meridionali venne la ligure NAVIGAZIONE GENERALE ITALIANA. Gli impianti, abbandonati dopo una decina di anni, furono ristrutturati ed ampliati per ospitare il noto Silurificio Italiano; nel dopoguerra vi subentrò la I M N, che si dedicò all'attività motociclistica nella quale un certo ruolo lo svolse un progettista ligure...

 

Ma qui mi fermo e nel ringraziarla per l'attenzione le rinnovo i miei saluti.

 

Lucio Ciccone

 

 

 

 

 


NAPOLEONE CANEVARO, i COOLIES cinesi si ammuntinano

L’Ammutinamento dei Coolies cinesi

trasforma in un rogo il Brigantino di Zoagli Napoleone Canevaro

il più bel veliero del Pacifico

Zoagli è una perla preziosa nota per la sua scogliera ed altre splendide attrazioni naturali e turistiche, ma quanti sanno, per esempio, che per tutto l’800, la ridente cittadina rivierasca era ancora immersa nella sua antica attività marinara che vantava un cospicuo patrimonio di velieri, valenti capitani ed equipaggi? Del resto, soltanto un paese dalla consumata tradizione sui sette mari poteva ricordare i suoi figli chiamando Passeggiata dei Naviganti un tratto del suo splendido lungomare. Ma si rimane ancora più sorpresi quando, nel vicoletto che porta alle incantevoli spiagge del ponente cittadino, si sfiora una bacheca poco visibile, direi riservata, proprio come il cuore dei marinai cui è dedicata nel simbolo della Madonna del Mare. Vi si legge: Tanti gli zoagliesi che soprattutto nell’Ottocento erano un tempo, comandanti e armatori. I Chichizola, i Merello, i Vicini, i Raggio, i Peirano ed i Canevaro hanno battuto i mari dell’America Meridionale doppiando Capo Horn per raggiungere il Cile e il Perù dove molti conterranei si erano trasferiti per lavoro…….Tra le tante navi a vela zoagliesi ricordiamo il Marinin un veloce brigantino che tante cavalleresche sfide ha consumato con i Clipper inglesi sulle rotte del riso e del teak a Rangoon. La famiglia più celebre quella dei Canevaro, oltre che per i traffici commerciali, si distinse per il ruolo svolto nella storia dell’Italia Risorgimentale….

Sarebbe arduo, nel breve spazio di quest’articolo, introdurci nei lunghi elenchi navali ricostruiti fedelmente dagli storici Giò Bono Ferrari e Tomaso Groppallo e poter raccontare di quell’attività caduta – purtroppo - nell’oblio. Ma prima di addentrarci nel racconto del tragico epilogo del Napoleone Canevaro, per maggior comprensione dell’avvenimento, proietteremo brevemente un po’ di luce su quell’inquieto periodo storico dell’ Epopea della vela.

Sin dal 1841 le grandi potenze: Inghilterra, Francia, Austria, Russia e Prussia, stipularono un trattato che parificava la tratta degli schiavi neri alla pirateria. Da allora cominciò a scemare quell’orrendo traffico umano dal continente africano, ma iniziò quello dei cinesi, con metodi, a dire il vero, non sempre trasparenti, che passò alla storia con il nome di “migrazione dei coolies”, che erano lavoratori cinesi reclutati con il sistema che oggi potremmo chiamare del caporalato. I coolies lavoravano essenzialmente nei campi per la coltivazione del cotone, nella raccolta del guano o nei cantieri edili e per la costruzione delle ferrovie.
Le condizioni di lavoro erano durissime, tanto che spesso scoppiavano rivolte.

Questi esodi iniziarono, pare, nel 1847 lungo le rotte battute dai velieri che trasportavano guano peruviano in Oriente e che si assicuravano il nolo di ritorno imbarcando coolies, prima a Macao e poi a Canton. Si sospetta, in realtà, che erano in gran parte reclutati dalla mafia cinese, che spesso li “stivava” in numero esagerato sui brigantini dell’epoca. Le statistiche parlano chiaro: nel solo quinquennio tra il 1870 ed il 1874 arrivarono in Perù più di cinquantamila coolies.

Colonie di Pellicani, cormorani ed altri uccelli acquatici sulle coste peruviane

I coolies venivano trasportati a Cuba, oppure lungo la costa sud-occidentale del Pacifico, soprattutto in Perú, da cui una parte cospicua ripartiva per le Islas de Chinchas, tre isolotti nella baia del Pisco sotto al Callao, tra i 14 e 13 gradi sud di latitudine. Non vi erano approdi e risorse alimentari ed erano percorsi continuamente dalla risacca; sembravano innevate e popolate solo da immensi stormi di pellicani, cormorani e albatross che avevano scelto da secoli la loro residenza su quegli scogli solitari. Nel tempo, si era formato uno strato di sterco biancastro che variava dai 18 ai 30 metri e che li aveva ricoperti completamente. Questo prezioso quanto acre tesoro chiamato guano, impediva lo sviluppo della vita biologica ad eccezione di zanzare, lucertole e naturalmente i coolies trapiantati, che si dedicavano al suo raccolto che era richiesto in tutto il mondo come fertilizzante agricolo. Una cosa è certa, la quasi totalità dei cinesi non era composta di uomini di mare, bensì di gruppi reclutati nelle sperdute campagne della Cina e tra loro non mancavano “sventurati reietti della vita, quali debitori insolventi, contadini rovinati dalla siccità o dalle inondazioni, criminali liberati dal carcere e così via”.

I veri problemi giungevano, infatti, con le prime burrasche oceaniche quando gli emigranti cedevano al panico e presto innescavano turbolenze ed agitazione che spesso volgevano in rivolta. In altri casi, invece, sobillati da pirati di professione, i Coolies si appropriavano del veliero per esercitare agguati e atti di pirateria ai bastimenti carichi di merce preziosa. Tra i tanti fatti di mare che hanno testimoniato la leggendaria presenza di marinai zoagliesi sugli Oceani, uno in particolare, ci è rimasto impresso nella memoria fin dai primi anni di scuola, quando spesso e volentieri sprofondavamo nei racconti degli scrittori di mare che ambientavano i loro viaggi avventurosi nel Mar della Cina e nelle Isole del lontano Oriente.

Il brigantino a palo “Napoleone Canevaro” - dell’armamento di Zoagli - era noto per essere il più bel bastimento del Pacifico. Della sua tragica fine ci è rimasta una relazione consegnata al Console italiano di Macao dal Capitano d’armamento Giuseppe Chiappara: Fine della nave “Napoleone Canevaro” di Zoagli. “Detta nave era partita dal Macao nel giugno del 1875 al comando del cap. Venturini con 650 emigranti cinesi diretti al Perù. Aveva 34 uomini d’equipaggio, quasi tutti liguri. Dopo dieci giorni di navigazione i cinesi si ribellarono all’equipaggio, nell’intento d’impossessarsi della nave. L’equipaggio si difese disperatamente. I cinesi, visto che non potevano domare quel pugno di uomini, diedero fuoco al corridoio nella speranza di asfissiarli. Il Capitano e pochi marinai superstiti poterono da poppa, calare in mare una scialuppa, nella quale presero imbarco, mentre i cinesi, vistisi padroni del campo, emettevano grida di giubilo. Ma l’incendio che essi avevano provocato, sicuri di poterlo circoscrivere, progredì invece, anche a causa del forte vento. La nave divenne così un enorme falò. Fu vista bruciare in pieno Oceano per vari giorni. E dei quasi settecento cinesi ammutinati, non uno trovò scampo. L’equipaggio zoagliese, che da lontano vide l’immane braciere, dopo d’aver vagato per molti giorni sull’Oceano, fu raccolto da un veliero amburghese (?) e portato a Saigon”.

Altre fonti storiche ci dicono che il Napoleone Canevaro imbarcò a Macao una partita di ottomila pacchi di razzi. I cinesi, ignorando la presenza a bordo di un carico così pericoloso, usarono per ribellarsi l’arma più sbagliata: il fuoco, che appena innescato, distrusse il bel brigantino di Zoagli.

Il fumo circonda l’agonia del brigantino che sta per essere inghiottito dall’Oceano

Si raccontò inoltre che la prima ribellione avvenne nel Mar delle Filippine, ma il complotto fu sventato dal Capitano Venturini e dal suo equipaggio che riuscì a mettere ai ferri un cospicuo numero di cinesi. Alcuni giorni dopo, altri cinesi insorsero e trucidarono di sorpresa alcuni marinai e respinsero il resto dell’equipaggio a poppa e dettero fuoco al gavone di prora. Fu a questo punto che il Capitano diede l’ordine di mettere la lancia in mare e non mancò, tra l’altro, il tentativo di salvare la nave con un atto d’eroismo: il Capitan d’Arme, il Medico e l’Interprete vollero tornare a bordo per cercare di allagare il deposito dei razzi, ma non fecero in tempo. L’esplosione avvenne quasi subito. A bordo morirono tutti. I superstiti dell’equipaggio stipati sulla lancia di salvataggio videro piovere rottami incandescenti e membra umane. Poi arrivarono branchi di squali famelici a cancellare le tracce di quell’immane tragedia del Pacifico. Dopo tre settimane di stenti, Venturini ed i suoi zoaglini, vennero raccolti, forse da un clipper americano e non tedesco come riportato in precedenza.

Nel trasporto dei coolies fu coinvolto anche l’Eroe dei due Mondi Giuseppe Garibaldi che scrisse nelle sue memorie: “Il 10 gennaio 1852 salpai dal Callao per Canton. Impiegai circa 93 giorni sempre con vento favorevole, passando alla vista delle Isole Sandwich ed entrando nel Mar della Cina, fra Luzon e Formosa; giunto a Canton il mio consegnatario mi mandò ad Amoy non trovandosi a vendere il carico di guano nella prima piazza. Da Amoy tornai a Canton ove si cambiarono gli alberi della Carmen trovati guasti, ed il rame. Pronto il carico, lasciammo Canton per Lima.” Garibaldi non spiega il tipo di carico della Carmen, ma si sa che era formato da qualche centinaia di coolies. Nel 1853 la “tratta di questi operai cinesi” era ancora molto intensa.

Fu soltanto intorno al 1858 che il reclutamento dei coolies cominciò a scemare per effetto di un accordo tra le grandi Potenze di allora, lasciando un ricordo quasi romanzesco. In seguito, quel tipo d’emigrazione ricevette il suo colpo di grazia con l'inizio dell'esportazione dei nitrati del Gran Deserto Salato di Tarapaca che sostituì il guano come fertilizzante; solo allora (1884) la campana suonò a morte sulle attività alle guaneras. Secondo il Lubbock, Garibaldi fu presente ad alcune sanguinose schermaglie, ma le navi italiane o quelle peruviane armate da nostri antenati rivieraschi non si macchiarono mai di inutili crudeltà. Lo stesso armatore chiavarese Denegri ebbe a dire su Garibaldi: “M’ha sempre portato cinesi nel numero imbarcato, e tutti grassi e in buona salute, perché li trattava come uomini e non come bestie.”

Il Napoleone Canevaro scomparve negli abissi trascinando con sé molti cinesi e una parte dell’equipaggio zoaglino. Dispiace doverlo affermare, ma soltanto i nostri marinai furono le vittime innocenti di quel disastro, e ci sembra giusto non dimenticarli mai. Anche la perdita del brigantino a palo più bello dell’Oceano Pacifico fu dura da digerire, ma gli armatori nostrani dell’ottocento avevano lo “scafo” di quercia, robusto come quello dei loro velieri e presto ne vararono altri ancora più forti, più belli e più grandi.

Carlo GATTI

Rapallo, 25.03.12


NARCISSUS - Il Veliero che non voleva morire

NARCISSUS

di CONRAD

IL VELIERO CHE NON VOLEVA MORIRE

Gli uomini di mare sparsi nel tempo, dalla preistoria ai giorni nostri, hanno sempre avuto un nemico in comune che resta immutato per la sua forza esplosiva e travolgente: la tempesta! Sebbene piccole, medie e grandi navi, tutte altamente automatizzate, solchino oggi i sette mari con grande disinvoltura, le statistiche, purtroppo, ci dicono che il numero dei naufragi, oggi, è sempre alto. Duemila anni fa i marinai si difendevano dai fortunali navigando in Mediterraneo soltanto nei mesi buoni tra la primavera e l’autunno e quando potevano, soltanto di giorno e in vista della costa.

Oggi le garanzie del marinaio sono scritte dalle leggi sulla sicurezza della navigazione che sono rispettate in “quasi” tutto il mondo. Nell’avverbio virgolettato, tuttavia, c’è la chiave di lettura del fenomeno che in mare si chiama deregulation e i naufragi avvengono non soltanto a causa dei fortunali, ma anche per gli incendi, le esplosioni, le collisioni e l’insufficienza di personale qualificato.

Da questo quadro a tinte fosche è facile ora passare ad un altro tipo di rappresentazione nella quale i dipinti, pur arricchendo lo stesso tema, documentano fortunatamente La Grazia Ricevuta. Questi omaggi offerti per lo più alla Madonna, continuano a salire e fissarsi ai muri dei Santuari che costellano le nostre coste e testimoniano la fede della gente di mare.

Il dipinto ad olio del veliero Narcissus che si trova nel Santuario di Montallegro non è diverso dai tanti ex-voto che si ammirano nelle pinacoteche della devozione tra le due riviere, ma la sua presenza nell’immaginario collettivo, richiama alla mente mari scatenati, calme equatoriali e la sottile psicologia di tanti personaggi descritti magistralmente dal più grande scrittore di storie di mare Josef Conrad, che proprio su quella nave imbarcò una prima volta da marinaio e poi da ufficiale di coperta con il brevetto di capitano di lungo corso che ottenne nel 1884.

Abbiamo scelto questa nave “speciale” così carica di ricordi letterari e nautici per compiere insieme a voi il primo tragitto tra le migliaia di “ringraziamenti” che sono giunti ininterrottamente alla Madonna di Montallegro dal 3 luglio 1557, giorno dalla Sua Apparizione al contadino Giovanni Chichizola di Carnevale.

Quando Conrad lasciò il navigare nel 1894, s’immerse ancor più nel suo mondo marinaro e per trent’anni scrisse i suoi romanzi, saggi e racconti, fra i quali risalta “The nigger of Narcissus”, Jimmy, il negro che si arruola a Bombay pur sapendo di essere afflitto dalla tubercolosi; Singleton il vecchio lupo di mare inglese, rispettoso delle leggi marinare e dei canoni della tradizione; Belfast il marinaio astuto come una volpe; Donkin il marinaio ribelle e poi gli ufficiali, il molto inglese Capitano Allistoun, calmo e indifferente, il Primo Ufficiale Baker, che desidera il comando più di ogni altra cosa, ma sa di non poterlo raggiungere…. Queste figure oggi sembrano uscite da un mondo immaginario, eppure sono reali e perfettamente aderenti a quel mondo della vela che, purtroppo, è stato velocemente superato dal progresso tecnico-scientifico e quasi dimenticato.

- Scrive Conrad – “Il Narcissus era nato tra i vortici di fumo nero, fra lo squillo dei martelli che battono il ferro, sulle rive del Clyde. Sotto quel cielo grigio, su quel fiume rumoroso, vedono il giorno splendide creature che vengono al mondo per essere amate dagli uomini. Il Narcissus era di quella stirpe perfetta. Meno perfetto, forse, di tante altre navi, ma incomparabile perché era nostro e noi ne andavamo orgogliosi”.

Varato a Glasgow nel 1875, il Narcissus navigò quasi sempre nei mari orientali e soltanto nel 1899 fu acquistato da Vittorio Bertolotto (1854-1934) ed impiegato sempre oltre i Capi.

V. Bertolotto fu una delle maggiori figure armatoriali di Camogli, figlio del professor Lazzaro, patriota del Risorgimento, amico di Garibaldi e poi preside del Nautico di Camogli.


L’Ex voto, di cm 87x67, dell’artista G. Roberto rappresenta il Narcissus in grave difficoltà nel passaggio del terribile Capo Horn, durante il quale l’equipaggio e la nave si salvarono miracolosamente per intercessione della “Vergine Santissima di Montallegro” il 22-23 .9.1903.

La didascalia del quadro riporta la posizione geografica dell’avvenimento e i 12 nomi dell’equipaggio che offrono “in ringraziamento questo ricordo alla V.SS. di Montallegro (Rapallo) – Genova marzo 1904”.

Se è vero che un veliero su quattro naufragava a Capo Horn, pensate quante navi sono state salvate con la costruzione del Canale di Panama avvenuto nel 1914!

Il 17 gennaio 1907, il Narcissus partì da Saint Louis du Rhone (Marsiglia) diretto a Talcahuano in Cile con un carico di gesso. A Capo Horn incappò in una violenta tempesta e dovette, per le gravi avarie riportate, ripiegare penosamente su Rio de Janeiro che raggiunse il 19 maggio successivo. Fu dichiarato “relitto” e perciò venne “abbandonato” alla Società Assicuratrice, la Mutua Assicurazioni Marittime Cristoforo Colombo di Camogli, presso cui il Narcissus era assicurato per lire 93.700. Ci fu uno strascico giudiziario che si risolse in questi termini: “la società assicuratrice contestava la legittimità della dichiarazione di abbandono della nave, che invece venne pienamente riconosciuta, con tutte le conseguenze in favore dell’armatore Bertolotto, dalla Corte d’Appello di Torino”.

Rientrato in Italia, il veliero fu disalberato ed adibito a pontone nel porto di Genova.

Nel 1917 fu riarmato e, con il nome di Iris venne iscritto al dipartimento marittimo di Rio de Janeiro dove, il 14 gennaio 1922, venuto a collisione con un’altra nave, affondò. Ancora una volta venne recuperato e tornò a navigare finchè, tre anni dopo, nel 1925, il suo proprietario falliva ed in tale frangente la nave, che fu nota nel mondo come Narcissus non ce la fece proprio a sopravvivere e dovette rassegnarsi alla demolizione, dopo ben 50 anni di vita, un vero record!

La sua polena è attualmente conservata nel porto di Mystic, nel Connecticut.

Carlo GATTI

Rapallo, 17.02.12


CITY OF FUNCHAL, l'Idrovolante che spiaggiò a Santa Margherita Lig.

CITY OF FUNCHAL

L'IDROVOLANTE CHE SPIAGGIO'...

A Santa Margherita Ligure

INGHILTERRA-ITALIA

UNA IDEA  GRANDIOSA  PER UNA LINEA AEREA SFORTUNATA

 

 

L’idrovolante City Of Funchal sta per decollare da Santa Margherita L.

 

 

L'idrovolante "CITY Of FUNCHAL" che collega Southampton (G.B.) e Santa Margherita Ligure nella notte del 27 settembre 1956 rompe il cavo d'ormeggio ed il mare lo spinge ad arenarsi sulla spiaggia denominata "ghiaia".

Siamo nel 1956

- In Algeria la guerra per l’indipendenza del paese è in pieno sviluppo.

- Nasser nazionalizza il Canale di Suez per autofinanziare la diga di Assuan. Gran Bretagna e Francia protestano, poi decidono di intervenire militarmente.

- Il terzo punto caldo è la crisi ungherese che porta a drammatici eventi. Il momento critico arriva quando i rivoluzionari propongono il ritiro delle forze sovietiche da tutto il paese e l’uscita dell’Ungheria dal Patto di Varsavia.

- La tragedia dell’Andrea Doria, speronata dal transatlantico svedese “Stockholm” e affondata al largo di Nantucket, davanti alle coste americane, è ancora vivissima nella memoria dei liguri.

In questo tragico panorama internazionale s’inserisce, tuttavia, un incidente spettacolare e un po' romantico... che è rimasto nel ricordo di molti rivieraschi … un po’ attempati:

 

- “Era una giornata  piovosa e senza colori di fine estate” –

Racconta il noto ristoratore Cesare Frati:

- “ in arrivo c’era una perturbazione che i vecchi marinai usano chiamare rottura dei tempi, (il passaggio stagionale dalle bonacce dell’estate al burrascoso autunno. N.d.r.). Il primo sintomo di una depressione in arrivo è di solito annunciato dal mare lungo e montagnoso.”

- Allora non si trattò di una mareggiata? -

“No. Ricordo benissimo che l’aereo, nel pomeriggio, tentò di decollare, ma non riuscì a prendere velocità a causa del forte beccheggio. S’impennava e ricadeva tra un’onda e l’altra. La Capitaneria diede allora l’ordine di riportarlo al suo ormeggio abituale. Il continuo avanzare di onde gonfie fu la vera causa della rottura del cavo,   (forse troppo corto ed estivo…) che collegava l’aereo ad una boa posizionata circa cento, duecento  metri al largo della “ghiaia”. Dopo lo strappo, il cavo rimase penzolo dal golfale (anello) prodiero dell’aereo e  si può notare questo dettaglio, ancora oggi, nelle foto classiche, che si trovano appese ai muri d’alcune  trattorie e bar di Santa M. ed anche di Rapallo.”

- I giornali dell’epoca riportarono che la gente, temendo l’esplosione dei serbatoi carichi di carburante, fuggì dalle case lasciando le finestre aperte  e corse a ripararsi lontano dalla zona, come ai tempi della guerra. –

Ricordo d’aver visto l’equipaggio abbandonare l’idrovolante con un gozzo e arrivare sulla spiaggia, dove rimase per molte ore, facendo base presso il bar più vicino per controllare l’evoluzione dell’incidente. In serata, credo intorno alle 23.00, le Autorità fecero evacuare gli abitanti dalle case più vicine alla zona dello spiaggiamento, e ne convogliarono una buona parte verso il sottopassaggio della Stazione FF.SS. L’ordine di rientrare nelle proprie abitazioni fu emesso la mattina seguente intorno alle 08.30, dopo che i pompieri avevano estratto il carburante dai serbatoi di bordo.

L’aereo fu poi tagliato e sezionato sulla spiaggia  tra la curiosità della gente. Personalmente provai un po’ di malinconia perchè con la demolizione dell’aereo spariva per sempre anche  un pezzo di storia della mia città. A proposito, mi racconti un po’ la storia di quel Sunderland.”

L’idrovolante fu derivato da una versione più grande e migliorata del ricognitore marittimo SUNDERLAND, denominata Seaford e comparsa nel 1945. Una di queste macchine – realizzate per la Royal Air Force in piccola quantità – fu prestata alla BOAC nell’anno seguente, affinché fosse sottoposta a valutazioni per un eventuale impiego commerciale. Seguì un ordine per dodici esemplari, da consegnarsi con motori Bristol Hercules più potenti e con allestimento interno su due piani per 30 passeggeri. Il primo di questi aerei – che assunsero la designazione di Solent 2 – fu portato in volo l’11 novembre del 1946 e l’ultimo seguì a meno di un anno e mezzo, l’8 aprile del 1948. Un mese dopo la consegna dell’ultimo esemplare ordinato, la BOAC mise in servizio la sua flotta di Solent che operò sulla rotta per il Sud Africa. Il collegamento era indubbiamente lungo e prevedeva numerosi scali (Marsiglia, Augusta, Il Cairo, Port Bell sul lago Vittoria) ma i grandi idrovolanti permettevano di svolgere un servizio assai più valido e comodo, con l’ampio spazio a disposizione dei passeggeri, il salotto e il bar presenti a bordo.

Operazione imbarco-sbarco di passeggeri davanti a Santa Margherita L.

 

Il “CITY OF FUNCHAL” era un SHORT S.45 Solent 3, costruito nel 1948 e fu la versione migliorata (6 passeggeri in più) del Solent 2 costruito nel 1946.

Il primo Solent 3 venne battezzato “City of London” il 5 maggio del 1949 e fu messo in servizio dieci giorni dopo. Con l’arrivo degli altri esemplari, tra cui il “City of Funchal”, i nuovi aerei non solo permisero di estendere e migliorare i collegamenti africani ma anche di sostituire i Sandringham sulla rotta per Karachi.

Nel 1956, nell’attesa di un vero aeroporto, Genova accolse con gioia un collegamento Southampton-Santa Margherita compiuto dagli idrovolanti. Nel frattempo, nel porto genovese era stato  allestito, presso il ponte denominato per l’appunto Idroscalo, davanti alla Lanterna, una Stazione Aeroportuale che usufruiva del canale interno a ridosso della diga come pista protetta. Purtroppo ogni ammaraggio era un’avventura ed anche a Genova avvenne un incidente: l’aereo, durante la manovra d’arrivo, perse il galleggiante sotto l’ala sinistra e per evitare il rovesciamento, i passeggeri furono evacuati e spostati sull’ala destra per controbilanciarlo.

Al 30 settembre 1958, solo tre Solent rimanevano in servizio e, nonostante un tentativo di riattivare il collegamento con Madeira, non volarono più.

 

SCHEDA DELL’AEREO

  1. Nome:                         CYTY OF FUNCHAL
  2. Compagnia Aerea:        Aquila Airways
  3. Nominativo:                 G-ANAJ
  4. Aereo:                         Short S.45 Solent 3
  5. Costruttore:                 Short Brothers Ltd.
  6. Motore:                        4 Bristol Hercules 637, 14 cilindri, da 1.690 HP ciascuno
  7. Apertura alare:             m. 34,37
  8. Lunghezza:                  m. 26,72
  9. Altezza:                       m. 10.44
  10. Peso al decollo:            Kg. 35.380
  11. Velocità di crociera:      Km/h 393
  12. Quota max.operativa:   m. 5.180
  13. Autonomia:                  Km. 2900
  14. Equipaggio:                  7 persone
  15. Carico utile:                 36 persone
  16.  

UN PO' DI STORIA

In questa immagine degli Anni '30, Ponte S.Giorgio con tre navi carboniere attraccate. A destra la zona dell'Idroscalo che sarà ricostruita secondo il progetto riportato nella successiva immagine.

Idrovolante Bombardiere/aerosilurante Savoia Marchetti S-55

Data primo volo: Agosto 1923

Data entrata in servizio: settembre 1926

Idrovolante Marina 1° - Spedizione soccorso Latham 47 di Amundsen – Guilbault – 16 giugno -10 agosto 1928 – Piloti Capitani Ivo Ravazzani – Mario Baldini

Dopo la fortunata impresa polare del dirigibile NORGE del 1926, nel marzo-maggio 1928, Umberto Nobile organizzò una seconda spedizione polare con il dirigibile ITALIA. Dopo aver sorvolato il Polo, il dirigibile  nel ritorno per il maltempo precipitava sulla banchisa distruggendosi. In soccorso partì Amundsen che s’imbarcò sull’aeroplano mandato dal governo francese e comandato dal cap. Guilbaud. L’aeroplano sparì sul Mar Artico. I due capitani, che pure fecero parte della spedizione di soccorso, tornati sani e salvi portarono la fotografia del loro idrovolante a Montallegro.

GENOVA - Anni Trenta. Idroscalo, fase culminante della manovra di ormeggio di un idrovolante. I gozzi degli ormeggiatoti “voltano” i cavi di ormeggio alle boe.

Questo disegno si riferisce al progetto di costruzione dell'area di ormeggio e ricovero per Idrovolanti presso il Ponte IDROSCALO nel Porto di Genova, posto nel Canale di Sampierdarena, proprio dinanzi alla LANTERNA.

1965 – Il bacino di Sampierdarena- Chiamato PORTO NUOVO - visto da ponente, dopo il completamento del ponte ex Idroscalo (ultimo in alto).

Nel 1956, nell’attesa di un vero aeroporto, Genova accolse con gioia un collegamento Londra-Southampton-Santa Margherita compiuto da idrovolanti. Nel frattempo, nel porto genovese era stato  allestito, presso il ponte denominato per l’appunto Idroscalo, davanti alla Lanterna, una Stazione Aeroportuale che usufruiva del canale interno a ridosso della diga come pista protetta.

Una rara immagine del CITY OF FUNCHAL (Aquila Airways Solent 4 G-ANAJ) all'ormeggio a  Dock n.50 di Southampton nell'agosto del 1955.

Idrovolante SYDNEY dell'Aquila Airways Solent 3, G-AKNU sta decollando dalla rada di Funchal.

Un Short Solent 2 G-AHIN SOUTHAMPTON in servizio per la BOAC, nel porto di Johannesburg tra il 1948 e 1950.

Il primo idrovolante SOLENT volò nel 1946. Altri SOLENT furono usati dalla BOAC e TEAL, la produzione terminò nel 1949. Questi, di seconda mano, furono operativi fino al 1958 per conto di linee minori come la AQUILA AIRWAYS.

 

 

Un idrovolante SOLENT - MOTAT in versione di lusso. Visto esternamente ed internamente.

 

Oltre al “City of Funchal”, un altro idrovolante gemello denominato “Aquila”, collegò Londra con Genova e la riviera. Nella foto, L’Aquila davanti a Santa Margherita durante il trasbordo dei passeggeri.

Genova, il 3 febbraio 1955 l’Idrovolante Aquila è stato fotografato sotto la Lanterna, presso Calata Idroscalo.

Dopo l’ammaraggio, l’aereo si serviva di due rimorchiatori che avevano a bordo un cavo speciale per girarlo e portarlo all’ormeggio. Notare nella foto due membri dell’equipaggio, in piedi, sul tetto dell’aereo. Si ricorda che durante un difficile ammaraggio a Genova, l’Aquila perse una gondola (il galleggiante posizionato sotto l’ala) e il comandante ordinò ai passeggeri  di uscire dal portello superiore della carlinga e di arrampicarsi sull’ala più alta per raddrizzare l’aereo, evitando così ulteriori danni durante la manovra d’ormeggio. A suo tempo, fu pubblicata una foto che testimoniava questo momento di coraggio e perizia nautica.

Quando nel 1962 fu inaugurato, l’aeroporto Cristoforo Colombo fu dotato di un’aerostazione passeggeri prefabbricata che ben presto mostrò la sua inadeguatezza ad affrontare lo sviluppo del traffico, cui si cercò di ovviare con vari successivi ampliamenti.

Ma soltanto il 10 maggio 1986 – Si inaugurò la nuova aerostazione alla presenza del presidente del Consiglio Bettino Craxi, il presidente del Consorzio Roberto D’Alessandro, il sindaco di Genova Campart, l’arcivescovo di Genova Giuseppe Siri, il senatore Paolo Emilio Taviani ed altre autorità...

10 maggio 1986 – Evoluzione di un mezzo antincendio nel canale di calma prospiciente  l’aerostazione.

 

Concludiamo questa rassegna sugli idrovolanti con l'ex voto portato al Santuario della Madonna di Montallegro (Rapallo) dal marinaio Noziglia Ernesto "per grazia ricevuta" il 13.12.1941-R.I. ALBERTO DI GIUSSANO, sorvolato da un idrovolante SS-55 Savoia Marchetti.

SHORT S.25 SUNDERLAND - Un aereo militare

IL SHORT S.45 SOLENT 2-3

Lo Short S. 25 Sunderland era unidrovolante britannico  rivelatosi, nella sua categoria, uno dei più importanti di tutto il secondo conflitto mondiale.

Quadrimotore monoplano ad ala alta a sbalzo, con scafo centrale; aveva una struttura completamente metallica e impiegava la tecnica del rivestimento lavorante. 

Impiego operativo

Il Sunderland venne impiegato, nelle diverse versioni, in tutti i teatri operativi costieri, rivelandosi particolarmente efficace nelle operazioni contro i sommergibili e venne soprannominato "porcospino" dai piloti della Lufwaffe, per la sua capacità di difendersi da qualsiasi aggressione.

Data la sua robustezza, il Sunderland si rivelò una macchina estremamente versatile e capace di affrontare anche i compiti più ostici. Tra le missioni degne di nota, nel maggio del 1941, l'evacuazione dell'isola di Creta, attaccata da truppe tedesche aviotrasportate. In quei giorni un esemplare arrivò a trasportare 82 soldati, con relativo equipaggiamento, oltre ai membri dell'equipaggio .

 

Carlo GATTI


05.04.11