MATHAUSEN-RAPALLO. Storia di un Pilota genovese

Da Mathausen a Rapallo

L'INCREDIBILE STORIA  DI

BENEDETTO BOZZO

PILOTA DEL PORTO DI GENOVA

Quando si parla della Seconda guerra mondiale, per noi di una certa età, si apre automaticamente l’album dei ricordi e se il discorso cade su un protagonista rapallese di grande tradizione marinara camoglina, allora l’emozione sale ed il desiderio di raccontarvela diventa insopprimibile.

1938 – Un gruppo di Piloti in uscita dal Porto di Genova. Benedetto Bozzo è il secondo da destra.

- Benedetto Bozzo nacque a Genova il 3.10.1897, ebbe il grado di S.T. di Vascello nella Marina Militare e in seguito navigò come ufficiale della Marina Mercantile. Vinse il Concorso per “Pilota del porto di Genova” - Fu nominato Aspirante Pilota l’8.8.1929 e divenne Pilota effettivo il 9.8.1930. Durante la Seconda guerra mondiale fu militarizzato ed inviato a Corinto ad esercitare il pilotaggio nell’omonimo canale.

Nei giorni successivi l’otto settembre 1943, Benedetto fu arrestato dai tedeschi e fu internato a Matthausen. Qui, dopo incredibili sofferenze, fu dichiarato idoneo soltanto per accedere alla camera a gas. Ma all’ultimo momento accadde un fatto davvero sconcertante.

Il comandante (militarizzato) Heinz Schwarzmüller della nave passeggeri tedesca “BERLIN”, che il pilota Bozzo aveva tante volte brillantemente ormeggiato a Ponte dei Mille, sotto i colpi della tramontana, lo riconobbe e a questo punto si aprì un incredibile capitolo umano.

Mathausen – Posto di Guardia

L’ufficiale tedesco aveva scalato mensilmente il Porto di Genova per tutti gli anni trenta, amava il nostro paese e parlava un buon italiano, ma quando ebbe inizio la guerra, fu richiamato sotto le armi e in breve tempo si specializzò in una materia che lo aveva visto lentamente trasformarsi in un aguzzino crudele e abbruttito dallo stesso scempio umano che si consumava nel lager austriaco che, con Auschwitz, acquisì per sempre la fama di “sentina della Storia”.

Tuttavia, in quella tragica storia dell’orrore messa in scena a Matthausen successe qualcosa d’impensabile: il comandante tedesco fu profondamente colpito dalla stucchevole coincidenza di quell’incontro con Benedetto.

Inizialmente, temendo di non poter controllare la propria reazione emotiva e cadere egli stesso nella rete delle SS con l’accusa di tradimento, pensò di passare la pratica ad un altro ufficiale, ma presto cadde vittima, a sua volta, di crescenti sensi di colpa ed invertì la rotta.

Posti uno di fronte all’altro alla presenza di un ufficiale della Gestapo, Heinz tenne un contegno irreprensibile, ma iniziò nel suo inconscio un vero e proprio ripensamento esistenziale. I primi interrogatori avvennero con la massima cautela, tra lunghe pause d’evidente sconcerto, evitando d’incrociare gli sguardi, ma dopo alcuni giorni di routine e d’approfonditi accertamenti tesi a perdere tempo… le maglie della sorveglianza dei Servizi Segreti si allentarono ed i primi segni della loro vecchia amicizia cominciarono a manifestarsi con prudenti occhiate di complicità.

Per la verità, l’ex comandante del Berlin non aveva mai condiviso, come quasi tutti gli ufficiali della Kriegsmarine, la politica del Fürher e dei suoi fedeli sgherri della Gestapo, tuttavia, confuso ed accecato dalla martellante propaganda aveva dovuto in qualche modo accettare il nuovo ruolo per sopravvivere e, suo malgrado, lo aveva fatto nascondendo la propria coscienza nella nicchia più famosa del mondo per la sua efferatezza e crudeltà.

Pieni di tristezza e stupore, Benedetto e Heinz intravidero cautamente uno sprazzo di luce che si ribellava e urlava vendetta, giustizia, amore e solidarietà in quel lager infernale che fu l’ultimo atto beffardo di un dramma assurdo, recitato in modo atroce da personaggi diabolici degni di Hitler, un paranoico che aveva inondato il mondo di pura follia, annullando il senso della vita in milioni di coscienze.

Dopo qualche giorno, l’ufficiale tedesco, pur trovandosi in una posizione di forza, cedette per primo alla commozione e trovò il modo di stringere le mani ormai scarne di Benedetto. Due uomini di mare, divisi, stanchi e provati si trovavano ancora, per ironia della sorte, uno vicino all’altro, in balia dei capricci della storia e della morte e giunse pure il momento per un abbraccio fraterno.

Tuttavia, sulla scheda di Benedetto era scritto:

“arrestato per sabotaggio contro il Terzo Reich”

Il suo destino era segnato. Costretto a sopravvivere fin dall’inizio nelle baracche di legno più malsane e debilitanti del lager, di giorno lavorava presso le miniere della zona e quando non si resse più in piedi fu programmata la sua eliminazione nella camera a gas.

Gli eventi, purtroppo, dipendevano ancora dalla follia di Hitler che proiettava la sua ombra infernale su Matthausen, dove ogni forma d’eliminazione umana era studiata e poi attuata secondo le esigenze: torture, fucilazioni, impiccagioni, tiro al bersaglio, uso di gas e quando i plotoni d’esecuzione andavano in licenza, gli internati erano lasciati morire senza acqua e cibo, offrendo di sé il disumano spettacolo di vagare nei lager senza meta, come larve umane senza peso.

Lager austriaco di Mattahusen – Baracche degli internati.

Sopra quest’indicibile sofferenza fisica e morale, improvvisamente, sbocciò un fiore. Dentro una baracca infestata di topi, insetti d’ogni tipo, fame e sete, dissenteria, odio, fucilazioni, torture e urli di dolore, si sprigionò una speranza per Benedetto.

Tutto sarebbe stato ormai deciso se il buon Dio non gli avesse inviato un “messaggero” chiamato Schwarzmüller, negli occhi del quale fece calare una luce che improvvisamente gli procurò una visione limpida e obiettiva.

Heinz si sentì improvvisamente nudo di fronte alla vita e alla morte e decise nel suo profondo di ammantarsi di questa luce che gli illuminò il cuore e la mente. Finalmente capì che dietro ad ogni prigioniero del campo di sterminio c’era un’anima umiliata come quella di Benedetto che, piccolo marinaio italiano, gli aveva salvato tante volte la nave dai danni di manovra.

Heinz eliminò ogni tentennamento, decise di prendere nuovamente il “comando” virtuale del Berlin ed accettò con gran coraggio i rischi d’affrontare la Gestapo sul suo stesso terreno, pur di salvare il suo vecchio amico italiano.

Il pilota del porto di Genova non rivelò mai a nessuno la strategia inventata e messa in pratica dal suo “salvatore”, tuttavia, Benedetto Bozzo rientrò a Genova nel 1945 e sebbene minato nel fisico, continuò a salire e scendere le biscagline delle navi fino al 6.12.1958.

Il sopravvissuto di Matthausen, già dal dopoguerra, scelse di vivere il resto della sua vita nel posto più bello del mondo, così sosteneva il pilota, e venne a vivere a Rapallo dove si spense in Via Privata Gattorno il 6 dicembre 1968.

Carlo GATTI

Rapallo, 13.04.11



Rapallo: Il TRATTATO Russo-Tedesco

 

RAPALLO: IL TRATTATO RUSSO-TEDESCO

(16 Aprile 1922)

A cura di Pier Luigi Benatti - Emilio Carta

Svanita la speranza di un crollo del regime sovietico, i governi francese, inglese e americano si resero conto che un piano per lo sviluppo della Russia avrebbe non solo reso possibili ottimi affari, ma fatto fare buoni affari anche alla Germania, mettendo così quest'ultima in grado di pagare le dovute riparazioni di guerra.
 Dall'incontro tra questo progetto e la necessità russa di macchinari ed attrezzature di ogni genere per la ricostruzione del paese, nonché dal progetto del governo sovietico di regolare le relazioni tra l'Urss ed il resto del mondo, nacque la conferenza di Genova del 1922.


L'Imperial Palace Hotel, ove il 16 aprile 1922,
 venne siglato il 'Trattato di Rapallo fra la Russia e la Germania

Naturalmente i russi intuirono la possibilità di rimanere isolati di fronte al mondo capitalista e costretti quindi ad accettare condizioni poco favorevoli; così la loro delegazione (Cicerin, Ioffe, Krasin, Litvinov, Vorovskij, Rakovskij) si fermò a Berlino dove fu steso, ma non firmato, il testo di un trattato separato.
 A Genova le richieste alleate riguardavano i debiti di guerra russi (il Governo sovietico non li aveva mai riconosciuti), il debito pubblico e quelli privati russi d'anteguerra e, infine, la nazionalizzazione sovietica delle imprese straniere; i russi d'altra parte ricordavano ai tedeschi che il governo sovietico poteva loro chiedere le riparazioni di guerra.

Quest'ultimo argomento (probabilmente rinforzato dagli accordi segreti tra gli stati maggiori russi e tedeschi) convinse i tedeschi a trovarsi con i russi a Rapallo per firmarvi il trattato.
 Gli accordi postbellici, come dicevamo non hanno per nulla eliminato problemi e vecchie ruggini fra i vari Stati che continuano a ricercare assetti economici meno traballanti per pervenire ad un patto generale di non aggressione.
 Questo l'aspetto più saliente della crisi di quegli anni e, per trovare più solidità anche umorale, viene così convocata la Conferenza Internazionale di Genova che si apre il 10 aprile 1922.

Georgij Vasilevic Cicerin, commissario agli
Esteri dell'URSS, che, unitamente a Litvinov,
 era a capo della missione sovietica

Sono 34 le nazioni ospitate e all'incontro delle 'Superpotenze' partecipa, e la notizia incuriosisce tutti i presenti, anche la Russia con una propria delegazione guidata da Cicerin da molti definito un 'sovversivo'  messosi a tavola con disinvoltura accanto ai leaders del Vecchio Continente.
 In quei giorni primaverili le varie delegazioni si sistemano non solo a Genova ma anche in riviera e negli alberghi rapallesi troviamo così nove rappresentanze.
 Quelle appartenenti a Cecoslovacchia (33 persone), Finlandia (14), Lituania (8), sono sistemate al New Casino Hotel, quelle di Estonia (20) e Lettonia (8) all'Hotel Verdi, quelle di Grecia (25), Romania (25) all'Hotel Bristol, mentre la Jugoslavia (23) è all'Hotel Guglielmina e la Russia (90!) all'Imperial Palace Hotel.
 In un momento successivo sopraggiunge la delegazione della Saar che troverà alloggio allo Splendid.

Un treno speciale fa la spola tra Genova e la riviera al servizio delle varie delegazioni mentre la corazzata 'Cavour'  getta le ancore davanti al Kursaal assieme ad altre unità navali. Imponente anche il servizio d'ordine.
 A Rapallo, almeno secondo le cronache dell'epoca, sono presenti 200 carabinieri 150 dei quali a cavallo ed una compagnia di Guardie Regie.
 Complessivamente i delegati presenti sono 1.254 e nutrita è la schiera degli 'inviati speciali'. Fra i maggiori giornalisti dell'epoca figurano anche Hemingway, Pietro Nenni e D'Annunzio.
 I lavori vanno avanti stancamente, in un clima piuttosto salottiero sino a quando i russi, con un vero e proprio colpo di mano, riescono a siglare un accordo bilaterale con i tedeschi.
I  plenipotenziari russi e tedeschi si incontrano infatti a Rapallo di notte e, in gran segreto, firmano un Trattato che stabilisce la ripresa delle relazioni diplomatiche fra i due Paesi.


Il Ministro degli Interi tedesco Walther von Rathenau

A firmare lo storico accordo, che prenderà il nome di 'Trattato di Rapallo', sono il ministro degli Esteri tedesco, Walther von Rathenau e il Commissario agli Esteri sovietico Georgij Vasilevic Cicerin.
E' il 16 aprile 1922, giorno di Pasqua, e la firma del documento coglie di sorpresa un po' tutti, soprattutto i 200 giornalisti accreditati che - fra di loro c'era anche l'inviato Emest Hemingway - in occasione della festività avevano deciso di recarsi a Rapallo per una gita in riviera in piena libertà.
E gli ospiti, sotto una fastidiosa pioggia, sono accompagnati dalle autorità rapallesi a visitare gli stands dell'Expo allestita al Trianon Palace e nell'attiguo viale Diaz, lungo il torrente Boate; poi si trasferiscono all'Hotel Bristol per un ricevimento.

L'accordo bilaterale russo-tedesco intanto, all'insaputa di tutti, è già una realtà. Von Rathenau, assai inquieto sulle sorti della Germania, è letteralmente tirato giù dal letto nel cuore della notte da von Maltzan e su invito di Cicerin lascia l'hotel genovese che lo ospita per trasferirsi all'hotel Imperiale (allora in territorio rapallese). 
Proprio in una sala di quell'albergo prende così definitivamente corpo quel 'Rapallo geist' (lo spirito di Rapallo) destinato a diventare il simbolo di un'impostazione politica autonoma cui negli anni immediatamente successivi si ispirarono con alti e bassi i rapporti fra le due nazioni sino all'avvento di Hitler, anche se quel 'Rapallo Geist” dimostra ancora oggi di non essersi mai spento definitivamente.

Il testo dell'accordo fa capo soprattutto alla rinuncia reciproca ai danni di guerra, al ripristino di normali relazioni diplomatiche fra i due Paesi e ad una mutua assistenza per alleviare le difficoltà economiche. Le relazioni fra Russia e Germania, riprese dopo la Rivoluzione di Ottobre, si erano infatti nuovamente interrotte nel 1918 pochi giorni dopo l'abdicazione del Kaiser, con la motivazione che l'ambasciata russa a Berlino, approfittando dell'immunità diplomatica, aveva esercitato propaganda comunista in Germania.

La cartolina ricordo della Conferenza 
Internazionale Economica di Genova

Il Trattato stabiliva la reciproca rinuncia a tutte le rivendicazioni finanziarie, la ripresa delle relazioni diplomatiche e consolari, il preventivo e reciproco accordo su qualsiasi questione economica (anche se risolta in linea di principio su base internazionale).
 Sia per il governo sovietico sia per quello di Weimar era il primo trattato equo e non imposto, la stretta di mano fra le due reiette della società europea, il loro ritorno al gioco diplomatico.
In senso più lato il trattato continuò la tattica di Lenin di 'utilizzare le divisioni tra i paesi capitalisti appoggiandosi alla Germania che era (allora) il membro più debole del mondo capitalista; per la Germania bloccata nel tentativo di espansione verso ovest e verso sud era l'occasione di una pacifica espansione economica verso est.
 La strada intrapresa a Rapallo, se onestamente seguita, avrebbe potuto mantenere la pace nell'Europa centrale, ma anche se ciò non è stato, una parte dello spirito di quel tempo è ritornato in quella che è nota come 'Ostpolitik' tedesca.

Il Presidente della Conferenza di
 Genova S.E. Luigi Facta

Le cronache dei quotidiani nei giorni successivi riportano le furibonde reazioni delle altre nazioni. Il 'Corriere della Sera' del 17 aprile titola: 'Un colpo di scena alla Conferenza' mentre Pietro Nenni su 'L'Avanti'  scrive: 'Una delle questioni che, a Genova, almeno, sarà seppellita con gli onori di un funerale di prima classe, è quella sollevata dalla delegazione francese circa la violazione del Trattato di Versailles che i delegati tedeschi avrebbero compiuto con la Convenzione di Rapallo'.
 Il commissario del popolo Cicerin al 'Chicago Tribune' rilascia invece una dichiarazione nella quale, rispondendo alla domanda se il Trattato significhi un'alleanza con la Germania afferma: «Questa è una cosa del futuro. Io ritengo questo trattato un piccolo modello per la Conferenza di Genova. Specialmente mi piacerebbe firmare un trattato simile con gli Stati Uniti».

Un'altra cartolina commemorativa
della Conferenza di Genova del 1922

Lo statista russo a piedi percorre l'Aurelia sino a raggiungere l'hotel Bristol e, allo stesso modo, rientrerà poi nel borgo.
 Onore e 'gloria' in paese anche per il tassista rapallese Tovagliari che aveva accompagnato l'uomo politico in lungo e in largo per il Tigullio: il soprannome 'Cicerin' gli resterà appiccicato addosso per tutta la vita. L'appuntamento internazionale nel capoluogo ligure fallirà inevitabilmente il 19 maggio, anche sotto l'incalzare della Francia che chiede ostinatamente ai russi di far fronte ai loro impegni finanziari prebellici, e gli incontri proseguiranno poi in Olanda, all'Aia.
 Von Rathenau, due mesi dopo la Conferenza di Genova verrà invece assassinato a Berlino da alcuni estremisti di destra.
 Il protocollo d'intesa Russo-Tedesco del 16 aprile 1922, come detto, venne firmato in una sala dell'Hotel Imperiale, albergo che allora si trovava in territorio rapallese. I confini tra Rapallo e Santa Margherita Ligure vennero infatti modificati, con decreto reale, il 10 agosto 1928 e a partire da allora l'Imperiale entrò a far parte di Santa Margherita Ligure.

Cartoon politico realizzato da Frederic Burr Opper in occasione della Conferenza del 1922

Rapallo, 05.04.11



Rapallo: SANTUARIO DI N.S.MONTALLEGRO: Navi, Marinai e la Devozione Mariana

Il 2 Luglio 1557 apparve la Madonna a Montallegro (Rapallo) ed  iniziò la Devozione Mariana nel Tigullio

Quadro Storico

Riforma e Controriforma

Il sacco di Roma del 1527  inferse un colpo molto duro a tutti i cattolici del mondo ed in particolare al Vaticano come centro della Cristianità, ma la Riforma Protestante che dilagava in quegli anni nell’Europa settentrionale, sconvolse ancor più in profondità lo scenario religioso poiché ruppe l’unità del Cristianesimo e rappresentò una sfida contro la Chiesa Romana, la sua organizzazione e i suoi dogmi. Com’è noto, ad azione corrisponde una reazione uguale e contraria! Infatti,  Martin Lutero produsse uno scossone vigoroso all’interno delle strutture ecclesiastiche cattoliche, ma i “gagliardi” Papi dell’epoca risposero all’offensiva luterana con il Concilio di Trento che durò ben  18 anni, dal 1545  al 1563. Da questa lunga e meditata riflessione nacque la Controriforma che non si limitò soltanto alla  difesa e alla definizione dei dogmi del Concilio, ma definì anche le linee d’azione che avrebbero proiettato una nuova luce, non solo spirituale, su tutto il  Cattolicesimo nel mondo. Si aprì quindi un ampio scenario, in cui furono battezzati nuovi ordini religiosi: Teatini, Somaschi, Barnabiti, Scolopi ecc… ma,  tra loro, furono particolarmente dinamici e incisivi l’Oratorio di S. Filippo Neri e  la Compagnia di Gesù, fondata da Sant’Ignazio di Loyola. Questi due movimenti, così diversi nelle loro prospettive, esercitarono una profonda influenza nella composizione di un nuovo assetto strategico e da quel momento, anche le ricerche artistiche seguirono il nuovo orientamento emerso dalla Controriforma che, per la verità, era già in atto prima del Concilio di Trento, operando fortemente sugli animi e generando intensi e spesso tragici dissidi religiosi e spirituali. Una ventata d’aria fresca era quindi già calata sull’attività artistica figurativa, non tanto attraverso prescrizioni e diffide, quanto soprattutto attraverso il perenne conflitto tra il mai domo paganesimo e lo spirito cristiano, fonte spesso di compromessi e di pietismo religioso.

“Per due generazioni, il clima di Roma fu austero, antiumanista, antimondano, perfino antiartistico” (Wittkower).

Nasce l’Arte della Controriforma ed un nuovo modo di pregare

In definitiva, si può  affermare che, alla grande portata storica del  movimento riformistico si deve una serie di innovazioni, iniziative e normative che furono alla base di una vera rivoluzione che andò a toccare e a modificare nel profondo molti campi e citiamo, per l’occasione, quello dell’arte visiva ecclesiale. L’aggancio al Barocco fu inevitabile ed avvenne per opera dei  Gesuiti che si affacciarono alla storia in modo provvidenziale, apportando una fiammata di genio razionale che si coniugò alla perfezione con la rinascita di una fede rinnovata. Furono persino coniati i termini, tuttora in discussione, di Arte dei Gesuiti, e Barocco come espressione della Controriforma. Le arti figurative ispirate agli episodi del Vangelo dovevano assumere un carattere chiaro, semplice e comprensibile a tutti; dovevano essere realistiche e suscitare uno stimolo emozionale verso la pietà. La Chiesa Cattolica poteva così contare su un sistema raffinato e sicuro di espressione artistica e religiosa capace di rappresentare l’invisibile. Il Santuario della Controriforma doveva avere preferibilmente una sola navata, una cupola, due campanili. La ricca e coloratissima scenografia dell’abside, del presbiterio e gli affreschi della cupola dovevano rapire il fedele e renderlo partecipe  della divina rappresentazione. Nel precedente periodo Rinascimentale, tra il “sacro” raffigurato sulle pareti della Chiesa e la platea dei fedeli, esisteva un sipario, una specie di diaframma psicologico che confinava la comunità religiosa ad una distanza planetaria, a causa di quella severa purezza pittorica, da quella marcata perfezione stilistica  di “maniera”  (accademica) che era ostentata dall’alto. Con i nuovi orientamenti tridentini, quelle barriere visive e psicologiche che si frapponevano tra il cielo e la terra, saranno definitivamente abbattute per favorire l’introduzione di un nuovo rapporto di dialogo diretto, intenso e ravvicinato tra la Gerarchia Celeste e il popolo dei credenti. I pellegrini avranno libero accesso a partecipare, senza mediazione, alla rappresentazione dei racconti evangelici e si troveranno coinvolti e immedesimati nella sceneggiatura, per esempio, dell’emozionante  Apparizione della SS.Vergine, oppure dell’immensa pietà della Dormizione della Vergine e della Sua gloriosa Assunzione. Da asettico spettatore di eventi eccezionali, ma freddi, il pellegrino si trasformerà  in  attore  vero, capace di tensione ascetica e profonda partecipazione. Il suo duplice obiettivo sarà quello di tracciare un nuovo percorso spirituale e riporvi dentro l’emozione del dialogo avvenuto con il Divino. D’ora in poi i suoi strumenti saranno le preghiere recitate ad alta voce in comunità ed  i canti corali che saliranno dagli  spartiti e si diffonderanno come il profumo forte e al tempo stesso delicato dell’incenso.

Nuovi Baluardi a difesa della fede e della teologia

Alla Riforma Protestante, voluta e condotta con gran determinazione dal suo principale paladino Martin Lutero, dobbiamo quindi, paradossalmente, la costruzione dei Santuari Mariani che costellano le nostre colline. Infatti, la Riforma luterana negava a Maria il titolo di mediatrice, riservandolo solo a Cristo. “Per Lutero, che pur si rivolgeva alla Vergine chiamandola – Nostra Madre – e ne riconosceva la perpetua verginità, era accettabile il concetto che la Madonna pregasse per l’umanità, ma non si doveva invocarla per non correre il rischio di cadere nell’idolatria”. (G. Meriana) Si comprende facilmente come, partendo da posizioni di questo genere, si arrivasse a mettere in discussione il punto cardine su cui si fondava il Culto della Madonna tra i cattolici, che vedevano in Lei la mediatrice di grazie temporali e spirituali e come tale la veneravano nei Santuari con grande devozione. Genova, tradizionalmente occupata a curare gli interessi economici che ruotavano attorno al suo grande porto, era scoperta alle infiltrazioni luterane transalpine provenienti da Lione e Ginevra. Le nuove idee religiose s’insinuavano subdolamente al seguito dei maggiori commercianti dell’epoca, ed alcune tra  le più importanti famiglie di nobili della Repubblica:  Agostino Centurione, Orazio Pallavicino, Giacomo Fieschi ed altri… cedettero, in qualche misura, al fascino “protestante” di Calvino, Zwingli ed ovviamente Lutero. Ci furono anche processi pubblici, cambi di residenza,  alcuni rapidi “ripensamenti”…e la “rivolta” rientrò presto nella normalità.

Foto n.1 - Il Santuario di Nostra Signora di Montallegro, che noi rapallesi abbiamo alle spalle, rientrava proprio in quella bianca schiera di  44  insormontabili baluardi di fede che furono costruiti lungo la cintura delle Prealpi, con il compito di rappresentare le vigili sentinelle nelle località più esposte all’influenza del mondo protestante.

La prima cappella fu subito costruita sul luogo dell’ Apparizione della SS. Vergine a Giovanni Chichizola, proprio in quel periodo tanto travagliato per la Chiesa Cattolica. Montallegro è lo spazio occupato dall’altare del Santuario dov’è avvenuto il “Sacro Evento”.

Mons leti, per alcuni è il “Monte della Morte” che si riferisce alla sconfitta dei Romani avvenuta nel 168 a.C. da parte dei Tigulli che provocò la morte del Console Quinto Petilio.

Mons laetus, per altri significa l’esatto contrario, “Monte di Gioia” per il dono dell’Apparizione e del senso di protezione divina che gratificò i rapallesi da quel fatidico giorno. Nel tempo, i cittadini di Rapallo vollero trasformare quella semplice e rustica pieve montana nel magnifico Santuario dall’inconfondibile facciata bianca marmorea che, simile a una diga voluta dalla “provvidenza”, protegge ancora, a distanza di 450 anni, la fede nelle nostre vallate.

Una Icona bizantina per - “mano divina” - approda misteriosamente sul Monte Leto

Maria, a conferma della sua misteriosa visita sul monte Leto, lasciò una piccola ICONA bizantina (cm. 18x15) che raffigura la Sua Dormizione e Transito.

“Questo è il mio riposo per sempre: Qui abiterò perché l’ho desiderato”….” Dì loro che Qui voglio essere onorata”. (Anonimo dal “IV Centenario dell’Apparizione della Madonna a Montallegro (1557-1957).

Foto n.2 - L’Icona, riflesso della presenza divina

E’ noto a tanti assidui pellegrini mariani, come sia sorprendente la somiglianza tra l’iconografia ortodossa della Vergine e numerose Sue Apparizioni. Qui ne vogliamo ricordare alcune.

Nel 1871, la Madonna apparve a cinque ragazzi di Pontmain, nella Mayenne (Belgio). Uno dei piccoli veggenti Eugene Barbedette affermava di non aver mai visto icone ortodosse. Non era che un povero contadinello, che ignorava persino l’esistenza della Russia. Sottoposto all’esame di numerose immagini della Vergine non trovò alcuna somiglianza con la Signora; in seguito, l’abbé Barré ebbe l’idea di sottoporgli l’icona della Madonna di Genazzano (località non distante da Roma), ed il ragazzo non ebbe la pur minima esitazione nel puntare il dito su molti particolari di perfetta somiglianza. Ma quel che forse è meno noto, sono le reazioni che ebbe Bernadette Soubirous, la piccola veggente di Lourdes, quando le si domandava a chi somigliasse la Vergine che lei aveva visto. Le furono mostrati dipinti di Raffaello, Murillo ecc…ed ebbe un sobbalzo di meraviglia soltanto quando vide l’icona della Vergine di Cambrai e urlò: “E’ Lei!” Ancora più sorprendente fu l’Apparizione di Gesù stesso, all’umile religiosa polacca Faustina Kowalska la prima domenica di Quaresima il 22 febbraio  del 1931. “Gesù mi disse”: - La mia immagine nella tua anima esiste già. Voglio che questa icona, (dell’Amore Misericordioso) da te dipinta con un pennello, venga solennemente benedetta la prima domenica dopo Pasqua -

La Magia spirituale delle Icone

Un monaco del celebre Monastero che svetta sul monte Kikkos  (Isola di Cipro), ci spiegò che le icone adempiono a una triplice funzione come strumento di insegnamento teologico, di contemplazione mistica, di partecipazione liturgica. “Non è l’icona opera d’arte, che è bella, ma è bella la sua verità spirituale, che è sprigionata in immagini dalla pittura, com’è rivelata in parole dalla Sacra Scrittura”. “Poiché l’icona attesta una presenza – spiegava – pregare davanti all’icona della Theotokos significa entrare in contatto con la Madre di Dio. L’icona soltanto la sostituisce e ne mantiene il fascino misterioso, perché l’arte iconografica, pur essendo figurativa e non astratta, non ha nulla in comune con il ritratto”.Per mezzo dei miei occhi carnali che guardano l’icona la mia vita spirituale si immerge nel mistero della Incarnazione”. (Giovanni Damasceno) Oggi, grazie alle ispirate aperture ecumeniche del Concilio Vaticano II, il mondo cristiano Ortodosso e quello Cattolico, hanno trovato un punto d’incontro proprio nella spiritualità e la venerazione delle Icone. Oggi, non c’è cattolico che non abbia visto o sentito parlare della Icona della Madonna di Wladimir dei russi, della Icona della Madonna Nera di Czestochowa, della Icona Hodighitria, forse la più conosciuta essendo la copia dell’originale attribuita a S.Luca, e che non ha mai lasciato Costantinopoli,  la Kykkiotissa di Cipro ed infine quelle del Monte Athos con le numerose altre sparse in tutta la Grecia, Bulgaria, Serbia ecc…

Alcuni Cenni sull’evento della  Dormizione e Transito di Maria SS.

Dal libro “Ipotesi Su Maria” di Vittorio Messori, citiamo: “…stando al Credo cattolico l’Immacolata Madre di Dio, sempre Vergine Maria, terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste - in anima e corpo –“Queste sono le parole del dogma dell’Assunzione, definito e proclamato da Pio XII solo nel 1950 ma creduto, nel suo oggetto, sin dai tempi dei Padri della Chiesa sia in Oriente che in Occidente. La festa della Dormizione, che ha in nuce l’Assunzione della Vergine Madre, è probabilmente la più antica delle feste mariane che uniscono la Chiesa universale”. Le versioni storiche che ci vengono tramandate sulle ultime ore terrene di Maria SS. sono numerose e quindi vengono sempre precedute dal termine “secondo la tradizione”. Sicuramente quella di S. Giovanni il Teologo, ossia l’Evangelista, è per noi la più toccante. Anche sul luogo della Dormizione e Transito di Maria SS. esiste almeno una doppia versione: - Quella di Gerusalemme: …gli Apostoli trasportarono la lettiga e deposero il suo corpo santo e prezioso in una tomba nuova del Getsemani. (S. Giovanni  l’Apostolo-Teologo). Infatti, a pochi passi dal celebre Orto degli Ulivi presso il Getsemani, esiste la chiesa che racchiude il sepolcro vuoto di Maria SS. la quale è meta ogni anno di milioni di fedeli. Come si legge nei Vangeli, l’Apostolo Giovanni visse e morì ad Efeso. Anche gli Atti del primo Concilio di Efeso (431 d.C.) parlano di una casa in cui sarebbe vissuta la Madonna, situata nei pressi della Chiesa chiamata Doppia Chiesa di Maria e che fu sede del Concilio stesso. Questa seconda versione suscitò grande interesse quando una suora tedesca, stigmatizzata, Catharina Emmerich (1774-1824), mai mossasi dalla Westafalia, perché inchiodata ad un letto, preda d’indicibili sofferenze, descrisse con esattezza una località vicino ad Efeso in cui, una piccola casa  era indicata come quella della Madonna. In effetti, nelle sue visioni, la suora disse: “Dopo l’Ascensione di N.S. Gesù cristo, Maria visse tre anni a Gerusalemme, tre a Betania e, infine, nove a Efeso……e qui si era stabilita la Santa Vergine”. Seguendo le indicazioni emerse dalla visione di suor Caterina, il frate lazzarista Eugene Poulin trovò le rovine di una piccola costruzione e di altri edifici che gli archeologi fanno risalire, con tutta probabilità, al tempo di Maria. Le visite che i pontefici Paolo VI (1967), Giovanni Paolo II (1979) a Benedetto XVI (2007) fecero a questo edificio sembrano dirimere le perplessità, motivate da valutazioni storiche, che avevano sino ad allora accompagnato la veridicità della presunta dimora della Madonna, certamente la seconda nella quale visse la Madre del Cristo, dopo la Crocefissione. La Casa di Maria, trasformata da monaci francesi in Cappella a croce greca, sorge nei pressi di una sorgente curativa e costituisce una meta frequentata di pellegrinaggi sin dai tempi più remoti, essendo l’immagine della Madonna venerata non solo dai Cristiani ma anche dai Mussulmani. Concludiamo questa breve ricerca sulla Dormizione e Transito della Vergine SS. con una riflessione sulla piccola Icona di Montallegro. Ciò che più ci ha colpito di questo piccolo “legno sacro” è la sua originalità, forse unicità al  mondo nella rappresentazione dell’Evento.

“A sostenere Maria che rinasce alla vita non è solo il Figlio che Lei ha generato, come appare in tutte le altre icone conosciute, ma la Trinità che l’ha generata”.

(Dalla Mostra sulle Icone dedicate alla Dormizione e Transito di Maria esposte nel Santuario a ricordo dei 450 anni dall’Apparizione).

Origini della Tradizione Devozionale Alla Vergine Maria SS.

Accostandoci più da vicino a questo mondo affascinante e di rara suggestione ci siamo accorti che il Culto Mariano affonda le sue radici, unico caso nell’umanità, nei secoli precedenti la sua stessa nascita; perché il primo profeta d’Israele Elia (IX secolo a.c.), dimorando sul Monte Carmelo (giardino-paradiso di Dio), ebbe la visione della venuta della Vergine, che si alzava come una piccola nube dalla terra verso il monte, portando una provvidenziale pioggia, salvando così Israele da una devastante siccità. In quella piccola nube, tutti i cristiani hanno sempre visto una profetica immagine della Vergine Maria, che portando in sé il Verbo divino, ha dato la vita e la fecondità al mondo.

Tuttavia, la devozione alla Vergine Maria SS. è nata con un certo ritardo e soltanto dopo il Concilio di Efeso del 431, quando furono condannate le tesi di Nestorio, secondo cui Maria era madre di un uomo, non di Dio e le venne riconosciuto il titolo di “Dei Genitrix”. A celebrare questo importantissimo avvenimento  ci pensò papa Sisto III (432-440) il quale fece costruire il primo santuario della cristianità sul colle  dell’Esquilino a Roma. Da quell’approvazione, il culto di Maria si diffuse velocemente in tutte le direzioni come il più bel fiore di quel giardino di Dio, che divenne la Stella Polare, La Stella Maris del popolo cristiano. Le interpretazioni che sono state date sul significato del nome Maria sono davvero numerose. Una di queste, che a noi uomini di mare piace molto, fu data da San Girolamo che faceva risalire Maria alle parole ebraiche mar (goccia) e yam (mare), in latino stilla maris (goccia del mare) che, grazie ad una trascrizione errata divenne stella maris, cioè “Stella del Mare” che è rimasta una delle principali invocazioni alla Madonna.

Foto n.3 - Madonna del Carmine chiamata in soccorso dai naufraghi

L’Ordine Carmelitano partito dal Monte Carmelo in Palestina (Haifa) dove è attualmente ubicato il grande monastero carmelitano “Stella Maris”, si propagò in tutta l’Europa. Alla Madonna del Carmine, come è anche chiamata, sono dedicate chiese e santuari un po’ dappertutto. Essa, per la promessa fatta con lo scapolare, è onorata anche come “Madonna del Suffragio” e a volte è raffigurata che trae dalle fiamme dell’espiazione del Purgatorio le anime purificate. Nel secolo d’oro delle fondazioni dei principali Ordini religiosi cioè il XIII secolo, il culto per la Vergine Maria ebbe dei validissimi devoti propagatori: i Francescani (1209), i Domenicani (1216) i Carmelitani (1226), gli Agostiniani (1256) i Mercedari (S.Romualdo1218) ed i Servi di Maria (1233), a cui nei secoli successivi si aggiunsero altri Ordini e Congregazioni, costituendo una lode perenne alla comune Madre e Regina.

La più comune raffigurazione della Madonna dei naviganti, con le dovute varianti artistiche, proviene  dalla chiesa di San Nicolò a Capodimonte, che si trova sull’impervia quanto suggestiva mulattiera sul versante di Punta Chiappa, che è di stile e costruzione romanica, anche se la tradizione fortemente radicata, la ritiene innalzata su una Cappella voluta dal Vescovo San Romolo nel 345. Dopo l’abbandono del XVI secolo, la chiesa è stata restaurata nel 1870 e successivamente, durante il recupero di strutture e motivi decorativi originari effettuati tra le due grandi guerre, sono emersi antichissimi affreschi fra cui una raffigurazione della STELLA MARIS che testimonia quanto sia antica la devozione dei marinai già a partire dall’alto medioevo.

Foto n.4 - Madonna “STELLA DEL MARE” venerata a bordo delle navi

Nel secolo scorso furono costituiti a Dublino, Londra, New Orleans, Filadelfia e Sidney i primi Seamen’s Clubs per marittimi cattolici ed il più importante fu quello di Montreal, fondato il 18 maggio 1893. Il 4 ottobre 1920 a Glasgow fu creato l’Apostolatus Maris Commitee, che ha per stemma un’ancora intrecciata ad un salvagente recante al centro il cuore di Gesù (vedi foto ). Tra gli obiettivi dell’organizzazione c’è quello di mettere in relazione tra loro i clubs esistenti e tra le iniziative prese c’è la realizzazione di alcuni centri di servizio e di preghiera, visita alle navi ed assistenza spirituale ed anche materiale ai marittimi.

Foto n.5 - Stemma dell'Apostalato del Mare

Il 25 gennaio 1932 nasce a Genova l’Apostolato del Mare in Italia. La direzione del Centro viene affidata dall’allora Arcivescovo Cardinale Minoretti alla Società di S.Vincenzo De’ Paoli, che per l’occasione fonda la Conferenza Stella Maris con sede in Via del Molo, all’ultimo piano di un vecchio palazzo nobiliare. Nel corso del 1932 sono quattordicimila i marittimi che passano dal ritrovo di Via del Molo.

L’ultima grande esternazione d’affetto e di considerazione verso la gente di mare si ha il 31 gennaio del 1997, quando il Santo Padre rivolge ai naviganti un “motu proprio”, in cui l’attualità ed il ruolo dell’Apostolato e delle Stelle Maris nella diffusione del Credo e dei principi cristiani nella società contemporanea viene perfettamente evidenziata:

Stella Maris – sono le parole di Giovanni Paolo II – è da lungo tempo l’appellativo preferito con cui la gente di mare si rivolge a Colei nella cui protezione ha sempre confidato: la Vergine Maria.

Gesù Cristo, suo figlio, accompagnava i suoi discepoli nei viaggi sulle barche del tempo e li aiutava nelle loro fatiche e calmava le tempeste. Così anche la Chiesa accompagna gli uomini del mare, prendendo cura delle peculiari necessità spirituali di coloro che, per motivi di vario genere, vivono ed operano nell’ambiente marittimo”.

Votum fecit, gratiam excepit

Gli uomini di mare sparsi nel tempo, dalla preistoria ai giorni nostri, hanno sempre avuto un nemico in comune che resta immutato per la sua forza esplosiva e travolgente: la tempesta! Sebbene piccole, medie e grandi navi, tutte altamente tecnologiche ed automatizzate, solchino oggi i sette mari con grande disinvoltura, le statistiche, purtroppo, ci dicono che il numero dei naufragi, oggi, è sempre altissimo. Duemila anni fa i marinai si difendevano dai fortunali navigando in Mediterraneo soltanto nei mesi buoni tra la primavera e  l’autunno e quando potevano, soltanto di giorno e in vista della costa.

Oggi le difese del marinaio sono scritte ed imposte dalle leggi sulla sicurezza della navigazione che sono approvate e rispettate da “quasi” tutto il mondo. Nell’avverbio virgolettato c’è la chiave di lettura del fenomeno che in mare si chiama deregulation e i naufragi avvengono non soltanto a causa delle tempeste, ma anche per gli incendi, le esplosioni, le collisioni e per l’impreparazione e l’insufficienza  di personale qualificato.

Da questo quadro a tinte fosche è facile ora passare ad altri tipi di quadri che vanno ad arricchire lo stesso tema e precisamente quelli: Per Grazia Ricevuta, che continuano a salire e fissarsi ai muri dei Santuari Mariani che costellano le nostre coste per testimoniare l’incrollabile fede della gente di mare.

Prima del Cristianesimo, ex-voto in terracotta o legno, indirizzati a divinità anche minori, come la dea Mefite, sono stati ritrovati durante scavi di siti archeologici. In epoca romana, raccontano Virgilio, Cicerone, Orazio e Tibullo, i marinai usavano appendersi al collo tavolette votive dipinte, rivolte a Iside, dea che proteggeva dalle tempeste, ma anche a Nettuno, Castore e Polluce, numi protettori dei naviganti.

I naviganti credono in Dio anche quando, in certi frangenti, lo trattano a male parole,  consci della propria debolezza, della paura e quindi del sentirsi abbandonati dal Supremo che tuttavia cercano con forza e con rabbia, per richiamare la Sua attenzione, per sentirlo vicino in quella natura ostile, a volte selvaggia che minaccia la loro esistenza. Poi, quando la tragedia è vicina, l’ultimo pensiero vola, sotto forma di preghiera e richiesta d’aiuto, verso la madre anzi, alla grande Madre di tutti, alla Vergine Misericordiosa, ultima speranza, ultima spiaggia d’approdo e di salvezza.

Alberi spezzati, prue ingavonate, lance di salvataggio travolte dai marosi, scogliere infernali, annegamenti, infortuni e naufragi, sono i ricordi degli scampati pericoli che rimangono incisi nella mente e negli occhi del sopravvissuto e che vengono tradotti in opere votive in legno, in acquerelli, in dipinti a tempera, ma anche su metalli pregiati. Gli ex-voto nascono così, da incubi vissuti che spesso vengono descritti ed affidati a dei veri artisti, pittori di navi, che ben conoscono l’arte della costruzione navale e sono quindi in grado di ricostruire fedelmente la scena apocalittica del disastro.

Altre volte invece sono opere semplici o addirittura infantili che testimoniano tuttavia il desiderio dell’autore di stabilire un legame autentico, esclusivo con Maria, per offrirLe un dono semplice che assomigli ad una preghiera che sgorga dal  cuore senza alcuna mediazione.

Continuando ad esplorare in questa forma di devozione probabilmente coeva alla prima nave, ci siamo imbattuti anche in un ex-voto per grazia ricevuta, molto particolare: la Basilica di S.Giovanni Evangelista di Ravenna, fatta erigere da Galla Placidia come ringraziamento per essere scampata insieme al figlio, alla tempesta che investì la nave sulla quale si trovava durante un viaggio tra Ravenna e Bisanzio.

La tavoletta votiva è apparsa, in tutte le epoche, su tutte le sponde del Mediterraneo e persino nel vicino oriente ed è conosciuta anche altrove, specialmente nelle zone confinanti con l’Italia. Essa rientra in quella che è genericamente definita “arte popolare” e rappresenta una vera e propria miniera d’informazioni attraverso le quali è possibile seguire, ad esempio, l’evoluzione della nostra marineria.

Su disegni che datano dal XVI secolo in poi, vediamo rappresentati i trabaccoli, le galere e le galeazze, le saettìe, le tartane, le polacche, le felucone,  le bombarde e quindi i brigantini, le navi ed i brigantini a palo, seguendo i progressi dell’architettura navale, fino alla raffigurazione di battelli a vapore che entrano in collisione con navi a vela, quasi a sottolineare il definitivo passaggio epocale, dalla vela al motore.

La tecnica seguita per la realizzazione delle tavolette votive è in genere pittura ad olio su tavoletta lignea; talvolta si è visto un acquerello su carta incollato poi sopra la tavoletta. Nel ‘700 fu molto usata la tela mentre, dal secolo scorso, sono stati introdotti altri materiali come lo zinco, il cartone, la masonite, il vetro. La grazia richiesta o ricevuta viene rappresentata in due o tre scene successive, sullo tesso disegno, e la posizione della divinità che intercede, - in genere la Madonna – è sempre nella parte alta, talvolta al centro, ma più frequentemente ad uno dei due angoli della tavola; nel ‘500 e nel ‘600 si usavano le formule V.F.G.A. oppure V.F.G.R.Votum fecit et graziam Accepit o Recepit” disegnate in genere in basso a sinistra e ripetute tante volte quante sono state le grazie. Nei secoli successivi è stata usata la sigla P.G.R. o P.G.O. “per grazia ricevuta o ottenuta”.

Questa breve introduzione ci ha permesso d’entrare, con il dovuto rispetto e un po’ più consapevoli, nel mondo degli ex-voto che è ben rappresentato nel nostro Santuario di Montallegro che ne ospita qualche migliaio ed una parte notevole è dedicata alla Madonna dai marinai di Liguria a testimonianza della fede e della loro tradizione marinara a partire proprio da quel luglio 1557, anno dell’Apparizione della Vergine al popolano Chichizola, del quale ricorre quest’anno, come abbiamo già visto, il 450esimo anno.

NARCISSUS, IL VELIERO CHE NON VOLEVA MORIRE

Abbiamo scelto questa nave “speciale” così carica di ricordi letterari e nautici per compiere insieme a voi il primo tragitto tra le migliaia di “ringraziamenti” che sono giunti ininterrottamente come il flusso zampillante di acqua miracolosa che la stessa Vergine lasciò sul luogo della Visione quel 3 luglio 1557. Il quadro del veliero Narcissus che si trova nel Santuario di Montallegro non è diverso dai tanti ex-voto che si ammirano nelle pinacoteche della devozione tra le due riviere, ma la sua presenza nell’immaginario collettivo, richiama alla mente mari scatenati, calme equatoriali e la sottile psicologia di tanti personaggi descritti magistralmente dal più grande scrittore di storie di mare Josef Conrad, che proprio su quella nave imbarcò una prima volta da marinaio e poi da ufficiale di coperta  con  il brevetto di capitano di lungo corso che ottenne nel 1884. Quando Conrad lasciò il navigare nel 1894, s’immerse ancor più nel suo mondo marinaro e per trent’anni  scrisse i suoi romanzi, saggi e racconti, fra i quali eccelle “The nigger of Narcissus”, Jimmy, il negro che si arruola a Bombay pur sapendo di essere afflitto dalla tubercolosi; Singleton il vecchio lupo di mare inglese, rispettoso delle leggi marinare e dei canoni della tradizione; Belfast il marinaio astuto come una volpe; Donkin il marinaio ribelle e poi gli ufficiali, il molto inglese Capitano Allistoun, calmo e indifferente, il Primo Ufficiale Baker, che desidera il comando più di ogni altra cosa, ma sa di non poterlo raggiungere…. Queste figure oggi sembrano uscite da un mondo immaginario, eppure sono reali e perfettamente aderenti a quel mondo della vela che, purtroppo, è stato velocemente  superato dal progresso tecnico-scientifico e quasi dimenticato. - Scrive Conrad – “Il Narcissus era nato tra i vortici di fumo nero, fra lo squillo dei martelli che battono il ferro, sulle rive del Clyde. Sotto quel cielo grigio, su quel fiume rumoroso, vedono il giorno splendide creature che vengono al mondo per essere amate dagli uomini. Il Narcissus era di quella stirpe perfetta. Meno perfetto, forse, di tante altre navi, ma incomparabile perché era nostro e noi ne andavamo orgogliosi”. Varato a Glasgow nel 1875, il Narcissus navigò quasi sempre nei mari orientali e soltanto nel 1899 fu acquistato da Vittorio Bertolotto (1854-1934) ed impiegato sempre oltre i Capi. V. Bertolotto  fu una delle maggiori figure armatoriali di Camogli, figlio del professor Lazzaro, patriota del Risorgimento, amico di Garibaldi e poi preside del Nautico di Camogli.

Foto n.6 - L’Ex-Voto, olio su tela, di cm 87x67 dell’artista G. Roberto rappresenta il Narcissus  in grave difficoltà nel passaggio del terribile Capo Horn, durante il quale l’equipaggio e la nave si salvarono miracolosamente per intercessione della “Vergine Santissima di Montallegro” il 22-23 .9.1903.

La didascalia del quadro riporta la posizione geografica dell’avvenimento e i 12 nomi dell’equipaggio che offrono “in ringraziamento questo ricordo alla V.SS. di Montallegro (Rapallo) – Genova marzo 1904”. Se è vero che un veliero su quattro naufragava a Capo Horn, pensate quante navi sono state salvate con la costruzione del Canale di Panama avvenuto nel 1914!

Il 17 gennaio 1907, il Narcissus partì da Saint Louis du Rhone (Marsiglia) diretto a Talcahuano in Cile con un carico di gesso. A Capo Horn incappò in una violenta tempesta e dovette, per le gravi avarie riportate, ripiegare penosamente su Rio de Janeiro che raggiunse il 19 maggio successivo. Fu dichiarato “relitto” e perciò venne “abbandonato” alla Società Assicuratrice, la Mutua Assicurazioni Marittime Cristoforo Colombo di Camogli, presso cui il Narcissus era assicurato per lire 93.700. Ci fu uno strascico giudiziario che si risolse in questi termini:  “la società assicuratrice contestava la legittimità della dichiarazione di abbandono della nave, che invece venne pienamente riconosciuta, con tutte le conseguenze in favore dell’armatore Bertolotto, dalla Corte d’Appello di Torino”. Rientrato in Italia, il veliero fu disalberato ed adibito a pontone nel porto di Genova. Nel 1917 fu riarmato e, con il nome di Iris venne iscritto al dipartimento marittimo di Rio de Janeiro dove, il 14 gennaio 1922, venuto a collisione con un’altra nave, affondò. Ancora una volta venne recuperato e tornò a navigare finchè, tre anni dopo, nel 1925, il suo proprietario falliva ed in tale frangente la nave, che fu nota nel mondo come Narcissus non ce la fece proprio a sopravvivere e dovette rassegnarsi alla demolizione, dopo ben 50 anni di vita, un vero record! La sua polena è attualmente conservata nel porto di Mystic, nel Connecticut.

Il Voto del Raguseo: Lasciamo il veliero Narcissus, il più celebre tra gli Ex-Voto marinari del Santuario di Montallegro,  e proseguiamo il nostro itinerario devozionale incontrando oggi il più antico e forse il più “chiacchierato” tra gli omaggi Per Grazia Ricevuta alla SS. Vergine. Si tratta di una lamina d’argento offerta dal capitano di mare Nicola Allegretti di Ragusa (l’odierna Dubrovnik-Croazia meridionale) che, scampato miracolosamente al naufragio del suo non specificato veliero su Punta Mesco, a causa di  una terribile burrasca da libeccio, trovò rifugio nel golfo Tigullio e si recò poi pellegrino al Santuario il 26 dicembre 1574.

Foto n.7 - L’ex-voto su lamina d’argento raffigura la “caracca ragusea”, simbolo di destrezza e perfezione tecnica. C’è capitato di scoprire proprio a Dubrovnik (ex-Ragusa) altri esempi di Ex-Voto marinari, molto simili ai nostri e quasi sempre rappresentati con la “caracca di epoca colombiana”.

Foto n.8 - La Caracca Ragusea,   Ex-Voto Marinaro molto diffuso in Croazia.

La città dalmata fu capitale di quel libero Stato croato rimasto indipendente per quasi un millennio sotto il nome di Repubblica Marinara di Ragusa e con la sua consistente flotta mercantile fu l’unica degna rivale della Serenissima sull’Adriatico. Grandi politici e diplomatici furono i Rettori della Repubblica Marinara di Ragusa che seppero usarono, nella loro lunga storia, tutte le armi pacifiche per conservare la propria libertà.

Foto n.9 - Veduta della Ragusa vecchia avvolta dalle mura fortificate.

Ragusa cadde nel 1808, poco dopo Venezia e Genova per mano delle truppe napoleoniche. La città fortificata sul mare è rimasta intatta dal 1200 secondo un piano architettonico preciso, con le sue mura e i forti interamente conservati, con le sue centinaia di edifici pubblici (Divona, Zecca, Palazzo del Rettore), case e palazzi signorili, tante e tante chiese che testimoniano la fede cristiana-cattolica che è stata in reiterate e cruente vicende storiche l’ultimo confine, l’estremo baluardo contro l’espansionismo militare dell’Islam e di quello legato all’influenza politico-religiosa dell’ortodossia orientale. Il capitano Allegretta proveniva da questa realtà storico-geografica che per la sua peculiarità e grande fascino può ancora oggi reggere il confronto culturale con molte altre “perle” sicuramente più celebrate in Europa e nel mondo. Gli storici locali ci tramandano che la visita del Raguseo al Santuario di Montallegro si trasformò, molto presto, nel tentativo di recupero della Sacra Icona (la Dormizione di Maria), reclamata dalla comunità dalmata, che ne vantava la precedente proprietà. Ma qui, paradossalmente, avvenne un altro miracolo: il Senato genovese sentenziò, infatti, la restituzione del quadretto dell’Apparizione al termine di una vertenza legale che, tuttavia, non si realizzò a causa del misterioso rientro della Icona  sul monte, che soltanto da quel momento cominciò a chiamarsi Monte Allegro per la felicità della popolazione che sentiva concretamente la protezione della Madonna. Lasciamo le questioni legali ed entriamo nel dettaglio dell’omaggio al Santuario, dal cui Codice Diplomatico (p.16-17) riportiamo:

“…Narra egli dunque di Nostra Signora del Monte il seguente bellissimo fatto, degno di perpetua memoria “ Dell’anno 1574 correndo  naufragio Cap. Allegretti Raguseo con sua nave da mercanzia, che di là veniva a Genova, mentre si trovava nei nostri mari della Liguria, vicino a Monte Rosso delle Cinque Terre, radunatasi ha consolato tutta la ciurma, fecero voto unitamente a Dio, che se li avesse dall’imminente naufragio liberati, nel primo terreno o porto dove si fossero afferrati sarebbero tutti a piedi scalzi andati pellegrini alla Chiesa più memorabile per devozione che ivi fosse. Trascorsero per divina provvidenza portati dalla procellosa marea nel Golfo di Rapallo dove tranquillatasi la burrasca e accertati che la Chiesa di Santa Maria della Mont’Allegro che dalle spiagge li fu mostrata era la più rinomata per devozione e miracolosa che fosse non solo in queste parti, ma nei lidi della Liguria, pochi anni avanti colassù comparsa, non tardarono di andarla a visitare per adempire il voto fatto e vi portarono la tabella votiva o quadretto d’argento, in cui intagliata la Nave in atto di naufragare colla seguente inscrizione ancora oggi giorno nella Chiesa di detta Nostra Signora si vede.”

Velieri di Chiavari e Camogli “in pellegrinaggio” a Montallegro

Pro Schiaffino, da oltre 30 anni è il direttore del Museo Marinaro di Camogli. - “Comandante, nel presentare questa rubrica dedicata alla devozione mariana, ci siamo spesso imbattuti  in avventure sofferte da equipaggi di Camogli e di Chiavari. Le due città rivierasche, così diverse tra loro, hanno avuto un passato marinaro di prima grandezza”. “Camogli è stata una grande flotta mercantile. Chiavari un intero settore mercantile. Camogli, racchiusa tra i monti, priva di strade e di retroterra aveva riversato tutta l’attività della sua gente sul mare e sui velieri. Si era espansa nel mondo al seguito dei suoi velieri ed aveva Agenzie e Provveditorati, ma erano solo al servizio dei capitani e degli armatori. Tali punti di riferimento  erano appendici di Camogli, ma avulsi dal commercio del paese. Chiavari no! Gli esponenti di Chiavari erano commercianti che portavano le loro capacità produttive ed i loro prodotti nel mondo, e per farlo si servivano delle navi costruite da loro stessi secondo le proprie esigenze. Da ciò si deduce, per esempio, che in America e in Australia, non c’erano soltanto i loro rappresentanti,  ma c’erano mercanti capaci di cercare nuovi spazi e clienti. Va da sé che quando le navi si convertirono al motore, quando cioè fu necessaria una capacità esclusiva nel costruirle, lasciarono ad altri il compito ed anche  gestione”. La marineria di Chiavari è presente nel Santuario di Montallegro con due ex-voto di gran pregio. Si tratta del brigantino a palo “Francisca”, 683 tonn. di Stazza lorda, dell’Armatore Dall’Orso che fu costruito a Chiavari dai Cantieri di Matteo Tappani nel 1873. Il dipinto dell’artista Fred Wettening  rappresenta il veliero in balia della tempesta con vele stracciate ed una trinchettina di fortuna per mantenersi alla cappa (con la prua al mare) per non essere travolto dalle onde. In alto a sinistra è finemente stilizzata l’icona venerata della Dormizione della Vergine.

Foto n.10 - Uragano sofferto dal Francisca nell’Oceano Indiano, 22.2.1874 -Tempera su carta di Fred Wettening.

Foto n.11 - Nave a palo Francisca, 1874. Lamina d’argento sbalzata.

Lo stesso avvenimento è ancora ricordato con una lamina d’argento sbalzata che raffigura il veliero che naviga a gonfie vele verso il suo destino. I due doni esprimono un contrasto: lo splendore, la velocità e la ricchezza di un veliero oceanico spinto da un buon vento,  contro la caducità della vita, del rapido cambiamento del destino sottoposto alla spietata legge della natura avversa. Rivolgersi alla Vergine significa, per il marinaio, aggrapparsi ad un’ancora di salvezza, simulacro di croce,  la speranza di continuare a vivere. Il brigantino affonderà nel 1887  probabilmente sotto i colpi del terribile monsone di SW che spesso arriva sul Capo di Buona Speranza con la massima forza della scala Beaufort. Il veliero proveniva dall’estremo oriente con un carico di riso. Il secondo ex-voto è riferito ad un altro brigantino a palo, il  “Confidenza”, costruito nel 1872 per lo stesso Armatore Dall’Orso di Chiavari. Lo scampato naufragio si riferisce al ciclone incontrato al largo di Filadelfia il 9 settembre 1889 che fu così riassunto dal suo capitano Giuseppe Lagomarsino ….”conoscendo l’eminente pericolo della perdita del bastimento e vita fece voto a M.S.S. di Monte Allegro e per la grazia ottenuta fece  del presente quadro a questo Santuario in memoria eterna”.

Foto n.12 - Brigantino a palo “Confidenza”. E’ un barco chiavarese per la navigazione atlantica. Dipinto su carta 78x57 cm. Secolo XIX.

In questa rappresentazione di gran pregio, la parte riservata all’iconografia sacra che riproduce l’apparizione della Vergine al veggente G. Chichizola è notevole e molto dettagliata. Quasi tutti i velieri sin qui riportati, sono registrati negli elenchi dei barchi che hanno superato indenni, più volte, il famigerato Capo Horn, un nome bestemmiato da generazioni di marinai, un mito nella storia della vela oceanica mercantile, un ricordo indelebile di disperate rimonte, un immenso e sinistro cimitero di navi, il simbolo del coraggio e dell’ardimento umano. L’ex-voto del Narcissus, che abbiamo già ammirato, si riferiva alla più sofferta delle tante “rimonte” di Capo Horn. Joseph Conrad li definì così: Marinai di Capo Horn: “ Una razza scontrosa e fedele, vigorosa e fiera, capace di ogni rinuncia e dedizione, con i suoi riti, i suoi usi, il suo coraggio e la sua fede…” A questo punto consentiteci di ricordare il Capitano Fortunato Schiaffino di Camogli che, in 21 rimonte di Capo Horn, effettuò sei salvataggi meritandosi medaglie ed encomi da governi stranieri.

Ex Voto e Pittori di Marina

La superstizione risale alle origini dell’umanità. E’ naturale che essa non abbia risparmiato i marinai, tanto più che il mare, con tutti i segreti che racchiude sotto la sua superficie ed oltre l’orizzonte, sembra un eccellente ambiente per favorire lo sviluppo del mistero, della credenza, delle favole. Scilla e Cariddi, le sirene, il grande serpente di mare, l’Olandese Volante, sono i vecchi temi duri a morire. L’occhio apotropaico dipinto sulla prua delle navi egizie scongiurava le stregonerie del maligno. L’occhio dipinto sulle giunche cinesi sorvegliava e proteggeva la rotta. Una coda di delfino o un vello di montone fissato sulla ruota di prua di un trabaccolo veneto scacciava i pericoli. “L’offerta di qualcosa di prezioso al mare infuriato allontana la tempesta”. Dicevano i vecchi marinai. Ma quando tutto è perduto, quando gli scongiuri non hanno più efficacia, non resta che inginocchiarsi a pregare promettendo al Madonna o al Santo patrono qualche regalo se interviene per far raggiungere la terra sani e salvi. Così, dalla fede di uomini semplici e profondamente credenti, è nato l’ex-voto. A partire dal sec.XVIII, l’ex-voto marinaro diventa una vera opera d’arte dipinto su tavola e poi, nel sec. XIX, su tela e telaio. Questi quadri raramente sono più grandi del formato 40X60, dato che i muri delle chiese hanno limitati spazi liberi e i pittori si sentono più a loro agio nel piccolo formato. Fra questi pittori c’è di tutto, ma raramente gli stessi marinai. In ogni caso, questi artisti sono almeno un po’ marinai. Si racconta loro l’avventura trascorsa, si descrive la nave (se questa è affondata) e il dipinto prende forma. E’ il naufragio, l’incendio, è l’incaglio sottocosta, è infine la fuga, a secco di vele, con un’onda che  s’incappella sulla poppa e spazza tutto il ponte. Si vedono gli uomini in ginocchio sul cassero che implorano la Vergine o qualche santo e, in effetti, il miracolo avviene. In un angolo del quadro il cielo tempestoso si rompe e tra i nembi appare la Vergine, circondata da nuvolette fioccose e dorate, con il Bambino Gesù in braccio,  che volge lo sguardo misericordioso sui marinai in pericolo. A mano a mano che la gente di mare si educa e impara a leggere, esige dal pittore di un ex-voto una fascia-legenda sotto il quadro come sui ritratti di navi. Lì, su quattro o cinque righe in scrittura nera su fondo chiaro, oppure viceversa, si può leggere il racconto del dramma, il nome della nave e dell’eroe dell’avventura, la data, le circostanze. Seguono ritualmente le quattro iniziali V.F.G.A. Votun Fecit, Gratiam Accepit (fece un voto, ricevette la grazia) oppure P.G.R. (Per Grazia Ricevuta). Questo era l’uso. Se nella produzione più antica l’autore del dipinto votivo marinaro è in genere ignoto, dalla metà dell’Ottocento l’ex-voto è per lo più eseguito da quegli artisti che vengono definiti “ritrattisti di navi”, le cui opere sono tendenzialmente firmate. Probabilmente la loro primaria attività era quella di disegnatori presso i Cantieri Navali e questo spiega l’abilità nella descrizione della nave, della dinamica dell’incidente, dell’attrezzatura velica.

Foto n.13 - Brigantino “BRICK” (cm.62,5x51) Secolo XIX. Pittore Domenico Gavarrone – Genova li 29 luglio 1870

“Grazia concessa da N.S. del Monte Allegro al Cap.no Filippo Valle in una tempesta sofferta il giorno 30 Gennaio 1869, nella Latitudine 49° 40’ N- Longitudine 09°35’ O, ed in riconoscenza di ciò questo quadro offre”.

Il Brick è un tipo di brigantino, molto diffuso in Liguria, con due alberi a vele quadre, randa e fiocchi. L’artista ha rappresentato il veliero che riesce a mantenersi alla cappa, con la prua al mare, dispiegando la trinchettina a prora e la bassa gabbia a poppavia. Anche l’alberatura, la velatura e le manovre sono dipinte con un tratto molto  nitido che rivelano la perfetta definizione delle caratteristiche del veliero, come soltanto un grande esperto disegnatore potrebbe eseguire. Il dipinto raffigura l’evento sofferto con drammaticità, colpi di mare in coperta e vento fortissimo che imbianca il mare di forza cinetica distruttiva. L’intercessione della Madonna è quindi uno spiraglio di luce che apre la via della salvezza. Domenico Gavarrone, genovese, è stato uno tra i più apprezzati e prolifici pittori di velieri dell’800 italiano e fu particolarmente attivo nel nostro capoluogo tra il 1845 ed il 1874. A quel tempo le sue opere avevano anche una funzione descrittiva, sia nell’ambito armatoriale, per la compravendita delle navi, sia propagandistica per i crescenti traffici migratori verso il “nuovo mondo”. La macchina fotografica era ai primordi e la pubblicità  dell’intero settore navale era affidata a questi maestri “marinisti”. Nella pinacoteca del Santuario di N.S. del Boschetto a Camogli, si trovano tredici quadri di Domenico Gavarrone. Ventisette dello stesso autore sono conservati presso il Museo Marinaro di Camogli.

Incendio e successivo Affondamento della nave passeggeri genovese “BIANCA C.”

Agli inizi della pittura ad olio fino al sec. XVIII, le città pullulavano di ritrattisti. E’ del tutto naturale che anche i marinai, così come si faceva a terra per le persone care, desiderassero fissare su una tela l’immagine della loro nave, vero essere vivente per coloro che le consacrano l’esistenza. In questi casi, il più delle volte, non si può parlare di opere d’arte, ma della rappresentazione pittorica di un sentimento sincero che  sale dal profondo e lega il marinaio alla propria nave e al mare. Della galleria degli ex-voto del Santuario di Montallegro, oggi abbiamo scelto la “drammatica scena” di una nave passeggeri in preda alle fiamme, che sicuramente non è opera di un artista, essendo la tela una chiara espressione di devozione semplice ed immediata, probabilmente eseguita in segno di ringraziamento da un marittimo scampato  all’incendio. L’omaggio votivo ci riporta ad un tragico evento che accadde il 23.10.1961  e che, per il precipitare degli avvenimenti, tenne in allarme tante famiglie rivierasche per alcuni giorni.

Foto n.14 - Santuario N.S. di Montallegro. Ex-Voto: “Naufragio Bianca C. – 22 ottobre 1961 – armatori ed equipaggio nel 20° anniversario – 22 ottobre 1981. Appoggiato sul quadro c’è l’immagine a colori del quadretto miracoloso.

“Si incendia ed affonda nel Mar dei Carabi, il transatlantico genovese “Bianca C.” di 18 mila tonnellate. Quasi settecento persone si pongono in salvo con un’operazione esemplare per ordine e tempestività. Ci sono purtroppo delle vittime, causate dal sinistro in sala macchine che ha anche provocato l’incendio: sono il secondo ufficiale di macchina Natale Rodizza, di 33 anni genovese, ed il marinaio fuochista 50enne Umbro Ferrari, spezzino”.

Foto n.15 - La T/n “Bianca C.” in uscita dal porto di Genova.

Dall’aprile del 1959 la bella unità era impegnata in viaggi di crociera nei Carabi. L’incendio esplose nella rada di St. George nell’isola di Grenada (Antille) durante la manovra di ancoraggio in rada. L’incendio fu causato da una violenta esplosione allo starter del motore di sinistra che investì la sottostante cassa del fuel oil.

Foto n.16 - La “Bianca C.” è in preda alle fiamme. Tutte le biscagline sono state messe fuori bordo per agevolare l’evacuazione dei passeggeri e dell’equipaggio.

Foto n.17 - Francesco Crevato, lambito dalle fiamme, dirige stoicamente le operazioni di salvataggio.

Il comandante del “Bianca C.” Francesco Crevato riuscì, con estrema freddezza e in meno di mezz’ora, a dirigere e coordinare l’operazione di salvataggio dei passeggeri e dell’equipaggio. Benedetto Pellerano di Rapallo, vent’anni di servizio sulle navi della “Costa Armatori”, era l’operatore cinematografico all’epoca del naufragio della nave. “L’incendio partì dalla sala macchine ed in breve tempo si propagò dappertutto. Io mi avviai, come da regolamento, nel locale CO2 dove erano installate le grosse bombole per la distribuzione del prodotto antincendio. Persi i sensi e mi risvegliai tra le braccia del marinaio Maddalena che sicuramente mi salvò la vita trascinandomi verso una lancia di salvataggio. Mentre ci allontanavamo dalla nave in fiamme e quindi dal pericolo, forse non mi crederà, ma non eravamo contenti, un pezzo della nostra vita era lì e se ne stava andando, mentre molti nostri compagni erano ancora in pericolo…Rivissi quella scena come un incubo per molti anni e ancora adesso, durante qualche notte insonne, mi ritrovo ancora là, ai Carabi, mentre mi allontano dalla Bianca C. Giunti a terra, ci fu una gara di solidarietà tra la gente del posto che quasi litigava per prelevarci e portarci al sicuro verso le loro case. Il nostro gruppetto, formato da sei persone, fu subito prelevato ed allontanato su un piccolo furgone ed avviato verso una strana altura. La nostra meraviglia fu completa quando ci trovammo davanti alla prigione coloniale che stavano evacuando per sistemarci alla buona. Fummo tranquillizzati… e poco dopo provvedemmo a tirarci su il morale a modo nostro, nel frattempo al gruppo si erano aggiunti i carcerieri e qualche malandrino…ci contammo e buttammo gli spaghetti a cuocere nei buglioli “penali”. Dopo tre giorni la M/n Surriento della “Lauro” ci riportò dalle nostre famiglie in Italia”.

Un Naufragio  A poche ore Dall’Arrivo A New York

Foto n.18 - Il brigantino a palo “Barone Podestà” comandanto dal Capitano camogliese Agostino de Gregori, in viaggio da Pensacola per S. Nazaire; con carico legno; il 10 settembre 1889, nel Golfo Stream a, 90 miglia da New York, dopo aver lottato due giorni con un furioso violentissimo fortunale da Est, soccombette per larga via d’acqua apertasi cagionandone la quasi totale immersione, e il rovesciamento, e quindi la rottura dell’alberatura rimanendo sopra le sartie di trinchetto privi di vitto, si venne salvati il, 13 detto, da un vapore pressoché sfiniti per i molti e inauditi patimenti sofferti. L’equipaggio riconoscente a N.S. del Monte per lo scampato pericolo questo quadro a perenne memoria dedica”.

Concludiamo questa rivisitazione nautico-devozionale  con la scelta di  questo pregiatissimo quadro che giganteggia per il suo forte realismo nella pinacoteca degli ex-voto del Santuario di N.S. di Montallegro.La dettagliata didascalia di questo drammatico naufragio, combacia alla perfezione con la descrizione pittorica di Angelo Arpe. Su questo percorso della devozione, che insieme abbiamo intrapreso  da oltre un mese, ci siamo imbattuti in storie drammatiche, vissute e sofferte dagli equipaggi ormai condannati ad essere inghiottiti negli abissi dell’oceano e poi salvati all’ultimo momento, dalla mano misericordiosa della S.S. Vergine. Noi ci siamo trovati in quei frangenti e, forse per questo motivo, ci capita di provare ancora oggi una forte emozione ed un’incredibile ammirazione per questi nostri fratelli marinai rivieraschi dell’800 che sono sopravvissuti  alle  furie scatenate della tempesta soltanto  per il loro immenso coraggio e l’incrollabile fede. L’evento rappresentato da A. Arpe è colto nel suo culmine drammatico, nel momento in cui il brigantino a palo Barone Podestà ha gli alberi di maestra e mezzana spezzati e si trovano ancora sottobordo. Le poche vele di manovra sono stracciate e quindi inservibili. Lo scafo, appesantito dai colpi di mare che hanno aperto una falla, è irrimediabilmente traversato alle onde che lo falciano, lo travolgono e lentamente lo distruggono. Il carico di legname stivato in coperta a causa dello sbandamento è scivolato in mare e galleggia tra  i flutti. In alto a sinistra il pensiero squarcia le nuvole che appaiono come i grani di un rosario. L’equipaggio, per fuggire alla morte imminente, ha soltanto una via di scampo: la corsa disperata per avvinghiarsi  alle griselle delle sartie semisommerse, che resistono appese all’ultimo albero piegato alla tempesta. Il veliero assume quindi la posizione sul fianco, tipica di un relitto in sospensione che non vuole affondare, è fortemente sbandato, tecnicamente si trova in equilibrio instabile; le sartie del brigantino, a causa del loro disegno strutturale inclinato, appaiono ora verticali sull’acqua, ed è proprio per questa fortunata coincidenza che l’equipaggio, con una forza fisica e d’animo che ha dell’incredibile,  resistono tre giorni senza mangiare e dormire sino all’arrivo di un vapore che li raccoglierà sfiniti, ma vivi. Sembra quasi un passaggio di consegna tra il vecchio veliero che affonda ed il nuovo motore che avanza spavaldo nella storia. Siamo per la verità nella fase centrale di questo passaggio epocale, in cui le navi a motore ed i velieri in circolazione si pareggiano in numero e tonnellaggio, ma la vela sta ancora dimostrando la sua superiore economicità. Ricordate la collisione nel canale della Tasmania del 1904 che  abbiamo raccontato in questa rubrica? In quella occasione fu un veliero di Camogli il “Fortunata Figari” a rimorchiare il vapore inglese “Conjee”, dopo aver  salvato i passeggeri e l’equipaggio. Angelo Arpe, forse il più noto tra gli autori liguri di dipinti devozionali ottocenteschi, nacque a Bonassola; della sua vita si ipotizza la data di nascita,1825. La morte si suppone sia avvenuta circa nel 1900. Fu attivo a Genova nel corso della seconda metà dell’Ottocento. Arpe conosceva le attrezzature di bordo come un consumato nostromo e disegnava i velieri con un tratto nitido e sapiente, ma ciò che lo rese più famoso fu la sua sensibile interpretazione degli umori variabili del mare. Con ogni probabilità fece parte egli stesso del mondo marinaro durante l’epopea della vela. La sua lunga produzione pittorica inizia con un  dipinto firmato e datato 1857, dove il tratto rivela incertezza e inesperienza, e termina con una tela firmata e datata 1896, che presenta i caratteri stilistici della sua compiuta maturità artistica. Le opere di Angelo Arpe sono considerate le più importanti del genere. Operò attivamente a Genova, dipinse numerose tele che si trovano come ex-voto in molte chiese e santuari della Liguria; i suoi dipinti sono conservati anche nel santuario di N.S. del Boschetto di Camogli, nel Museo Navale di Genova Pegli e nel Museo “Gio Bono Ferrari” di Camogli.

Qualcuno disse: “Quanta fede su quei muri!”

Carlo GATTI

Rapallo, 18.05.11


Rapallo: Il TRATTATO Italo-Jugoslavo

IL TRATTATO ITALO-JUGOSLAVO

(Rapallo, 12 Novembre 1920)

A cura di Pier Luigi Benatti - Emilio Carta

Per indurre l'Italia ad entrare in guerra contro gli Imperi Centrali, Gran Bretagna, Francia e Russia promisero con il Trattato di Londra (26 aprile 1915), oltre alla sistemazione di alcune pendenze coloniali  l'Alto Adige, Trieste e tutta l'Istria nonché buona parte della Dalmazia e della Carniola a popolazione prevalentemente slovena e croata (Fiume veniva invece assegnata come porto alla Croazia).

Villa Spinola, in località San Michele di Pagana,
 dove il 12 novembre 1920 venne firmato il
trattato fra l'Italia e la Jugoslavia

Il trattato di Londra si basava su una concezione della diplomazia rimasta ai tempi di Napoleone (quando si spostavano a piacimenti i popoli, salvo restando i diritti divini dei principi) e quindi come poteva conservare la sua validità nel 1918?

Il multiforme impero Austro-Ungarico si era disgregato, gli slavi del sud (serbi, croati, sloveni, montenegrini) cercavano faticosamente di costituirsi in nazione, il presidente Wilson aveva proclamato il principio dell'autodeterminazione dei popoli e della diplomazia aperta. 
Alla Conferenza di Pace di Parigi (18 gennaio 1919) esplose quindi il dissidio tra gli italiani Orlando e Sonnino e il presidente americano; questi non accettava l'annessione italiana di Fiume e della Dalmazia e di una piccola parte dell'Istria.

Anche a causa di incomprensioni personali tra le parti non si riuscì a trovare un compromesso, cosicché Orlando e Sonnino abbandonarono la conferenza (24 aprile 1919).
 I dissidi interni e l'instabilità politica dei due governi, disordini a Fiume provocati dalle truppe italiane e soprattutto l'occupazione della città da parte di D'Annunzio acuirono sempre più il dissidio; soltanto nel maggio del '20 Nitti iniziò il riavvicinamento italo-jugoslavo, che fu poi portato a buon fine dall'ultimo governo Giolitti. Dopo accurate trattative e la mediazione franco-inglese, convennero a Rapallo Trumbic, Vesnic, Sforza e Bonomi (a trattative concluse giunse anche Giolitti); l'accordo finale non fu facile, e solo la sincera e sofferta dichiarazione di Sforza di essere disposto a sacrificare ogni sua popolarità e posizione personale ad una soluzione giusta ed equa purché Trumbic facesse altrettanto, ci ottenne Zara.


Il momento della storica firma di Giolitti
 del trattato italo-jugoslavo di Villa Spinola alla 
presenza del Presidente del Consiglio jugoslavo 
Milenko Vesnic (al centro)

Il trattato dava all'Italia tutta l'Istria sino allo spartiacque, Zara e qualche isola del Quarnero, facendo di Fiume uno stato indipendente; si davano garanzie per gli altri pochi italiani di Dalmazia.
 L'accordo mirava saggiamente non a strappare qualche lembo di terra ma fondare una stabile amicizia italo-jugoslava, a stabilire una collaborazione economica che ci avrebbe aperto il mercato dei Balcani ed eventualmente ad impedire una nuova spinta germanica verso sud. Eventi successivi annullarono rapidamente lo spirito e la pratica del trattato ma non totalmente.
 Siglato nelle ovattate sale di Villa Spinola, a San Michele di Pagana, l'accordo prevede per la città di Fiume lo 'status' di città autonoma mentre vengono assegnate all'Italia Zara e l'Istria.

Quella rapallese fa capo alla nuova regolamentazione dei confini fra Italia e Jugoslavia (il nuovo Stato sorto sulle rovine dell'Impero Austro Ungarico), una questione postbellica alquanto spinosa, mentre a Sanremo, nelle sale del castello Devechan, si discute fra gli Alleati l'ammontare delle indennità dovute dai vinti ai vincitori.
 Gabriele D'Annunzio, scrittore e poeta oltre che uomo d'azione di grande carisma, non riconosce però il patto di Rapallo e si rifiuta di sgomberare la città come ordinatogli dal generale Caviglia.
 Alla fine D'Annunzio cede all'intimazione passando i poteri ad un governo provvisorio ma solo dopo la minaccia del generale italiano di bombardare Fiume. A Rapallo le due delegazioni giungono il 7 novembre e, mentre quella italiana viene ospitata a New Casino Hotel (oggi Excelsior Palace Hotel),gli jugoslavi prendono alloggio all'Hotel Imperiale. Per l'Italia sono presenti il ministro degli Esteri Carlo Sforza e quello della guerra, Bonomi, il senatore Salata, il Capo di Stato Maggiore della Marina ammiraglio Acton e il generale Badoglio. Manca il Presidente del Consiglio Giolitti trattenuto a Roma da impegni di governo, ma é solo un contrattempo. Egli sarà, infatti, a Rapallo alcuni giorni dopo per la firma del Trattato.

La delegazione jugoslava è invece guidata dal Presidente del Consiglio Vesnic, accompagnato dal ministro degli Esteri Trumbic e da quello alle Finanze, Stojanovic.
 A Villa Spinola (poi Pesenti) i lavori per definire le questioni Fiume e Dalmazia iniziano l'8 novembre e proseguono senza sosta intervallati da una breve visita di saluto alla delegazione italiana del sindaco di Rapallo, Lorenzo Ricci, accompagnato dai colleghi di giunta e dal consigliere provinciale Bontà.
 La villa, in cotto, di stile inglese, era stata costruita ail'inizio del Novecento dal marchese Ugo Spinola ed ospitò più volte membri di Casa Savoia. Devastata dalle occupazioni militari successive all'8 settembre 1943, sarà ceduta, dopo l'ultima guerra, al duca Nicolino De Ferrari che la rimise in pristino, sostituendo al sommo del grande cancello il proprio stemma a quello degli Spinola. La villa è in territorio rapallese.

Il  Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti
 assieme ai Ministri Sforza, Bonomi
 e al Generale Badoglio

Foto di gruppo per i delegati italiani presenti
 alla conferenza italo-jugoslava

Il Trattato venne siglato il 12 novembre 1920 alle 23.45 e con esso vennero attribuite all'Italia: Zara e le Isole di Cherso, Lussino, Lagosta e Pelagosa, mentre le altre isole e la Dalmazia restarono al nuovo Regno di Jugoslavia con la 'coda' polemica della città di Fiume, con reazioni anche violente dopo essere stata dichiarata: 'Stato Libero'. La ratifica jugoslava del Trattato di Rapallo porta la data del 22 novembre, quella italiana del 2 febbraio 1921.



La delegazione italiana, alloggiata al New Casino Hotel (nella foto) era guidata dal Ministro della guerra Bonomi,dall'Ammiraglio Acton e dal Generale Badoglio.
Quella jugoslava, ospitata all'Imperial Palace Hotel, comprendeva il Presidente del Consiglio Vesnic ed i Ministri Trumbic e Stojanovic

Il 10 aprile 1922 in occasione della Conferenza di Genova, i ministri italiani Facta e Schanzer si incontrarono a Rapallo con gli jugoslavi Vasic e Nincic per risolvere alcune questioni relative all'applicazione del trattato.
E' curiosa la polemica di carattere strettamente locale che, per diversi anni, fece capo all'esatta ubicazione geografica del Trattato Italo-Jugoslavo.

Alcuni giornali dell'epoca individuarono la sede dello storico incontro in Santa Margherita Ligure con la protesta delle autorità politiche rapallesi delle quali si fece portavoce anche un periodico locale, 'Il Mare'.
 Per la tranquillità dei rapallesi il conte Sforza il 13 novembre, al momento di lasciare la cittadina rivierasca, rassicurò il sindaco Ricci confermandogli che l'accordo avrebbe preso il nome di 'Trattato di Rapallo', un'affermazione poi supportata dall'invio di una copia dello storico documento con lettera autografa datata
 17 novembre 1920.
 Non fu il solo segno di apprezzamento: il Presidente del Consiglio jugoslavo Vesnic inviò infatti una lettera di ringraziamento al Sindaco per l'accoglienza ricevuta assieme ad un'offerta di 2.500 lire da destinare in beneficenza.


Rapallo, 5.4.2011


Rapallo: Il CONVEGNO Interalleato

IL CONVEGNO INTERALLEATO

(Rapallo, 6-7 Novembre 1917)

A cura di Pier Luigi Benatti - Emilio Carta

Sfruttando nel migliore dei modi i vantaggi della posizione centrale, Germania, e Austria Ungheria avevano successivamente eliminato dalla guerra la Serbia, la Romania, la Russia, e solo la disperata resistenza italiana sulla linea del Piave salvò l'Italia dalla rovina. La nostra sconfitta di Caporetto ebbe come conseguenza la riunione degli uomini di Stato Alleati (esclusi i russi) a Rapallo, non tanto per organizzare gli aiuti all'Italia quanto per riuscire a coordinare ed a stabilire una strategia comune.

Anche i generali stavolta si convinsero che occorreva abbandonare le considerazioni di prestigio e di vanità per riunire gli sforzi, e fu creato così il Consiglio Supremo di Guerra: i Primi Ministri d'Inghilterra, Francia e Italia, affiancati dai rispettivi rappresentanti militari (generali Wilson, Weygand, Cadorna) si sarebbero incontrati regolarmente a Versailles assieme al colonnello House che rappresentava il presidente americano Wilson.

Il New Kursaal Hotel, sede del Convegno

Naturalmente il Consiglio non aveva potere esecutivo, perché ciò avrebbe eliminato l'indispensabile controllo della politica sulla strategia e ciò limitò la sua efficacia dal punto di vista strettamente militare; permise però al generale Foch , che presiedeva la commissione militare, di tenere in pugno le riserve per usarle al momento più adatto, fatto, questo, che si rivelò determinante per bloccare le offensive tedesche dell'estate 1918.
Forse non è azzardato ritenere che il buon funzionamento dello Stato Maggiore Unificato angloamericano, che nella seconda Guerra Mondiale prese così importanti decisioni strategiche e guidò su vari continenti eserciti di dimensioni mai viste, sia disceso in piccola parte dall'esperienza conseguente al Convegno di Rapallo.

Il 24 ottobre 1917 col disastro di Caporetto l'Italia tocca il fondo della sua avventura bellica. Le truppe austriache, coadiuvate da quelle tedesche, sfondano la linea di difesa italiana ed avanzano verso la pianura padana.
Attestate lungo il fiume Piave le forze italiane organizzano una provvisoria resistenza mentre la rotta di Caporetto fa comprendere agli Alleati che è il momento di collaborare più strettamente.

A Rapallo il 6 e 7 novembre successivi si tiene così un summit che determinerà, come detto, la nascita del Consiglio Supremo della guerra.
Alla stazione ferroviaria della località climatica ligure giungono così le più prestigiose personalità politiche e militari italiane, francesi e inglesi che si trasferiscono nelle sale del Kursaal New Casino, sede del convegno teso ad una ricerca di una nuova e più unitaria direzione delle forze alleate.
Per l'Italia sono presenti il neo presidente del Consiglio V.E. Orlando, il ministro degli Esteri, Sonnino, i generali Alfieri, ministro della Guerra, e Porro mentre la delegazione francese è composta dal presidente del Consiglio Painlevé, dal ministro H. FranklinBouillon, dall'ambasciatore a Roma Barrère e dai generali Foch, Weygand e Dedondrecourt.

L'Inghilterra partecipa invece con il primo ministro Lloyd George ed i generali Smuts, Robertson e Wilson.
Il Convegno conferma la volontà, già espressa ufficiosamente attraverso i canali diplomatici, di assicurare particolari aiuti all'Italia e la nomina di un Consiglio Supremo Alleato, ma determina anche il siluramento del generale Cadorna - designato rappresentante dell'Italia a tale Consiglio - col passaggio del generale Armando Diaz a Capo di Stato Maggiore.
Lo storico Alberto Lumbroso rivela infatti che l'allontanamento del generale Cadorna venne deciso proprio a Rapallo dai generali alleati Foch e Robertson con il parere favorevole di Barrère e Wilson. La scelta di Rapallo quale sede del con vegno fu dettata da motivi di conve nienza prettamente politica.

Il Presidente del Consiglio 
On. Vittorio Emanuele Orlando

Sempre secondo il Lumbroso inizialmente e’ stato indicato il Veneto, un'idea scartata per evitare a ministri e generali la visione di sfascio e di disordine in cui si trovava in quel momento l'esercito. Vittorio Emanuele Orlando scartò anche Milano per evitare la curiosità della stampa. Alla fine venne deciso il summit nella più tranquilla e riservata cittadina rivierasca.
La sera del 4 novembre a Rapallo si incontrarono fra loro i rappresentanti francesi e inglesi che espressero il desiderio di veder giubilato il generale Cadorna, suggerendone la sostituzione con il Duca d'Aosta.

Il Primo Ministro inglese Lloyd George (a sinistra)

L'assenza di Cadorna - che telegrafò a VE. Orlando di non volersi allontanare dal fronte per stare vicino ai suoi soldati gli fu fatale.
 Allorché V.E. Orlando partì da Rapallo era convinto di poter lasciare Cadorna al suo posto ma il Consiglio dei Ministri fu di tutt'altro avviso. Quando si trattò di scegliere il suo sostituto ogni ministro presentò un proprio  candidato ma alla fine prevalse il parere del generale Alfieri che indicò nel generale Armando Diaz, comandante del XII Corpo d'Armata, perfettamente ignoto ai più, l'uomo della provvidenza. E tale scelta non poteva rivelarsi più felice.

A guerra conclusa sulla facciata del palazzo municipale, a ricordo dello storico convegno, viene posta una targa marmorea. 
'Su questo lembo della ligure sponda le Nazioni alleate nel novembre 1917 sancirono il patto che diede all'Italia l'audacia e la forza donde fiorì il prodigio della vittoria più grande che negli annali del mondo collo stilo d'acciaio ebbe scritto la storia'.
 La targa venne distrutta nel settembre del 1922 dalle squadre fasciste e solo nel 1967 il ricordo dello storico convegno del 6-7 novembre 1917 venne riproposto con un altro marmo nell'atrio del nostro palazzo municipale, assieme a quello dei due Trattati legati al nome di Rapallo.


Rapallo, 04.04.11


LA CRISI DI CUBA vista da un giovane rapallese

LA CRISI DI CUBA INIZIO’ IL 15 OTTOBRE 1962

DURO’ PER TREDICI GIORNI

Testimonianza di un "anonimo" giovane rapallese

Dipende forse da un riflesso condizionato, ma ogni volta che Mosca alza la cresta e minaccia un riarmo nucleare “aggiornato”, il nostro pensiero corre alla Crisi di Cuba del 1962 e ai rischi di olocausto nucleare che in quei giorni minacciò il mondo intero. Crediamo pertanto sia utile ripresentarla ai lettori, soprattutto come effetto “vaccino” per le nuove generazioni.

La cronistoria

Fin dal 1898. Data della sua indipendenza, Cuba era stato un Paese tradizionalmente legato agli Stati Uniti. Ma i rapporti tra i due Stati peggiorarono sino alla definitiva rottura dopo la vittoria di Fidel Castro nella Rivoluzione Cubana del 1959. Un nuovo regime di stampo filo sovietico si era instaurato a poche decine di miglia dalla Florida; questo avvenimento di vastissima portata geopolitica tolse il sonno alla maggior parte degli americani.

Già all’inizio del 1961. L’allora presidente D. Eisenhower aveva interrotto i rapporti diplomatici con il nuovo Stato e lo aveva escluso dall’OEA (Organizzazione degli Stati Americani). Il suo successore, John Fitzgerald Kennedy, arrivò addirittura ad approvare un piano d’invasione dell’isola addestrando e confidando sul supporto degli esuli cubani.

Il 17 aprile 1961. Avvenne lo sbarco delle armate anti-castriste in un punto dell’isola noto come Baia dei Porci. L’operazione si rivelò però un fallimento e Cuba, vistasi minacciata, si rivolse a Mosca e concordò l’installazione di alcune batterie di missili sul proprio territorio.

Nel maggio del 1962. Con una sfida davvero temeraria, il Cremlino concepì l’operazione “Anadyr” e inviò a Cuba, via mare, 50.000 soldati e materiale missilistico.

Con questa mossa spregiudicata, Nikita Kruscev intendeva dimostrare il suo impegno nella difesa dell’alleato caraibico e astutamente guadagnava posizioni strategiche, mostrando i muscoli sia agli Stati Uniti che alla Cina.

Nelle ore più drammatiche di quei tredici giorni che fecero tremare il mondo, un giovane rapallese che preferisce mantenere l’anonimato si trovava in servizio, come tecnico elettronico della NATO, sul ponte di comando della portaerei americana FORRESTAL nel porto di Napoli.

“A distanza di molti anni, quando ormai sono state raccontate tutte le fasi più o meno drammatiche di quei tredici giorni, rimango ancora sorpreso del fatto che si ometta di parlare di un dato obiettivo di cui sono stato testimone.

Durante la Crisi di Cuba, il resto del mondo (compreso i sovietici) non era a conoscenza che gli americani avevano in orbita satelliti spia, capaci di vedere e analizzare un “centimetro qualsiasi” del globo terracqueo, pertanto, i media di tutto il mondo parlarono della superiorità tecnologica degli aerei spia americani U-2, che vennero indicati come gli artefici della identificazione di postazioni missilistiche sovietiche a Cuba. La verità, come ho accennato, fu ben diversa e fece parte di un capitolo militare segreto, che fu dovutamente criptato per molte di decine di anni.

Per ragioni di lavoro, sono stato testimone dei risultati eccezionali forniti da quelle rivoluzionarie tecnologie. Quei nuovi tipi di satelliti geo-stazionari lanciati nello spazio producevano migliaia di foto che piovevano in continuazione sul Pentagono, su i vari Dipartimenti Militari e poi rimbalzavano sui monitors dei Comandi asserviti come quello della portaerei Forrestal, dove io mi trovavo. Sono sempre stato un appassionato di elettronica e capivo perfettamente di vivere un importantissimo avvenimento storico, del quale potevo gustare veramente l’esclusiva. Peccato che non capivo altrettanto bene la loro lingua in codice, ma vi assicuro che i dialoghi concitatissimi delle più alte sfere politico-militari di quel tempo li ho ancora negli orecchi.

Detto questo, sono tuttora convinto che soltanto l’altissima tecnologia satellitare abbia permesso ai politici americani ed ai loro Stati Maggiori di entrare con la dovuta consapevolezza in quel pericoloso scenario, consentendogli di giocare d’anticipo con i Sovietici, usando pertanto la dovuta e controllata determinazione.

Era necessario arrivare alla fase finale della trattativa con i nervi calibrati al punto giusto, per evitare che i “falchi” prevalessero con tesi emotive, guerrafondaie e poco sedimentate nella diplomazia e nel buon senso.

Fin dall’inizio, quindi, le fotografie fornite dai satelliti permisero agli americani di monitorare e analizzare tutte le mosse sovietiche, di studiarne le contromosse e prevenirne le tragiche conclusioni. Ciò che, sicuramente, gli Americani non previdero fu l’estrema sfrontatezza di Kruscev.

Veduta aerea del sito missilistico a Cuba nell’ottobre del 1962

 

Il 30 agosto. Gli americani tenendo ben segrete le fonti satellitari, diffusero le fotografie di una nuova serie di postazioni missilistiche SAM, riprese da un U-2.

Il 4 settembre. Kennedy disse al Congresso, che non c’erano missili “offensivi” a Cuba.

8 settembre. Durante la notte, la prima consegna di MRBM SS-4 Sandal fu scaricata a l’Avana.

Il 16 settembre. Un secondo carico approdò all’isola.

I sovietici stavano costruendo nove siti: sei per gli SS-4 e tre per gli SS-5 Skean a più lungo raggio (fino a 3500 km), l’arsenale pianificato era di quaranta rampe di lancio. Gli MRBM avevano una gittata di circa 1.600 km e potevano minacciare Washington e circa metà delle basi SAC (Strategic Air Command) statunitensi, con un tempo di volo inferiore ai venti minuti.

Novembre 1962. Veduta aerea del sito missilistico di Cuba

Il 19 ottobre. I voli degli U-2 mostrarono che quattro postazioni erano operative.

Il 14 e il 15 ottobre. I rilievi fotografici effettuati da due aerei spia U-2 americani confermarono la presenza d’alcuni missili nucleari sovietici a medio raggio e la costruzione in atto dei relativi sistemi di lancio sull’isola di Cuba. Si trattava di una postazione degli SS-4 vicino San Cristobal.

Il 16 ottobre. Un gruppo di stretti collaboratori del presidente Kennedy si riunì in una seduta speciale Per discutere Il Blocco Navale di Cuba.

Facevano parte di questo gruppo il segretario di Stato Dean Rusk, il segretario della Difesa Robert McNamara, il direttore della CIA John McCone, Robert Kennedy ed un ristretto numero di consulenti politici, militari e diplomatici.

La situazione da affrontare era tra le più difficili e delicate della storia moderna: quale via diplomatica era la migliore per fermare il pericolo di quei missili, con un raggio d’azione superiore ai duemila chilometri?

D’improvviso, quasi l’intero territorio americano rischiava di trovarsi sotto l’effettiva minaccia di apparati missilistici nemici.

l’URSS, con poche e riuscite mosse, aveva acquisito un enorme potenziale di pressione nell’ambito della sfida tra le due potenze.

Gli Stati Uniti dovevano affrontare quello che sarebbe passato alla storia come il picco più alto della tensione durante la Guerra Fredda: una pesante CRISI diplomatica tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica.

In quei giorni, due uomini avevano in pugno il destino della Terra: John Fitzgerald Kennedy e Nikita Sergeevich Kruscev. Ognuno di questi due potentissimi Capi di Stato avrebbe potuto, in quell’ottobre di 45 anni fa, dare inizio alla Terza Guerra Mondiale, che sarebbe stata la più pericolosa dell’intera storia dell’umanità, perché non era mai accaduto prima che due nazioni stessero per usare “Armi Nucleari” capaci d’incenerire una dozzina di volte il pianeta.

Soltanto il 22 ottobre. Dopo giorni di tensione internazionale, tra minacce d’intervento militare ed inutili tentativi di mediazione da parte dell’ONU, il Presidente degli Stati Uniti pronunciò un discorso alla nazione, in parallelo ad un ricorso presentato alle Nazioni Unite.

J.F. Kennedy decretò il blocco navale dell’isola, fissato a 500 miglia nautiche da Cuba, chiedendo contemporaneamente lo smantellamento delle basi missilistiche.

Il mondo venne ufficialmente a conoscenza di una possibile e imminente catastrofe nucleare.

Il cargo sovietico POLTAVA in rotta verso Cuba. I missili sono visibili in coperta. Kennedy decise di rendere pubbliche queste foto per raccogliere il maggior consenso popolare possibile.

Se le unità sovietiche avessero provato a forzare il blocco, il conflitto armato tra le due superpotenze sarebbe drammaticamente ed immediatamente cominciato.

Mercoledì 24 ottobre. La “quarantena” entrò in vigore. Lo stesso giorno Kruscev ordinò alle navi sovietiche di non forzare il blocco per nessun motivo.

La tensione raggiunse l’apice, quando si sparse la notizia che diciotto navi da carico sovietiche stavano dirigendo verso la zona protetta e la marina americana era allertata per il loro affondamento.

A questo punto ci fu, per fortuna dell’umanità, una provvidenziale inversione di tendenza: sedici delle diciotto navi russe avevano cambiato rotta. Il giorno dopo tutte le navi sovietiche erano lontane dalla zona del blocco.

Il pericolo era scampato. Il buon senso delle “colombe” aveva prevalso sui temibili “falchi” presenti in entrambi gli schieramenti.

In una lettera privata, Kruscev s’impegnò con Kennedy a rimuovere i missili già piazzati a Cuba;

in cambio richiese la dichiarazione pubblica di Kennedy che gli Stati Uniti non avrebbero mai invaso l’isola, né appoggiato altri tentativi d’invasione.

Giovedì 25 ottobre. Radio-Mosca trasmise una seconda lettera di Kruscev, nella quale il ritiro dei missili di Cuba era però condizionato alla rinuncia americana ai suoi missili Jupiter installati in Turchia.

Era il 28 ottobre. La crisi poteva dirsi terminata.

QUARANTACINQUE ANNI DOPO….

Secondo il materiale e le testimonianze pubblicate in questi ultimi anni in Russia e raccolte dal settimanale OGGI, il 27 ottobre 1962, con l’abbattimento (mai denunciato all’opinione pubblica) sui cieli di Cuba di un aereo spia americano, si verificò un episodio gravissimo nell’intera vicenda:

l’intercettazione di un sottomarino sovietico

a nord dell’isola che cercava di forzare l’accerchiamento americano di Cuba.

In quella terribile fase che stava per diventare una diabolica corrida tra le navi e gli aerei americani contro i sottomarini atomici sovietici, le forze della US Navy reagirono immediatamente con lanci di bombe di profondità che costrinsero il sottomarino ad emergere ed a comunicare che stava invertendo la rotta.

Secondo fonti storiche sovietiche, i sottomarini sovietici erano quattro ed appartenevano alla 69° Brigata della Flotta del Nord, contrassegnati dalla lettera B e dai numeri 4-36-59-130.

Ognuno dei mezzi era dotato di un missile con testata nucleare.

Gli attimi più difficili li vivemmo nelle acque delle Bahamas –dichiarò Vitalj Agafonov ex-comandante della Brigata dei sommergibili russi nella Campagna di Cuba - quando i nostri sottomarini penetrarono aldilà delle cinque linee americane di sbarramento, superando la soglia limite del blocco anticubano. Fummo circondati da sette navi americane che ci rinchiusero in un anello di ferro. Loro ci mitragliavano dagli aerei che volavano a bassissima quota. Nella zona più difficile finì il B-59, del capitano V.Savitzkij”.

Quello che accadde in quei momenti drammatici della mattina del 27 ottobre a bordo del B-59 è raccontato dall’ufficiale Orlov:

Dentro il sottomarino faceva un caldo infernale 40-50 gradi, in taluni punti anche 60°. Il contenuto di ossigeno era su valori ritenuti già pericolosi. Un marinaio di guardia cadde per terra perdendo i sensi: altri lo seguirono. Stavamo tentando di sfuggire dall’attacco di un incrociatore americano. La fuga continuò per quasi quattro ore. Improvvisamente, gli americani fecero esplodere una bomba vicino a noi.

Tutti pensarono: ecco la nostra morte.

Savistkij, che era al comando della nostra nave, non riuscì a contattare il comandante della nostra Marina. Dopo l’attacco di bombe di profondità, diventò furioso e chiamò l’ufficiale responsabile del missile a testata nucleare e gli ordinò di tenerlo pronto per il lancio.

– Può darsi che siamo già in guerra contro gli Stati Uniti, mentre noi qua stiamo facendo solo chiacchiere –

Gridò, motivando l’ordine di colpire l’America.

- “Adesso siamo pronti a colpirli. Forse noi moriremo, ma li affonderemo tutti quanti, così non copriremo di vergogna la Flotta Sovietica” –

Per fortuna, il comandante riuscì a controllare la sua rabbia e dopo un animato consulto con altri comandanti decise di affiorare…..

Occorre a questo punto fare attenzione alle ultime parole in corsivo: nascondono l’episodio chiave della storia del mondo. Per far partire il siluro nucleare contro l’incrociatore americano BEAGLE e innescare la terza guerra mondiale, sarebbe bastata al comandante l’approvazione dei suoi due vice comandanti. Per il lancio servivano tre “SI”. Per fortuna dell’umanità Arkhipov fu deciso e disse:

“Niet – Non lo lanciamo!”

Un voto contro due. Il B-59 emerse e si arrese. E la terra continuò a girare e le notti a seguire i giorni.

Il capitano di Fregata Arkhipov è stato l’unico dei tre ufficiali a non perdere il controllo della situazione. Il senso della realtà aveva evitato l’olocausto nucleare.

Purtroppo, soltanto da qualche anno si è saputo, con profonda amarezza, che Arkhipov fu arrestato al rientro in patria dai suoi stessi connazionali e poco dopo morì.

La portaerei USS Enterprise (CVN-65) fu la prima portaerei nucleare della storia. Ancora oggi è la portaerei più lunga del mondo, mentre è stata superata per tonnellaggio dalle navi della classe Nimitz.

- il 22 ottobre 1962: il presidente J.F.Kennedy annunciò pubblicamente che erano state scoperte delle basi di missili nucleari sovietici nell’isola di Cuba. La Enterprise entrò in azione appoggiata dalle portaerei Essex, Indipendente, Oriskany e Randolph.

- il 25 ottobre 1962: fu fermata la prima nave sovietica.

- il 28 ottobre 1962: il presidente Nikita Kruscev accettò di ritirare i missili da Cuba.

Con la fine della Guerra Fredda, molti Paesi conobbero la democrazia, ma cessò anche quell’equilibrio stabile tra le due superpotenze che aveva permesso il controllo del mondo in zone d’influenza.

Oggi si vive una fase di transizione out control e si assiste, purtroppo, alla proliferazione nucleare d’alcuni Stati come il Pakistan, la Corea del Nord e l’Iran, considerati a rischio perché guidati da leaders sostenuti da fazioni fanatiche, alle quali potrebbero un giorno dover pagare un conto molto salato!

In questi giorni, non a caso, si parla nel mondo di utopia del disarmo e proprio su questo punto occorrerà che i potenti della terra riflettano con molta lucidità, perché vi è un lato della scienza scientifico-militare che lascia, ora più che mai, esigui spazi alla sicurezza della umanità.

Carlo GATTI

Rapallo, 02.04.11

 


La bella Rapallo

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Rapallo: L'Agonia della carretta LOCARNO

L'AGONIA DELLA LOCARNO

di  Emilio CARTA

Rapallo. Sono ancora tanti i “rapallini” che ricordano il 5 gennaio 1961. «Quel “maledetto” cinque gennaio millenovecentosessantuno - precisano marinai e pescatori del borgo - quando, a causa di una fortissima libecciata, quel piccolo mercantile di 3.897 tonnellate, il Locarno, come una balena ferita a morte, si incagliò sulla scogliera del litorale rapallese».

A provocare tanto sconquasso non c’era il mitico comandante Achab ma, più prosaicamente, un capitano di lungo corso, il quarantenne Vittorio Sallustro da Torre del Greco, che rivisse chissà quante volte, come in un incubo, quella notte di tregenda. A bordo, con lui, c’erano ventidue uomini di equipaggio, molti dei quali genovesi, ed un abissino.

L’ennesima tragedia del mare, che per fortuna non fece vittime, portò il nome della cittadina rapallese sulle prime pagine e sugli schermi di mezzo mondo e venne accompagnata da una serie di iniziative umanitarie e promozionali che oggi, probabilmente - non dimentichiamo che all’epoca correva l’anno 1961 - farebbero sorridere.

«Riuscii a filmare i momenti più drammatici della nave in preda alla tempesta con una piccola cinepresa ad otto millimetri - racconta il rapallese Mauro Mancini - Ricordo come fosse oggi che qualche settimana più tardi, i negozi di souvenirs avevano già in vendita le cartoline illustrate che mostravano il Locarno in mille pose, come una fotomodella, con la prua che sbatteva sulla scogliera del lungomare Vittorio Veneto».

«Fu ancor più simpatica l’iniziativa dei vigili urbani rapallesi - aggiunge Mancini - I “cantunè” offrirono all’equipaggio i pandolci e lo spumante che avevano avuto in dono dagli automobilisti rapallesi per la caratteristica “Befana dei vigili”, un’usanza che in quegli anni si ripeteva un po’ dappertutto».

Il cargo, battente bandiera panamense, era giunto nel porto di Genova il 20 dicembre proveniente da Lubecca e, dopo aver ormeggiato al molo Rubattino, sotto l’occhio vigile della Lanterna, aveva scaricato seimila tonnellate di lingotti di ferro.

Per l’equipaggio, insomma, era stato un Natale sereno, con la veglia di mezzanotte in cattedrale ed i piedi ben piantati sotto la tavola, come tradizione vuole, per tutte le feste comandate.

Il cinque gennaio la nave aveva però lasciato molo Rubattino ed era ripartita con le stive vuote ma con i gavoni di prua e di poppa pieni d’acqua per zavorrare e stabilizzare il mercantile, diretto verso Follonica, in Toscana, per caricare minerale ferroso da trasferire in Germania.

Ma a quell’approdo il Locarno non arrivò mai perché la sua odissea, iniziata davanti al Monte di Portofino, si concluse proprio nelle acque del golfo Tigullio.

Alle dieci del mattino, infatti, il cargo venne avvistato al traverso di Santa Margherita Ligure, a circa un miglio dalla terraferma, dando l’impressione di essere in difficoltà.

Alle sedici il mercantile, lungo centoquattordici metri ed appartenente alla società marittima genovese “San Rocco”, arrivò davanti a Rapallo, all’altezza dell’Excel-sior Palace Hotel. Era ormai in uno stato di ingovernabilità che agli occhi esperti dei marinai - che da terra ne seguivano “a vista” la navigazione - appariva sempre più chiaro.

Il mare lo spingeva alla deriva e, per di più, a causa della forza del mare e del vento, le ancore aravano il fondo sabbioso, senza frenare a sufficienza quella folle corsa verso gli scogli, mentre da bordo gli uomini erano in trepida attesa dell’arrivo dei rimorchiatori.

Alle sedici e trenta il cargo era ormai a meno di trenta metri dal castello sul mare, mentre mezz’ora più tardi la nave si spostò leggermente verso ponente, a nemmeno cinquanta metri dalla balaustra in ferro della passeggiata a mare.

La situazione a quel punto precipitò e la lenta agonia della nave giunse al culmine: la distanza dagli scogli diminuiva progressivamente a venti metri, poi a dieci, a sette, a cinque. Il mercantile infine si coricò leggermente sul fondo sabbioso arenandosi con la prua - alta fuori dell’onda quanto una casa di tre piani - sui macigni posti a protezione del lungomare.

«Fu una scena infernale alla quale assistettero migliaia di persone assiepate sull’asfalto della passeggiata a mare - ricordava anni dopo il rapallese Andrea Pietracaprina - Intanto, a bordo del Locarno, gli uomini d’equipaggio, flagellati dal vento e dalle onde che spazzavano il ponte, apparivano e scomparivano da una parte all’altra della coperta, riconoscibili solo dal luccichio degli impermeabili, per cercare di porre rimedio ad una situazione che appariva ormai senza speranza».

Alcuni rimorchiatori, provenienti dallo spezzino e da Genova non riuscirono ad agganciare lo scafo prima che la situazione precipitasse definitivamente e, per il Locarno, fu la fine.

Alle diciannove e venti i vigili del fuoco genovesi, alla luce di potenti fari, provarono con successo a sparare una sagola a bordo: ad essa, avvolto in un sacchetto di plastica, venne legato un messaggio con la richiesta di conoscere le condizioni dell’equipaggio. Da bordo utilizzando lo stesso mezzo, il comandante rispose che non vi erano feriti.

«Era impossibile comunicare “a vista” anche se vi provarono ripetutamente con i megafoni - raccontava alcuni anni dopo il barcaiolo rapallese Vittorio Pietracaprina - Il frastuono delle onde e del vento, unito allo sfregamento delle lamiere della nave sugli scogli rendeva vano ogni tentativo. Rammento che prima del lancio della sagola a bordo, un radiotelegrafista, da terra, utilizzò il clacson di un’auto appositamente posizionata a poca distanza dal moletto normalmente riservato ai battelli turistici. Cercò di comunicare con l’ufficiale marconista di bordo attraverso l’alfabeto morse e a bordo ricevettero il messaggio anche se nessuno fu in grado di rispondere».

La buona sorte, infine, aprì la propria bisaccia: il Locarno virò di circa novanta gradi distendendosi in senso longitudinale lungo l’asse della passeggiata a mare, con la prua rivolta in direzione levante. La fiancata andò provvidenzialmente  a toccare il moletto d’ormeggio dei “primeri” ed alle quattro del mattino l’equipaggio potè finalmente scendere a terra con l’ausilio di una biscaglina.

A terra li attendevano coperte ed un pasto caldo. Mentre i Vigili del fuoco riponevano cavi e fari, utilizzati sino a qual momento per illuminare a giorno la scena, sulla torretta del castello si spegneva anche la grande stella cometa natalizia.

I tecnici si ponevano intanto i primi interrogativi sulle cause che avevano provocato l’incaglio della nave. Il comandante aveva escluso, infatti, qualsiasi avaria alle caldaie o alla macchina del timone. Priva di carico, e quindi meno resistente alla forza del vento e del mare, la nave, in preda al maltempo, probabilmente non era più riuscita a governare ed aveva cominciato ad andare inesorabilmente alla deriva.

A terra, ovviamente, iniziava il business “made anni Sessanta”, mentre il pittore Nerone Uselli, spalle alle nave, in sommo disprezzo per tutto ciò che era acqua, dipingeva  in un celebre quadro l’apocalittica scena.

All’epoca, chi scrive, frequentava la scuola media statale ricavata nell’ex “casa del fascio” di piazzale Alfieri diretta dalla preside di allora, la professoressa Jolanda Macchiavello.

Confesso che quella mattina di gennaio, uscito di casa e raggiunto ancora insonnolito il lungomare - con i calzoni corti, beninteso, e la pesante cartella di cuoio che mi segava le dita - restai come folgorato da quella nave immane e nerastra, alta quanto una casa di almeno tre piani, che mi si ergeva davanti. Pareva impossibile che un oggetto galleggiante, di tale portata, potesse mai affondare. Eppure era lì, come una sirena ammaliatrice. Ed io, novello e incantato Ulisse, subii il suo irresistibile richiamo: pochi anni dopo mi trovai infatti su un cargo analogo di nome African Monarch e anch’esso battente bandiera di comodo, ma liberiana.

Tito Sansa, all’epoca inviato speciale del settimanale Oggi, in una sua corrispondenza ironica e graffiante, ma soprattutto precisa, da vero lupo di mare, offrì agli affamati lettori uno spaccato da manuale di quell’inconsueto naufragio da salotto definendo quello svoltosi sul lungomare di Rapallo come uno dei più strani drammi del mare dei nostri tempi.

“Tutto è finito bene per le persone, ma ci sono stati anche molti brividi. Un naufragio come questo non s’era mai visto. Di solito le navi vanno a picco nell’oceano in tempesta o si sfracellano su uno scoglio o si incagliano in una rada deserta.

Questo invece è stato un naufragio “fatto in casa”. Se Vittorio Sallustro, il capitano del cargo Locarno, avesse potuto scegliere su un portolano una località per mandare a secco durante una tempesta, col minor danno possibile, la sua nave, difficilmente avrebbe potuto trovare di meglio: si è infilato, infatti, nel punto più stretto al fondo del golfo del Tigullio, arenandosi su un morbido letto di sabbia, proprio di fronte alla “passeggiata”, di una delle più celebri località balneari del mondo.

Ora la nave è incagliata, con le sentine, le stive e la sala macchine allagate, l’elica storta, il timone spezzato. Dalle falle nella chiglia esce e si spande sul mare la nafta, lo scafo emerge tutto, inclinato di quindici gradi su un fianco, pronto a rovesciarsi alla prima forte mareggiata. Ma dieci metri più in là c’è la passeggiata con le palme e le panchine sulle quali, di questa stagione, anziani villeggianti si intiepidiscono le ossa al sole; trenta metri più in là c’è la sfilata degli alberghi. Per i naufraghi ci sono tutte le comodità: lo scalandrone cade proprio al pelo di un moletto, fanno quattro passi e sono all’albergo, camere accoglienti e polli allo spiedo attendono l’equipaggio.

Anche i villeggianti sono soddisfatti. “Che carino è stato il capitano a naufragare qui” dicevano nei giorni scorsi le signore, in gran parte milanesi, fuggite dalle nebbie e dal gelo lombardi. Al riparo, dietro le vetrate dei caffè del lungomare battuto dalle onde, esse avevano assistito con un brivido sottile alle diverse fasi del naufragio, come al cinema; felici che qualcosa di imprevisto movimentasse le tediose giornate di vacanza.

 

IL COMANDANTE AL TIMONE

 

Soltanto ad un certo momento, quando videro lo scafo, enorme sull’acqua, avventarsi con la prora più alta delle case verso gli scogli come se volesse salire sulla terra ed abbattersi sugli edifici, le signore ebbero la sensazione che si trattasse di un naufragio vero e proprio e non di uno spettacolo.

E, lasciato il tè a metà, richiamati i figlioli che stavano con il naso appiccicato alle vetrate, se n’andarono di fretta.

A bordo del Locarno, quel pomeriggio di martedì 3 gennaio, era tutt’altra cosa. Nessuno - almeno così dicono - aveva paura, ma tutti si rendevano conto che le loro vite erano appese ad un filo. Sballottato come un guscio di noce nella rapida di un fiume, il “cargo” andava alla deriva ed ogni minuto che passava la terra appariva più vicina. I campanili e le case sulle colline si muovevano ad una velocità impressionante, ora a sinistra, ora a dritta, poi a prora, poi a poppa, e così via. Era una girandola vorticosa, come se il capitano fosse impazzito e si divertisse a spaventare i suoi uomini.

Ma il capitano non era impazzito. Ritto in plancia, grondante acqua e sudore, capitan Sallustro urlava ordini nel portavoce e, manovrando la barra, cercava disperatamente di mettere la nave alla cappa, cioè con la prora controvento. Impazzito era invece il Tigullio: dal cielo di piombo l’acqua scendeva a secchie rovesce e dal largo battevano contro lo scafo raffiche rabbiose a 70-80 all’ora, ora di libeccio, ora di scirocco, improvvise e a turbine, sicché era difficile affrontarle.

Il mare - ha raccontato un marinaio di coperta - sembrava una padella di frittura, verde e schiumosa; muraglie d’acqua mugghiante, simili a draghi, si abbattevano sulle fiancate e le facevano risuonare come mille tamburi, inondavano la coperta, la spazzavano sommergendola in tutta la sua larghezza, ripiombavano muggendo in mare. E allora il Locarno, che era piombato al fondo di un abisso, risaliva su una vetta e aveva tutt’intorno abissi e seracchi biancoverdi in movimento.

Era quasi impossibile reggersi in piedi: ogni volta che la nave beccheggiava e sprofondava, si piegavano le gambe, quando risaliva sulle creste i piedi brancolavano nel vuoto. Nella sala macchine i fuochisti guardavano preoccupati il clinometro e dalle oscillazioni della lancetta apprendevano che poggiavano i piedi su un ripido pendio. Gli altri, che erano ai posti di manovra in coperta, legati e fradici fino alla pelle, si raccomandavano l’anima a Dio. E l’unica donna a bordo della nave - la moglie del comandante che era salita per un viaggio di piacere - più morta che viva domandava al mozzo diciottenne che l’assisteva in cabina: «Dio mio, ma è questa la vita di mio marito? E’ questo il mare?». «Non lo so signora - rispondeva il ragazzo senza ombra di umorismo - sono al mio primo imbarco».

GOVERNO RELATIVO

 

La danza del Locarno era cominciata appena fuori di Genova. Era ancora notte quando la nave (3.897 tonnellate di stazza, 114 metri di lunghezza, ventidue uomini di equipaggio, tutti italiani, salvo un abissino), mollati gli ormeggi al molo Rubattino, fu presa a rimorchio e condotta fuori del porto. Vi era arrivata un paio di settimane prima, il 22 dicembre, da Lubecca in Germania, con un carico di minerale ferroso. Il viaggio era stato burrascoso, con una tempesta nello Skagerrak,  nebbia nella Manica, una seconda tempesta nel golfo di Biscaglia, una terza tra il golfo di Valencia ed il golfo del Lione, proprio al traverso delle Baleari. Ma il cargo, seppure anziano di trentun anni e ansimante alla velocità di quattro-cinque nodi, se l’era cavata decentemente, senza danni, e gli uomini avevano potuto passare il Natale ed il Capodanno a terra.

Martedì mattina, dunque, il Locarno esce da Genova. E’ diretto a Follonica, in Toscana, per caricare dell’altro minerale da trasportare a Rotterdam, in Olanda. La nave è vuota e alta sul mare, nonostante che i doppi fondi siano regolarmente zavorrati con acqua, e il vento di libeccio la investe in pieno e la fa scarrocciare. Tutti però sono tranquilli a bordo. Che cosa è una bufera in casa nostra in confronto a quelle dell’Atlantico? E’ questione di poche ore, pensano tutti; Follonica è vicina, ci si arriverà prima di sera.

Senonché, man mano che la nave avanza, il tempo peggiora. Il mare è a “forza sei”, Radio Malta dà il gale warning, l’avviso di tempesta  “forza sette-otto” su tutto il Me-diterraneo. Le condizioni di governo della nave cominciano a farsi difficili. In tal caso vi sono due soluzioni: o buttarsi al largo, af-frontando la tempesta, o cercare riparo vicino alla costa. Il capitano del Locarno preferisce questa seconda manovra, fidandosi so-prattutto dei bollettini meteorologici che danno showers costanti di libeccio con tendenza a tramutarsi in ponente.

Giunto all’altezza di Capo Portofino, pertanto, capitan Sallustro vira di bordo e si ripara nella rada di Santa Margherita, in relativa bonaccia, dove getta l’ancora. Sono le dieci del mattino e tutto va bene: le macchine sono ferme, le caldaie sotto pressione, la nave è alla cappa in un posto tranquillo. Senonché il tempo cambia e il libeccio, anziché volgere in ponente, gira in scirocco. Raffiche violente si abbattono ora contro il cargo e le ondate lo scuotono tutto. L’ancora ormai non tiene più, ara sul fondo, e la nave scarroccia, tendendo verso la scogliera di Santa Margherita.

Il capitano allora dà attraverso il portavoce il “posto di manovra”. E’ mezzogiorno, ma è buio e sembra notte. Tutti e otto i forni delle caldaie sono accesi. Si salpa l’ancora ed il comandante urla l’ordine “avanti a tutta forza”. Prende  lui stesso la barra del timone e affronta lo scirocco. Ma l’impeto del vento e del mare è tale che le macchine non reggono la forza del mare. I 2.700 cavalli  vapore  non riescono ad imprimere al Locarno una spinta sufficiente ad avanzare.

La nave è sempre traversata al mare e passa dalla situazione di “governo relativo” a quella di “non governo”. Il timone cioè è inutile e inerte, mancando della spinta che dovrebbe far avanzare la nave. Ormai, è chiaro, non c’è nulla da fare, la nave sta pericolosamente avanzando verso terra, si cominciano a vedere distintamente gli uomini e le case sulla riva di Rapallo.

Allora il comandante urla «Fuori un’ancora!». «Fuori la seconda ancora!». Sono momenti drammatici, perché le catene si sono bloccate nei gavoni e sembra che non vogliano saperne di uscire.

Ma alfine le ancore vengono gettate, con sei lunghezze di catena. Ora la nave è alla cappa, le macchine sono di nuovo ferme, dovrebbe essere finita. E invece neanche ora le ancore fanno presa sul fondo, e continuano ad arare; la terra, gli scogli, le case, gli alberi di Rapallo continuano ad avvicinarsi implacabilmente.

Un nuovo “avanti a tutta forza”, un “indietro a tutta forza” sono inutili; l’equipaggio è sfinito. Il timone si muove inerte tra le braccia del comandante, senza governare, come il volante di un’automobile su un lastrone di ghiaccio. L’elica sembra che giri a vuoto. Il radiotelegrafista Pietro Marcucci, un triestino che ha navigato in tutti i mari del mondo, riceve l’ordine di trasmettere il segnale di distress («stiamo correndo un grave pericolo»), il segnale immediatamente precedente a quello dell’SOS («salvate le nostre anime»). Da Genova accorrono quattro potenti rimorchiatori ma, a causa della furia del mare e dei fondali bassi, non possono avvicinarsi.

Per alcune ore il Locarno resiste ancora, avanti e indietro, cercando di tenersi lontano dalla riva, con disperate manovre. Tutti gli uomini sono ai loro posti, nessuno ha mangiato, le ore passano lente, senza che si riesca ad uscire dalla trappola del Tigullio. Alle cinque del pomeriggio, d’improvviso, la prora, che ora è volta verso la riva e sembra sfiorare le case di Rapallo, tocca sul fondo. E’ un colpo secco, una falla si apre nei gavoni. Ma la lotta disperata continua ancora per ore.

Al largo incrociano i rimorchiatori; da bordo del Locarno vengono lanciati razzi per segnalare la sua posizione. Ma il mare è sempre furioso ed i soccorritori non possono avvicinarsi. Da terra una folla enorme segue con ansia le vicende della nave. Se il vento diminuisse, se il mare calasse, il Locarno potrebbe ancora salvarsi.

Invece il pericolo si è fatto più grave, ci sono scogli da ogni parte, la nave rischia di rovesciarsi, sbattuta avanti e indietro dalle ondate.

Alle dieci di sera un altro urto; stavolta la prora si incaglia. Da terra, dove sono stati accesi potenti fari, si distingue la falla. Ormai le distanze sono ravvicinate, il capitano Sallustro ed il comandante dei pompieri che sono venuti in suo soccorso possono comunicate a voce, attraverso i megafoni. Subito dopo la catena di un’ancora che aveva fatto presa su uno scoglio si rompe.  Il Locarno viene ora trascinato verso il vecchio castello di Rapallo, ma poi il mare cambia direzione e lo riporta verso la spiaggia, sempre sballottandolo. Alle due di notte, l’agonia continua ancora; la nave, che s’è messa al traverso, sbatte contro un moletto che si protende per una decina di metri dalla riva. E’ il colpo di grazia. Sono dieci-venti colpi violentissimi. Anche il timone si spezza, una pala dell’elica si piega. Le stive uno, due e tre vengono sfondate, le tanke sono forate, la nafta comincia a galleggiare sul mare, l’acqua salsa invade lo scafo. Le sentine sono allagate, l’acqua si precipita anche nella sala macchine. I forni vengono spenti d’urgenza per evitare che scoppi un incendio.

Ora è davvero finita; l’acqua in sala macchine significa aver perso completamente il controllo della nave, manca ogni energia, viene meno la luce.

FINALMENTE A DORMIRE

 

Alle tre di notte, a malincuore, il capitano dà l’ordine di abbandonare la nave. La terra è proprio a due passi, ma le ondate sono altissime ed è impossibile scendere in acqua. Allora si improvvisa una teleferica di soccorso. Il nostromo getta una cima e i pompieri fanno salire a bordo un cavo che viene legato ad un picco. Sul cavo, trattenuto dalla parte di terra da una decina di pompieri (per le forti oscillazioni della nave è infatti impossibile agganciarlo ad un sostegno fisso) scende per prima la moglie del capitano, poi, ad uno ad uno, diciannove dei ventidue membri dell’equipaggio, ciascuno col suo fagottino.

A bordo, sulla nave che oscilla paurosamente rimangono il capitano, il radiotelegrafista e un macchinista. Sperano ancora in un miracolo: e se scendessero la nave verrebbe considerata un relitto.

Ma alle sei di mattina, quando il mare comincia a calmarsi un po’ il capitano si rende conto che non c’è più nulla da fare. Anche la stazione radio viene chiusa. Alle nove di mattina i tre uomini a bordo calano una biscaglina e lo scalandrone lungo il bordo. Ora è possibile scendere a terra. Il naufragio, l’incredibile naufragio nel “mare di casa” è terminato: lo scalandrone posa giusto giusto sul moletto, i naufraghi possono andare a mangiare e a dormire all’albergo. Ora incomincia la battaglia tra armatori e assicuratori, incomincia il lavoro di recupero della nave.

Ma perché - ci si domanda - la nave si è arenata? I tecnici daranno le loro risposte. Ma la spiegazione, tutto sommato, è una: il Locarno è una nave vecchia e piccola, troppo debole per affrontare il mare. Ha avuto la fortuna di arenarsi a Rapallo, anziché di sbattere su uno scoglio o di andare a picco nell’Oceano, come le navi sono solite fare».

 

CENERENTOLA

di Pier Luigi Benatti

 

Trent’anni di servizio sono tanti, anche per una nave. Significano il continuo altalenarsi di porto in porto sino alla nausea, una ciclopica montagna di materiali che si sono trasferiti, una babelica torre di casse, di fusti, di sacchi inghiottiti nelle stive e rigurgitati nei docks.

C’è l’assalto di cento tempeste ruggenti, il monotono sgranarsi di un interminabile rosario di vuote giornate di navigazione, la deprimente sosta attraccati a luride banchine, con gli argani che cigolano lamentosamente, le gru che ti frugano le viscere, il turpiloquio sconvolgente degli scaricatori, e l’odore insopportabile di pelli mezze conciate, di sostanze fermentate, di acidi soffocanti, che ti resta addosso per mesi e mesi assieme all’unto ed al catrame dei lubrificanti.

Un’esistenza infelice, da umilissima bestia da soma, in uno scafo arrugginito, maculato qua e là di un minio purpureo, fasciato da strisce di nafta lasciate dal pennello di cento risacche, sotto tutte le latitudini, sì da sentirsi un povero Don Chisciotte dall’armatura goffa, arlecchinesca e sconnessa.

Trent’anni di dura, nascosta, fatica, che l’affetto spontaneo di quel pugno di uomini che ti abitano non riesce a lenire e che si acutizza ogni volta che, nelle vie del grande porto, sfiori una di quelle superbe città viaggianti, tutte nitore e luminosità. Prima di finire laggiù, in fondo al più appartato e periferico dei moli.

E’ la vita del cargo, sotto tutte le bandiere.

Ma sono bastate poche ore, la forza del vento e la fantasia del mare, perché anche una povera nave potesse  rivivere intera la favola di Cenerentola. E così, lasciato il fardello sotto la Lanterna, al calar delle tenebre, questa trascuratissima ancella dell’Oceano, ha fatto la sua comparsa come una grande dama sulla promenade d’una delle più celebrate spiagge alla moda, sotto gli sguardi stupiti dei presenti.

Poi sono giunti i cronisti, i fotoreporters, la televisione; poi il suo nome è corso nell’etere e la sua figura è stata riprodotta sui rotocalchi d’ogni continente; poi la sua vicenda è stata narrata in tutte le lingue e tutti la conobbero.

Ospite d’eccezione, che, increduli, in tanti vennero a curiosare da vicino, dominò sovrana le conversazioni e divenne soggetto d’obbligo per i ricordi fotografici, dando finalmente il cambio al nostro vegliardo castello.

Ma come in tutti i libri di favole, dopo sedici pagine, il racconto è giunto al termine.

Cenerentola se n’è andata verso quell’orizzonte donde era uscita ed è bello pensare che, anche questa volta, alla fiaba non sia mancato il lieto fine. Che importa, infatti,  se si parla di disarmo, di demolizione... l’impronta della scarpetta di questa Cenerentola del mare è lì, su mille giornali, a ripeterci una storia fantastica che sembra irreale, ma che è invece vera.

 

Una testimonianza

Cosa ricordo? Ricordo un pomeriggio livido, fatto di acqua e di vento, tanto vento... L’angolo della tabaccheria Mocellin non dava nessun ridosso, l’ombrello aperto ti spingeva indietro ed il vento ti infilava l’acqua negli occhi e giù per il collo... ma non mollavo; quella “carretta” nera che mostrava larga parte di rosso dell’opera viva cosa vuol fare? Vuol dare una pruata al pontile di Porticciolo?. Accidenti, se volevano dar fondo dovevano decidersi prima! Così non terrà,... è scarica e fa troppa vela, è in un fondale troppo basso, troppe lunghezze di catena da filare per sperare...

Alle sette di sera la prua si alzava ed abbassava producendo un rumore strano e lamentoso su di uno scoglio di fronte all’allora Gran Bar Dedalo; all’alba la nave era parallela alla passeggiata a mare, tenuta a distanza da essa solo dal moletto dei Primeri... sembrava ormeggiata.

E fu una vera “Epifania”, soprattutto per coloro che non avevano mai visto una nave e a quegli ottanta metri di ferro tributavano tutto il loro stupore.

Io guardavo e pensavo: ce ne vorranno di cavalli di forza per portarla via! E vennero sette Fratelli Neri e tirarono per sette giorni... Ma Lei si era scavata il suo letto nella morbida sabbia del golfo ed era tanto stanca. si era rassegnata al Suo destino deciso dagli uomini... Non voleva vedere altri porti... Infatti i rimorchiatori ebbero un fugace successo e poi la dovettero abbandonare per non essere tirati sotto anche loro... Noi eravamo tanto giovani, Emilio. Mi piaceva pensare che le navi avessero un’anima...

Giulio Cuneo

Rapallo, 03.03.11

 


L'800 MARINARO di Rapallo

L’800 MARINARO DI RAPALLO

Era il mio primo imbarco e stavamo navigando al largo del Tigullio. Il Comandante Cesare Cuneo di Rapallo inforcò i binocoli guardò, verso Montallegro e disse:

“Quando un Santuario Mariano svetta su un golfo, testimonia non solo la devozione dei marinai, ma anche la presenza di un'importante tradizione navale”.

Quella frase mi rimase impressa nella memoria, forse perché allora non mi convinse tanto “la tradizione marinara” di Rapallo, la quale aveva cancellato, ormai da quasi un secolo, le tracce marinare di un tempo coprendole, in un solo decennio, con una striscia di eleganti e fastosi alberghi di 1° categoria.

Oggi sono pochi quelli che, rovistando incuriositi tra le ingiallite cartoline d'epoca, rimangono stupiti nel notare, per esempio, che Rapallo è stata sede di un Cantiere Navale importante, che operò dal 1868 sino alla Prima Guerra Mondiale e costruì persino il “Caccin”, un brigantino oceanico di 1.500 tonnellate

Gio Bono Ferrari scrisse: “ La strada delle Saline, quella dalla tipica porta secentesca, pullulava a quei tempi di calafati e maestri d'ascia. E v'erano i ciavairi con le massacubbie ed i ramaioli, nonché i fabbri da chiavarde per commettere i cruammi. E gli stoppieri, i ramieri e il burbero Padron Solaro, socio del camogliese De Gregori, che aveva fondachi di velerie, d'incerate e di bosselli.”

Beh! Oggi si stenta ad immaginare che la zona descritta, sia stata il cuore pulsante dell'industria e del commercio di Rapallo, quando anche la lingua, intrisa di termini marinareschi e mestieri ormai scomparsi, odorava di pece, catrame e rimbombava di echi medievali, ultimi sibili di un'era legata al prezioso legname da costruzione navale.

Il Congresso di Vienna diede il famoso “colpo di timone” e dai riformatori, intellettuali e docenti vennero regole moderne ed una forte spinta a creare una “Nuova Marina Mercantile”, che doveva unificare tutte le tradizioni marinare del Paese e trasformarle secondo una formula tanto breve quanto efficace:

“L'arte del navigare va accompagnata da una scienza del navigare stesso”.

A metà ‘800 si passa dal romanticismo dei “Capitani Coraggiosi” ad una classe di professionisti. Cantieri e Scuole Navali sorgono dirimpettai, perché legati ai “bisogni” della nuova industria marittima che sente avvicinarsi il rombo del motore della Rivoluzione Industriale e quindi la necessità di essere pronti per il passaggio epocale dalla marineria velica a quella moderna. Non ci si può quindi meravigliare se anche Rapallo, così vicina a Genova ed alla formidabile tradizione di Camogli, fosse presa dal vortice del rinnovamento e facendo riferimento sulla notevole tradizione dei suoi naviganti ed emigranti si candidasse come sede di una Scuola Nautica Privata che, infatti, ebbe il suo riconoscimento nel 1853 da parte del Ministero dell'Educazione Nazionale.

Le vicissitudini belliche del periodo pre-unitario rinviarono l'apertura della scuola al 19.11.1861. Ma fu con l'arrivo del preside Edoardo Salviati che gli alunni salirono dall'esiguo numero di 12 agli 82 iscritti, dei quali il 50% erano residenti a Rapallo.

Ma non erano solo rose e nel 1869 una prima Commissione Governativa invitava l'Amministrazione ad assumere docenti che la potevano rendere “Un'Istituzione vera e seria e non un'illusione come lo è al presente”. Il rigore mostrato dal Governo funzionò e nel 1870-1871 Rapallo divenne sede di esame anche per conseguire il grado di Capitano di Lungo Corso.

Nel 1872-1873 la Scuola Nautica di Rapallo ottenne il tanto atteso Riconoscimento Governativo e raggiunse l'apice della sua esistenza. Un “Rapporto Elogiativo” redatto da Giovanni Ardito, Presidente della Giunta di Vigilanza ne rimarcò la crescita per numero di alunni, oltre 300 e per la promozione, 67%. La Scuola acquisì sussidi straordinari dal Ministero ed un posto di rilievo nel Levante, nonostante l'apertura delle scuole di Recco e Chiavari che erano temibili concorrenti rispetto al potenziale bacino d'utenza.

Purtroppo, sulla Scuola Nautica si addensarono improvvisamente nere nubi temporalesche: il Commissario Wladimiro Sablicich, militare severo ed intransigente, dichiarò: “…. quello di Rapallo è un organismo poco corretto perché gli studenti non frequentano per imparare, ma per conseguire la licenza in breve tempo e con il minor studio possibile” . Wladimiro andò giù duro e denunciò “ il quasi analfabetismo di studenti che dopo pochi mesi di corso si presentano all'esame Un candidato non conosce i mesi dell'anno….

Salviati si difese denunciando “….un meccanismo perverso che sussiste nella male intesa concorrenza tra gli Istituti Nautici della zona”. Edoardo Salviati, gran matematico, perdette l'ufficio di Preside. Nonostante la gravità dell'accaduto, la Scuola continuò ad essere frequentata da un buon numero di allievi, ed il 14 febbraio 1875 fu dichiarata - SCUOLA GOVERNATIVA - e nel marzo 1876 - REGIO ISTITUTO NAUTICO -.

Ma la crisi della Marina Velica era nell'aria da tempo ed il Governo preferì concentrare la popolazione studentesca marinara della Riviera nell'Istituto Nautico di Camogli. Queste furono le cause che giustificarono in successione la chiusura degli Istituti di Chiavari, Recco ed infine, il 1 dicembre 1878, quello di Rapallo. Da quel giorno il levante ligure ebbe il suo “Polo Nautico” nel piccolo borgo di Camogli, che diede all'Italia, dal 1800 al 1900, 3700 Capitani di mare, 2932 bastimenti mercantili e più di 500 Macchinisti Navali di prima classe.

Carlo Gatti

Rapallo, 08.03.11



Navi Militari nel Tigullio in oltre cento anni di Storia

HANNO VISITATO RAPALLO

Navi militari nel Golfo del Tigullio in più di cento anni di storia

Maurizio Brescia

foto di Carlo Gatti

Da più di un secolo, la presenza di navi militari nelle acque del Tigullio antistanti Rapallo – come pure Santa Margherita Ligure, San Michele di Pagana e Portofino – è un elemento costante dell’orizzonte marittimo della nostra città. Da sempre legata al mare nei suoi molteplici aspetti, a partire per l’appunto dalle unità navali e mercantili, da quelle da pesca o da diporto, Rapallo ha “ospitato” – nel tempo – numerosissime navi da guerra appartenenti alle Marine delle nazioni più disparate, a testimonianza non soltanto di un fascino più propriamente turistico, ma anche della conoscenza e della valenza internazionale di una città nota e apprezzata in Italia e all’estero sin dalla fine del secolo XIX.

In effetti, galere e navi a vela sia genovesi sia turche erano più volte comparse nel Golfo nei secoli XVI e XVII e, per tutto il Settecento e la prima metà dell’Ottocento, fregate e vascelli francesi, spagnoli e inglesi dettero fondo nel Tigullio in più di un’occasione, in relazione alle vicende diplomatiche e militari che vedevano coinvolta la Repubblica di Genova.

Con il passaggio dei territori della Repubblica al Regno di Sardegna e – soprattutto – dopo la proclamazione del Regno d’Italia (1861), il Golfo del Tigullio e Rapallo iniziarono a vedere rafforzato quel ruolo di “ancoraggio di rappresentanza” (oltreché provvisto di fondo buon tenitore e protetto da buona parte delle traversie di vento e di mare) che, sino ai giorni nostri, avrebbero sempre mantenuto anche in ragione della vicinanza con i porti di Genova e della Spezia.

Per nostra fortuna, l’incremento quantitativo e qualitativo del rapporto tra Rapallo e le navi da guerra in visita alla città iniziò a verificarsi sul finire dell’Ottocento, in concomitanza con lo sviluppo – ormai a livello quasi “popolare” – di due nuove tecniche di documentazione e comunicazione: la fotografia e la stampa periodica locale.

A partire dagli anni Ottanta del secolo XIX la fotografia cominciò, difatti, ad assumere un ruolo documentale sempre più preponderante e – nello specifico campo navale – le immagini fotografiche iniziarono ad avere ampia diffusione presso il pubblico, venendo distribuite o vendute in occasione di vari, cerimonie e parate navali. Tutto ciò coincise con l’accresciuta importanza delle Marine della “belle époque”, strumento di prestigio, di politica estera e di pressione internazionale e utilizzate in queste vesti dalle principali nazioni europee e mondiali.

L’attività dei fotografi locali (che hanno documentato la visita nel Tigullio di numerose unità) si affiancava poi a quella di studi professionali che, dalla Spezia a Taranto, da Tolone a Portsmouth, avviarono proprio in questo periodo una fiorente opera di documentazione storica, ritraendo un gran numero di unità e facendo pervenire sino ai nostri giorni importanti archivi di immagini dai quali – come avremo modo di chiarire più avanti – abbiamo attinto per reperire buona parte della documentazione iconografica inedita che presentiamo in questo nostro studio.

Al tempo stesso, tra il 1890 e i primi anni Cinquanta del secolo XX, veniva pubblicato a Rapallo un periodico settimanale indipendente, il cui titolo – “Il Mare” – ben rappresentava l’intimo legame tra la città, il Mar Ligure e tutto il Mediterraneo. Preciso e puntuale nel citare e commentare gli eventi che vedevano coinvolti Rapallo e i suoi abitanti, “Il Mare” non mancò mai di riportare la presenza di unità militari nelle acque del Tigullio, segnalandone con buon anticipo l’arrivo e informando i lettori sugli incontri di ufficiali ed equipaggi con la popolazione e le autorità locali.

Paradossalmente, la precisione delle cronache de “Il Mare” ha consentito di stilare un completo e dettagliato elenco di pressoché tutte le navi da guerra che hanno visitato Rapallo solamente sino ai primi anni del secondo dopoguerra, quando il settimanale cessò le pubblicazioni. Successivamente, altre testate locali riferirono (peraltro senza le medesime precisione e continuità) sulla permanenza di unità militari nel Tigullio, ma dagli anni Sessanta ai giorni nostri la documentazione disponibile, maggiormente frammentaria e dispersa, non ha consentito di poter concludere la ricerca con analoghi dettaglio e puntualità.

Tuttavia, basandoci sulle cronache locali de “Il Secolo XIX”, su quanto conservato negli archivi del Comune di Rapallo e in quelli di numerosi studiosi e appassionati locali di storia marittima e navale, ci auguriamo che anche la parte di questo articolo relativa agli anni più recenti possa presentare un quadro quanto più completo ed esauriente possibile.

La prima unità “ufficialmente” documentata a Rapallo da “Il Mare” (1898) è l’avviso Surprise, all’epoca utilizzato come panfilo reale dalla Mediterranean Fleet della Royal Navy;. Negli anni successivi, Rapallo ospitò consistenti aliquote della Marina britannica e – in particolare – va ricordata la visita del luglio 1901, quando ben 42 navi da guerra inglesi diedero la fonda nel Golfo del Tigullio; per l’occasione, a bordo della corazzata Renown alzava la sua insegna l’ammiraglio Sir John Fisher che, nella carica di Primo Lord del Mare, tra il 1904 e il 1911 avrebbe rivoluzionato gli ambienti navali europei e mondiali favorendo la costruzione e l’entrata in servizio dell’innovativa nave da battaglia Dreadnought e delle successive unità da essa derivate .

L’Italia, tuttavia, manteneva all’epoca uno stretto legame con l’Austria e la Germania per via della comune appartenenza alla Triplice Alleanza: nel 1908, insieme alle corazzate Napoli e Vittorio Emanuele (con a bordo S.M. il Re) era presente nelle acque del Tigullio la nave scuola Victoria Luise della Marina tedesca e – ancora nel giugno 1912 – nel corso di una visita nel nostro paese, l’imperatore di Germania Federico Guglielmo fece scalo a Rapallo a bordo dello yacht Hoenzhollern scortato dall’incrociatore corazzato Kolberg.

Le ultime unità tedesche in visita a Rapallo furono, nel febbraio 1914, l’incrociatore da battaglia Goeben e l’incrociatore leggero Breslau che – da lì a pochi mesi – avrebbero scritto le pagine di un’autentica epopea dopo lo scoppio della “Grande Guerra”, riuscendo a sfuggire alla caccia della Royal Navy e a raggiungere la Turchia, con la cui Marina prestarono servizio per numerosi anni ancora prima della loro radiazione .

Successivamente agli anni del conflitto 1915-1918, la Regia Marina inviò più volte importanti unità nel Tigullio. Negli anni Venti, le corazzate classe “Cavour” e “Doria” furono spesso alla fonda dinanzi a Rapallo, riscuotendo un notevole successo presso la popolazione locale e i villeggianti, che numerosi salirono a bordo di queste unità. Negli anni Trenta, i consistenti programmi di rafforzamento della flotta italiana fecero sì che nuove e potenti navi giungessero in visita alla città: nel gennaio 1932 gli incrociatori Trento e Trieste (al comando del c.amm. Solari), nel luglio 1934 la Seconda Squadra Navale (con quattro incrociatori classe “Condottieri”, otto esploratori tipo “Navigatori” e la nave appoggio idrovolanti Miraglia), nel luglio dell’anno successivo l’incrociatore pesante Gorizia e nel 1937 – sempre a luglio – la nave da battaglia Cavour al termine del periodo di grandi lavori nel corso dei quali era stata estesamente rimodernata.

Nel medesimo periodo, la Royal Navy (che utilizzava con continuità la Mediterranean Fleet nel ruolo diplomatico e di “presenza navale”) giunse più volte in forze nel Tigullio. Nel luglio 1924 diedero fondo di fronte a Rapallo quattro incrociatori leggeri tipo “C” al comando dell’amm. Gatfield, e analoghe unità si presentarono nei due anni successivi, insieme a varie corazzate e alla portaerei Eagle.; ad aprile del 1929 la portaerei Courageous si trattenne per una settimana nelle acque di Rapallo e negli anni Trenta fu la volta degli incrociatori pesanti Sussex (aprile 1934) e Shropshire (nel 1935). L’ultima unità britannica che visitò Rapallo prima della seconda guerra mondiale, dopo un anno di “vuoto” nel 1936 dovuto alla crisi italo-britannica conseguente alla guerra d’Etiopia, fu – ad aprile del 1937 – la corazzata Barham.

I tragici anni del secondo conflitto mondiale fecero ben presto dimenticare questi “scambi di cortesie” in ambito navale, e gli ancoraggi e i sorgitori minori del Mar Ligure – un’area, va ricordato, quasi di secondo piano dal punto di vista dell’attività operativa delle contrapposte flotte italiana e britannica – dovettero anch’essi vivere un duro periodo di lutti e privazioni. Sicuramente, unità di scorta, ausiliarie e di uso locale fecero scalo a Rapallo e nel Tigullio ma, per numerosi e comprensibili motivi, non esiste una sufficiente documentazione – cartacea o fotografica – della loro permanenza in zona.

Con la fine del conflitto, la mutata situazione strategica internazionale fece del Mediterraneo un crocevia dei movimenti navali delle flotte dell’Alleanza Atlantica e, già a marzo del 1947, erano presenti nel Tigullio due unità inglesi, la portaerei Ocean e il cacciatorpediniere Raider, facenti parte di un gruppo operativo al comando dell’amm. Sir Cecil Harcourt.


A partire da questi anni – e continuando sino al termine della “guerra fredda” nei primi anni Novanta – la presenza navale più consistente e significativa nel “Mare Nostrum” sarebbe però stata quella delle unità della Sesta Flotta della Marina degli Stati Uniti.

Tra il 22 e il 24 giugno del 1949 si ancorò davanti a Rapallo la grande portaerei americana Coral Sea che, all’epoca, insieme alle gemelle Midway e Franklin D. Roosevelt costituiva la classe di unità di questo tipo più grandi e potenti al mondo . Da allora, le navi statunitensi fecero scalo a Rapallo con regolarità e – nel tempo – incrociatori lanciamissili, cacciatorpediniere, unità da sbarco e navi ausiliarie visitarono la città, spesso in veste ufficiale di ospiti dell’Amministrazione Comunale. Non possiamo ricordarle tutte in queste brevi note, e citeremo solamente alcune tra le più importanti: cacciatorpediniere Irwin e H.R. Dickson (marzo 1955), portaerei Randolph (luglio 1965), incrociatore lanciamissili Albany (luglio 1977), nave da sbarco Portland (1980) e l’elenco potrebbe ancora continuare…

Anche La Marina Militare Italiana, ricostituita nel dopoguerra utilizzando le poche unità sopravvissute al conflitto, e dal cui numero andarono detratte le navi cedute ad alcune nazioni vincitrici o demolite su richiesta degli Alleati , riprese ben presto le crociere estive delle proprie unità e, ad agosto del 1949, giunsero in visita a Rapallo l’incrociatore Raimondo Montecuccoli e la corazzata Duilio .

Nell’aprile del 1957 l’intera Squadra Navale, con l’incrociatore Duca degli Abruzzi, si presentò nel Tigullio; nel 1964 giunse in visita l’incrociatore lanciamissili Giuseppe Garibaldi a bordo del quale alzava la sua insegna l’amm. Michelagnoli, “CINCNAV” e futuro Capo di Stato Maggiore della Marina Militare.

Giungiamo così ai giorni nostri, in un periodo in cui la cronaca non è ancora diventata storia: gli scenari internazionali sono cambiati rispetto a quelli del dopoguerra e – con l’uscita dell’Unione Sovietica dall’arena politico-militare mondiale – i rinnovati impegni delle Marine della NATO (a partire da quella italiana) ne hanno portato l’attività operativa in aree diverse dal Mediterraneo Occidentale, e dal Mar Ligure in particolare. Per quanto riguarda la Marina degli Stati Uniti, va poi considerata una sensibile riduzione numerica che, negli ultimi quindici anni, ha portato ad una contrazione nel numero delle unità in servizio attivo, oggi poco più della metà delle quasi 600 navi in servizio nel 1991.

Tuttavia, negli ultimi anni – a dimostrazione dell’importanza “di immagine” che la nostra Marina continua ad assegnare alle proprie unità, e compatibilmente con le esigenze di bilancio – sono giunte in visita nel Tigullio moderne ed importanti unità della Marina Militare, tra le quali vale la pena di ricordare le fregate Libeccio e Scirocco, il cacciamine Termoli e il rifornitore di squadra Vesuvio.

Riteniamo quindi giusto concludere queste brevi note con quanto scrive Pierangelo Campodonico, riferendosi al XVI secolo, ma con parole sempre attinenti ed attuali anche ai giorni nostri: “… Da sempre le navi da guerra sono leggibili non solo secondo la funzionalità militare, ma anche secondo la funzionalità simbolica . . . la dimostrazione di forza, potenza e ricchezza si addice a questo criterio . . .” . E, ci permettiamo di aggiungere, sono anche la fonte di un fascino del tutto unico e particolare come – in più di cento anni – hanno potuto “assaporare” gli abitanti di Rapallo e di tutto il Tigullio.

Maurizio Brescia

Un sentito ringraziamento va al capitano Umberto Ricci – un profondo conoscitore della storia e delle vicende di Rapallo e del Tigullio – che, oltre ad avere “lanciato” per primo l’idea che ha dato origine a questo studio, ha messo a disposizione i propri archivi e la sua completa collezione del periodico “Il mare”.

Anche gli amici Emilio Carta e Carlo Gatti, co-autori insieme al sottoscritto di __________________, hanno fattivamente e generosamente collaborato fornendo fotografie, pubblicazioni ed altri documenti.

 


La concezione che Fisher aveva della "capital ship" era però molto più estrema ed egli, infatti, volle fortemente la costruzione di un congruo numero di incrociatori da batta­glia, ovvero di unità maggiori che, a scapito dei valori della protezione, riunissero in un unico scafo l'armamento prin­cipale di una corazzata e la velocità di un incrociatore.

Il Goeben, in particolare, con il nome di Yawuz Sultan Selim prima e di Yavuz poi, venne mantenuto in servizio addirittura sino all’inizio degli anni Sessanta!

All’entrata in servizio (1946/47) le tre unità (dislocamento oltre 45.000 tonn, lunghezza 300,5 m, velocità 33 nodi e armamento composto da 18 cannoni da 127/54) imbarcavano un gruppo di volo composto da ben 137 aerei.

Alla Francia andarono gli incrociatori leggeri Attilio Regolo e Scipione Africano, nonché un certo numero di cacciatorpediniere; l’URSS ricevette, in conto riparazioni danni di guerra, la corazzata Giulio Cesare, l’incrociatore Duca d’Aosta, la nave scuola Cristoforo Colombo e alcune siluranti; alla Grecia fu destinato l’incrociatore Eugenio di Savoia. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, cui erano destinate le navi da battaglia Vittorio Veneto e Italia (ex Littorio), non richiesero la consegna delle unità ma, per contro, ne pretesero la demolizione.

Si trattava di una delle due corazzate (l’altra era la gemella Andrea Doria) rimaste all’Italia, in base alle clausole del trattato di pace, dopo la conclusione del conflitto.

Comandante in Capo della Squadra Navale.

P. Campodonico, Andrea Doria, Genova, Tormena Editore, 1997 – pag. 124.

Rapallo, 05.04.11