THOR HEYERDHAL - L'ULTIMO GRANDE ESPLORATORE

 

THOR HEYERDHAL

L’ULTIMO GRANDE ESPLORATORE

 

LA NORVEGIA - TERRA DI GRANDI MARINAI

La Norvegia ha una popolazione di 5.000.000 di abitanti, la metà della regione Lombardia, eppure possiede una flotta mercantile tra le più moderne al mondo: 1.600 navi (dati 2020). E’ sufficiente questo dato per comprendere quanto sia necessario ed importante essere MARINAI in quella lunga porzione di bagnasciuga chiuso alle spalle da monti innevati fino al Polo Nord, e quanto sia probabile che in un simile contesto ambientale nascano persone eccezionali come:

 

 THOR HEYERDHAL

 

 

Monumento dedicato a Thor Heyerdhal dal comune di Güímar - (Tenerife-Spagna)

(Larvik 1914 - Colla Micheri, Savona, 2002)

 

THOR HEYERDHAL - Etnologo, antropologo, esploratore, regista, scrittore e soprattutto navigatore norvegese noto soprattutto per aver dimostrato la possibilità di collegamenti tra alcune antiche popolazioni. Nel 1947 attraversò con una zattera chiamata Kon-Tiki il Pacifico tra Perù e Polinesia e nel 1970, usando un'imbarcazione di papiro simile a quelle costruite dagli antichi Egizî, coprì la distanza tra il Marocco e l’isola Barbados, dimostrando in questo caso la possibilità di un'influenza culturale della civiltà egiziana su quella precolombiana; nel 1978 costruì, con la stessa tecnica, un'imbarcazione, il Tigris, per confutare le teorie secondo le quali i Sumeri  non si sarebbero potuti spingere oltre la foce dei fiumi Tigri ed Eufrate a causa della natura delle loro navi. A partire dal 1982 T.H. si dedicò a una serie di scavi archeologici alle isole Maldive, documentando, attraverso la scoperta di alcuni templi, l'esistenza di una civiltà in epoca preislamica. Nel 1992 si rese protagonista, a Tenerife, della scoperta di alcune piramidi. Descrisse i suoi viaggi in alcuni apprezzati documentari: Kon-Tiki expedisjonen (1949), che nel 1951 gli valse il premio OscarGalapagos (1953); Aku-Aku (1957); The Ra expeditions (1971); The Maldive mystery (1986).

 

LARVIK

 

 

Comune di LARVIK

 

Larvik (Sud Norvegia)

 

T.H. nasce a Larvik – Norvegia il 6 ottobre 1914, 

Muore: il 18 aprile 2002 a Colla Micheri  frazione del comune di Andora, in provincia di Savona, Liguria (Italia).

 

LA FAMIGLIA:

Thor Heyerdahl, esploratore, antropologo, geografo, zoologo e scrittore, ebbe una famiglia che partecipò intensamente alla sua vita e lo seguì nelle sue scelte. La madre Alison, che era a capo dell’Associazione del Museo di Larvik, ispirò nel figlio un grande interesse per gli animali e per le scienze naturali. Il padre Thor, mastro birraio, ospitò nei vecchi locali della birreria, il primo museo zoologico del figlio. Thor Heyerdahl si sposò tre volte: la prima nel 1936 con liv Coucheron-Torp (1916-1969) con la quale ebbe due figli: Thor junior e Bjørn. Dopo il divorzio da Liv, nel 1949 sposò Yvonne Dedekam-Simonsen (1924-2006) da cui ebbe tre figlie: Anette, Marian e Helene Elisabeth. Divorziarono nel 1969 e anni più tardi, nel 1991, Heyerdahl sposò Jaqueline Beer (1932) con cui visse a Tenerife, Canarie e con cui condivise vari progetti archeologici, specie a Tucumé, Perù e ad Azov, sino alla sua morte avvenuta nel 2002, a Colla Micheri.

 

ConiugeJacqueline Beer (s. 1991–2002),

Luogo di sepolturaHeyerdahl Family Estate, Colla Micheri

FigliBjorn HeyerdahlMarian HeyerdahlAnnette HeyerdahlThor Heyerdahl, Jr.Helene Elisabeth HeyerdahlThor Heyerdahl

Suo padre Thor, possedeva una birreria; la madre, Alison, era direttrice di un museo di Larvik. Fu lei ad ispirare nel figlio un grande interesse per le scienze naturali. Thor era bravo a disegnare, e già all’età di otto anni disegnava fantasiosi paesaggi delle isole dei mari del sud decidendo già allora di diventare un esploratore.

Biologo, specializzato all’Università di Oslo in antropologia delle Isole del Pacifico, divenne in realtà famoso per la sua attività da archeologo non esitando ad organizzare ardite navigazioni con natanti rudimentali per dimostrare la possibilità di viaggi transoceanici in epoca antica.

I suoi progetti di viaggi via mare si basavano su teorie e documentazioni storiche ed erano progettati con l'aiuto di maestranze del posto abili in lavorazioni antiche e originale. I dubbi della Comunità Scientifica dell'epoca si riferivano generalmente all'uso di materiali poco noti e ritenuti inaffidabili quali legno di balsa, papiro e giunco.

Fu anche autore di documentari sulle sue spedizioni.  Kon Tiki   ricevette l’Oscar al miglior documentario nel 1952, mentre Ra (The RA Expeditions) fu candidato allo stesso premio nel 1972.

 

KON-TIKI

fu la prima grande impresa oceanica

“Kon-Tiki” vuol dire letteralmente “Dio Sole”. Kon-Tiki è il nome della zattera costruita nella primavera del 1947 dall'esploratore norvegese.

Il libro Kon-Tiki (Kon-Tiki ekspedisjonen, 1948) è stato tradotto in oltre 70 lingue e ha venduto decine di milioni di copie – cosa che lo rende uno dei libri di autori norvegesi più venduti di sempre. Thor Heyerdahl realizzò anche dei film su molte delle sue spedizioni.

 

 

Il Kon-Tiki su cui Thor Heyerdahl raggiunse l'atollo di Raroia partendo da Callao, Perù

 

 

IL KON-TIKI (1947)


Sul Kon-Tiki, zattera di legno di balsa di ispirazione INCA l’esploratore norvegese Thor Heyerdahl salpò a vela dal Perù approdando in Polinesia: è stata la prima grande impresa mediatica atta a dimostrare che la colonizzazione della Polinesia poteva essere avvenuta, in epoca precolombiana, da parte dei popoli sudamericani.

Leggiamo e riportiamo da Nautica Report una dettagliata descrizione della zattera KON-TIKI

 

Il corpo principale, e primaria parte galleggiante della zattera, fu costituita da nove tronchi di balsa accostati tra loro, lunghi fino a 14 metri e 60 cm di diametro. I tronchi erano accostati e fissati ai sovrastanti traversi, costituiti sempre in tronchi di balsa lunghi 5,5 m, e di 30 cm di diametro, spaziati tra loro di circa un metro. I tronchi longitudinali ed i traversi erano legati tra loro da robuste funi di canapa di 3 cm di diametro. Tra i tronchi longitudinali lunghe pale di legno di pino svolgevano la funzione di derive. L’albero in legno, in fusti di Mangrovia, era composto da più fusti uniti a costituire una forma ad “A” di circa 8,8 m di altezza, a poppa dell’albero fu costruita una “cabina” in bambù intrecciato, lunga 4,2 m e larga 2,4 m coperta da un tetto di foglie di banano.

A poppa un lungo remo (circa 5,8 m), in legno di mangrovia, collocato tra pioli e brandeggiabile, con alla estremità una “lama” di legno di abete funzionava da timone. La grande vela (4,6 x 5,5m) era fissata ad un boma costituito da un fascio di steli di bambù legati tra loro. Le immagini fotografiche rappresentano anche una piccola vela superiore alla grande, ed inoltre una terza a poppa. La zattera era coperta in parte, come piano di calpestio, da una sorta di stuoia di fusti di legno intrecciati con bambù.

Il Kon-Tiki aveva una riserva di 250 litri di acqua in “tubi” ricavati in canne di bambù. Come cibo aveva circa 200 noci di cocco, patate dolci, e vari altri tipi di frutti. L’esercito americano fornì razioni da campo, scatolame e porzioni di sopravvivenza. In cambio l’equipaggio del Kon-Tiki era impegnato a testare la qualità delle provviste e fare un rapporto sulla dieta praticata. In realtà l’equipaggio confidò sulle possibilità di pesca, e sulla possibilità di raccolta dell’acqua piovana, tale fiducia, fortunatamente, ebbe positivi riscontri, sia per la pesca che per ricorrenti temporali.

La spedizione con emittenti radio amatoriali, con sigla LI2B, mantenne la comunicazione regolare con corrispondenti americani, canadesi, e sud americani i quali tennero la Ambasciata norvegese a Washington informata sugli sviluppi della spedizione. Il successo di tali contatti fu dovuta alla esperienza maturata nella Seconda guerra mondiale come operatori di radio clandestine. Knut Haugland, LA3KY, e Torstein Raaby, il 5 di Agosto riuscirono a collegarsi con Oslo, in Norvegia, su una distanza di circa 10’000 miglia. La spedizione era dotata di tre apparecchi radio trasmittenti a tenuta d’acqua. Il primo operava su una lunghezza d’onda di 40 metri, un secondo di 20 metri ed il terzo di 6 metri. Le radio, con la tecnologia allora in uso, erano apparecchi voluminosi e con tecnologia a valvole termoioniche 2E30, con una uscita in radiofrequenza di 10 Watt.

Come trasmettitore di emergenza usarono anche un trasmettitore tedesco Mark V del 1942. L’energia per la trasmissione era erogata da batterie e da un generatore azionato a manovella. La radio ricevente del Kon Tiki fu una National Radio Company NC-173. L’equipaggio trasmetteva inoltre a mezzo la radio amatoriale LI2B, con la corrente del generatore azionato a manovella, il messaggio ripetuto “all well” (tutto bene) in modo da evitare inopportune attivazioni dei soccorsi in caso di altre interruzioni dei collegamenti radio. Il Kon-Tiki lasciò Callao, Peru, il pomeriggio del 28 aprile 1947. La zattera fu inizialmente trainata in mare aperto a circa 50 miglia dalla costa dal rimorchiatore Guardian Rios della Marina Militare peruviana; lo scopo fu quello di far raccogliere la zattera dalla Corrente di Humboldt, che nelle intenzioni della spedizione sarebbe stato il motore primario del movimento della zattera nel PacificoLa prima terra avvistata fu l’atollo di Puka-Puka il 30 luglio, si ebbe un breve contatto con pescatori dell’isola di Angatau il 4 agosto, ma le condizioni di mare e delle coste non permisero di approdare. Il 7 agosto la zattera fu scagliata dal mare sulle scogliere coralline di un isolotto disabitato dell’atollo di Raroia, nell’arcipelago delle Tuamotu, subendo notevoli danni. La zattera aveva percorso una distanza di circa 3’770 miglia nautiche (circa 4300 effettivamente navigate) in 101 giorni, con una velocità media di circa 1,8 nodi. Dopo aver passato diversi giorni in solitudine sull’isolotto l’equipaggio fu raggiunto da abitanti delle isole vicine, dopo che pescatori indigeni avevano avvistati i rottami della zattera incastrati nella scogliera. L’equipaggio fu trasferito al villaggio dove ne fu festeggiato l’arrivo con canti e danze tradizionali. Infine fu trasportato a Tahiti dallo schooner francese “Tamara”, con il relitto della zattera e tutto quanto si riuscì a recuperare.

 

 

Le altre Campagne e spedizioni

 

Polinesia (1937-1938)

Qui sentì da un vecchio indigeno le leggende che ispireranno il viaggio del KON-TIKI.  Incontrò un altro norvegese, Henry Lie, residente a Fatu Hiva da trent'anni, che gli mostrò delle statue di pietra simili ad altre trovate in Columbia. Scopo originale della spedizione era capire come gli animali avessero potuto raggiungere un'isola precedentemente deserta. Il periodo trascorso sull'isola di Fatu Hiva venne poi narrato nel suo primo libro Paa Jakt efter Paradiset (1938), che fu pubblicato in Norvegia ma, per l'incombere della seconda guerra mondiale, non fu mai tradotto. Molti anni dopo, a seguito della fama raggiunta con i suoi libri e documentari, Heyerdahl pubblicò una rielaborazione di questo libro sotto il titolo di Fatu Hiva (1974), incorporandovi la sua vena salutista.

Columbia britannica

Nel 1939 partì in cerca di una rotta dall'Asia alla Polinesia; la spedizione era finalizzata alla ricerca di contatti tra civiltà asiatiche, polinesiane e pre-colombiane. Elaborò una prima ipotesi di origine "nordamericana" delle popolazioni polinesiane.

Perù e Polinesia (1947)

Il Kon-Tiki su cui Thor Heyerdahl raggiunse l'atollo di Raroia partendo da Callao, Perù. 

Il 28 aprile 1947 Heyerdahl salpò da Callao con un'imbarcazione di legno di balsa d'ispirazione incaica, il Kon-Tiki, trasportato dalla Corrente di Humboldt.  Il 30 luglio l'equipaggio avvistò l'isola di Puka Puka, nell'arcipelago delle Tuamatu, e dopo un'altra settimana riuscì ad approdare sull'atollo di Raroia. Questa spedizione dimostrò la possibilità tecnica per le popolazioni sudamericane di raggiungere e colonizzare la Polinesia, anche se tale ipotesi non ha trovato pieno riscontro in verifiche effettuate con mezzi moderni, quali le analisi genetiche, che hanno però dimostrato il flusso inverso, tecnicamente analogo dal punto di vista della navigazione.

Galápagos (1952)

I detrattori della sua teoria sostenevano che prima di raggiungere la Polinesia, le popolazioni sudamericane avrebbero dovuto raggiungere le Galapagos, più vicine ma disabitate. Nessun archeologo aveva mai studiato quelle isole, considerate disabitate. Con questa spedizione Heyerdahl dimostrò che queste isole erano state punto di approdo di navigatori provenienti dalle Americhe in epoca precolombiana. Individuò l'isola come possibile attracco delle zattere pre-incaiche preistoriche, ritrovamento di abitazioni precolombiane con resti di centinaia di vasi in ceramica pre-incaici dell’Ecuador e del Perù settentrionale. Le isole avrebbero potuto essere uno scalo migratorio dal Sud America verso la Polinesia.

Isola di Pasqua (1955)

Stabilitosi a Rapa Nui per un anno, Heyerdahl analizzò scientificamente le possibili tecniche di costruzione e trasporto dei MOAI. Dimostrò che molti di essi erano sepolti dentro la collina e più grandi del previsto, e che in origine recavano sul capo una sorta di copricapo in pietra rossa.

Aiutato da archeologi professionisti, effettuò un'analisi stratigrafica sulla colonizzazione dell'isola, risalente almeno al 380. Tramite l'analisi dei pollini nelle stratificazioni in un lago paludoso, dimostrò definitivamente che alcuni secoli prima dell'arrivo degli Europei, l'isola era coperta da una fitta vegetazione arborea.

Vennero confutate, con un efficace esperimento pratico, le teorie legate all'impossibilità per un popolo primitivo di scolpire ed erigere statue di quelle dimensioni e quel materiale senza una tecnologia avanzata. Durante l'esperimento, con una speciale tecnica e strumenti rudimentali, sei uomini riuscirono in soli tre giorni a scolpire interamente una statua di dodici tonnellate in tufo vulcanico e trasportarla utilizzando 180 uomini, muniti di funi e di un'enorme slitta di legno. Un'altra statua pesante trenta tonnellate, rimasta a terra per secoli, venne issata su un'alta piattaforma di muratura, mediante un apposito basamento di pietre.

Ra

Nel 1969 partì dalla città fenicia di Safi (Marocco Atlantico), con un'imbarcazione costruita da maestranze del lago Ciad. Il progetto si basava su documentazioni di tipiche antiche imbarcazioni egizie in PAPIRO, eccessive per navigare solo sul Nilo. Dopo 56 giorni, naufragò a circa una settimana di navigazione dalla meta. Del ridotto equipaggio, anche per la successiva traversata della RA II, fece parte l'esploratore documentarista e alpinista italiano Carlo Mauri. 

 

Ra II

Nel 1970, sempre dal Nord Africa, partì con un'imbarcazione costruita da amerindi  Aymara del lago Titicaca, percorse in 57 giorni 3 270 miglia, raggiungendo l'isola di Barbados.  Con questa impresa dimostrò la fattibilità tecnica, già nell'antichità, di viaggi dal vecchio verso il nuovo mondo, suggerendo che la somiglianza culturale tra i popoli precolombiani e le popolazioni assiro-babilonesi, potrebbe non essere dovuta al caso.

Iraq (1977)

Con una nave di giunchi percorre 6800 km, discendendo il fiume Tigri fino al Golfo Persico, poi nell’ Oceano Indiano fino alla valle dell’Indo in Pakistan e verso ovest fino al Bab el-Mandeb, l'imboccatura del Mar Rosso. Con questa impresa, dimostrò la possibilità di scambi culturali e commerciali in epoche molto antiche a opera dei popoli mesopotamici, anche se la tecnica di costruzione della sua imbarcazione era mutuata da indigeni del Lago Titicaca, in Sudamerica, e non dalle antiche tecniche sumeriche.

Maldive

Dal 1981 al 1984 fu alle Maldive: durante questa spedizione archeologica scoprì reperti che dimostrano come le isole, già 2000 anni prima di Cristo, fossero punto di passaggio per navigatori provenienti dalla terraferma e diretti in India.

Nuovi scavi sull'Isola di Pasqua

Tornò sull'Isola di Pasqua dal 1986 al 1987: compì nuovi esperimenti che dimostrarono ulteriormente la facilità di trasporto delle statue da parte di una squadra di soli 15 uomini.

 

Esplorazioni successive

 

Studiò le piramidi di Tùcumé  (Perù) nel 1988; dal 1992 al 1995 eseguì scavi nelle isole Canarie; s'interessò alle Piramidi Güimar, dimostrando che non sono ammassi casuali di pietre, ma opera dell'uomo.

Eseguì scavi ad Azov, in Russia, nel 2002, alla ricerca delle origini dei popoli vichinghi, ossia la mitica terra dell’Asaheimir: gli scavi furono però interrotti dal peggioramento della sua salute.

 

ALCUNI DEI TANTI PREMI E RICONOSCIMENTI …

 

Nel 1950 ricevette la "Retzius Medal" dalla Royal Swedish Society for Antropology and Geography”. Nel 1952 venne premiato con l’Oscar al miglior documentario per il resoconto sul viaggio della zattera Kon-Tiki.

Nel 1960 viene eletto quale membro della Norwegian Academy of Sciences, nel 1962 fu insignito della "Lomonosov Medal" dall'università di Mosca, della Gold Medal Royal geographical di Londra, della Medaglia Norvegese St. Hallvardsmedaljen e del Bradford Washburn Award dal museo della Scienza di Boston.

Fu di nuovo candidato nel 1972 all'Oscar per la categoria Documentari, ricevette dottorati Honoris causa dall'Università di Lima e da quella di Cuba.

Oltre a questo a Heyerdhal è stato intitolato un asteroide che ruota fra i pianeti Marte e Giove: 2473 Heyerdahl  è un piccolo asteroide della fascia principale, scoperto da Nikolaj Stepanovich Cernich nel 1977.

Il 18 gennaio 2011 la Marina Norvegese ha immesso in servizio la fregata F314 THOR HEYERDAHL   (classe Nansen), rendendo omaggio al nome di uno dei più illustri esploratori norvegesi

 

 

ALCUNE FRASI CELEBRI DI THOR HEYERDHAL: 

"Di confini non ne ho mai visto uno. Ma ho sentito che esistono nella mente di alcune persone."

“Il ricordo più forte che ho nella memoria del viaggio sul Kon-Tiki è l'oceano completamente libero per i 101 giorni di navigazione; non vedevo nessun'altra imbarcazione né alcun segno dell'uomo. Come viaggiare su un tappeto magico nell'universo. Nessun Oceano può isolare un uomo con un certo livello di cultura”.

 

“Il progresso è la capacità dell’uomo di complicare la semplicità”.


“Nella mia esperienza, è più raro trovare una persona davvero felice in una cerchia di milionari che tra i vagabondi”.

 

 

 

QUANDO L’ESPLORATORE THOR HEYERDHAL APPRODO’

A COLLA MICHERI

 

Ormai quasi disabitato, Colla Micheri diventò famoso negli anni ’50 perché Thor Heyerdhal decise di stabilirvisi, acquistò una casa in questa piccola frazione di Andora nella Riviera Ligure, dove morì il 18 aprile 2002.

Colla Micheri è un antico borgo di origine medievale situato nella Liguria di ponente, più precisamente nel comune di Andora, in provincia di Savona. Adagiato sul valico di un colle a 162 metri d’altezza, proprio alle spalle di Laigueglia, questo paesino di soli 32 abitanti sembra volersi slegare dal concetto di tempo. Passeggiando per le antiche strade lastricate l’atmosfera che si respira è davvero singolare. Ma la vera storia di Colla Micheri iniziò negli anni ’50 del Novecento, quando l’esploratore e antropologo norvegese Thor Heyerdahl, dopo aver girato il mondo, si innamorò di questo borgo tranquillo e pittoresco e decise di stabilirvisi. Colla Micheri all’epoca stava vivendo un destino comune a molti borghi liguri e dell’Italia in generale, quello dello spopolamento e dell’abbandono. Thor Heyerdahl si occupò personalmente del recupero dell’antico paesino, ricostruendo e restaurando edifici, pulendo boschi e terrazzamenti. Acquistò una casa con un parco, oggi chiamato il Parco degli eredi di Thor. L’esploratore, artefice della rinascita di Colla Micheri, visse qui con la famiglia, quando non era in viaggio, fino alla sua morte. 

Si racconta che lo studioso norvegese fosse in cerca di un “paradiso in terra” dove trascorrere gli ultimi anni della sua vita. Il tassista che lo conduceva nelle località italiane (lui non guidava la macchina) gli disse che non sarebbero dovuti andare tanto lontano, e lo portò proprio a Colla Micheri.

Il paesaggio che si mostra alla vista nelle giornate serene è, infatti, davvero unico: da una parte si assiste allo spettacolo del mare, da cui emergono le coste della Corsica, dall’altro i monti innevati delle Alpi. Il suo pensiero ecologista e il suo amore sconfinato per la natura, lo portavano a preoccuparsi dei numerosi incendi che affliggevano la Liguria.

 

Il borgo di Colla Micheri e Thor Heyerdahl. Un paradiso in terra”: così Thor Heyerdahl definì Colla Micheri. Se dopo aver girato il mondo e affrontato il Pacifico sulla zattera “Kon Tiki”, l’esploratore norvegese decise di trasferirsi in questo piccolo borgo ligure, un motivo ci sarà stato: l’assomiglianza con la sua terra natìa e forse anche il carattere duro e schivo dei norvegesi e dei liguri.

 

 

Colla Micheri è una frazione di Andora ma si raggiunge facilmente con una passeggiata da Laigueglia, tra ulivi e pini marittimi. Da via Monaco si prende una strada in salita finché non si raggiunge una mulattiera che conduce verso la cima della collina. Presto si incontrano delle indicazioni: proseguendo a sinistra si raggiunge Colla Micheri. La particolarità di questo borgo è che le case sono state costruite sul versante posteriore della collina, in modo da evitare le incursioni sulla costa, non potendo essere avvistate dai saraceni che sbarcavano a Laigueglia.

 

 

 

Un luogo che per la sua immensa bellezza e la sua tranquillità conquistò anche il famoso esploratore e antropologo di fama mondiale Thor Heyerdahl, che qui trascorreva i momenti di riposo, la sua dimora tra un’avventura e l’altra.

 

Colla Micheri. Piccola perla medievale incastonata sulle alture tra Laigueglia e Andora, nel territorio del comune di Andora, lungo il tracciato dell’antica via Romana Julia Augusta, Colla Micheri fu scelta come dimora dal celebre antropologo, navigatore ed esploratore norvegese Thor Heyerdahl.

 

Colla Micheri è un luogo incantato capace di portarci in pochi istanti in un mondo magico e lontano fatto di meraviglia e suggestioni. Per una totale immersione nella bellezza, di cui tutti abbiamo sempre bisogno

 

 

Una scelta che si rivelò particolarmente felice, anche da un punto di vista più “poetico”, perché all’ora del tramonto a Colla Micheri si può godere di uno splendido spettacolo: il sole che va a tuffarsi in un “mare” di ulivi dietro le colline.

Per aver ospitato il loro connazionale Thor Heyerdahl, Laigueglia è una città particolarmente cara ai norvegesi. Questo celebre e affascinante personaggio viene ricordato sempre con grande affetto dagli abitanti di Laigueglia.

Per suo volere, alla sua morte fu sepolto a Colla Micheri e la sua tomba si trova sotto la Torre saracena, che si erge in posizione dominante.

 

 

La tomba di Thor Heyerdahl a Colla Micheri

 

Il 18 ottobre 2002 muore a Colla Micheri, in Liguria tra Andora e Laigueglia, a 88 anni, l'esploratore norvegese Thor Heyerdhal. La Norvegia gli tributò funerali di Stato.

Di fronte alla chiesa parte un sentiero che in pochi minuti conduce alla tomba di Thor Heyerdahl. Lungo il tracciato s’incontra un piccolo cancello in legno: aprendolo si scopre una rudimentale costruzione in pietra a secco addossata a un terrazzamento. Si tratta della tomba di Thor Heyerdahl, riconoscibile anche dalla targa in ceramica blu che commemora la più grande e celebre impresa dell’esploratore norvegese, ovvero i 101 giorni di navigazione dal Sud America alla Polinesia a bordo della zattera Kon-Tiki in semplice legno di balsa.

 

 

UN PO’ DI STORIA …

 IL BACK GROUND …

 

Con la dichiarazione di guerra, Thor Heyerdahl si unì alle libere forze norvegesi nel 1941: la resistenza. Ingaggiato dai paracadutisti e dall'intelligence, si offrì volontario per essere paracadutato in Norvegia per azioni di sabotaggio. È lì che incontrerà alcuni dei cinque accoliti che lo accompagneranno sul Kon-Tiki per realizzare un transpacifico nel 1947.

 

 

Gli Amici di THOR HEYERDHAL

 

GLI EROI DI TELEMARK

 

Joachim Rønneberg-Torstein Pettersen RaabyKnut Augland-Arne Kjelstrup

Jens-Anton Poulsson Claus Helberg.

 

Berlino. Kirk Douglas impersonò Joachim Rønneberg  nel celebre film di guerra Gli eroi di Telemark con anche Richard Harris, storici ed esperti militari di tutto il mondo lo consultarono per decenni per imparare da lui. Ora è morto, lui Joachim Rønneberg, comandante partigiano norvegese addestrato dai britannici, lui massimo eroe della Resistenza nordica contro l'occupazione nazista. Si è spento sereno a 99 anni, lui che nel 1943 con commando di partigiani riuscì ad attaccare e distruggere a Telemark, appunto nella Norvegia occupata, l'impianto supersegreto in cui il Terzo Reich produceva l'acqua pesante, componente indispensabile alla bomba nucleare.

 

Cinque dei sei uomini della spedizione del Kon-Tiki erano scout.

Dopo la guerra Knut Haugland continuò la carriera militare per molti anni, tranne nel 1947 quando prese parte alla spedizione del KON-TIKI.  Partecipò alla Brigata Indipendente Norvegese in Germania dal 1948 al 1949, proseguendo poi nel Forsvarsstaben  fino al 1952 quando fu trasferito al Kongelkige Norske Luftforsvaret (Aviazione militare Norvegese). Guidò il servizio di intelligence elettronico in Nel Nord della, Norvegia incarico importante durante la “guerra fredda”. Divenne maggiore nel 1954 e tenente colonnello nel 1977.

Abbandonò l'aeronautica nel 1963 per diventare direttore del Museo norvegese della Resistenza. Diede le dimissioni nel 1983. Fu anche direttore del KON-TIKI Museet dalla sua fondazione nel 1947 fino al 1990. Terminò la carriera come presidente del consiglio del Kon-Tiki Museet nel 1991. 

 

 

THOR HEYERDAHL E IL KON-TIKI

 

 

 

 

 

3700 miglia stimate

 

Il tuo tiki è il nome del dio del sole Inca. Heyerdahl e il suo equipaggio (6 uomini e un pappagallo) sono partiti per una "piccola" escursione di 3700 miglia attraverso il Pacifico! Hanno navigato con grande stima, dirigendo la loro zattera con l'aspetto dei remi. Anche se generosamente rifornito di provviste americane, cucinavano ogni mattina il pesce volante che cadeva sulla loro nave senza bordo libero durante ogni notte! 

L'ecosistema che è apparso sotto le loro conchiglie, composto da alghe e crostacei, ha attirato tutta una serie di fauna ittica, dai delfini ai tonni e squali balena lunghi 10 metri che hanno quasi affondato il loro fragile skiff!

 

 

Arrivo in Polinesia Francese 

Dopo 101 giorni di navigazione, trasportati dalla corrente Humboldt, il Kon-Tiki fece un violento approdo: colpendo una barriera corallina a Raroia, un atollo paradisiaco a Tuamotu (Polinesia francese) il 7 agosto 1947. Sono atterrati tutti illesi, tranne il loro pappagallo, rapito da una lama infida, una notte in caso di maltempo.

 

 

 

Cittadino del Mondo

“Tutti gli esseri umani sono uguali. Affrontiamo tutti le stesse sfide pratiche”.

 

Questa era una delle idee fondamentali di Thor Heyerdahl a proposito della vita umana. Credeva anche che la gente potesse lavorare e vivere insieme a prescindere dalle differenze etniche, politiche e religiose.

 

È stato soprattutto tra la fine degli anni ‘50 e l’inizio degli anni ‘90 che Heyerdahl è stato coinvolto nel lavoro per la pace globale. Ha fatto appello alle più alte autorità e ai politici più potenti in diversi stati, tra gli altri Andrej Gromyko e John F. Kennedy.

Heyerdahl fece sentire i propri valori nel Movimento federalista mondiale (World Federalist Movement) e ne divenne rapidamente un membro molto attivo. Il Movimento federalista mondiale è un’organizzazione che lavora per la pace, per la cooperazione oltre le frontiere e per un mondo costruito sulle leggi e sul diritto internazionale. Heyerdahl divenne vice-presidente onorario dell’organizzazione. 

Heyerdahl si impegnò anche nel lavoro dei Collegi del Mondo Unito (United World Colleges). L’organizzazione gestisce diverse scuole superiori in tutto il mondo, dove giovani provenienti da diversi paesi possono vivere e studiare. L’organizzazione è stata fondata durante la guerra fredda e l’idea è che tali scuole siano in grado di stimolare i giovani provenienti da diversi contesti culturali ad imparare gli uni dagli altri.

Attraverso le spedizioni di Ra, Ra II e Tigris, dove gli equipaggi erano composti da persone provenienti da diverse nazioni e parti del mondo, Heyerdahl aveva cercato di dimostrare che si può lavorare bene insieme nonostante le differenze culturali. Con questo, aveva anche voluto dimostrare la propria ipotesi che l’oceano fosse stato un’arteria di traffico che aveva portato al contatto tra culture diverse, anche in epoca preistorica.

Quando Heyerdahl nel 1978 viaggiò con l’imbarcazione di giunco Tigris dall’Iraq a Djibouti, voleva navigare nel Mar Rosso, ma rinunciò a causa delle guerre nella regione. Decise di bruciare il Tigris. Allo stesso tempo, inviò una lettera al Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kurt Waldheim, in cui protestava contro la guerra e contro il modo in cui gli stati occidentali vendevano armi ai paesi in via di sviluppo. L’intero equipaggio firmò la lettera.

«Il nostro pianeta è più grande dei fasci di giunchi che ci hanno portato attraverso i mari, eppure abbastanza piccolo per correre gli stessi rischi, a meno che quelli di noi che sono ancora vivi aprano gli occhi al disperato bisogno di una collaborazione intelligente se vogliamo salvare noi stessi e la nostra comune civiltà da quella che stiamo trasformando in una nave che affonda.»

 

THOR HEYERDHAL - Ambientalista

 

Durante il viaggio di Ra, Heyerdahl scoprì che l’Atlantico era stato contaminato. L’equipaggio trovò grandi e piccole macchie d’olio sulla superficie dell’oceano, e la scoperta fu resa nota all’ONU (Nazioni Unite). Durante il viaggio di Ra II, il Segretario generale delle Nazioni Unite chiese a Heyerdahl di fare osservazioni giornaliere riguardo all’inquinamento del mare. In 43 dei 57 giorni di viaggio furono avvistati grumi solidi di olio.

L’equipaggio inviò una petizione al Segretario generale dell’ONU U Thant e l’inquinamento da idrocarburi negli oceani ottenne molta attenzione, soprattutto dai media americani. Thor Heyerdahl fu convocato per un’udienza al Congresso degli Stati Uniti. Lavorò anche per il Dipartimento di Stato come uno dei rappresentanti della Norvegia nelle riunioni preparatorie per la prima Conferenza sull’ambiente dell’ONU, svoltasi a Stoccolma nel 1972.

La Conferenza, tra le altre cose, istituì il divieto di scarico di oli usati in mare, una diretta conseguenza della petizione che l’equipaggio internazionale aveva mandato dalla barca di giunco Ra mentre affondava.

 

 

 

Disegno di Thor Heyerdahl, 1946

ARTISTA

 

È sconosciuto ai più il lato artistico di Thor Heyerdahl. I suoi interessi principali erano la preistoria, l’antropologia e l’archeologia – e questo si riflette nei libri, nei film e nei disegni che ha realizzato.

Come tutti i bambini, Thor Heyerdahl disegnava e dipingeva molto. I racconti dei primi giri di Heyerdahl nei boschi e sulle montagne sono stati pubblicati in giornali e riviste, spesso accompagnati dai suoi disegni umoristici. Durante il viaggio nell’Oceano Pacifico, intrapreso con la moglie Liv tra il 1937 e il 1938, realizzò una serie di disegni caricaturali basati sulle esperienze da loro vissute. Successivamente, fino al momento della spedizione Kon-Tiki, i suoi disegni si fecero più pregni di critica sociale, con riguardo a come guardiamo alle altre razze, alla fede cieca nel processo e alla politica di distribuzione del mondo. Inseriva spesso anche commenti o didascalie nei suoi disegni.

Intagliare il legno era un altro interesse che Thor Heyerdahl coltivò per tutta la vita. Già nella prima adolescenza si era dimostrato portato per questo mestiere. Si è conservato un meraviglioso piccolo tableau raffigurante un’isola tropicale, intagliata sul coperchio di una cassa che Heyerdahl realizzò da adolescente.

In vecchiaia, Heyerdahl intagliò due teste di Kon-Tiki nell’imponente portone d’ingresso di Casa Kon-Tiki, la casa di Heyerdahl a Túcume, in Perù.

 

 

 

Thor Heyerdahl passò la maggior parte della sua vita dietro ad una scrivania, a casa a scrivere, o in biblioteche in giro per il mondo per apprendere nuove conoscenze. Nel corso della sua vita pubblicò una serie di libri e oltre cinquanta articoli scientifici.

Heyerdahl non aveva forse sempre ragione, ma l’essenza della scienza sta nel porsi domande, e le domande che si poneva Thor Heyerdahl sono ancora oggi di interesse accademico.

La maggior parte delle persone ricorda Thor Heyerdahl come un grande divulgatore. Il suo talento naturale consisteva nell’essere in grado di coinvolgere le persone in una conversazione su un dato fenomeno. Egli voleva sempre trasmettere la propria esperienza e diventò un maestro nel farlo attraverso i suoi libri ben scritti, i film, le fotografie e le presentazioni.

 

 

HEYERDAHL - DIVULGATORE

Thor Heyerdahl viene ricordato dalla maggior parte delle persone come un grande divulgatore. Il suo talento naturale consisteva nell’essere in grado di coinvolgere i suoi interlocutori in una conversazione su un dato fenomeno. Egli voleva trasmettere la sua esperienza e diventò un maestro nel farlo attraverso i suoi libri, i film, le fotografie e le presentazioni.
Tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’90
Heyerdahl si è dedicato alle attività internazionali relative alla pace globale, facendo appello alle più alte autorità e ai politici più potenti del mondo, tra cui Andrej Gromyko e John F. Kennedy. Heyerdahl è stato membro di alcune delle più prestigiose istituzioni mondiali e ha ottenuto prestigiosi riconoscimenti.

 

Per le connessioni di Thor Heyerdhal con la guerra partigiana norvegese nella Seconda guerra mondiale (fece parte del SOA-Servizi Segreti Norvegesi) e per l’amicizia stabilita con alcuni dei protagonisti dell’atto di eroismo: distruzione dell’Impianto di ACQUA PESANTE a Rjuka, propongo il LINK di un mio articolo in cui riporto i nomi e le valorose azioni militari di chi seguì Heyerdhdal sul KON-TIKI.

 

GLI EROI DI TELEMARK – NORVEGIA, la vera storia

 di Carlo GATTI  - 13.10.2011

https://www.marenostrumrapallo.it/eroi/

 

 

Carlo GATTI

 

Rapallo, 2 Maggio 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 


LO STRETTO DI GIBILTERRA

LO STRETTO DI GIBILTERRA

 

Gibilterra era considerata, dagli antichi greci e romani, uno dei punti che delimitavano la terra conosciuta. Il mito vuole che sia stato il semidio Ercole a porre due Colonne ai lati dello Stretto di Gibilterra, tra i promontori di Calpe, ovvero la Spagna, e di Abila, l'Africa. Questo è il motivo per cui ancora oggi, simbolicamente, lo stretto è noto anche come Colonne d'Ercole.

 

 

Gibilterra - Il moderno monumento simbolico delle Colonne d'Ercole al Cancello degli Ebrei.

Una delle Colonne d'Ercole, deve il suo nome attuale alla corruzione del toponimo arabo Jabal Ţāriq (جبل طارق, ossia Monte di Tariq), così chiamato in omaggio a Tariq ibn Ziyad, il condottiero berbero che conquistò la Spagna nel 711. Complice l’altezza della Rocca, ben 426 mt di altezza a strapiombo sul mare, essa era una delle colonne d’Ercole

 

LA ROCCA  E  JABEL MUSA

LE DUE COLONNE D’ERCOLE

Nelle due immagini sotto

 

 

 

Il Jebel Musa visto dalla costa spagnola

Tra Spagna e Marocco

 

Abitata e conquistata nel corso dei secoli da una miriade di popoli, Gibilterra era interessante per la sua posizione indubbiamente strategica. Dai fenici ai greci, dai vandali ai goti visigoti… poi gli arabi ed i berberi, a cui fu definitivamente strappata dai cattolici spagnoli e portoghesi.
La conquista anglo-olandese avvenne all’inizio del 1700, durante la guerra di Secessione spagnola, e furono vani i tentativi spagnoli di riappropriarsi del territorio negli anni successivi.
Con il trattato di Utrecht (1713) prima e con quello di Siviglia (1729) poi, venne sancita l’appartenenza alla corona Inglese.

Oggi Gibilterra è una stretta lingua di 6 km che parte dalla punta meridionale della provincia di Cadice, con la città di Linea de la Conception. Nota per essere stata spesso linea di confine, appunto, per il commercio di merci e materiali provenienti dalla Spagna si butta poi nel Mar Mediterraneo, sullo stretto che da essa prende il nome.

 

 

VARIAZIONE DEL CONFINE TRA REGNO UNITO E SPAGNA

 

 

PUNTA EUROPA

 

 

 

A livello amministrativo Gibilterra non è territorio spagnolo, ma geograficamente rappresenta la penisola orientale che chiude il golfo d’Algeciras. Questo territorio, che conferisce il nome allo stretto che delimita il Mar Mediterraneo dall’Oceano Atlantico, rappresenta l’unico enclave britannico nella penisola Iberica. Un luogo unico ed affascinante, una lingua di terra dalla tradizione britannica nel profondo sud europeo, a pochi chilometri dalla costa del Marocco.

 

 

 

ANDALUSIA

 

Chi scrive ha compiuto anni fa il TOUR dell’Andalusia (viaggio organizzato con guide specializzate. Arrivo e partenza da Malaga). Una delle mete era proprio Gibilterra.

 

Attraversata la dogana che separa Gibilterra da La Linea de Concepción (ultimo paese d’Andalusia in Provincia di Cadice prima della frontiera), il territorio britannico offre sostanzialmente due principali attrazioni turistiche: la cittadina ed il parco naturale del promontorio. Per raggiungere l’abitato occorre attraversare la pista d’atterraggio dell’aeroporto locale. La pista è tuttora attiva con vari voli al giorno. Quando la pista è in uso viene bloccato il traffico e bisognerà aspettare.

 

LA GIBILTERRA INGLESE

Oggi i 33 mila abitanti di Gibilterra si considerano a tutti gli effetti inglesi.
Votarono negli anni 90 contro la proposta di spartire la sovranità del loro territorio tra Spagna ed Inghilterra mentre di recente si sono schierati a netto sfavore della Brexit.

L’uscita dall’UE significherebbe il ritorno alla chiusura della frontiera con conseguente difficoltà di accesso per le migliaia di lavoratori spagnoli, proprietari inglesi e delle tante merci necessarie per l’economia del territorio. Un ritorno alle origini che potrebbe essere superato solamente con la riapertura della questione sulla sovranità condivisa ed il necessario assoggettamento alle richieste del governo spagnolo.

 

VARCHIAMO I CONFINI

Appena entrati a Gibilterra si ha l’impressione di essere catapultati in terra anglosassone. Tutto cambia: i cartelli, le strade, le automobili, perfino i cestini della spazzatura. Tutto ricorda l’Inghilterra, tranne la guida che, per fortuna, rimane identica a quella spagnola. Addirittura una cabina telefonica tipicamente londinese svetta a metà di un incrocio.

 

 

 

 

Passata la frontiera e mostrato il documento d’identità, la strada principale taglia completamente a metà la pista dell’aeroporto. Pensate che, come per il passaggio di un treno, ci sono delle sbarre a bloccare il passaggio delle auto ogni volta che un aereo deve atterrare o partire. Spettacolare…

 

LA LINGUA DI GIBILTERRA

Il centro della città è in sostanza composto da una via fatta di negozi e pub, dove gustare fish and chips e beer anglosassone. I televisori trasmettono notizie e partite di calcio inglese.
I gibilterrini hanno come lingua principale l’inglese anche se molti usano lo Llanito, dialetto creolo locale, che è un mix di inglese e spagnolo, una piccolissima parte di portoghese, italiano (genovese), maltese ed ebraico. Questo dialetto è parlato da tutti i cittadini come prima lingua parlata.

Curiosità: Il dialetto genovese venne importato da una consistente colonia di liguri trasferitisi qui a metà del ‘700 e che per un lungo periodo hanno costituito quasi la metà della popolazione.

 

 

IL FARO DI PUNTA EUROPA

 

Il suo faro viene erroneamente considerato il più basso d’Europa sul Mediterraneo mentre è soltanto il più meridionale di proprietà Inglese. Nelle giornate più limpide è facile vedere la costa africana e gli edifici della cittadina di Ceuta.

 

 

Il braccio di mare che divide Europa e Africa è il più iconico della storia: qui sorgevano le Colonne d'Ercole che indicavano il limite estremo, da non valicare, del mondo conosciuto, con la fatidica scritta “non plus ultra” (non più oltre). Secondo Platone al di là della Rocca di Gibilterra si trovava il regno di Atlantide, secondo Dante il monte del Purgatorio, ma le Colonne simboleggiavano anche i limiti stessi della conoscenza umana. Navigare nei 14 chilometri che uniscono Mediterraneo e Atlantico significa immergersi in suggestioni culturali fortissime, esaltate dalla visione della Rocca e delle verdi coste dei due continenti.

 

Dal punto di vista Commerciale:

 

 

Attraverso lo Stretto di Gibilterra transitano circa 100.000 navi all’anno, molte di più rispetto al Canale di Suez, ma dal punto di vista del valore commerciale è quest’ultimo ad avere un traffico più consistente. Se prendiamo a riferimento il movimento di contenitori nel Mediterraneo e nel Mar Nero, pari a 62 milioni di TEU, oltre il 70% dipende dal Canale di Suez e solo il 30% è generato dagli scambi tra i Paesi dell’area euro-mediterranea e tra questa e il Nord America. Da uno studio di Assoporti del 2018 si ricava che il traffico merci (espresso in tonnellate) che transita in entrambe le direzioni per il Canale di Suez e ha per origine e destinazione il Nord Europa e l’America del Nord è pari al 36% del totale. In questo senso il transito attraverso il Canale di Gibilterra è secondo rispetto a quello di Suez.

Sul canale di Gibilterra, tuttavia, c’è oggi molto interesse: lo sviluppo del porto di Tanger Med, con la sua piattaforma logistica e industriale, ha rilanciato il vecchio progetto di connettere l’Africa con l’Europa attraversando il canale mediante un tunnel sottomarino lungo 40 Km.

 

 

Dal punto di vista Geopolitico:

Segnalo la rivista Italiana di Geopolitica LIMES:

 

La Rocca, britannica dal 1713, è lo Stretto dove la cooperazione fra Londra e Washington si esprime al massimo grado. Decisiva per la Global Britain. La crescente influenza cinese in Nordafrica e l’ascesa di Tanger-Med, presto primo porto mediterraneo.

di Alberto de Sanctis

Pubblicato inGERARCHIA DELLE ONDE - n°7 - 2019

GIBILTERRAMARIMEDITERRANEOREGNO UNITOUSABASI USACINASCONTRO USA-CINA

  1. Lo stretto di Gibilterra è uno dei principali colli di bottiglia del sistema globale dei traffici via mare.

Questo angusto passaggio compresso fra le propaggini rocciose dei continenti europeo e africano si protende per circa 36 miglia nautiche in senso longitudinale e misura appena 8 miglia nel suo tratto più stretto, fra Punta Tarifa in Spagna e Punta Cires in Marocco. Il suo accesso orientale dal Mediterraneo, fra Gibilterra e Ceuta, è largo 14 miglia mentre quello occidentale, fra i capi Trafalgar e Spartel, raggiunge un’ampiezza quasi doppia: circa 27 miglia.

Il valore geostrategico di Gibilterra è fuori discussione.

A GIBILTERRA, CHIAVE DEL DOMINIO ANGLOAMERICANO, ORA SPUNTA LA CINA

 

 

Dirigiamoci ora verso il mar Mediterraneo dove dovremo attraversare uno stretto marittimo storicamente importante, quello di Gibilterra.

 

Fonte: OCEAN FOR FUTURE

 

 

Traffico Navale nello stretto di Gibilterra

Lo stretto di Gibilterra

Dopo una lunga traversata oceanica si arriva nello stretto naturale di Gibilterra, da sempre passaggio obbligato per entrare nel mare nostrum. Geograficamente ha una sua particolarità: è delimitato a nord dall’estremità meridionale della penisola iberica ed a sud da Ceuta, un territorio spagnolo situato nella parte più settentrionale del Marocco. Ciononostante lo stretto prende il nome dal promontorio di Gibilterra, attualmente possedimento del Regno Unito, che si trova all’imboccatura orientale dello stretto. Ma ha anche una caratteristica oceanografica interessante, che lo fa essere uno stretto e non un canale: la soglia di Gibilterra, un rilievo sottomarino frapposto fra la Penisola iberica e l’Africa. 

 

 

Come ricorderete una via marittima può essere definita stretto quando le masse d’acqua, da una parte e dall’altra, hanno caratteristiche differenti. Questo è il caso della soglia di Gibilterra. La sua presenza assume particolare importanza per la circolazione perché condiziona sia il volume delle masse d’acqua scambiate fra l’Oceano Atlantico e il Mar Mediterraneo, sia il regime delle correnti marine che attraversano lo Stretto.

Innanzitutto, grazie ad un clima prevalentemente caldo e secco, le acque del mar Mediterraneo, subendo una maggiore evaporazione hanno una salinità maggiore di quella delle fredde acque atlantiche. Essendo più dense e pesanti le acque mediterranee in uscita vengono spinte verso il fondo dell’Atlantico e vengono rimpiazzate da acque superficiali più “dolci” e meno dense, provenienti dall’oceano. Si vengono quindi a creare due correnti che si muovono con verso opposto a quote differenti, sottoposte sia alle variazioni periodiche causate dalla marea (che condiziona le differenti altezze del livello del mare nel Mediterraneo e nell’Atlantico) sia dalle stagioni.

 

 

La presenza della soglia, impedendo alle più fredde acque profonde dell’Atlantico di entrare nel Mediterraneo, giustifica il fatto che le acque profonde del Mediterraneo si mantengono in profondità ad una temperatura costante di 12-13 °C per tutto l’anno. Non ultimo, le due masse d’acqua tendono a mescolarsi con una certa difficoltà per cui il ricambio delle acque interne del Mediterraneo è piuttosto lento. 

Lo Stretto di Gibilterra, famoso anche nell’antichità (quando veniva identificato con le colonne d’Ercole, il limite estremo del mondo conosciuto) è lungo in senso longitudinale circa 36 miglia nautiche e misura appena 8 miglia nel suo tratto più stretto, fra Punta Tarifa in Spagna e Punta Cires in Marocco. Il suo accesso orientale dal Mediterraneo, fra Gibilterra e Ceuta, è largo 14 miglia mentre quello occidentale, fra i capi Trafalgar e Spartel, raggiunge un’ampiezza quasi doppia: circa 27 miglia. Essendo l’unica via occidentale di ingresso nel Mediterraneo è ovviamente molto trafficato; ad esempio, nel 2018, lo stretto è stato percorso da un flusso navale di oltre 84 mila imbarcazioni (circa cinque volte quello di Suez).

Geo-politicamente, il rischio di un suo blocco sarebbe poco fattibile, a causa delle caratteristiche oceanografiche che lo rendono molto particolare …  dovrebbe essere dichiarata una guerra ma, come per gli altri Stretti che abbiamo nominato, a chi gioverebbe? Ciò nonostante la distanza fra le due sponde è tale da favorire traffici illeciti, come il contrabbando e la migrazione clandestina dall’Africa verso l’Europa.

 

 

The Strait of Gibraltar provides a natural physical barrier between the countries of Spain (north) and Morocco (south). In geologic terms, the 10-mile (16-kilometer) strait that separates the two countries, as well as Europe and Africa, is located where the two major tectonic plates—the Eurasian Plate and the African Plate—collide. This high-oblique, northeast-looking photograph shows the mountainous northern coast of Morocco and the coastal mountains of southern Spain, including the dagger-shaped, snow-covered Sierra Nevada Mountains of southeastern Spain. The Guadalquivir River flows from east to west along the base of the Sierra Morena Mountains in southern Spain. The famous British city of Gibraltar is located on the wedge-shaped peninsula on the east side of the bay in the southernmost protrusion of Spain. The city of Ceuta is a Spanish enclave on the extreme northeastern coast of Morocco. Ceuta, a free port with a large harbor, has remained under Spanish control since 1580.

 

 

Europe (left) and Africa (right)

 

 

 

 

 

 

 

Un po’ di Storia…

Le fortificazioni

La piccola Penisola di Gibilterra, unita alla Penisola Iberica da una sottile striscia di sabbia, è un promontorio stretto ed allungato dominato da una rocca alta 426 metri con un versante orientale assai ripido e rocciosa e con un versante occidentale meno scosceso sulla cui base si trova il centro urbano. Con il crescere della potenza tedesca, all'inizio del XX secolo questo piccolo possedimento britannico a guardia dello Stretto che mette in comunicazione il Mediterraneo con l'Atlantico, fu soggetto ad una serie di interventi edilizi che accrebbero le difese militari del promontorio.

Tra il 1933 il 1936 sulla striscia di terra dove prima era presente un ippodromo, venne costruito un piccolo aeroporto, ma con lo scoppio della guerra e l'apertura del fronte nordafricano la necessità di un ampliamento della pista divenne di grande importanza. Così la pista venne allungata a 1600 m mediante un terrapieno artificiale creato grazie all'utilizzo dei materiali di scavo provenienti dalla costruzione di una lunga serie di tunnel sotterranei all'interno della Rocca.

Le difese della Rocca vennero ampliate con l'aggiunta di numerose batterie fisse che contavano più di due dozzine di pezzi, i più grandi erano di calibro 9.2 pollici in sei installazioni singole e una doppia, mentre le batterie contraeree erano per lo più armate con pezzi da 3.7 pollici (94 mm) in posizione fissa e mobile, e dotate di proiettori per la difesa notturna. Un reggimento di artiglieria mobile poi disponeva di tre pezzi da 6 libbre, uno da 7 libbre, nove da 25 libbre, cinque da 75 mm, otto da 4 pollici di tipo navale, dieci obici da 4.5 pollici, sette da 6 pollici (152 mm) e 2 obici da 9.2 pollici, ossia 230 mm.

Ma il sistema difensivo più caratteristico di Gibilterra era rappresentato dal sistema di gallerie e strutture sotterranee. Già durante l'assedio del 1782 fu scavata una prima galleria lunga 183 metri dotata di sette cannoni, quindi fra il 1788 e il 1797 il sistema difensivo fu ampliato con una serie di tunnel detti Middle and Lowers Galleries. Ma durante la seconda guerra mondiale la lunghezza dei tunnel raggiunse i 48 chilometri, e furono adibiti a magazzini, ricoveri, rifugi antiaerei e postazioni comando.

Dopo il successo Alleato nella Campagna del Nord Africa e la resa dell'Italia nel 1943, Gibilterra venne declassata a normale base di smistamento di rifornimenti situata nelle retrovie.

 

Storia militare di Gibilterra durante la seconda guerra mondiale
• Cronologia degli eventi •

Un Catalina sorvola il fronte settentrionale della roccia
lasciando Gibilterra per una pattuglia, 1942 (Museo della guerra imperiale) 

Fine 1939

Inizia la costruzione di una pista dura a Gibilterra.

9.settembre 1939

Il volo 202 RAF ha base a Gibilterra.

25 settembre 1939

Il gruppo n o 200 (costiero) è formato a seconda della sede della RAF per il 
Mediterraneo.

giugno 1940

13.500 civili sono evacuati a Casablanca (Marocco francese). 

13 luglio 1940

Dopo la creazione di Vichy France, i civili di Gibilterra tornarono a Gibilterra 
prima di essere evacuati in altre località.

giugno 1940

Gli sfollati vengono inviati all'isola di Madeira e a Londra. 

9 ottobre 1940

1.093 rifugiati nuovamente evacuati in Giamaica. 

Fine 1941

L' Operazione Felix, piano tedesco per l'invasione di Gibilterra, viene cambiata 
nell'operazione Felix-Heinrich, ritardando l'invasione fino a dopo la caduta dell’Unione Sovietica, mettendo così fine ai piani di invasione tedesca.

gennaio 1942

Inizia il test dell'attrezzatura per l'operazione Tracer.

Metà 1942

L'operazione Tracer viene dichiarata "pronta per la distribuzione".

luglio 1942

Il tenente generale Dwight D. Eisenhower viene nominato comandante in capo dell’Operazione-Torch

5 novembre 1942

Eisenhower arriva a Gibilterra per prendere il comando

4 luglio 1943

Un bombardiere LIBERATOR of Transport Command RAF al largo di Gibilterra e si è schiantato, 
uccidendo il generale Wladyslaw Sikorski, leader politico polacco e comandante dell’esercito polacco occidentale. 

novembre 1943

Viene istituita la commissione per il reinsediamento.

6 aprile 1944

Un primo gruppo di 1.367 rimpatriati arriva a Gibilterra direttamente dal Regno Unito.

28 maggio 1944

Il primo convoglio di rimpatrio lascia Madeira per Gibilterra.

8 maggio 1945    

Resa tedesca

 

Le scimiette di Gibilterra

 

 

Le bertucce sono una costante del parco, anche se si concentrano in maniera maggiore nel punto panoramico chiamato “delle scimmie”. Qui, i furbi animaletti si sono abituate alla presenza dell’uomo e spesso rubano agli sprovveduti visitatori il pranzo. È l’unica colonia libera di questi primati in tutta Europa, e si stima che sono circa 250 esemplari distribuiti in 10 mandrie.

 

Le risposte alle domande più comuni:

Perché Gibilterra appartiene all’Inghilterra?

Nel 1462 G. entrò a far parte del regno di Castiglia, ma durante la guerra di Successione di Spagna fu conquistata (1704) da una flotta anglo-olandese e con il Trattato di Utrecht (1713) rimase assegnata all'Inghilterra.

Perché si chiama Gibilterra?

Chiamata anticamente Calpe, prese il nome di Gebel Ṭāriq a ricordo della spedizione del generale arabo Ṭāriq, che nel 711 vi sbarcò dall'Africa dando inizio alla conquista della Spagna. Riconquistata definitivamente dagli Spagnoli nel 1462, venne fortificata da Carlo V dopo l'assalto di Khair ad-dīn Barbarossa (1540).

Per cosa è famosa Gibilterra?

Lo stretto di Gibilterra è la porta d'acqua che collega l'Oceano Atlantico e il Mar Mediterraneo ed è una delle rotte di navigazione più trafficate al mondo. È anche tra le rotte più prolifiche per i delfini e il posto migliore per vedere e interagire con queste incredibili creature in tutta Europa.

 

Com’è la vita a Gibilterra?

Gibilterra è un luogo multiculturale e bilingue (spagnolo e inglese). La vita notturna non è un granché, tolti i numerosi ristoranti e i due casinò presenti. Il tenore di vita èrelativamente elevato per gli standard europei. I prezzi delle case, sia in affitto che in acquisto, sono molto alti

La bandiera di Gibilterra è in uso dal 1966, riproduce lo stemma del territorio, concesso dai Re Cattolici di Spagna nel 1502, con il castello che rappresenta la rocca e la chiave, che allude alla strategica posizione di "porta del Mediterraneo".

 

Perché la Spagna non riconosce Gibilterra?

 Uno dei problemi riguardanti la sovranità delle acque comprese tra il Campo di Gibilterra e la stessa penisola sono motivo di accese dispute tra le due nazioni. La Spagna secondo il Trattato di Utrecht non riconosce a Gibilterra alcuna giurisdizione sulle acque circostanti le proprie coste.

 

 

Per gli AMICI appassionati della Storia della Seconda guerra mondiale segnalo un articolo edito dall’Ufficio storico della Marina.

Sono raccontate le imprese delle coppie di eroi:

Birindelli-Paccagnini/Tesei-Pedretti /Bertozzi-Vignoli/ed il nostro “eroe tigullino” De la Penne-Bianchi

30 ottobre 1940: Gibilterra, missione B.G.2

Le gesta del tenente di vascello Gino Birindelli che gli valsero la Medaglia d'Oro al Valor Militare

30 ottobre 2020 Ufficio Storico della Marina

 

Per gli AMICI VELISTI che decidessero di ATTRAVERSARE lo Stretto di Gibilterra segnalo un articolo prodigo di consigli utili:

ATTRAVERSARE LO STRETTO DI GIBILTERRA

https://www.arielhr53.com/attraversare-lo-stretto-di-gibilterra/

 

  • Il navigante di professione che lascia Gibilterra deve decidere, sulla base del porto atlantico di destinazione, quale tipo di navigazione scegliere tra ORTODROMIA e LOSSODROMIA. L’argomento è lungo e complesso per i profani… Ma un’idea ve la può dare questo articolo:

https://www.nauticalalmanac.it/it/navigazione-marittima/lossodromia-ortodromia-rotta

 

RINGRAZIAMENTI:

Felix e Alex Canepa - PolyViaggi-Rapallo per avermi messo a disposizione molte foto del loro archivio.

La rivista mensile di geopolitica LIMES di cui sono un fedele lettore da molto anni

 

 

 

Carlo GATTI

 

 

 

Rapallo, martedì 13 Aprile 2023

 

 

 

 


MATAPAN - PER NON DIMENTICARE

 

MATAPAN

MATAPAN 28/29/Marzo 1941

Uomini e Navi della REGIA MARINA

PER NON DIMENTICARE….

 

 

 

TESTO DI BETASOM

FOTO TRATTE DAL WEB

 

 

 

A sud Ovest di Creta – l’Isola di GAUDO (Gavdos)

il mio contributo per onorare e non dimenticare i caduti.

http://www.cefalunews.net/cn/news/?id=49218

 

 

Ammiraglio Luigi Sansonetti

 

Ammiraglio Carlo Cattaneo

 

Ammiraglio Antonio Legnani

 

 

Formazione navale di incrociatori leggeri italiani fotografata da un incrociatore della classe ZARA 

 

28/29 marzo 1941 Gaudo e Matapan

Durante la conferenza di Merano tenutasi il 13 e 14 febbraio 1941, il Grand Ammiraglio Raeder, rimproverò alla Regia Marina il suo atteggiamento difensivo nel Mediterraneo. Ciò portò Supermarina (comando in capo della Marina) ad organizzare un’azione contro i convogli inglesi che rifornivano la Grecia, fra il 27 ed il 28 marzo.

All’operazione avrebbero preso parte: la nave da battaglia Vittorio Veneto, nave di bandiera dell’ammiraglio Angelo Iachino a cui era affidato il comando delle operazioni con 4 cacciatorpediniere; la I^ divisione incrociatori pesanti: Zara, Fiume e Pola al comando dell’Ammiraglio Carlo Cattaneo; la 8^Squadra incrociatori leggeri: Garibaldi e Duca degli Abruzzi al comando del Contrammiraglio Antonio Legnani, con 6 cacciatorpediniere; la 3^ divisione incrociatori pesanti: Trento, Trieste Bolzano al comando dell’ammiraglio Luigi Sansonetti, il supporto aereo doveva essere fornito da 27 aerei della Regia Aeronautica e del Comando Aereo Tedesco ( CAT) della Sicilia.

Il 23 marzo il Vittorio Veneto, giunse a Napoli da Spezia dove era stato spostato per motivi precauzionali dopo l’attacco a Taranto, il giorno stesso l’ammiraglio Iachino ricevette da Supermarina l’ordine di operazioni, che prevedeva di portarsi ad Est dell’isolotto di Gaudo ed intercettare i convogli nemici.

Lo stesso ordine, purtroppo per la Regia Marina, fu inviato al CAT (Milizia per la difesa contraerea territoriale) che lo ritrasmise al proprio comando e al comando dell’Africa Korps, dopo averlo cifrato con la macchina Ultra, purtroppo il metodo di cifratura tedesco era già stato decrittato dagli Inglesi, pertanto l’ordine di operazioni fu subito passato alla Royal Navy, che lo invio subito all’ammiraglio Cunninghan, capo della Mediteraan Fleet.

 

 

Corazzata VITTORIO VENETO

 

Alle ore 21.00 del 26 marzo, il Vittorio Veneto lascia il porto di Napoli, la tarda ora fu decisa dall’ammiraglio al fine di evitare che l’uscita della nave fosse notata e la notizia fosse trasmessa agli inglesi, e fece rotta verso lo Stretto di Messina. Alla stessa ora salpò da Taranto l’8^ squadra seguita due ore dopo dalla I^ divisione scortata dalla 9^ flottiglia cacciatorpediniere. Alle 5.30 del 27 marzo la 3^ divisione e 3 caccia lasciarono il porto di Messina, alle 6.00 mentre il Vittorio Veneto traversava lo stretto, escono altri 4 caccia che vanno a sostituire quelli di scorta alla nave da battaglia. Usciti dallo stretto e riunitisi alle navi salpate da Taranto, la squadra assunse inizialmente una rotta per 134°, ossia verso la Libia, al fine di confondere eventuali ricognitori o sommergibili che l’avessero avvistata. Intanto gli inglesi a titolo precauzionale avevano sospeso il traffico fra il Pireo ed Alessandria.

 

 

Ricognitore UK SUNDERLAND

Alle ore 12.30 circa, un ricognitore Sunderland avvistò la 3^ divisione che apriva la formazione e lanciò un messaggio d’avvistamento, che rapidamente decifrato a bordo della nave ammiraglia (1) diceva:

“Avvistati 3 incrociatori ed un cacciatorpediniere rotta 120° velocità 15 nodi, il ricognitore, aveva mal valutato sia la rotta che la velocità delle navi, ma questo vanificò lo stratagemma di Iachino, la rotta 120° portava a Creta. Alle 18.00 arrivò da Supermarina la notizia dell’avvistamento, assieme a quella che causa avverse condizioni meteo, la Regia Aeronautica non avrebbe effettuato le previste ricognizioni su Alessandria”.

 

 

La corazzata HMS WARSPITE, ammiraglia della flotta di Cunningham

 

 

 

Corazzata UK BARHAM

 

 

 

 

HMS Valiant

 

 

 

 

HMS Formidable

 

Intanto, la Forza A dell’ammiraglio Cunningham, composta dalle Corazzate Warspite  (nave di Bandiera) Barham e Valiant, con la portaerei Formidable e 9 cacciatorpediniere si preparava a lasciare Alessandria e la Forza B dell’ammiraglio Pridham-Wippell, formata dagli incrociatori : OrionAjaxPerth Gloucester con 4 cacciatorpediniere si preparava a uscire dal Pireo.

 

 

Ammiraglio Cunningham

 

L’ammiraglio Cunningham aveva disposto l’incontro delle due formazioni all’alba del 28 a Sud Est di Gaudo, nella stessa zona dove secondo gli ordini si doveva trovare la Squadra italiana. Alle 13.00 salpò dal Pireo la forza B, mentre la Forza A, sempre per nascondere la partenza, lascio Alessandria alle 19.00; l’intenzione inglese era quella si imporre la battaglia e distruggere le navi italiane, pertanto Cunningham diede ordine ai suoi incrociatori che non appena fossero stati in contatto con il nemico, avrebbero dovuto ripiegare verso la Forza A, lo stesso ordine, era stato dato a Sansonetti dall’ammiraglio Iachino.

 

 

 

Un RO-43  da ricognizione ripreso mentre viene catapultato da un incrociatore; la ricognizione fu uno dei più grandi problemi della marina italiana

Verso le 6.00 del 28 marzo, dal Vittorio Veneto fu lanciato un RO-43, idrovolante da ricognizione, che verso le 6.30 avvistò gli incrociatori della Forza B, ricevuto il segnale d’avvistamento Iachino, all’oscuro dell’uscita in mare delle Mediterranean Fleet, ritenne che si trattasse della scorta di un convoglio inglese, pertanto ordinò a Sansonetti di attaccarli.

Alle 08.15 la divisione italiana aprì il fuoco, gli inglesi, che erano armati con cannoni di calibri inferiore (152 mm contro i 203 mm italiani) accostarono subito in direzione della Forza A zizzagando e stendendo una cortina fumogena. Iachino, insospettito dalla manovra, ritenne che gli inglesi cercassero di attirare gli incrociatori italiani verso le basi aeree dell’isola di Creta e dato che non si erano ancora visti gli aerei di copertura promessigli, ordinò a Sansonetti di ripiegare verso di lui, alle 08.50 circa, gli incrociatori italiani sospesero il fuoco e si diressero verso la nave da battaglia, a questo punto gli inglesi per non perdere il contatto invertirono la rotta ed iniziarono a seguire gli italiani.

 

 

Bordata del VITTORIO VENETO  contro gli incrociatori inglesi della Forza B durante lo scontro di Gaudo

 

 

 

Fairey Albacore  decollano dal ponte della portaerei FORMIDABLE; fu proprio la presenza della portaerei a permettere alla squadra britannica di rallentare e agganciare in parte la squadra italiana.

Iachino, informato della cosa, iniziò a manovrare per prenderli fra due fuochi. Pochi minuti prima delle 11.00 gli inglesi si trovarono sotto il tiro dei grossi calibri della Corazzata. Alle 11.00 apparvero in cielo 6 biplani, che inizialmente furono scambiati per CR42 della Regia Aeronautica, tanto che gli inglesi li fecero bersaglio della loro antiaerea, si trattava invece di aerosiluranti Albacore, lanciati poco prima delle 10.00 dalla portaerei Formidable.

L’equivoco fu chiarito quando gli aerei si misero in formazione d’attacco contro la corazzata italiana, che sospeso il fuoco dei grossi calibri iniziò manovre evasive e aprì il fuoco con i pezzi antiaerei. I siluri furono lanciati alla distanza di 2000 m ma la nave italiana riuscì ad evitarli tutti e sei. Iachino, ritenendo che gli aerei provenissero da basi a terra, vistosi scoperto e non avendo copertura aerea, alle 11.30 diede ordine di rientro a Taranto.

 

 

 

Bristol Blenheims Mk IV in World War II.

 

La squadra italiana fu ripetutamente attaccata da bimotori Bristol Blenhem delle basi greche alle 14.20, 14.50, alle 15.19 mentre era in corso un ennesimo attacco, furono improvvisamente avvistati gli aerosiluranti della Formidable, la corazzata italiana, accostò a dritta e riuscì ad evitare due siluri lanciati dalla distanza di 1000 m, mentre un terzo aerosilurante lanciò da una distanza inferiore, anche se questo gli costò l’abbattimento, alle 15.30 il siluro esplose a poppa aprendo una falla a 5 m sotto la linea di galleggiamento che provocò l’imbarco di 4.000 tonnellate di acqua, il blocco dei timoni e l’arresto della nave. Dopo pochi minuti, la nave riprese a muoversi seppur alla velocità di 16 nodi. Alle 16.42 i timoni ripresero a funzionare e la velocità aumento a 19 nodi.

 

 

Il VITTORIO VENETO appoppato da 4.000 t d'acqua dopo essere stato colpito da un siluro lanciato da un aereo della Fleet Air Arm durante la battaglia di Capo Matapan.

 

L’ammiraglio Iachino, lasciata libertà di manovra alla 8^ squadra per il rientro alla base, dispose tutte le altre unità a difesa della nave colpita, costituì un forte apparato difensivo, disponendo le unità su file parallele a meno di 900 m, con 2 caccia a prora, e due a poppa, sul fianco sinistro dispose gli incrociatori Trento, Trieste e Bolzano ed esternamente a questi: 3 caccia, sulla destra gli incrociatori Zara, Pola e Fiume, ed esternamente 4 caccia, con questa formazione sperava di giungere a Taranto senza ulteriori danni, ignaro che la flotta inglese si trovava a circa 60 miglia alle sue spalle.

Cunningham, intanto si rese conto che se non fosse riuscito a rallentare ulteriormente le navi italiane, non sarebbe mai riuscito a raggiungerle, infatti le sue navi sviluppavano una velocità di 20 nodi contro i 19 delle italiane, lanciare un attacco con gli incrociatori, avrebbe comportato la loro perdite, considerando il dispositivo difensivo italiano e la maggiore gittata dei cannoni italiani, decise pertanto di lanciare un ultimo attacco aereo nell’imminenza del tramonto.

Alle 19.30 nell’incerta luce crepuscolare gli aerei attaccarono la formazione italiana, che per 15 minuti, dimostrando grande perizia manovrò in formazione emettendo un intenso fuoco di sbarramento, alle 19.45 tutto finì e le navi proseguirono nelle tenebre.

 

 

Uno Swordfish  con i colori della FLEET AIR ARM  simile a quello pilotato da Michael Torrens-Spence che silurò il POLA.

 

 

Incrociatore GORIZIA classe ZARA

(Zara-Fiume-Pola-Gorizia)

 

 

 

Cacciatorpediniere ORIANI – classe Oriani

(Alfredo ORIANI-Vittorio ALFIERI-Giosué CARDUCCI-Vincenzo GIOBERTI)

 

 

Alle 20.11 fu intercettato un messaggio dal Pola che riferiva di essere stato colpito a poppa e di essere fermo e senza energia elettrica, non conoscendo la posizione della flotta inglese, Iachino autorizzò l’ammiraglio Cattaneo ad andare in soccorso del Pola, gli incrociatori Zara e Fiume, con i cacciatorpediniere Alfieri, Gioberti, Carducci e Oriani, invertirono la rotta.

Nel mentre alle 20.15 l’incrociatore Orion, aveva rilevato il Pola sul radar, credendo che si trattasse del Vittorio Veneto, inviò la posizione al comandante in capo e continuò l’inseguimento.

Alle 22.20 la corazzata Vailant, rilevò al radar il Pola ad una distanza di 6000 m, Cunningham, diede ordine di brandeggiare tutti i cannoni delle tre corazzate verso quella che riteneva l’ammiraglia italiana, pochi istanti prima dell’apertura del fuoco, il Commodoro Edelisten, scorse alla destra della formazione le sagome di due grosse navi (alla faccia del radar) che avanzavano verso di loro, furono rapidamente identificati come incrociatori italiani, le torri delle navi da battaglia furono brandeggiate sul lato opposto ed appena i riflettori illuminarono le navi (gli inglesi utilizzavano un sistema di oscuramento che permetteva loro di accendere i riflettori in anticipo cosi che fossero in piena efficienza al momento dell’uso senza però rilevare la posizione).

 

Un incrociatore della classe Zara sotto il fuoco nemico

 

I cannoni aprirono il fuoco riversando sulle navi tutta la loro potenza, alla distanza di 3500 m, non fu difficile colpire i bersagli, l’effetto del tiro ad alzo 0 fu micidiale, basti pensare che ogni proiettile pesava circa 900 Kg ed ad alzo zero il tiro era molto rapido, in quanto i cannoni si trovavano già in posizione di ricarica, lo Zara ricette 104 proiettili, mentre il Fiume fu colpito da 22, il tiro si diresse poi sui caccia, e solo l’Alfieri

 riuscì a rispondere al fuoco prima di essere affondato, mentre il Carducci fu affondato mentre cercava di stendere una cortina fumogena fra gli incrociatori e le corazzate, mentre L’Oriali e il Gioberti, seppur danneggiati, riuscirono a passare attraverso la formazione inglese ed a dileguarsi nel buio ( sempre alla faccia del radar), nonostante i colpi ricevuti lo Zara era ancora a galla, tanto che furono necessari tre siluri per affondarlo alle 2.40 del 29 marzo. Nel frattempo, il cacciatorpediniere Jervis si avvicinò al bersaglio immobile, identificandolo come il Pola, non riscontrando cenni di reazione, lo abbordò, l’equipaggio catturato e trasferito sul caccia, alle 3.40 lo stesso caccia, lanciò un siluro che affondò l’incrociatore.

 

Intanto Iachino, che rilevò il chiarore dei grossi calibri, capì la situazione, ed invio un messaggio a Roma per l’invio di soccorsi.

Fino alle 11.00 del mattino le navi inglesi perlustrarono l’area dello scontro alla ricerca di superstiti, poi apparvero gli aerei tedeschi, un po’ in ritardo, temendo attacchi, Cunningham diede l’ordine di rientro, mentre faceva lanciare un messaggio in chiaro all’ammiraglio Riccardi, con la posizione dello scontro, questo rispose di aver già provveduto all’invio della nave ospedale Gradisca, purtroppo la nave a causa della sua bassa velocità arrivò sul luogo solo il 31.

La notte di Matapan, costò alla Regia Marina oltre alla perdita di tre incrociatori pesanti e due cacciatorpediniere, la ben più dolorosa perdita di 2023 marinai, 782 dello Zara, 813 del Fiume, 328 del Pola, 211 dell’Alfieri e 169 del Carducci.

Gli effetti della battaglia, furono che le grandi navi della Regia Marina, non si spinsero più nell’Egeo e non tentarono più uscite offensive lontano dalle loro basi, Mussolini, riconobbe l’errore di aver bloccato la costruzione delle portaerei tanto richieste dalla Regia Marina, ordinando la costruzione dell’Aquila e dello Sparviero, che però non vennero mai completate. Ancora oggi il 29 di marzo, la Marina Militare onora i suoi caduti a MATAPAN, ricordando il sacrificio dei suoi caduti.

 

Bibliografia:

Grandi battaglie del XX secolo, Curcio Editore di Arrigo Petacco.

Storia della Marina Fabbri Editori

Le battaglie navali del mediterraneo nella seconda guerra mondiale, Modadori di Arrigo Petacco. 

 

Carlo GATTI

 

Rapallo,23 Marzo 2022

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


BRUNO DI LORENZI - EROE RAPALLESE

BRUNO DI LORENZI

EROE RAPALLESE

 

 

 

Targa commemorativa posta all’ingresso del molo al centro della passeggiata a mare che ricorda       

BRUNO DI LORENZI

Un grande Rapallino marinaio e palombaro (inserito in un nucleo speciale di nuotatori d’assalto
denominato GRUPPO GAMMA, che durante la seconda guerra mondiale si distinse al punto da
essere decorato con Medaglia d’argento al valore militare per le sue azioni di
sabotaggio ed affondamento di navi nemiche nel porto di Gibilterra.

 

 

“OPERATORI GAMMA TUTTI RIENTRATI – MISSIONE COMPIUTA”

STORIA > II GUERRA MONDIALE

 

 

La trasmissione cifrata giunge, attesissima, la mattina del 14 luglio 1941, al comando supremo della Xª Flottiglia MAS: la base navale inglese di Gibilterra era stata violata!

L’Operazione "GG1", questo il nome in codice dell'ardita missione, parte da lontano, dato che per eludere l'agguerrito spionaggio inglese e la possibile fuga di informazioni da parte di Supermarina, il comando della Xª MAS prepara la nuova ambiziosa missione in modo perfetto, depistando tutte le possibili fonti di delazione.

Si sta preparando, infatti, un nuovo e rivoluzionario metodo di attacco, addirittura differente da quelli già micidiali ed irridenti ai quali l’Italia ha fatto amaramente “abituare”, ob torto collo, i furenti comandi inglesi.

Una nuova unità della Flottiglia, denominata “Gruppo Gamma” e formata da atleti incredibili che univano allo spiccatissimo animo patriottico, un fisico e temperamento eccezionali, secondi unicamente al proprio insuperabile coraggio, era pronta ad assestare un nuovo - durissimo - colpo, al prestigio ed al morale della potente marina reale britannica.

Il 14 giugno 1941, tra i 60 sottufficiali e marinai inviati, come da routine, alla base sommergibili atlantica BETASOM di Bordeaux, si infiltrano una parte degli operatori Gamma, destinati all’Operazione GG1. Dopo alcuni giorni, il 23 giugno, questi senza farsi notare ed indossati abiti borghesi, si dileguano dalla base, raggiungendo dopo qualche giorno e con una perfetta operazione di infiltrazione segreta, durante la quale percorsero anche lunghissime tratte a piedi, in pieno territorio spagnolo, la meta di partenza dell’ardita ed ambiziosa missione.

La distanza dell’obiettivo della rada di Gibilterra dalla base segreta ricavata nelle stive di Nave Olterra, internata ed ormeggiata in territorio spagnolo, era notevole anche per le eccezionali capacità atletiche degli operatori Gamma, cosicché si decise di preparare un piano di attacco alternativo.

Un paio di mesi prima, una coppia di italiani – i coniugi Ramognino - che avevano lasciato intendere agli spagnoli di aver voglia di scampare alla guerra, aveva preso in affitto una casa sulla costa, proprio nei pressi di Gibilterra: Villa Carmela.

Le squadre di attacco del "Gruppo Gamma", i cui operatori provenivano da varie direzioni, alcuni dopo aver sostato a Cadice, altri a Madrid e dopo un breve passaggio dalle segrete stive dell’Olterra, giunsero finalmente in località La Linea. Qui, si nascosero proprio a Villa Carmela, ove nel frattempo i servizi logistici della Flottiglia avevano fatto giungere, in gran segreto, le semplici ma micidiali attrezzature d’attacco.

Beh! Raccontata così sembra già difficile, per non dire impossibile, figuriamoci compierla una missione così articolata! Siamo certi che lo scrittore britannico Fleming, per le avventurose storie inventate per il suo famoso "007", abbia attinto a piene mani dalle straordinarie operazioni sotto copertura dei micidiali uomini della Decima MAS. Con una sola differenza: quelle di James Bond erano frutto di pura fantasia; le altre, invece, sono Storia divenuta meravigliosa Leggenda.

Al calar delle tenebre della sera del 13 luglio, inizia tra mille incognite la delicata fase dell’attacco.

La nuova e rivoluzionaria squadra di assalto italiana, composta da ben 12 straordinari marinai appartenenti al Gruppo "GAMMA", nuova arma segreta della più micidiale unità di assalto subacquea di tutti i tempi - la Xª Flottiglia MAS - eludono, a nuoto, tutte le difese e le ostruzioni disseminate attorno alla super protetta e strategica base navale inglese.

Nuotando faticosamente tra le fortissime correnti provenienti dall'oceano, per interminabili ore, con durissime fasi di devastante apnea, armeggiano con somma perizia sotto le chiglie dei mercantili Alleati, carichi di preziosi rifornimenti. Evitando, magistralmente, le decine di sentinelle che pattugliano la rada e le numerosissime esplosioni procurate dalle micidiali bombe di profondità, portano infine a compimento una missione perfetta.

L’esito dell’Operazione GG1 è, infatti, semplicemente straordinario.

E' da poco sorta l'alba, nella desolante ed incendiata baia di Gibilterra. La "Decima" ha appena inferto agli inglesi un duro colpo, mostrandogli un nuovo ed incredibile metodo di attacco, danneggiando pesantemente i preziosi carichi imbarcati e costringendo all'incaglio addirittura 4 navi, per un totale di ben 9.465 tonnellate.

Dalle garitte in subbuglio ed in allarme del porto inglese, più di un ufficiale britannico osserva, sconsolato e con lo sguardo perso nel vuoto, la vastità di quel mare che cela le storie e l'identità di un pugno di eroi, verso i quali risulta proprio impossibile non nutrire, misto certamente ad astio e timore, una profonda e sconfinata ammirazione.

Quella notte, tutti i 12 meravigliosi "Uomini Gamma" che si infiltrarono nelle acque molto vigilate e pattugliate antistanti la base inglese, nuotando con assurda fatica dal confinante territorio spagnolo, riuscirono addirittura anche ad esfiltrare, a missione compiuta, senza subire perdita alcuna!

Per questa eccezionale azione, tutti i magnifici 12 Uomini Gamma furono decorati di Medaglia d'Argento al Valor Militare.

Ecco, ad imperitura memoria di sommo coraggio e puro patriottismo, i loro nomi:

Agostino STRAULINO

Giorgio BAUCER

Alfredo SCHIAVONI

Alessandro BIANCHINI

Carlo DA VALLE

Giuseppe FEROLDI

Vago GIARI

Evidio BOSCOLO

Bruno DI LORENZO

Rodolfo LUGANO

Giovanni LUCCHETTI

Carlo BUCOVAZ

 

 

 

 

Per conoscere meglio l'eroe BRUNO DI LORENZI abbiamo scelto un altro GRANDE "rapallino" EMILIO CARTA il quale, nella PRIMA PUBBLICAZIONE (2002) di Mare Nostrum Rapallo,  scelse Bruno De Lorenzi come EMBLEMA del coraggio e delle  capacità natatorie della gente del TIGULLIO.

 

 

 

 

 

 

 Carlo GATTI 

il quale desidera aggiungere ancora alcune riflessioni e ricordi di gioventù:

Bruno de Lorenzi nacque nel 1920, compì una doppia impresa a Gibilterra nel 1943, come abbiamo appena scritto, e solo nel 2002, ultimo di una schiera di "eroi nazionali" ancora in vita, ebbe l’onore di presenziare ad una cerimonia importante come Testimonial.

Il suo essere umile “marinaio” delle NAGGE per tutta la vita lo confinò nella sua spiaggia preferita circondato soltanto dai suoi AMICI fraterni, marinai come lui, tenendosi ben distante dai riflettori della storia. Lo ricordo verso la metà degli anni ’50, ancora in gran forma, nuotare come uno squalo ed avventarsi sul pallone che poi scagliava con una forza notevole nella porta di pallanuoto (Bagni Tigullio) presidiata dal sottoscritto… Bruno era un duro! Non era facile al sorriso. Il suo sguardo non era minaccioso, ma penetrante come una lama, non era alto ma sembrava scolpito nell’acciaio.

Le persone di poche parole e di grande temperamento non hanno bisogno  della pubblicità perchè non la amano proprio!

E’ stato un grande onore conoscerlo!

 

 

Rapallo 2 Marzo 2023

 

 

 

 

 


LAURA BASSI - ORGOGLIO ITALIANO

LAURA BASSI

ORGOGLIO ITALIANO

 

Grande giornata per la LAURA BASSI - la nave rompighiaccio dell’OGS - Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale, che nel corso della 38ª spedizione italiana del Programma Nazionale di Ricerche in Antartide - PNRA, ha toccato la Baia delle Balene: il punto più a sud mai raggiunto da una nave.

Partita da Trieste lo scorso 17 dicembre, ha solcato i mari per quaranta giorni alla volta della Nuova Zelanda ed ora del Mare di Ross. *

Complimenti a tutto l’equipaggio, che ha tagliato un altro grande traguardo per il nostro Paese.

 

 

- La baia delle Balene (in inglese Bay of Whales) è una baia antartica della dipendenza di Ross. Localizzata ad una latitudine di 78° 30' sud e ad una longitudine di 164°20' ovest, la baia si trova al limite della barriera di Ross, lungo la costa settentrionale dell'Isola Roosevelt.

 

 

 

La nave rompighiaccio a metà dicembre è salpata per una missione che la condurrà nelle acque del Polo Sud, ma la campagna scientifica inizierà dal mese di Gennaio 2020, ha precisato Paola Rivaro, oceanografa dell’università di Genova e responsabile scientifica della spedizione e ha poi dichiarato: uno degli obiettivi della Spedizione è quello di studiare le acque in relazione ai cambiamenti climatici, monitorare la superficie del ghiaccio, la fusione della calotta polare e la contaminazione ambientale.

 

 

 

 

IL CHIAVARESE

RICCARDO SCIPINOTTI

Uno dei CAPI SCIENTIFICI che si sono alternati sulla nave rompighiaccio

LAURA BASSI

 

Riccardo Scipinotti

Also published under: R. Scipinotti 

Affiliation

ENEA (Italian Agency for New Technologies Energy and Sustainable Economic Development) Research Center of Bologna, Bologna, Italy.

Publication Topics

Beverages, food safety, bioMEMS, biological techniques, chromatography, contamination, food products, hydrogen, insulation, lab-on-a-chip, microactuators, microchannel flow, microfabrication, optoelectronic devices, photodiodes, portable instruments, quality control, silicon, thermal conductivity, toxicology, photodetectors, amorphous semiconductors, elemental semiconductors, thin film sensors, DNA

Biography

Riccardo Scipinotti received the master’s degree and the Ph.D. degree in electronic engineering from the Sapienza University of Rome, Rome, Italy, in 2005 and 2009, respectively. His Ph.D. dissertation focused on the study and fabrication of a lab-on glass system for the detection and analysis of biomolecules by using thin-film technologies. He is currently a Researcher with ENEA, Italian Agency for New Technologies Energy and Sustainable Economic Development, Bologna, Italy. He is also with the Information and Communication Technologies Group, Antarctic Technical Unit, ENEA, where he is in charge to actuate the scientific research programs in the annual Italian Antarctic expedition.(Based on document published on 26 April 2018).

 

YOU TUBE: Interviste a Riccardo Scipinotti Capo Scientifico della Spedizione in Antartico

https://www.facebook.com/watch/?v=447454506432749

https://www.facebook.com/watch/?v=165000028143800

 

LUNEDI’ 5 FEBBRAIO 2023 il SECOLO XIX

Intitolava

Due liguri a bordo della nave arrivata nel punto più a Sud mai toccato:

“Siamo nella storia”

L’emozione del chiavarese Alessio Andreani, ufficiale di navigazione. “Ho festeggiato il record con una telefonata a mia mamma"

“NOI LIGURI A DUE PASSI DAL POLO, MAMMA, SIAMO NELLA STORIA”

 

 

Da sinistra, il comandante Franco Sedmak con i liguri Diego De Nardi (al centro) e l’ufficiale chiavarese Alessio Andreani

 

 LAURA BASSI

salpa verso l'Antartide

05/01/2023

 

 

Laura Bassi, foto di Riccardo Scipinotti PNRA

 

 

 

COMUNICATO STAMPAConsiglio Nazionale DELLE RICERCHE

05/01/2023

La nave rompighiaccio italiana Laura Bassi ha lasciato il porto di Lyttelton in Nuova Zelanda, facendo rotta verso l’Antartide.

Inizia così la missione prevista per la 38° campagna in Antartide finanziata dal Ministero dell’Università e Ricerca (MUR) nell’ambito del Programma Nazionale di Ricerche in Antartide (PNRA), gestito dall’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l'energia e lo sviluppo economico sostenibile – ENEA per la pianificazione logistica e dal Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) per la programmazione scientifica. 

 

Quest’anno le attività a bordo della nave Laura Bassi, di proprietà dell’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale – OGS, si svolgeranno nell’arco di due mesi, nel corso dei quali saranno realizzate due diverse campagne oceanografiche. Durante le due tratte nel Mare di Ross, 28 tra ricercatrici e ricercatori si alterneranno per portare avanti le attività di ricerca previste nell’ambito di 8 progetti finanziati dal PNRA oltre alle attività in collaborazione con l’Istituto Idrografico della Marina Militare.

Il viaggio della Laura Bassi è iniziato lo scorso 17 novembre quando ha lasciato Trieste per raggiungere il porto di Ravenna e da qui, dopo aver caricato personale e materiali, ha intrapreso una navigazione di circa 40 giorni, non priva di imprevisti. Il 20 novembre la nave ha, infatti, tratto in salvo 94 migranti intercettati su un’imbarcazione alla deriva a largo delle coste greche. 

A fine dicembre è approdata a Lyttelton per le attività di carico di materiale e carburante e per imbarcare il personale scientifico, in parte destinato alla Base italiana in Antartide Mario Zucchelli (MZS): più precisamente 18 containers, circa 300 mc di carburante (ISO Tanks e Bulk), un mezzo antincendio dei vigili del fuoco, 34 tecnici e ricercatori del PNRA oltre a 24 membri dell’equipaggio della nave.

Chiuse le operazioni di carico, il 5 gennaio la nave è partita dal porto di Lyttelton alla volta del Mare di Ross dove svolgerà le prime attività scientifiche fino al 15 gennaio 2023, quando la rompighiaccio arriverà alla Stazione Mario Zucchelli per lo scarico del materiale, operazioni che dureranno circa 4 giorni.


La campagna navale nell’emisfero australe prevede quest’anno una sola rotazione tra la Nuova Zelanda e l’Antartide. Le attività svolte sono state raggruppate, in base alla zona di lavoro e alla tipologia di ricerche, in due campagne oceanografiche di pari durata che hanno come punto di contatto la Stazione Mario Zucchelli (MZS).


Una pianificazione dettata dalla volontà di massimizzare i giorni di attività scientifica nel Mare di Ross, ottimizzando i consumi di carburante. 

La prima campagna oceanografica (5 gennaio 2023 - 4 febbraio 2023) sarà dedicata a sette diversi progetti che prevedono: attività di lancio e recupero di boe (floating e drifter) per lo studio della circolazione marina; recupero e messa a mare dei “mooring”, ovvero sistemi di misura ancorati al fondo del mare utilizzati per lo studio di caratteristiche fisico e chimiche della colonna d’acqua; carotaggi tramite “multicorer” o “box corer” e carotaggi per lo studio geologico del fondale marino. Inoltre, ci saranno attività di pesca scientifica oltre a indagini di laboratorio biologico e chimico fisico. Verrà effettuata anche un'attività specifica legata alla mappatura del fondale marino per la realizzazione di mappe di aree ancora non cartografate. Il 4 febbraio 2023 la nave farà ritorno alla Stazione MZS per effettuare il cambio del personale scientifico, sbarcando quello che ha ultimato il suo periodo a bordo e imbarcando quello che dovrà partecipare alla seconda campagna oceanografica. Inoltre, verranno eseguite le operazioni di carico dei container da riportare in Nuova Zelanda e in Italia.

Il 6 febbraio 2023 verrà imbarcato il personale PNRA, logistico e scientifico, che opererà a bordo fino al 28 febbraio 2023 e la nave partirà per l’esecuzione della seconda campagna oceanografica nel Mare di Ross, portando a completamento le attività avviate nel corso della prima campagna ed effettuando ulteriori indagini geofisiche di sismica a riflessione.
Il rientro al porto di Lyttelton in Nuova Zelanda è previsto per il
6 marzo 2023, dopo circa 6 giorni di navigazione, mentre quello in Italia è atteso nella seconda metà di aprile 2023.

 

 

Oltre 78° gradi di latitudine Sud. E’ il record raggiunto dalla nave rompighiaccio Laura Bassi. L’equipaggio italiano in missione di ricerca in Antartide si è spinto là dove nessuno era mai arrivato a bordo di un’imbarcazione.

 

UN PO’ DI STORIA

 

 

M/n ITALICA

Prima della Laura Bassi, in servizio per l’Antartide vi fu una nave da carico convertita in rompighiaccio. Questa nave si chiamava ITALICA, ed è stata venduta per la demolizione nel 2017. A differenza della Laura Bassi, questa nave non nacque con l’obbiettivo di essere una nave da “supporto polare”, ma era una semplice nave da carico dotata di una prora speciale in grado di scivolare sulle banchise e di romperle con il proprio peso (vedi foto sopra).

 

PRIMA ANCORA….

 POLAR QUEEN

 

 

23 dicembre 1985 - la nave Polar Queen raggiunge il punto prescelto per la prima base italiana in Antartide: Baia Terra Nova, propaggine estrema della Terra Vittoria. Protagonisti dell’impresa sono 42 tra ricercatori, equipaggio nave e Stato Maggiore. Tra loro Carlo Stocchino, coordinatore scientifico del CNR, Celio Vallone, capo del Progetto Antartide dell’ENEA e il generale Ezio Sterpone, responsabile della prima Spedizione nazionale.

Una penna nera tra i ghiacci e l'Italia scoprì l'Antartide

La prima spedizione italiana in Antartide partì da Genova il 27 ottobre 1985. Portò all'individuazione del sito idoneo alla realizzazione di una Base permanente a Baia Terra Nova (BTN) e all' impostazione delle prime ricerche scientifiche. Come nave appoggio e per il trasporto del personale venne usata la nave Polar Queen.

(Chi scrive ricorda d’averla messa in partenza dal Molo Vecchio Porto-Genova)

I risultati raggiunti portarono all'ammissione dell'Italia nel gruppo dei Membri Consultivi del Trattato Antartico nel corso della riunione ordinaria dell'ottobre 1987 a Rio de Janeiro. La spedizione era comandata dal generale degli Alpini Ezio Sterpone (nato a Genova il 16 febbraio 1933, tra l'altro ha comandato la Brigata Alpina «Taurinense», la Scuola Militare Alpina di Aosta e il 19° Comando Operativo Territoriale di Genova, ora Comando Reclutamento e Forze di Completamento regionale "Liguria" comandato oggi dal generale di brigata Piercorrado Meano), vi facevano parte il tenente colonnello Mauro Spreafico, l' ufficiale medico Enzo Giacomin e la guida, il maresciallo Lorenzo Boi. Responsabile Scientifico ne fu il professor Carlo Stocchino.

 

 

 

La nave rompighiaccio Laura Bassi

 

La N/R Laura Bassi è la prima nave da ricerca “rompighiaccio”. Dal 2019 è registrata e certificata in Italia per navigare nei mari polari. Da quella data, il PNRA può contare sulla disponibilità dell’unica nave italiana utilizzata per la ricerca oceanografica e il trasporto di materiali e persone in Antartide. È una rompighiaccio categoria A classe PC5 ed è stata concepita come una nave speciale combinando in maniera ottimale sia capacità cargo sia di ricerca scientifica. Ha una stazza di 4028 tonnellate, è lunga 80 metri e larga 17 metri, ha un sistema di posizionamento dinamico che le garantisce un’elevata manovrabilità e un’accuratezza di stazionamento in un prefissato punto dell’ordine di 1 metro. La struttura del fasciame, particolarmente robusta, le permette di operare in mari coperti da ghiaccio senza temere danni strutturali. 

In realtà la LAURA BASSI fu costruita in Norvegia per una compagnia di navigazione norvegese. Passò di proprietà britannica e successivamente italiana. Pur essendo passata di mano due volte, è considerata una nave ancora nuova.

 

L’acquisto

“Ernest Shackleton”

 

Smantellata nel 2017 la nave Italica, nel maggio 2019, l’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale acquistò per 12 milioni di euro, la nave “Ernest Shackleton” della compagnia di navigazione norvegese Rieber Shipping, grazie a un finanziamento ricevuto dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca. Ribattezzata “Laura Bassi”, la nave è oggi al servizio di tutta la comunità scientifica nazionale, grazie a un accordo tra i principali Enti nazionali che studiano le aree polari e ne gestiscono le infrastrutture.


CARATTERISTICHE

 

La nave rompighiaccio Laura Bassi vanta di essere l’unica unità italiana che rispetta le nuove regole internazionali dettate dal ‘Polar Code’ sul design, la costruzione e l’equipaggiamento delle navi e sulla formazione dell’equipaggio, per la salvaguardia della vita umana in mare e la protezione dell’ambiente.

 

 

Sala controllo

 

Caratteristiche tecniche

·       Anno di costruzione: 1995

·       Conforme al Polar Code

·       Lunghezza 80 m

·       Larghezza 17 m

·       Stazza: 4028 t

·       Tipo: Rompighiaccio: ICE 05 E0 – Special Purpose Ship

·       Posizionamento dinamico secondo livello (DP2)

·       Potenza installata: 5.100 kW

·       Velocità di crociera: 12 nodi

·       Combustibile: gasolio marino a bassissima percentuale di zolfo nelle casse nave e gasolio per aviazione
jet-A1 in serbatoi separati

·       Autonomia: 60 giorni

Capacità di carico e trasporto

·       Gru da 50 t a 10 m

·       Stiva da 3000 m3

·       Ponte di volo per elicotteri

 

Gru telescopica e gru cargo

 

Alloggi:

  • 37 cabine (da 1,2,3,4 posti)

  • 22 posti per equipaggio

50 posti per personale scientifico

 

                           Le cabine

 

Capacità di ricerca:

  • laboratorio umido e asciutto (90m2totali)

  • ampia area di operazioni a poppa

  • gru telescopica di poppa per la messa a mare, portata 10 t

  • gru cargo su ponte di coperta, portata 5 t a 10 m

Alloggiamento per container-laboratorio con collegamento diretto all’area operazioni di poppa

 

Laboratorio secco

 

Tempo libero

  • Mensa

  • Zone ricreative

  • Lavanderia

  • Sauna

  • Palestra

  • Spogliatoi dedicati

Sala ricreativa

 

 

Infermeria

 

 

 

La nave fu chiamata Laura Bassi in onore della scienziata italiana che nel 1700 divenne la prima donna al mondo a ottenere una cattedra universitaria.

 

 

CHI ERA LAURA BASSI ?

 

Laura Bassi, nata a Bologna il 29 ottobre 1711, fu la seconda laureata d'Europa. Versata in moltissime materie (biologia, matematica, logica, filosofia, latino, greco e francese, studiate a casa), fu accolta nel 1732 all'Accademia delle scienze. Lo stesso anno discusse all'università bolognese due tesi, ottenendo una cattedra onoraria di filosofia per 500 lire annue – ma poteva insegnare solo in certe occasioni.

Famosa in tutta Europa, intraprese studi di fisica sperimentale e matematica con il medico Giuseppe Veratti, che sposò nel 1738. Con lui ebbe 8 figli e organizzò in casa un laboratorio di fisica sperimentale newtoniana e un salotto culturale, e qui dal 1749 iniziò a insegnare la disciplina a universitari, aggirando il divieto di insegnamento per le donne; l'ateneo comunque le raddoppiò lo stipendio.

Ogni anno la Bassi teneva dissertazioni all'Accademia delle Scienze sugli argomenti più svariati. Grazie alla sua autorevolezza scientifica nel 1776 le venne assegnato il posto di professore di fisica sperimentale nell'Istituto delle scienze dell'Università di Bologna.

La figura di Laura Bassi è davvero importante perché nonostante i limiti posti al suo insegnamento dalle regole dell'Università di Bologna e dal comune pensiero accademico del tempo che quasi escludeva le donne dall'insegnamento, riuscì a costruirsi una notevole carriera accademica. Ma non solo: le sue ricerche nel campo della fisica newtoniana e le sue sperimentazioni nella dinamica dei fluidi, nell'ottica e nell'elettricità, erano all'avanguardia.

Tra i suoi primi allievi ci fu Lazzaro Spallanzani, suo lontano parente: grazie all'influenza di Laura Bassi, Spallanzani abbandonò gli studi di giurisprudenza e si avvicinò prima alla fisica e poi alle scienze naturali.

La coppia Bassi-Veratti come detto animò un salotto culturale ricco di incontri e scambi filosofici e scientifici sull'onda della cultura illuministica che si stava affermando in tutta Europa. La loro casa, oltre a essere un laboratorio e a ospitare lezioni, divenne così un centro di cultura scientifico frequentato da scienziati e studenti italiani e stranieri. Grazie a questi scambi Bassi entrò in contatto con i più importanti studiosi del suo tempo, da Volta a Voltaire.

La mattina del 20 febbraio 1778 Laura Bassi morì improvvisamente. Fu onorata con solenni esequie e seppellita, rivestita con le insegne dottorali.

Consiglio Nazionale delle Ricerche

 

Record mondiale per la nave rompighiaccio Laura Bassi

 

 

Nave Laura Bassi in Baia delle balene (Mare di Ross - Antartide) - foto Scipinotti/Ferriani©PNRA

 

 

31/01/2023

Nave Laura Bassi in Baia delle balene (Mare di Ross - Antartide) - foto Scipinotti/Ferriani©PNRA

Record mondiale assoluto per la nave rompighiaccio italiana Laura Bassi, che ha toccato il punto più a sud mai raggiunto da una nave, nel corso della campagna oceanografica della 38° Spedizione Italiana del Programma Nazionale di Ricerche in Antartide (Pnra).

I ricercatori e i tecnici a bordo hanno raggiunto, all’interno della Baia delle Balene, un sito ad oggi inesplorato che si trova alla latitudine di 78° 44.280’ S, il punto più meridionale mai raggiunto nel Mare di Ross in Antartide, per effettuare importanti campionamenti previsti nell'ambito del progetto "BIOCLEVER" (Biophysical coupling structuring the larval and juvenile fish community of the Ross Sea continental shelf: a multidisciplinary approach) coordinato dall'Istituto di scienze polari (Cnr-Isp) del Consiglio nazionale delle ricerche, grazie anche alla collaborazione dell’osservatorio marino MORSea (Università Parthenope).

Le condizioni del mare, straordinariamente libero dai ghiacci, hanno consentito di effettuare una profilatura CTD e attività di pesca scientifica a ridosso del Ross Ice SHelf - RIS che in questa posizione è particolarmente basso (circa 8 metri di altezza). I primi risultati dello studio dei parametri fisici dell’acqua marina (dalla superficie fino alla profondità prossima al fondale di 216m) hanno evidenziato la presenza di acqua particolarmente fredda e si confermano di grande importanza per lo studio della dinamica delle correnti nel Mare di Ross. Inoltre, una prima analisi del materiale prelevato dai ricercatori ha evidenziato un’elevata densità di stadi larvali e giovanili di specie ittiche, evidenziando la presenza di alcune varietà raramente osservate nel Mare di Ross oltre la presenza di elevate masse di alghe unicellulari che denotano un’elevata produzione primaria e incoraggiano ulteriori ricerche.

Il viaggio della Laura Bassi è iniziato lo scorso 17 novembre quando ha lasciato Trieste per raggiungere il porto di Ravenna e da qui, dopo aver caricato personale e materiali, ha intrapreso una navigazione di circa 40 giorni, verso la Nuova Zelanda. Il 5 gennaio ha lasciato il porto di Lyttelton alla volta della Stazione Mario Zucchelli e del Mare di Ross. La nave è, infatti, attualmente impegnata nella 38° campagna in Antartide finanziata dal Ministero dell’Università e Ricerca (MUR) nell’ambito del Programma Nazionale di Ricerche in Antartide (Pnra), gestito dall’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l'energia e lo sviluppo economico sostenibile (Enea) per la pianificazione logistica e dal Consiglio nazionale delle ricerche per la programmazione scientifica.

Quest’anno le attività a bordo della nave Laura Bassi, di proprietà dell’Istituto nazionale di oceanografia e di geofisica sperimentale (Ogs), sono state organizzate dall’Unità Tecnica Antartide di Enea in un’unica rotazione suddividendo la campagna in due campagne oceanografiche nel Mare di Ross, intervallate dalla sosta presso la stazione Mario Zucchelli, nel corso delle quali 46 tra ricercatrici, ricercatori e tecnici  complessivamente si alterneranno per portare avanti le attività di ricerca previste nell’ambito di 8 progetti finanziati dal PNRA oltre alle attività in collaborazione con l’Istituto Idrografico della Marina Militare.

Il record è stato raggiunto nel corso della prima campagna oceanografica dedicata a sette diversi progetti che prevedevano: attività di il lancio e recupero di boe (floating e drifter) per lo studio della circolazione marina; recupero e messa a mare dei “mooring”, ovvero sistemi di misura ancorati al fondo del mare utilizzati per lo studio di caratteristiche fisico e chimiche della colonna d’acqua; carotaggi tramite “multicorer” o “box corer” e carotaggi per lo studio geologico del fondale marino, attività di pesca scientifica e indagini di laboratorio biologico e chimico fisico. È stata anche condotta un'attività specifica legata alla mappatura del fondale marino per la realizzazione di mappe di aree ancora non cartografate in collaborazione con l’Istituto Idrografico della Marina Militare Italiana.

La prima campagna oceanografica si avvicina alla conclusione con il cambio di personale scientifico presso la stazione Mario Zucchelli il 4 Febbraio. Dopo le operazioni di carico del materiale e dei campioni scientifici provenienti dalle stazioni di Mario Zucchelli e Concordia, la Laura Bassi ripartirà il 7 Febbraio per la sua seconda campagna oceanografica.  

Il rientro al porto di Lyttelton in Nuova Zelanda è previsto per il 6 marzo 2023, mentre quello in Italia è atteso per la seconda metà di aprile 2023.

 

 

Programma Nazionale di Ricerche in Antartide (PNRA)

foto Lorenzo Facchin©PNRA

 

 

Ho scelto e riporto integralmente per i nostri lettori il reportage dell’inviato speciale di MONDOINTASCA essendo una meravigliosa IMMERSIONE in un clima freddo che, tuttavia, ci permette di percepire il “calore umano” e la professionalità dei nostri connazionali impegnati in una fantastica e storica avventura… che ha per obiettivo tanto lavoro di ricerca per dare risposte anche al fenomeno naturale che stiamo vivendo:

IL CAMBIAMENTO CLIMATICO!

 

30 Gennaio 2023 alle 16:39

 

In Antartide con la spedizione scientifica italiana

 

La 38ª spedizione del Programma di ricerche in Antartide gestito da Enea e CNR è salpata dal porto di Lyttelton in Nuova Zelanda il 6 gennaio. A bordo della rompighiaccio Laura Bassi anche un Reporter di Mondointasca per raccontare la missione.

di Stefano Valentino

Ritorniamo dopo sei anni ai confini del mondo. Mondointasca vi porta di nuovo in Antartide per mostrarvi il lavoro degli scienziati italiani che studiano i cambiamenti climatici. Il nostro reporter, Stefano Valentino, si è imbarcato in Nuova Zelanda a bordo della rompighiaccio Laura Bassi dell’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale (OGS) di Trieste. La missione Antartide i nostri lettori la possono seguire attraverso la sezione dedicata ANTARTIDE che mostra in diretta il percorso e le tappe. 

 

 

Particolare della nave italiana rompighiaccio Laura Bassi (ph. s. valentino © mondointasca.it)

 

È passato quasi un mese dalla nostra partenza (il 6 gennaio) dal porto di Lyttelton in Nuova Zelanda. Ma abbiamo smesso di contare i giorni. Nell’estate australe il sole non tramonta mai. Il viaggio della missione Antartide prosegue lungo interminabili coste imbiancate, dandoci l’impressione di restare inerti nel tempo e nello spazio. A scandire il flusso della quotidianità sono solo i pasti e le attività di ricerca. Queste ultime condotte dagli scienziati e i tecnici a bordo secondo orari concordati dal comandante Franco Sedmak, il capo spedizione Riccardo Scipinotti e Pasquale Castagno, coordinatore scientifico della campagna oceanografica.

 

 

La sconfinata banchina di ghiaccio frantumato (ph. s. valentino © mondointasca.it)

Si tratta della 38a spedizione organizzata nell’ambito del Programma nazionale di ricerche in Antartide (PNRA), gestito da ENEA e CNR. Le distese di ghiaccio che ci circondano, quelle in mare e quelle sul continente, rappresentano un’incantevole immensità. I ricercatori li scompongono in elementi da studiare per cercare di capire l’evoluzione del clima terrestre. Scienza e meraviglia si fondono a ogni tappa del viaggio. La prima fermata è stata alla stazione italiana Mario Zucchelli. Seconda tappa al ghiacciaio Campbell fino a Cape Washington, non distante dalla base; poi attraverso una sterminata banchisa verso sud e infine al Ross Ice Shelf (RIS), il ghiacciaio più grande del mondo.

 

Missione Antartide: i fantasmi degli antichi ghiacciai

 

 

Muraglie di ghiaccio (ph. s. valentino © mondointasca.it)

 

Come molti altri ghiacciai antartici, il RIS scende giù dal continente. Nella parte terminale si appoggia sul mare, creando una monumentale muraglia alta oltra 30 metri. La costeggiamo per giorni, inseguendo con lo sguardo a destra e sinistra la tortuosa sagoma. Vediamo che si allunga, assottiglia e opacizza fino al punto in cui l’occhio umano non riesce più a vedere. I fronti glaciali si estendevano ben oltre l’area in cui navighiamo. Dove ora c’è il blu, in epoche passate c’era solo bianco. Di fatto, attraversiamo i fantasmi degli antichi ghiacciai. Studiare la loro evoluzione è fondamentale per capire qual è stato l’impatto delle temperature. Ma anche per valutare in che misura l’effetto del riscaldamento globale potrebbe contribuire alla loro ulteriore fusione.

 

Missione Antatide: i cambiamenti dei fronti glaciali

 

 

Tecnici preparano gli strumenti da mettere in mare (ph. s. valentino © mondointasca.it)

 

“È fondamentale formulare modelli predittivi che anticipano l’entità di future fusioni glaciali″, spiega Luca Gasperini, ricercatore dell’Istituto di Scienze marine del CNR. Durante la navigazione dirige il progetto Disgeli scandagliando i fondali per individuare segni di arretramento o avanzamento delle lingue glaciali sottomarine negli ultimi 10mila anni; In pratica il periodo intercorso dall’ultima glaciazione. L’obiettivo è confrontare la variazione nel tempo dei fronti glaciali con quella dell’atmosfera intrappolata nelle carote di ghiaccio estratte sul continente col progetto Beyond Epica. Le carote di ghiaccio quest’anno saranno trasportate per la prima volta con la nave in Italia per l’avvio delle analisi.

 

 

Sonda in fase d’immersione (ph. s. valentino © mondointasca.it)

 

″Il raffronto ci permette di prefigurare le condizioni di CO2, e quindi di temperatura, che potrebbero innescare una fusione della calotta glaciale antartica. Fenomeno che innalzando il livello dei mari, sommergerebbe le zone costiere″, conclude Gasperini. Per determinare la variazione dei fronti glaciali vengono raccolti campioni di sedimenti che si sono depositati sui fondali marini. La raccolta avviene nei punti in cui i ghiacciai erano ancorati alla base rocciosa. Innanzitutto vengono identificati i sedimenti con un particolare strumento acustico, chiamato Topas, dopodichè la nave si arresta sopra ogni punto e con un carotiere calato in profondità vengono estratte appunto carote di sedimento, intrappolati in lunghi tubi, che vengono trasportate in Italia per essere analizzate.

Missione Antartide: il fondamentale ruolo dei venti

 

 

Ponte della nave e cabina comandi (ph. s. valentino © mondointasca.it)

 

Le conversazioni con gli scienziati, che siano in laboratorio o nelle sale di ricreazione a prua, ci aiutano a osservare il ghiaccio con occhi diversi. Impariamo che l’Antartide non è un unico conglomerato ghiacciato che si estende dal continente al mare, ma che il ghiaccio continentale (formato dalle precipitazioni nevose) e diverso dalla banchisa galleggiante che e frutto del congelamento del mare. Comprendiamo le interazioni del ghiaccio marino con gli altri due elementi freddi, l’aria e l’acqua, che mantengono l’Antartide nel suo stato di mistica e aliena immobilità.

 

Stefano Valentino sulla nave rompighiaccio con la sua attrezzatura (ph. © mondointasca.it)

 

Mentre siamo appostati sui ballatoi esterni del ponte di comando per fotografare gli spazi metafisici che ci circondano, le nostre dita vengono spesso morse dagli artigli freddi dei cosiddetti venti catabatici. Questi venti non soffiano da nessun luogo. Semplicemente precipitano dalle alture del continente a causa della loro bassa temperatura che li rende particolarmente pesanti. Svolgono un ruolo importantissimo. Non solamente raffreddano la superficie del mare, facilitandone il congelamento, ma spazzano a largo il ghiaccio marino già formatosi, sgomberando ampie porzioni di mare dove puo creare un’ulteriore quantità di ghiaccio.

 

Circolazione oceanica e clima terrestre

 

 

Nave rompighiaccio Laura Bassi (ph. s. valentino © mondointasca.it)

La formazione del ghiaccio marino e un fattore capace di influenzare il clima terrestre. Infatti, ghiacciando, l’acqua rilascia sale nelle masse d’acqua sottostanti che diventando dense e pesanti, sprofondano e fluiscono verso nord; mentre quelle calde dall’Equatore si dirigono verso i poli″, spiega Pasquale Castagno, ricercatore all’Università di Messina. A bordo è responsabile del progetto MORSea dell’Università Parthenope di Napoli”.

Aggiunge: ″queste correnti che fluiscono in direzioni opposte innescano la circolazione oceanica globale che garantisce un’equa distribuzione del calore sul globo terrestre, mantenendo le condizioni ottimali per la vita come la conosciamo″.

È stupefacente guardare il manto di ghiaccio tagliato e frantumato dalla chiglia della nave. Si percepisce mentalmente il freddo ostile delle acque sottostanti capaci di porre fine alla vita di un essere umano in pochi istante; al tempo stesso va considerato che tutto questo gelo mette in moto un meccanismo che è fonte di vita nelle zone temperate da cui proveniamo.

Missione Antartide: effetti contrapposti del ghiaccio

 

 

Montagne nel ghiaccio (ph. s. valentino © mondointasca.it)

 

Sulla Laura Bassi, impariamo che il clima è una cosa complessa. “Il ghiaccio marino ha effetti paradossalmente contrapposti. Da una parte col suo colore bianco riflette la luce e quindi l’energia solare, impedendo il surriscaldamento del mare, dall’altra, proteggendo lo stesso mare dai venti freddi, impedisce il congelamento delle acque”, commenta il paleoclimatologo dell’Istituto di Scienze Polari del CNR. Aggiunge: “e quindi importante analizzare quest’insieme di retroazioni, come ci prefiggiamo di fare col nostro progetto Greta, al fine di comprendere in quale modo la formazione del ghiaccio marino e delle acque dense, generate dal rilascio di sale, è evoluta in passato per anticipare le dinamiche future”.

 

 

Candidi panorami ghiacciati (ph. s. valentino © mondointasca.it)

 

Gli esploratori del passato si precipitavano in Antartide per conquistare la frontiera meridionale del mondo, il continente più irraggiungibile; l’unica terra dove la civiltà umana non ha messo radici, per poi tornarsene a casa con il loro trofeo per non pensarci più. Oggi i ricercatori vengono regolarmente qui per spiegare come il ghiaccio dell’Antartide non sia solo un affascinante archetipo della terra di nessuno, ma sia soprattutto un anello fondamentale del sistema ambientale in cui l’Uomo ha sempre vissuto.

Missione Antartide: odissea tra gli iceberg

 

 

Famiglia di Pinguini (ph. s. valentino © mondointasca.it)

 

Durante la nostra odissea tra gli iceberg, continuiamo ad ammirare l’Antartide dal di fuori, non ne violeremo le distese abitate, non ne raggiungeremo il cuore ambito dagli avventurieri di tutti i tempi. Noi ci accontenteremo di farne ritratti da lontano, facendo volare la nostra fantasia, accontentandoci di condividere brevi istanti a tu per tu con foche e pinguini adagiati sulle loro zattere di ghiaccio vaganti nel Mare di Ross. Siamo venuti qui a capire i misteri scientifici che si celano nelle sue acque e a portarci con noi in Italia le poche risposte ottenute dai ricercatori che, in quanto tali, offrono, il pretesto per tornare nuovamente in questi luoghi remoti in fondo alla curvatura terrestre.


Dominare la complessità dei fenomeni climatici imperniati sui ghiacci antartici sarà molto più difficile che piantare la bandierina come fecero Amundsen e Scott durante la loro eroica corsa al Polo Sud.

 

Info utili:

Seguite il diario di viaggio, realizzato in partnership con Green&Blue di Repubblica.it (link https://mondointasca.it/Antartide)
La spedizione giornalistica in Antartide e stata realizzata grazie all’invito del PNRA che ha ospitato Stefano Valentino a bordo della nave Laura Bassi e si e avvalsa della collaborazione con Morgana Production. Attrezzature e supporto sono state fornite da Avventure nel mondo, Telespazio, Canon e Huawei.

RINGRAZIAMENTI:

Nell'articolo ho citato le fonti ufficiali. La DIVULGAZIONE della STORIA DEL MARE è lo scopo principale della nostra ASSOCIAZIONE che non persegue scopi di lucro.

RINGRAZIO SENTITAMENTE TUTTE LE FONTI ALLE QUALI MI SONO ANCORATO....

    

Carlo GATTI

 

Rapallo, 23 Febbraio 2023


LE NAVI R.A.M.B

 

LE NAVI  R.A.M.B.

Acronimo

Regia Azienda Monopolio Banane

 

 

Negli anni ’30 il business delle banane era diventato una “affare internazionale” in tutta Europa. Nel dicembre 1935 anche il regime fascista decise di adeguarsi a questa tendenza economica. Nacque così la Regia Azienda Monopolio Banane (R.A.M.B.) per trasportare e commercializzare in Italia le banane prodotte nella colonia della Somalia italiana.

Un atto di forzaNel 1936 la Regia Azienda Monopolio Banane fu venduta al Ministero delle Colonie (dall’anno seguente: Ministero dell’Africa Italiana), tuttavia, la bananiera Capitano Bottego” e le sue gemelle non furono vendute alla R.A.M.B., bensì requisite d’autorità dal governo italiano e trasferite a tale compagnia.


La nuova azienda R.A.M.B costruì capannoni nei principali porti italiani e utilizzò le navi frigorifero già esistenti e dal 1937 iniziò la costruzione di quattro bananiere battezzate con il logo dell’azienda: RAMB I, RAMB II, RAMB III, RAMB IV. 

Di queste, due vennero costruite dal Cantiere Ansaldo di Sestri Ponente (le Ramb I e III) e due dai Cantieri Riuniti dell'Adriatico, negli stabilimenti di Monfalcone (le Ramb II e IV).

 

Progetto e costruzione

La mente del progetto RAMB fu il maggiore generale del Genio Navale Luigi Barberis la cui principale premessa (imposta dall’alto) era la seguente:

il percorso Mogadiscio-Napoli doveva essere compiuto a pieno carico e senza scalo.

Le altre caratteristiche molto innovative per l’epoca del progetto erano di tipo tecnico:

  • 2418 tonnellate di carico

  • Imbarco 12 passeggeri (nave mista)

  • Possibilità di trasformare le navi mercantili in Incrociatori Ausiliari armati con 4 pezzi da 120/40 mm in coperta e due, elevabili sino a sei, mitragliere da 13,2 mm. I materiali per la militarizzazione delle navi furono posti in deposito a Massaua per due unità ed a Napoli per le altre due.

  • Lo scafo, in acciaio, con forme più da nave militare che mercantile, era diviso in sette compartimenti da sei paratie stagne trasversali. La nave aveva un ponte principale, un ponte di sovrastruttura completa con castello e tughe a centro nave, un cassero di 16,33 metri a prua ed una tughetta a poppa. Il profilo dell'unità era caratterizzato da due alberi da carico (uno a prua ed uno a poppa) e da un fumaiolo a centro nave.

  • L'apparato propulsivo era costituito da due motori diesel a due tempi, che consumavano 40,9 kg di nafta per miglio alla velocità di 17 miglia orarie, tale consumo era estremamente ridotto. Nelle prove contrattuali furono segnati 18,5 nodi per sei ore; nelle prove progressive con 1.000 tonnellate di carico vennero raggiunti anche i 21 nodi.

  • Di queste, due vennero costruite dal Cantiere Ansaldo di Sestri Ponente (le Ramb I e III) e due dai Cantieri Riuniti dell'Adriatico, negli stabilimenti di Monfalcone (le Ramb II e IV).

  • Le quattro RAMB erano munite di quattro stive e di quindici picchi di carico (dodici da cinque tonnellate, uno da 30 a prua, uno da 15 a poppa ed uno da 1500 kg per l'apparato motore), potevano imbarcare 2418 tonnellate di carico, nonché dodici passeggeri, due dei quali in appartamenti di lusso con camera da letto, salotto e servizi e dieci in camerini a due letti, uno dei quali provvisto di bagno, mentre per gli altri vi era un bagno ogni due camerini. Le navi erano anche dotate di un ponte riservato esclusivamente ai passeggeri (separato da quelli per l'equipaggio), di una sala da pranzo con vista su tutti i lati tranne che a poppa e di due verande-fumatori vetrate. Le sistemazioni dei passeggeri erano anche provviste di aria condizionata.

Caratteristiche generali

Lunghezza: 122,00 m (per I e III) e 116,78 m (per II e IV)

Larghezza: 14,60 m (per I e III) e 15,20 m (per II e IV)

Pescaggio: 7,77 m

Stazza lorda: 3667 t I, 3685 t II, 3660 t III e 3676 t IV

Propulsione: 2 motori diesel potenza 6800-7200 - CV 2 eliche

Velocità di crociera: 17-18 nodi

Velocità massima: 19,5 nodi

Capacità di carico: 2418 tonnellate

Equipaggio: 120

Passeggeri: 12 (come nave mercantile)

Armamento: 4x120/45 + MT

 

La triste storia delle RAMB I - II - III - IV... navi frigorifero veloci per trasportare frutta e verdura fresca tra l'AOI e la Madre Patria...fu che tutte vennero requisite con lo scoppio della II GM e tutte affondate...

Il 10 giugno 1940, alla data dell'entrata dell'Italia nella Seconda guerra mondiale, l'unica della quattro navi a trovarsi nel Mediterraneo era la Ramb III, mentre le altre tre si trovavano nel Mar Rosso.

Le motonavi Ramb I, II e IV furono quindi messe a disposizione del Comando Navale Africa Orientale Italiana.

 

RAMB I

Sestri Ponente - 21 luglio 1937: la RAMB I pronta al varo.

 

 

22 luglio 1937: il varo della RAMB I - Sestri Ponente (Genova)

 

 

La RAMB I in navigazione

 

 

Un’altra immagine della RAMB I nella rada di Merca, in Somalia.

 

 

 

 

La RAMB I Affondata da navi inglesi 27/2/41

 

Allo scoppio delle ostilità, la nave fu trasformata in incrociatore ausiliario con gli armamenti presenti nel porto di Massaua.

La RAMB I limitò la propria attività bellica come “nave corsara” ad una singola ed infruttuosa incursione in Mar Rosso nell'agosto 1940 alla ricerca di naviglio mercantile nemico, missione che fu interrotta proprio perché non risultò possibile trovare navi da attaccare.

 

RAMB II

 

Varo: Monfalcone 7.6.1937 - 40 trasporti – da Massaua si trasferisce in Giappone dove diviene CALITEA II, catturato dai Giapponesi l’8/9/43, bombardato e affondato 12/1/45.

La Ramb II salpò da Massaua il 22 febbraio, al comando del capitano di corvetta di complemento Pasquale Mazzella, anch’essa con destinazione Nagasaki.

Venne superato dapprima lo stretto di Perim, eludendo la sorveglianza operata dalla Royal Navy e dalla Royal Air Force, quindi lo stretto di Bab el-Mandeb e il golfo di Aden, per poi passare tra Capo Guardafui e Ras Hafun ed entrare così nell'Oceano Indiano. Opportunamente camuffata, non ebbe particolari problemi, al di là di alcuni sporadici avvistamenti, rapidamente elusi. Nei primi giorni di marzo la Ramb II transitò a sud delle Maldive, continuando a procedere verso sudest, mentre tra il 10 ed il 15 del mese transitò nelle acque dell'Indonesia, dapprima passando a nordovest di Timor, quindi puntando verso nord e passando nello stretto delle Molucche, per poi fare rotta verso nordest, in direzione del Giappone.

Il 18 marzo 1941, venne ricevuto un dispaccio radio il quale avvertiva che il Giappone, essendo ancora neutrale, non poteva consentire l'ingresso nei propri porti di navi da guerra appartenenti a Stati belligeranti. In considerazione di tale informazioni, i cannoni e mitragliere vennero rimossi e nascosti nelle stive, mentre le loro piazzole vennero occultate. La nave, avendo così perso le “stellette”, venne ribattezzata Calitea II. Il 21 marzo venne ricevuto un nuovo ordine che mutava la destinazione in Kobe che veniva raggiunta il 23 marzo 1941.

Nel maggio 1941 la nave venne data in gestione alle Linee Triestine per l'Oriente, con sede a Trieste e successivamente la motonave si trasferì a Tientsin, dove si trovava nel settembre 1941. A partire dal dicembre 1941 la Calitea II, mantenendo equipaggio italiano, riprese il mare noleggiata dal Governo giapponese, trasportando munizioni ed altri carichi d'interesse bellico a Bali, Giava e Sumatra. A fine agosto 1942 venne inviata per lavori di riparazione a Kobe.

Alla proclamazione dell'armistizio, l'8 settembre 1943, la Calitea II si trovava ancora ai lavori a Kobe e, come da ordini ricevuti, venne autoaffondata dal suo equipaggio la mattina del 9 settembre.

Poche settimane dopo l'autoaffondamento la Calitea II venne riportata a galla dai giapponesi ed utilizzata come trasporto ausiliario (specialmente per viveri) e venne ribattezzata Ikutagawa Maru il 3 ottobre 1943.

Il 24 dicembre 1943, terminati i lavori di riparazione la motonave prese il mare alla volta di Sasebo, ed il 1 gennaio 1944 venne assegnata alla Flotta Combinata ed aggregata alla Flotta dell'area sudoccidentale (Nansei Hōmen Kantai) svolgendo, per tutto l’anno, intensa attività nei mari delle Indie Orientali e sfuggendo agli attacchi dei sottomarini americani

Il 12 gennaio 1945 la Task Force 38 della US Navy lanciò l'operazione «Gratitude»: velivoli statunitensi attaccarono naviglio aeroporti ed installazioni terrestri giapponesi nell'Indocina sudorientale. L'Ikutagawa Maru, ormeggiata a Saigon, venne colpita durante una delle incursioni aeree statunitensi ed affondò.

 

7 giugno 1937: il varo della RAMB II nei cantieri di Monfalcone

 

 

La RAMB II pronta per l’allestimento

 

La RAMB II in navigazione

 

 

Sopra e sotto – La RAMB II in navigazione

 

 

 

RAMB III  - Una vita longeva e avventurosa

 

 

Varo: Sestri Ponente 18.41938

Il giorno seguente la dichiarazione di guerra, la RAMB III venne requisita a Genova dalla Regia Marina ed iscritta nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato e venne trasformata in incrociatore ausiliario. Imbarcò quattro cannoni da 120/45 mm e due mitragliere da 13,2 mm; in seguito vennero aggiunti anche scarica-bombe (di profondità).

Dal 19 giugno 1940 la nave venne assegnata alle scorte dei convogli tra Italia e Libia e poi a quelli verso Grecia ed Albania.

Nella notte dell'11 novembre 1940 la RAMB III lasciò Valona al comando del capitano di fregata richiamato Francesco De Angelini, era in mare di scorta, con la torpediniera Nicola Fabrizi, ad un convoglio di quattro mercantili (piroscafi da carico Premuda, Capo Vado, Antonio Locatelli e la motonave passeggeri Catalani).

Dopo aver attraversato i campi minati il convoglio, che procedeva ad 8 nodi con eccellente visibilità, fu avvistato all'1.15 del 12 novembre, a 12-15 di miglia da Saseno, dalla 7ª Divisione incrociatori leggeri britannica: Orion-Ajax-Sidney e dai cacciatorpediniere Nubian e Mohawk.

Nello stesso momento anche le navi italiane avvistarono quelle inglesi, ma la disparità di forze era enorme: verso l'1.25 le navi britanniche aprirono il fuoco ed in breve tutte e quattro le navi da carico del convoglio furono affondati od incendiati.

La distruzione del convoglio venne ultimata entro l'1.53, con 25 vittime e 140 superstiti, tra cui 42 feriti, fra gli equipaggi dei mercantili affondati). La Nicola Fabrizi si portava decisamente al contrattacco, cercando di attaccare le unità inglesi e di distoglierne l'attenzione dal convoglio, ma riportando gravi danni (nonché 11 morti e 17 feriti) in tale tentativo, la RAMB III sparò 17 colpi (o 19 salve) con i propri quattro cannoni da 120 mm, per poi ritirarsi e lasciare il luogo dello scontro, onde evitare la distruzione.

 

 

Il 30 maggio 1941 la Ramb III, alle 19.30 fu colpita nel porto di Bengasi dal sommergibile inglese Triumph, la nave aveva la prua che sporgeva di una trentina di metri dalla diga foranea ed alle 19.30 (per altre fonti alle 19.45) venne colpita da uno dei due siluri lanciati alle 19.25 dal sommergibile britannico da poche migliaia di metri.

 Il siluro danneggiò gravemente la prua, ma, grazie alla tenuta stagna delle stive frigorifere, la nave non affondò, appoggiandosi al fondo del porto. Non essendo possibile eseguire i necessari lavori di riparazione con i mezzi a disposizione in loco, venne presa la decisione di asportare l'intera parte prodiera, gravemente lesionata ed allagata. Dopo il sollevamento, l'incrociatore ausiliario venne zavorrato in modo da ovviare all'appruamento e ripristinare l'assetto longitudinale e trasversale. Venne quindi presa la decisione di affrontare la navigazione verso l'Italia a marcia indietro trainata da un rimorchiatore, facendo rotta per Brindisi, ove arrivò il 25 agosto e successivamente, per Trieste, ove giunse il 20 settembre 1941 e venne sottoposta ai lavori di riparazione e ricostruzione della parte prodiera.

Ripreso il mare, poco dopo le 13.10 del 1° febbraio 1943 il RAMB III, in navigazione alla volta di Palermo, avvistò alcuni naufraghi superstiti del piroscafo da carico Pozzuoli, silurato ed affondato poco prima; la nave si fermò per il recupero ma venne fatta oggetto del lancio di un siluro da parte del sommergibile britannico Turbulent ma riuscì ad evitarlo.

All'atto della proclamazione dell’Armistizio, l'8 settembre 1943, il RAMB III si trovava nel porto di Trieste, ormeggiata al quinto molo (molo Carboni) del Porto Duca degli Abruzzi, accanto al mercantile armato tedesco John Knudsen.

Nella notte tra l'8 ed il 9 settembre 1943 i reparti e le unità tedesche dislocate in zona ricevettero l'ordine di vigilare e di non permettere a nessuna nave italiana di uscire dal porto. Nella mattinata del 9 settembre il RAMB III, come le altre navi italiane presenti a Trieste, ricevette un cablogramma con l'ordine di partire per consegnarsi agli Alleati. Ricevuto tale ordine, l'incrociatore ausiliario salpò le ancore, ma venne immediatamente preso sotto tiro da parte della John Knudsen: l'equipaggio italiano reagì aprendo il fuoco con una mitragliera  ed armando il cannone poppiero,  preparandosi ad aprire il fuoco con esso, ma gli uomini della Knudsen abbordarono  e catturarono la nave italiana, ponendosi ai cannoni ed alle mitragliere ed aprendo il fuoco contro la corvetta Berenice,  che stava cercando di lasciare il porto e che venne affondata con il concorso di altre navi e di cannoni terrestri (colpita al timone dal proiettile  di un cannone contraereo, la corvetta iniziò a girare in tondo, divenendo facile bersaglio,  e poco dopo le otto del mattino, dopo una ventina di minuti di combattimento, affondò con la perdita di 80 dei suoi 97 uomini).

Incorporata nella Kriegsmarine come trasporto, in un primo momento la nave mantenne il nome di Ramb III. Il 13 novembre 1943 la Ramb III, insieme a tre pontoni-traghetto tipo «Siebel» ed a varie unità minori, nell'ambito dell'operazione «Herbstgewitter» (Tempesta d’autunno) sbarcò reparti della 71 Infanterie Divizion nelle isole dalmate di Cherso, Veglia e Lussino occupate dai partigiani jugolavi.

In seguito l'unità venne sottoposta a lavori di trasformazione in posamine, con l'aggiunta all'armamento di tre mitragliere pesanti da 37/54 mm Breda, ad uso contraereo, nonché delle attrezzature per il trasporto e la posa di mine (l'equipaggio venne ridotto a tre Ufficiali e 64 tra sottufficiali e marinai). 

Ribattezzata Kiebitz, la nave entrò in servizio per la Kriegsmarine il 15 febbraio 1944, prendendo parte alle operazioni contro le isole della costa dalmata ed a missioni di posamine.  Dal marzo al novembre 1944 la Kiebitz, unitamente al posamine ex italiano Fasana, posò nelle acque dell’Adriatico (spingendosi verso sud sino ad Ancona) un totale di circa 5000 mine.

La prima missione come posamine, il 18 marzo 1944, venne interrotta bruscamente a causa della perdita della torpediniera TA-36, già italiana Stella Polare.  Tale unità, infatti, mentre stava posando delle boe che indicavano il punto in cui la Kiebitz avrebbe rilasciato le mine, alle 17.10 urtò una mina che le distrusse la prua, affondando con la morte di 46 uomini.

La Kiebitz raccolse i superstiti e rientrò in porto.

Il 13 luglio 1944, durante una nuova missione, la Kiebitz, a causa di un’avaria alle macchine, urtò due delle proprie mine, riportando gravissimi danni: nonostante tutto il posamine, assistito dalla torpediniera TA-38 ex italiana SPADA), riuscì a rientrare a Pola. Trasferita a Trieste, la nave rimase in riparazione fino al 7 agosto successivo. In agosto riprese l'attività di posa di mine, resa sempre più difficoltosa dalle continue avarie, specie alle eliche. 

Particolarmente intensa fu l'attività di posa mine nel settembre 1944: in cinque differenti missioni, nelle notti tra l'8 ed il 9 settembre, tra il 10 e l'11, tra il 16 ed il 17, tra il 27 ed il 28 e tra il 28 ed il 29, la nave posò rispettivamente i campi minati «Murmel 6-10», «Murmel 11-12», «Waschbär», «Murmel 16-17» e «Murmel 19-20».

Il 3 novembre 1944 la Kiebitz, scortata dalle torpediniere TA-40-TA-44-TA-45, tutte ex italiane, effettuò la posa di un campo minato difensivo nell’Alto Adriatico.

Due giorni più tardi, nel corso di un bombardamento aereo statunitense su Fiume, il posamine, che era ormeggiato presso la Riva Ammiraglio Thaon de Revel nel porto della città quarnerina, venne colpito da tre bombe  sganciate da quadrimotori USA  ed in seguito a un furioso incendio  provocato da una bomba che aveva colpito un deposito di carburante affondò  dopo alcune ore, adagiandosi su un fondale  di circa 20 metri  di profondità, con il ponte di coperta completamente sommerso, mentre gli alberi,  parte delle piazzole dell'armamento e le sovrastrutture  erano emergenti. Nella medesima incursione furono affondate anche la torpediniera TA-21 (ex italiana INSIDIOSO)  ed il cacciasommergibili G-104, mentre furono semidistrutti due magazzini ubicati sul Molo Genova.

 

 

La RAMB III dopo varie vicissitudini: cambi di bandiera e un affondamento, fu l'unica delle quattro RAMB a sopravvivere sino ai giorni nostri.

 

RAMB III a Fiume

 

 

Una bella immagine del RAMB III in versione mimetica ed insegne della Kriegsmarine.

 

 

Successivamente venne rinforzato l’armamento e predisposta per la posa delle mine; così armata la nave svolse l’attività di posamine nelle acque dell'Adriatico.

Il 5 novembre 1944, nel corso di un bombardamento aereo statunitense su Fiume, venne la RAMB III, ora Kiebitz fu colpita da tre bombe sganciate da quadrimotori statunitensi.

 

La RAMB III in affondamento a Fiume (foto sotto)

FIUME- In seguito a un furioso incendio provocato da una bomba che aveva colpito un deposito di carburante, affondò, adagiandosi su un fondale di circa 20 metri di profondità.

 

La ex Ramb III (poi Galeb-poi Viktor Lenac) nel 2008 ormeggiata presso Fiume

 

Alla fine della Seconda guerra mondiale venne recuperata dagli jugoslavi nel 1947 e riattata a Pola con lavori che durarono dal 1948 al 1952 e ribattezzata GALEB. Nella Marina Jugoslava alternò compiti di nave scuola per allievi ufficiali a quello di nave di rappresentanza del dittatore Tito. Con il collasso della Jugoslavia la nave venne assegnata al governo del Montenegro e lasciata abbandonata presso le Bocche di Cattaro.  Alcuni anni dopo venne venduta ad un uomo di affari greco per un eventuale restauro che non venne realizzato ed è attualmente ormeggiata in un Cantiere nei pressi di Fiume in attesa che venga deciso il suo destino.

 

 

RAMB IV

 Tsl: 3675 – Varo: Monfalcone 8.6.38 - Velocità: 18 nodi – Armamento: 4x120/45 +MT

Missioni compiute: 8 Trasporti - 41 scorte

Operò nel Mar Rosso come NAVE OSPEDALE

Bombardato e affondato 28.5.43

 

 

A differenza delle Ramb I ed II, convertite in incrociatori ausiliari, la RAMB IV rimase inattiva per alcuni mesi nel porto di Massaua, disarmata ed utilizzata come nave alloggio.

La RAMB IV, alla caduta di Massaua, fu abbordata dalla flotta britannica (nonostante la protezione della Croce Rossa e, tenuta come preda bellica, fu inviata nel Mediterraneo Orientale come nave ausiliaria (alla fine del 1941 portava ancora i contrassegni come nave ospedale) e fu affondata il 10 maggio 1942 da un attacco aereo tedesco.

In previsione della futura ed inevitabile caduta dell’Africa Orientale Italiana, negli ultimi giorni del dicembre 1940, la Regia Marina decise di trasformare la RAMB IV in una nave ospedale, per poter salvare e ricondurre in patria almeno parte dei feriti e malati gravi e del personale sanitario presente nell'A.O.I. (Africa Orientale Italiana)

Ridipinta pertanto secondo le norme stabilite dalla Convenzione di Ginevra per le navi ospedale (scafo e sovrastrutture bianche, fascia verde interrotta da croci rosse sullo scafo e croci rosse sui fumaioli), la nave, dotata di attrezzature sanitarie e personale medico reperibili in Africa Orientale, venne requisita ed iscritta nel ruolo del Naviglio ausiliario dello Stato il 7 febbraio 1941. Dotata di 272 posti letto, la Ramb IV nei primi mesi del 1941 stazionò a Massaua come ospedale galleggiante.

L'8 aprile 1941, subito prima della caduta della città ormai assediata dalle truppe britanniche, la Ramb IV lasciò quel porto diretta verso nord, progettando di chiedere ed ottenere il permesso di transitare per il canale di Suez, onde poter raggiungere l'Italia ove portare gli oltre duecento infermi, tra feriti e malati, imbarcati.

 

 

Essendo la nave regolarmente denunciata e registrata presso le autorità di Ginevra, ed essendo stati stabiliti dai trattati internazionali, sin dal 1869, la neutralità ed il diritto di transitare nel canale di Suez sia in tempo di pace che di guerra, il progetto era teoricamente realizzabile, ma in realtà il Regno Unito aveva affermato, sin dalla prima guerra mondiale, che solo le proprie autorità avevano il diritto di consentire o vietare il transito tra Suez e Porto Said. Qualora gli inglesi non avessero accordato il permesso di passare per il canale, era stato deciso che la Ramb IV si sarebbe diretta nello Yemen o nell'Arabia Saudita, nazioni neutrali, per farvisi internare.

In realtà gli inglesi non si limitarono a negare il passaggio, ma inviarono il cacciatorpediniere Kingston ad intercettare la nave ospedale: abbordata e catturata al largo di Aden la sera dell’8 aprile.

L'unità fu condotta a Massaua, ormai in mano britannica. Le autorità britanniche decisero di incorporare la nave nella Royal Navy, continuando ad impiegarla come nave ospedale nel Mar Rosso e, dai primi mesi del 1942, nel Mediterraneo orientale, dove operò lungo le coste della Libia e dell'Egitto.

 

 

Nel primo mattino del 10 maggio 1942, in buone condizioni di visibilità, la nave ospedale venne attaccata al largo di Alessandria d'Egitto, dove era quasi giunta proveniente da Tobruk con a bordo 95 uomini di equipaggio e 269 infermi imbarcati nella città libica, da bombardieri Junkers Ju 88 della Luftwaffe, che la colpirono con alcune bombe, incendiandola. Divorata dalle fiamme, la RAMB IV, dopo alcuni tentativi di vincerle anche grazie all’equipaggio del cacciatorpediniere HMS Kipling, inviato in aiuto da Alessandria insieme all'Harrow e all'Hasty, dovette infine essere abbandonata e finita a cannonate dall'Hasty.

 

Nel porto di Massaua e nel grande golfo interno dell’isola di Dahlak Kebir (il Gubbet Mus Nefit) restavano una quindicina di piccole unità militari, e ventiquattro unità mercantili diciotto italiane:

 (Adua, Antonia C., Arabia, Capitano Bottego, Brenta, Clelia Campanella, Colombo, Giove, Impero, Giuseppe Mazzini, Moncalieri, Nazario Sauro, Riva Ligure,
Romolo Gessi (già Alberto Treves), Tripolitania, Vesuvio, Urania, XXIII Marzo) e sei tedesche (Gera, Frauenfels, Liebenfels, Crefeld, Lichtenfels ed Oliva)
.

Con l’approssimarsi delle truppe inglesi, il Comandante di Marisupao, Ammiraglio Bonetti, dispose che alcune unità si spostassero nel grande golfo interno di Dahlak
Kebir per autoaffondarsi, affidando ad altre il compito di autoaffondarsi in posizioni tali da rendere impossibile l’accesso alle installazioni portuali di Massaua.

Il “suicidio” collettivo iniziò già il 3 aprile 1941, ma non vi è certezza della sorte di molte unità né di dove giacciono eventualmente i loro relitti.

La decisione di procedere all’autoaffondamento creò una sorta di cimitero di navi, uno a Massaua e l’altro nel grande golfo interno di Dahlak Kebir.

Delle navi militari la torpediniera ORSINI, al comando del Tenente di Vascello Giulio Valente, prima di autoaffondarsi concorse alla difesa del porto.

Al sopraggiungere delle prime colonne blindate britanniche, aprì subito il fuoco con i suoi pezzi da 102/45 e 40/39, rallentando la marcia delle truppe britanniche nei pressi di Embereni, poi, esaurite tutte le munizioni, nella tarda mattinata dell’8 aprile il Comandante Valente decise l’autoaffondamento, aprendo le valvole Kingston e rompendo alcuni tubi di macchina. Fu escluso l'impiego di ordigni esplosivi data la vicinanza della nave ospedale RAMB IV e dell'ospedale a terra. 

 

PRIMA DEI R.A.M.B

UN PO’ DI STORIA…

Per la verità la storia della “Regia Azienda Monopoli Banane” (R.A.M.B.) inizia negli anni ’30.

Ne 1931, a iniziativa di Andrea Marsano e G. Bellestreri, fu costituita a Genova lka S.A. “Navigazione Italo Somala” S.A.N.I.S. per il trasporto marittimo della frutta a mezzo di navi frigorifero. Capitale iniziale L.1.000.000 in azioni di L.1000 ciascuna. Amministratori delegati: Andrea Marsano ed Eugenio Lehel.

L’attività sociali fu iniziata con i piroscafi noleggiati “Jamaica Merchant” e “R.H.Sanders” di bandiera svedese, effettuando trasporto di agrumi al Nord Europa. Nel 1933 furono acquistate sullo scalo nei Cantieri Eriksberg di Goteborg tra motonavi frigorifere gemelle, particolarmente adatte al trasporto delle banane, con sistemazione in cabine doppie per 12 passeggeri, saletta da pranzo, saletta fumo e vestibolo, velocità 16 nodi.

M/n Capitano BOTTEGO

Si trattava in assoluto delle prime navi bananiere costruite per una compagnia italiana.
Per il trasporto delle banane disponevano di quattro celle frigorifere (isolate con sughero granulato) della capacità di 2872 metri cubi, con due gruppi refrigeratori ad anidride carbonica (alimentati da quattro compressori e prodotti dalla ditta J. & E. Hall Ld. di Dartford).
Le stive erano tre, con una portata lorda di 3118 tpl* ed una netta di 1950 **tpn.
Le loro non grandi dimensioni consentivano sia di limitare i costi di pedaggio per l’attraversamento del Canale di Suez (essendo questi calcolati sulla base del tonnellaggio delle navi che lo attraversavano), sia di massimizzare il coefficiente di carico.
La velocità, che oscillava tra i 15,5 ed i 16,5 nodi, era relativamente elevata per delle navi da carico, al fine di minimizzare i tempi della traversata e preservare così la freschezza del carico di banane: la classe
Capitano Bottego e gemelle risultarono le più veloci navi in servizio sulla rotta tra l’Italia e la Somalia, che percorrevano in dodici giorni, poco più della metà del tempo impiegato dai piroscafi postali della società Tirrenia.


Oltre alle stive per le banane ed altre merci, le navi di questa Classe erano provviste anche di alcune cabine nelle quali potevano trovare posto fino a dodici passeggeri (erano destinate ai concessionari dei terreni somali in cui erano coltivate le banane).


L’apparato propulsivo era costituito da due motori diesel a 6 cilindri da 2550 cavalli, su due eliche, che consentivano una velocità di crociera di 15 nodi ed una massima di 16,5.

*TPL tonnellate di portata lorda: tutto il carico mobile (quindi il peso massimo) che una nave può trasportare) che una nave può imbarca

“DUCA DEGLI ABRUZZI” – 2316 consegnata nel settembre 1933

“CAPITANO BOTTEGO”    - 2316 consegnata nell’ottobre 1933

CAPITANO A. CECCHI”   - 2320 consegnata nel gennaio 1934

Con le navi fu iniziata una linea regolare per Massaua e Mogadiscio.

Costituitasi a Roma la R.A.M.B. “Regia Azienda Monopolio Banane” a cura del Ministero dell’Africa Italiana, la S.A.N.I.S. venne liquidata e le tre motonavi passarono alla nuova azienda a capitale interamente statale che con R.D.L. 11 giugno 1936 fu autorizzata a provvedersi di altre 4 motonavi frigorifero, due ordinate ai Cantieri Navali Riuniti dell’Adriatico e due ai Cantieri Navali Riuniti del Tirreno, con la spesa prevista di 30 milioni, in seguito raddoppiata a 60.000.000.

Potevano trasportare 12 passeggeri in cabine multiple, con saletta da pranzo, saletta-fumo e bar.

QUALCHE RIFLESSIONE:

Delle navi RAMB (varate nel 1937 e 1938) abbiamo scritto che erano innovative per l’epoca:

  • Gli alloggi e sistemazioni varie dei passeggeri erano anche provviste di aria condizionata.

Chi scrive ricorda che 25 anni dopo l’entrata in servizio delle RAMB, le navi di linea “classe navigatori” - Società Italia di Navigazione – (foto sotto) collegavano Italia-Sud Pacifico (viaggi molto caldi) ed erano ancora sprovviste di aria condizionata, avevano un’elica soltanto e non erano veloci come le RAMB.

 

 

 M/n ANTONIOTTO USODIMARE 

Classificazione

Classification

R.I.Na - 

Bandiera

Flag

Italiana - Italian

Armatore

Owner

Lloyd Triestino - ITALY

Operatore

Manager

Lloyd Triestino - ITALY

Impostazione chiglia

Keel laid

Varo

Launched

10.1942

Consegnata 

Delivered

03.1948

Cantiere navale

Shipyard

Cantiere Ansaldo - Genova - ITALY

Costruzione n.

Yard number

Tipo di scafo

Hull type

scafo singolo - single hull

Materiale dello scafo

Hull material

acciaio - steel

Nominativo Internazionale

Call Sign

I.M.O.    Internationa Maritime Organization

5020421

M.M.S.I.   Maritime Mobile Service Identify

Compartimento Marittimo

Port of Registry

Numero di Registro

Official Number

Posizione attuale

Actual position

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Stazza Lorda

Gross Tonnage

9.715 Tons

Stazza Netta

Net Tonnage 

Portata (estiva) 

DWT (summer) 

7.642 Tonn

Lunghezza max

L.o.a. 

147,80 m

Lunghezza tra le Pp

L. between Pp

138,70 m

Larghezza max 

Breadth max 

19.0 m

Altezza di costruzione

Depth 

Pescaggio Max

Draugth max

Bordo libero

Freeboard 

Motore principale

Main Engine

1 - Diesel

Potenza Motori

Engine Power

Eliche di propulsione

Propellers

1 - passo fisso / fixed pitch

Velocità massima

Max speed 

16,0 kn

Passeggeri

Passengers

700 - 89 in Classe Unica + 614 in 3° Classe.

Stive

Holds

5 - 

Boccaporti

Hatches

5 - 

Mezzi di carico

Cargo gear

10 - bighi / derricks

Equipaggio

Crew

Navi gemelle

Sister ship

Demolita

Scrapped

Ortona - 07.1978

Inserita il

Posted

30.12.2016

Aggiornata al

Last updated

30.12.2

INFORMAZIONI STORICHE

ANTONIOTTO USODIMARE, nave passeggeri/cargo presa ad esempio, fu costruita nel cantiere Ansaldo di Genova – Varata 10.1942, completata 03.1948, faceva parte di una serie di 6 navi da carico progettate nel 1939: UGOLINO VIVALDI - SEBASTIANO CABOTO - PAOLO TOSCANELLI - MARCO POLO AMERIGO VESPUCCI. Le prime tre furono terminate dopo la guerra, le ultime tre subito dopo il varo furono affondate in banchina dai cantieri, e poi recuperate. Le 6 navi furono completate come navi miste e poi gestite sia dal Lloyd Triestino che dalla Italia di Navigazione. La PAOLO TOSCANELLI fu trasformata general cargo per la Società Italia di Navigazione e impiegata sulla linea Centro America e Nord Pacifico. Dal 1949 le due navi UGOLINO VIVALDI - SEBASTIANO CABOTO passarono al Lloyd Triestino e impiegate sulla linea con l'Australia, nel 1952 tornarono per un breve periodo all'Italia SpA per la linea del Plata, e poi ritornarono al Lloyd Triestino e furono trasformate in general cargo. Le altre tre continuarono l'attività passeggeri sul centro America e sud Pacifico. Nel 1963 furono cedute al Lloyd Triestino e trasformate in cargo.

 

 

Carlo GATTI

Rapallo, 23 Gennaio 2023

 

 

FONTI

-Incrociatori ausiliari RAMB

-Enciclopedia dei Trasporti Libri V-VI-VII

-Il Mare nel cuore

-Navi e Capitani

 

 

 

 

 

 

 


CANALE DI CORINTO

 

CANALE DI CORINTO

 

 

 

 

Tagliare l’istmo di Corinto per collegare il mar Ionio con il mar Egeo permettendo così alle navi di risparmiare miglia e navigazione  in mare aperto intorno al Peloponneso, è un’idea risalente addirittura al VI secolo a.C.

 

 

 

 

IL CANALE DI CORINTO è una via d’acqua artificiale che unisce due mari: Egeo e Ionio, é lungo 6,3 km, è largo meno di 25 metri, é altamente suggestivo e pienamente operativo. Venne inaugurato nel 1893 dopo secoli di progetti e tentativi. Con il suo passaggio stretto tra alte pareti tufacee, il Canale di Corinto è un’esperienza di navigazione che non lascia indifferenti se si pensa che ogni anno sono oltre 11.000 le imbarcazioni che lo attraversano di cui circa il 60 per cento barche da diporto e il 40 per cento navi commerciali. La maggior parte del traffico avviene naturalmente durante la stagione estiva, circa il 70 per cento con quasi 3.000 imbarcazioni che transitano in entrambe le direzioni.

TIME IS MONEY - Tutti lo sanno! Specialmente i naviganti che risparmiando circa 400 miglia sulla rotta tra il Mar Ionio e il Mar Egeo anticipano l’arrivo al Pireo evitando le burrasche in mare aperto: il risparmio è variabile e maggiore per le rotte in cui il punto di partenza o di arrivo siano collocati più vicino all’istmo, cioè nel Golfo di Corinto a Ovest o nel Golfo Saronico a Est.

E’ quasi inutile dirlo: il maggiore limite del canale è la sua contenuta larghezza che non consente il transito alle “giant ships” di qualsiasi tipo come accade invece per i Canali di Suez, Panama e Keel, che sono prettamente commerciali e sono soggetti periodicamente ad allargamenti e dragaggi per fare fronte alle continue e crescenti esigenze commerciali.

Per dare un’idea limite della sua operatività, citiamo un record: l’imbarcazione più grande che abbia mai attraversato il canale è la nave da crociera BRAEMER (195,82 metri di lunghezza e 22,52 m di larghezza, con a bordo 929 passeggeri) della compagnia norvegese di navigazione Fred Olsen che ha effettuato con successo il passaggio il 9 ottobre del 2019.

 

Crociera da record per la BRAEMAR - la nave più grande ad aver mai transitato il Canale di Corinto

 

 

ESISTE UN PROBLEMA: Le stesse pareti rocciose del canale, particolarmente alte e ripide, hanno da sempre costituito uno dei principali problemi del canale, costruito oltretutto in zona sismica: i crolli di roccia sono tutt’ora abbastanza frequenti e spesso il canale deve essere chiuso per lavori di manutenzione, messa in sicurezza e dragaggio. L’ultima frana, avvenuta a gennaio 2021, ne ha causato la chiusura per oltre un anno.

RIPORTIAMO ALCUNE IMPORTANTI ISTRUZIONI PER COLORO CHE DECIDESSERO D’INTRAPRENDERE UN NUOVA AVVENTURA NAUTICA

A circa mezzo miglio dall’imboccatura iniziano le procedure burocratiche. Prima di tutto si effettua una chiamata radio sul canale 11 del VHF all’autorità di controllo del canale che è Isthmia Pilot. L’attesa, prima di accostare in banchina per le pratiche di ingresso e il pagamento, dipende ovviamente dal traffico. Occorre quindi compilare l’apposito modulo con i dati della barca, il porto di provenienza e destinazione, il numero di persone a bordo e pagare il pedaggio nell’ufficio dell’autorità di controllo del canale.

QUANTO COSTA IL TRANSITO DEL CANALE?

Evitando di assumerci responsabilità che non sono di nostra competenza, riportiamo integralmente alcune istruzioni, disposizioni e tariffe che possono interessare i nostri lettori:

Il pedaggio viene calcolato in base al tipo di imbarcazione e alla sua lunghezza, alla bandiera e al tipo di utilizzo (privato o commerciale). Per fare un esempio, un 53 piedi privato, bandiera inglese a vela, paga 322 euro. Il passaggio notturno prevede un sovrapprezzo. Insomma un salasso, e non è un caso che rispetto alla lunghezza del passaggio, il Canale di Corinto sia uno dei più cari “transiti”  al mondo.

Ricevuta l’autorizzazione, a questo punto si deve attendere. Di giorno quando il transito non è ancora permesso è esposta la bandiera rossa, mentre di notte ci sono due luci bianche sovrapposte. Il via libera è dato dalla bandiera blu, che nelle ore notturne è segnalato con una sola luce bianca. Subito dopo si viene contattati via radio: “5 minuti al transito”. Si accende quindi la luce verde ai lati del piccolo ponte sommergibile che scendendo sott’acqua apre così il varco all’interno del canale. Se si è da soli, il tutto si è risolto in una ventina di minuti, mentre in caso di più barche le procedure sono più lunghe e si attende di creare un convoglio con le piccole navi commerciali davanti e le barche da diporto dietro.

 

 UN PO’ DI STORIA 

Il Canale di Corinto, fu già pensato da Periandro, uno dei Sette Savi, 600 anni prima di Cristo, e poi dai Romani, anche se la sua realizzazione è iniziata molto più di recente, tra il 1881 ed il 1893, addirittura dopo l’indipendenza della Grecia.

L’idea di ‘tagliare’ l’istmo nel suo punto più stretto risale al VII secolo a.C., ma per non togliere a Corinto la sua centralità sulle rotte commerciali, non fu mai concretizzata.

 

ALCUNE CURIOSITA’

  • La necessità di accorciare le distanze e i tempi di consegna delle merci si realizzò con un primo compromesso: fu creato un collegamento via terra, pavimentato e utilizzato per lo spostamento di beni e merci da una parte all’altra. La strada consentiva lo spostamento di persone ma anche il trasporto di intere navi tirate in secco.

  • Sotto Nerone, avvenne il primo tentativo di scavo dell’Istmo. Ai lati opposti del futuro canale, si avviarono le prime perforazioni in cima per valutare la resistenza delle pietre e, alla base, vengono scavate le prime trincee. Il progetto fu abbandonato per la grande difficoltà dovuta al non adeguato avanzamento tecnico e tecnologico dell’epoca.

L’unificazione della Grecia e la ripresa del progetto

Soltanto nel 1830, con la nascita del nuovo Stato greco, si riaprirono i cassetti dei vecchi progetti e si ripensò ad una concreta realizzazione. Il prestigioso incarico fu dato all’ingegnere francese Pierre Théodore Virlet d’Aoust giunto in Grecia, non per caso, con la spedizione sbarcata per liberare il Peloponneso dalle forze turco-egiziane. Gli eccessivi costi portarono tuttavia a un nuovo rinvio del progetto che riprese vigore soltanto dopo il collaudo delle nuove tecnologie sperimentate con l’apertura del canale artificiale di Suez, inaugurato nel 1869.

 

La realizzazione del canale

Una difficile storia di fallimenti iniziali…

Il cambio di passo arriva finalmente da uno strategico cambio di prospettiva che, aiutato da importanti progressi tecnici, guarda al coinvolgimento di capitali privati. Proponendo un partenariato pubblico privato ante litteram, lo stato vara una legge che in cambio della realizzazione dà in concessione l’opera e i suoi proventi per 99 anni. Inizia così una staffetta che, tra fallimenti e nuove prese in carico, vede alternarsi società e ingegneri provenienti da mezza Europa. Si inizia con una prima compagnia che fallisce dopo lo scavo delle due estremità, per passare a un gruppo misto franco-italo-ungherese che fallisce interrompendo nuovamente i lavori. Il cantiere viene portato a termine, dopo 12 anni dall’avvio dei lavori, dalla compagnia di costruzione greca guidata da Andreas Syngros.

 

ALCUNI INTERESSANTI INGRANDIMENTI

 

 

 

 

 

 

Agosto 2014, Palinuro attraversa il Canale di Corinto_Foto M.M. (7)

 

 

 

 

La velocità massima consentita è di 6 nodi e in parte è condizionata dalla corrente, fra 1 e 3 nodi, che a sua volta risente della direzione del vento. Con buone condizioni il passaggio si conclude in circa 30 minuti, a una velocità di circa 5,5 nodi. Non vi sono particolari difficoltà durante il transito, ma è sempre bene stare a debita distanza dai motoscafi che per via della scia potrebbero generare fastidiose turbolenze sulla pala del timone. Per il resto lo spettacolo è garantito tanto che ogni giorno frotte di turisti si affacciano dai ponti che collegano le due sponde, per ammirare il passaggio delle barche.

 

 

 

Da questa foto, più che in altre, si nota la “briglia" dei cavi del rimorchiatore il quale con piccoli aggiustamenti del timone riesce a tenere in rotta la nave che in ogni caso usa i propri mezzi Timone e Motore).

 

 

 

 

 

Chiudiamo questa carrellata d'immagini della CORINTO navale con il nostro adorato SCIPIO (dott.Scipione D'Este) che tanto ha donato a tutti noi di Mare Nostrum e alla città di Rapallo.

 

 

I DINTORNI DEL CANALE

In superficie è oggi attraversato da diversi ponti: per la linea ferroviaria, per una strada locale e un’autostrada a due carreggiate e un collegamento pedonale. Risalgono alla fine degli anni ottanta i due ponti mobili sommergibili collocati alle sue estremità, a Isthmia e Poseidonia. Abbassano il loro impalcato per 8 metri sotto la superficie dell’acqua per consentire il passaggio di imbarcazioni senza limiti di altezza, permettendo il passaggio dei veicoli terrestri.

La città sorge alle pendici del monte Acrocorinto, proprio sull’istmo di Corinto. Il Canale di Corinto collega il golfo omonimo con il Mar Egeo ed il Golfo Saronico e trasforma l’istmo in qualcosa che si può considerare quasi a sé stante, quasi un’isola, oggi una terra nota come Peloponneso.

Un tempo Corinto era una delle città più importanti della Grecia e lo è rimasta, nel Medio Evo ha visto nascere sulla sua area le fortificazioni di Acrocorinto, l’acropoli, odierna “Corinto Alta”, un terremoto ha distrutto poi quasi tutta la città, poi ricostruita 9 km a nord di quella antica.

 

 

 

“INNO ALL’AMORE” DI SAN PAOLO TRATTO DALLA PRIMA LETTERA AI CORINZI

 

 

“Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli,

ma non avessi l’amore,

sono come un bronzo che risuona

o un cembalo che tintinna.

E se avessi il dono della profezia

e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza,

e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne,

ma non avessi l’amore, non sarei nulla.

E se anche distribuissi tutte le mie sostanze

e dessi il mio corpo per esser bruciato,

ma non avessi l’amore, niente mi gioverebbe.

L’amore è paziente,

è benigno l’amore;

non è invidioso l’amore,

non si vanta,

non si gonfia,

non manca di rispetto,

non cerca il suo interesse,

non si adira,

non tiene conto del male ricevuto,

non gode dell’ingiustizia,

ma si compiace della verità.

Tutto copre,

tutto crede,

tutto spera,

tutto sopporta.

L’amore non avrà mai fine”.

Per chi ama la Storia Antica e l’Archeologia riporto dal sito ROMANO IMPERO il seguente LINK:

CORINTHUS - CORINTO (Grecia)

https://www.romanoimpero.com/2016/01/corinto-grecia.html?hl=en

 

 

MELTEMIUN VENTO DA NON SOTTOVALUTARE

 

 

 

 

Il Meltemi greco: vento amico o nemico?

https://www.yachting.com/it-it/news/the-greek-meltemi-friend-or-foe

NAVIGARE CONTRO MELTEMI ? di Marinella Gagliardi Santi

https://www.marenostrumrapallo.it/maltemi/

 

 

 

Carlo GATTI

Rapallo, 29 Dicembre 2022

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


LUIGI ONETO, UN COMANDANTE DI ALTRI TEMPI

 

COMANDANTE LUIGI ONETO

di Camogli

Introduzione

“ NAVIGARE NECESSE EST, VIVERE NON EST NECESSE ! ”

” Navigare è indispensabile, vivere no ! “

E’ l’incitazione che, secondo PLUTARCO, Pompeo diede ai suoi marinai, i quali opponevano resistenza ad imbarcarsi alla volta di ROMA a causa del cattivo tempo.

Ma chi é il navigante ?

Il 2012 é l’anno del TITANIC, il successivo sarà quello del REX per gli 80 anni del suo Nastro Azzurro. Gli scaffali della ‘Libreria del Mare’ traboccano di ciminiere colorate, e pare che le prue delle navi passeggeri stampate in copertina si stacchino in cerca di un ormeggio in porto. Ne prendo uno a caso, e comincio a sfogliarlo ponendomi la stessa domanda di sempre:

“Ci sarà un’anima in questo libro? Oppure sarà la solita ricerca d’archivio con belle immagini risanate al computer? Sarà il frutto del committente di turno in cerca di propaganda familiare e aziendale, oppure  scoprirò finalmente un nuovo scrittore di talento?”

Alla fine ci casco sempre e passo all’acquisto. La mia libreria casalinga ormai rolla e beccheggia come un vapore nella burrasca. Poi, a malincuore, annoto la solita delusione. La letteratura marinara italiana soffre di un mal di mare inguaribile. Ci racconta di liners e di celebrate compagnie di navigazione, di navi sempre più grandi ed efficienti, di eccezionali strumentazioni collegate a progressi scientifici spaziali, senza mai raccontare alcunché della vita di bordo, degli equipaggi, degli uomini che le comandano nelle bonacce e nelle tempeste negli irrequieti Seven Seas. Mi prende la nostalgia per il passato e penso a Vittorio G.Rossi che il mare l’aveva dentro e sapeva ‘sbattercelo’ in faccia con tutti i suoi umori salmastri. Ma di lui si parla poco o niente, i suoi scritti sono introvabili, e mi manca soprattutto quando i tragici  fatti dell’Isola del Giglio, mi ricordano quanto poco si sappia degli uomini mare, di quella razza che vive sospesa nel cavo dell’onda come recita il detto:

“ I vivi, i morti e i naviganti ”

Tutto ciò mi rattrista perché rivela un diffuso malessere in questo ‘Paese di poeti, santi e navigatori’ che stenta a sollevarsi, a guardare oltre la linea dell’orizzonte e a prefigurarsi un futuro degno della sua invidiabile tradizione.

Quando i ‘topi d’archivio’ riempiono le librerie di mare senza dire nulla di marinaro, significa che lo ‘stivale’ non é più in mezzo al mare, ma si é spostato in una grande palude. Forse é lo stesso scenario immaginato da Seneca già duemila anni fa quando scriveva:         

“Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare!”

Chi invade il campo marinaro senza rendergli giustizia commette un errore gratuito di valutazione, ma é quasi sempre esente da colpe. Occupare uno spazio vuoto é un rito meccanico, fisiologico, lo si compie per colmare un vuoto lasciato intenzionalmente per motivi a volte insondabili di chi glissa sulla propria vita; é una scelta meditata e riveste la sfera privata. Il marinaio accetta di lasciare la terra e viaggiare in incognito verso una via che anno dopo anno lo allontanerà dagli affetti più cari e dagli antichi compagni di scuola. Sa di appartenere ad un mondo che non é in vendita, ma che premia i suoi figli migliori e respinge con crudeltà quelli più arrendevoli. A suo modo si sente un privilegiato, un uomo scelto dall’alto per una missione impegnativa che lo riempie di visioni e conoscenze vere, non virtuali, di sentimenti forti, non potenziali e fittizi.

A volte succede che il navigante decida di raccontare qualcosa degli strani labirinti esistenziali della vita di bordo, ma a questo punto affiora un’altra anomalia. Egli ha già messo nelle mani di Dio le sue confessioni ed ha già perdonato il male ricevuto. I suoi personaggi non sono più esseri umani impastati di bene e di male, come accade in ogni angolo della terra, ma sono compagni d’avventura o di sventura che vanno capiti e perdonati perchè accomunati dallo stesso destino. In questi racconti non c’è spazio per l’orgoglio ferito, i rancori, le invidie, gli errori fatali, le cattiverie reciproche, la diffamazione e le critiche gratuite.

Quando la nave arriva in porto, il navigante dimentica e si rigenera, si trasforma e risorge. L’incubo di una ‘nave-cella’ in mezzo al mare svanisce con un colpo di ‘redazza’ ben assestato tra le mura di casa cancellando ogni brutto ricordo residuo.

Come per incanto, la ferita cessa di sanguinare e il suo racconto s’intreccia con  ricordi falsati e sbiaditi, con piccole bugie ed omissioni. La sua purificazione é rapida e completa. La rassegnazione è il sentimento che resta in sospeso, ma non é mai in discussione, bensì il prezzo da pagare per chi é nato lì, dove arriva e riparte il mare. Passano i giorni e si fa sotto l’ansia che deve imbarcare, soffrire, condividere il viaggio con i nuovi compagni, morire un’altra volta, risorgere e poi dimenticare.

L’uomo di mare non é un santo!

Il suo mondo é inflazionato d’arrivisti, carrieristi e gelosi della propria professione con atteggiamenti a volte molto discutibili, proprio come un qualsiasi manager di terra, ma a differenza di questi, percepisce i rintocchi della campana di bordo come il monito che batte il trascorrere del ‘tempo’ ma anche il suo inesorabile cambiamento: l’imminenza della tempesta, dei pericoli nautici rende tutti uguali dinanzi a Dio, nell’umiltà, nella prudenza, nella sofferenza e nella speranza di uscirne vivi.

L’etica del capitano di mare sta nel tenere costantemente sotto osservazione due bussole:

Quella di bordo, che gli indica la direzione da seguire con i ben noti

punti cardinali:

Nord-Est-Sud-Ovest

Quella che ha dentro di sé, che gli indica le:

virtù cardinali:

prudenza, giustizia, fortezza, temperanza.

I divi-capitani sono sporadiche eccezioni che, prima o dopo, smarriscono queste bussole pur sapendo che il dio-mare non accetta sfide e non sa perdonare. Mai!

Qui finisce la storia che é vecchia come il mondo. Il valore di certi libri  non può che essere monco, anzi, senza anima. Il ‘topo d’archivio’ scrive di navi, ma non vanta alcuna conoscenza dell’umanità marinara. Egli non può intuire le modalità che ogni capitano usa di volta in volta per consegnarsi alla nave, dandole il suo carattere, persino il proprio linguaggio, vivendo in simbiosi con essa come fosse un inconfessabile amante. Questo legame é fortissimo e fa parte di una giungla di sentimenti difficilmente comprensibile ad un estraneo a questo mondo arcaico, leggendario, superstizioso, a suo modo spirituale e religioso, a volte anarchico verso la terra matrigna e lontana che non lo capisce.

Talvolta i rapporti umani tra i membri dell’equipaggio possono complicarsi  e assumere risvolti psicologici inafferrabili che, senza voler scomodare J.Conrad costituiscono, ancora oggi, materia d’indagine per corsi universitari di psichiatria. Se il comandante é nervoso, il suo malumore si diffonde come un ordine calato vertiginosamente dal vertice della piramide fino alla base attraverso persone con gradi e responsabilità diverse. La nave percepisce qualsiasi anomalia e risponde, a modo suo, con vibrazioni e lamenti che il suo comandante interpreta come segnali di buona o cattiva navigazione.

Non molti lo sanno, ma la nave é fortunata o sfortunata, allegra o triste, ubbidiente o capricciosa; essa é come la vuole il suo Capitano e, quando questi scende a terra, entra in sofferenza e spesso si ammala.

Un tempo, proprio sulle navi di cui tra poco ci occuperemo, si diceva:

‘Se il Comandante é felice, lo é tutto l’equipaggio!’

CAPITANI D’ALTRI TEMPI…

IL COMANDANTE LUIGI ONETO

L’imbarco sul  REX. In guerra sulla VIRGILIO. L’affondamento dell’ADREA DORIA. Il comando sulla MICHELANGELO e RAFFAELLO.

Il dott. Gianni Oneto ci racconta suo padre.

Il Capitano Superiore di Lungo Corso Luigi Oneto di Camogli

L’uomo di mare che oggi vi presentiamo meriterebbe una biografia ben più completa della modesta intervista che segue, se non altro per il lungo e complesso percorso iniziato sette anni prima della Seconda guerra mondiale e terminato con l’esplosione del mondo crocieristico negli anni ’70.

Per capire il mondo del com.te Luigi Oneto occorre partire da lontano, da un dato terribile: il 10 giugno del 1940 l’Italia entrava in guerra con circa 3.500.000 di tonnellate di naviglio. A guerra terminata poteva contare soltanto su 300.000 tonnellate. Oltre trentamila furono i marittimi uccisi. Tra i superstiti vi furono  sicuramente i più fortunati, ma questi si erano fatti più forti, più duri essenzialmente in virtù delle esperienze belliche e para-belliche vissute sulla propria pelle.

Ognuno di loro raccontò la ‘sua’ storia privata ricca d’insidie soltanto in famiglia e agli amici: bombe d’aerei che cadevano a grappoli intorno alla nave, sfiorate decine e decine di mine sparse in mezzo al mare, siluri evitati per pochi centimetri, navi affondate, equipaggi recuperati e poi affondati per la seconda volta nello giorno, come capitò a tanta gente di mare in quei terribili frangenti.

Quante storie ignorate e dimenticate! Quante biografie scritte sull’acqua e spazzate via dalle onde oltre quella linea d’ombra che é già … al di là!

Il comandante Luigi Oneto fu uno di loro. Un superstite, un reduce che, grazie alla sua fermezza e al suo coraggio, divenne uno dei più brillanti Capitani di Mare del dopoguerra. Di lui esiste solo qualche articolo di giornale ormai ingiallito e qualche notizia presso qualche Associazione di ‘vecchi marinai’ come la nostra.

Leggendo il curriculum del comandante Luigi Oneto, mi sono reso conto d’averlo ‘sfiorato’ diverse volte nei primi anni ’60, durante i miei imbarchi da Allievo Ufficiale sulle M/n Saturnia-Vulcania-Marco Polo della Società Italia. Purtroppo, non feci in tempo a conoscerlo neppure quando entrai nel Corpo Piloti del Porto di Genova, perché era da poco andato in pensione. L’anno in cui raggiunsi il mio ‘retire’ il comandante Oneto mancò. Nella Società Capitani e Macchinisti di Camogli, che ripresi a frequentare negli anni successivi, era ancora vivissimo il suo ricordo umano e professionale. Per ricostruire a grandi linee la sua carriera, ho pensato di affidarmi ai ricordi del figlio Dott. Gianni Oneto, con la speranza di cogliere e ‘salvare’ alcuni dati peculiari del suo carattere, la comprensione etica e morale dell’uomo che ha fatto anche discutere molti ‘terrestri’, ma facendo trionfare, alla fine, l’onestà, l’onore e le capacità professionali di un vero marinaio ligure. Ma veniamo alla prima domanda:

–  So che lei si é diplomato all’Istituto “Nautico” S.Giorgio di Genova, ha navigato come ufficiale e si é laureato in Economia Marittima all’Università di Napoli. Dott. Oneto abbiamo in mano il ‘Libretto di Navigazione’ di suo padre.  Ritorniamo indietro nel tempo e proviamo ad imbarcarci con lui.

Mio padre nacque a Genova nel 1911 da genitori di antica tradizione marinara di Camogli, fu  l’ultimo di dieci figli, di cui sette sono arrivati alla vecchiaia!

All’età di vent’anni, di propria volontà, scelse la vita di mare. 
Si diplomò nel 1933 presso l’Istituto Nautico di Camogli. 
I primi imbarchi li fece con la Società Alta Italia (Armam. Piaggio) sui piroscafi Perseo, Mongioia, Montello e Monfiore, anche se il primo imbarco lo fece sul P.fo Ravenna (la prima nave da carico dei Costa).

Non era più un ragazzino, in realtà, di quei primi imbarchi so molto poco. Erano gli anni della grande depressione economica mondiale e l’armatore per riuscire ad avere un margine accettabile tra noli incassati e costi variabili della nave faceva il massimo delle economie imponendo agli equipaggi turni  pesanti (4h di guardia e 4h di riposo). Persino alcune casse-acqua di bordo erano riempite di carico. Per quel che ne so, la nave portava carbone dall’Inghilterra all’Argentina e ritornava verso l’Europa con grano; oppure facevano scalo nel Golfo del Messico. L’acqua, come si diceva, era sacrificata al carico, quindi era sempre razionata. La cosa che amava ricordare da vecchio, era un ingegnoso sistema, di cui non ricordo i dettagli: si trattava di un grosso straccio pulito usato per lavarsi con pochi litri d’acqua di lavanda al giorno. Ce lo raccontava in modo divertente, ma anche con orgoglio. Non so perchè, ma le mie sorelle ridevano come matte. Forse non immaginavano quanto la finissima polvere di carbone, caricato fino alla ‘marca’, penetrasse dovunque e coprisse completamente la nave come un velo.

Le autostivanti erano ancora di là da venire. Le soste nei porti duravano settimane e gli equipaggi apprezzavano molto la navigazione in banchina! Una volta chiesi a mio padre se la guardia 4+4 era molto pesante, lui mi rispose: “No, non é pesante, perché una volta in banchina sostavamo per almeno 15 gg. e senza nemmeno troppi vincoli ” Mio padre non si lamentava mai !

–  Di suo padre si dice che fosse un Comandante di altri tempi, un uomo  carismatico, un professionista esemplare; severo come tutti i padri del dopoguerra. Com’era tra le mura domestiche tra un imbarco e l’altro?

Mio padre fu un uomo del suo tempo che visse la sua carriera nell’ascesa, il culmine e la fine del periodo d’oro dei grandi transatlantici. Andò in pensione a 60 anni nel 1971, quando ormai tutte le nazioni di grande tradizione marinara smobilitavano o convertivano i loro liners in navi da crociera.

Ripeto, fu l’ultimo di dieci figli e credo che ciò abbia influito, non poco, sul suo carattere aperto e cordiale, ma anche sulla sua ‘filosofia di vita’, in tutti i sensi.

Si reputava, con sincera modestia, il più normale degli uomini. Di certo non era il tipo da lambiccarsi il cervello per cose più grandi di lui…

Quando era in licenza, oppure a casa per una o due sere, usava, come si suol dire, ‘tirare giù la saracinesca’. Invitare un collega a casa anche soltanto per un’ora, era cosa rarissima; poteva forse capitare, una volta ogni 2 o 3 anni. Dei fatti di bordo parlava pochissimo, almeno in nostra presenza ed il suo  tempo lo dedicava interamente alla famiglia, al bricolage domestico ed al contatto con i fratelli,  sorelle e le rispettive famiglie.

Bene! Ora andiamo a conoscere le navi della Società Italia su cui fu imbarcato il comandante Luigi Oneto.

 

M/n AUGUSTUS in navigazione nella versione anteguerra

La prima nave della Soc. Italia su cui imbarcò fu la vecchia AUGUSTUS. Poi, nel 1938, inaspettatamente, si ritrovò con il grado di 3° ufficiale sulla nave REX. Credo che mio padre si sentisse molto orgoglioso di far parte dello Stato Maggiore della nave-simbolo dell’Italia sul mare e di essere a tal fine stato scelto dalla Società.

 

 

Il REX in navigazione. La nave che vinse il “Nastro Azzurro” rimase per  sempre nel cuore del comandante Luigi Oneto.

 

New York – Il REX (il primo a sinistra) é ormeggiato al Pier 84 della Soc. Italia di Navigazione. Negli altri Piers si notano i più grandi “liners” dell’epoca.

 

–  Il REX era anche la nave più tecnologica dell’epoca. Ricorda qualche suo aneddoto?

Tutta la nuova tecnologia dell’epoca era applicata su quella gigantesca nave, di certo imparò molto dal lato professionale. In famiglia si ricorda per esempio, che mio padre  ebbe a dire che a bordo di quel ‘gigante’ c’erano troppi ‘scienziati’. Un modo di dire certamente, ma che rivelava quanto poco ammirasse chi cercava di mettersi in mostra. Per lui la parola ‘scienziato’, come veniva usata a bordo, non era un gran complimento. Un complimento era semmai ‘cervellin’, detto proprio in genovese, con cui s’intendeva un tecnico molto preparato sul piano teorico, ma anche molto bravo e pronto a risolvere velocemente qualsiasi problema, tipo quelli che ogni ora a bordo il cielo ci manda”. Lui era assolutamente certo di non appartenere a nessuna delle due categorie.

Delle navi passeggeri, credo che in fondo gli piacesse il fatto di essere in mezzo a tanta gente, di ogni razza e provenienza, due volte per ogni viaggio: andata e ritorno. I grossi ‘Liners’ di quei tempi, occorre ricordare, non portavano solo i ricchi in prima classe, ma anche tanti tristi emigranti in cerca di lavoro e fortuna al di là dell’Oceano Atlantico. Questa complessa convivenza sociale a bordo era spesso sottolineata da mio padre.

–  Quali furono le altre navi su cui imbarcò suo padre nel periodo tra le due Grandi Guerre?

Nella seconda metà degli anni trenta, oltre che sul vecchio AUGUSTUS e REX navigò anche sulla  PRINCIPESSA GIOVANNA. (vedi foto sotto)

–  Può dirci qualcosa sull’arruolamento degli ufficiali della Società Italia.

A quel tempo si diceva che solo la ‘crema’ degli ufficiali usciti dai Nautici italiani sarebbe entrata a far parte degli organici della Società Italia. Mio padre entrò in ‘organico’ nel Ruolo Navi Passeggeri all’inizio del 1940 e fu una vera tappa miliare nella sua vita di giramondo, o meglio, di tranviere dell’Atlantico, come avrebbe detto Lui!.

All’epoca, per gli ufficiali di coperta e di macchina, c’erano due Ruoli: il ‘Ruolo Carico’ e il ‘Ruolo Passeggeri’, che erano  assolutamente impermeabili tra loro. Nel primo Ruolo la carriera era più rapida, perché erano richieste meno attitudini. Nel secondo Ruolo, come vedremo, gli avanzamenti di grado erano lentissimi.

–  Ritorniamo al Libretto di Navigazione.

La M/n VIRGILIO (gemella della ORAZIO) *

Nel Marzo del 1940 mio padre imbarcò sulla M/n VIRGILIO. Era una nave mista che operava sulla linea del Centro America-Sud Pacifico sino a Valparaiso (Cile). Fu un imbarco lunghissimo: oltre tre anni. Su questa nave navigò in qualità di ufficiale capo-guardia e, conoscendo il suo carattere, immagino che ne fosse felice. Su quella linea, forse la più interessante tra quelle battute dalla Società Italia, portò a termine oltre 50 viaggi in tutta la sua carriera.

Mio padre, navigando tra le sponde degli oceani, ‘viveva e respirava’ – più di tanti altri – i tragici venti bellici, e la dichiarazione di guerra all’Inghilterra gli parve una pura follia… Ma per tutto quel che ho letto in seguito, oltre ai ricordi personali, quel tipo di valutazione personale, sia tra gli ufficiali della marina mercantile che di quella militare, era tutt’altro che isolata o limitata ai gradi inferiori. Per farsene un’idea abbastanza precisa, era sufficiente considerare lo sviluppo industriale anglo-americano di quegli anni, per non cadere in certe scelte politiche…

Comunque, mio padre fece in tempo a rientrare in Italia dal viaggio e la sua nave fu prudentemente fermata a Genova, come altre unità del gruppo IRI.

– Adesso sono io che le propongo una domanda:

“Perchè l’IRI fermò un numero non indifferente delle sue navi mentre, com’é noto, le navi degli Armatori privati continuarono a partire dai porti italiani per ogni dove, praticamente fino all’ultimo giorno di pace ?

 

–  Sono sicuro che qualche storico di professione interverrà per dipanare questi dubbi (politici) su quella delicata fase storica del nostro Paese.

Eravamo rimasti all’inizio della guerra…

Ai primi di Giugno del ’40, mio padre pensava che la storia italiana avesse imboccato una strada di non ritorno e che la guerra fosse ormai imminente. Così fu, ed  il 10 Giugno toccò al nostro Paese entrare in guerra.

Ormai, la soddisfazione professionale che mio padre assaporò pochi mesi prima, si era ridotta a ben poca cosa. Sono comunque sicuro che non stette molto a pensare sul da farsi; non perdeva mai tempo a lambiccarsi il cervello sulle cose impossibili, sia in mare, sia nella vita privata. A quel punto, forse si rallegrò di non essersi ancora sposato, e sapeva che sua madre e le sue sorelle si sarebbero facilmente ‘imboscate’ nella casa di Pissorella sulle alture di Camogli. In quella casa che era appartenuta a suo padre e prima ancora a suo nonno, andavano del resto tutte le estati.

 

La VIRGILIO dopo la trasformazione in nave-ospedale

L’incendio scoppiato a bordo della VIRGILIO dopo l’attacco aereo del 9 luglio 1941

Una bella immagine della VIRGILIO alle boe

Aspettò ben poco tempo. La VIRGILIO su cui era imbarcato, fu rapidamente trasformata in Nave-Ospedale. L’equipaggio di coperta e di macchina della Società Italia rimase a bordo ‘militarizzato’, mentre dalla Regia Marina giunse il personale medico e RT.  Su quell’unità mio padre rimase oltre 3 anni senza sbarcare. Sostanzialmente i viaggi erano sempre gli stessi: Napoli-Porti Libici e ritorno, con Sicilia e isole minori sovente incluse. Tra l’altro rifiutò uno scambio con un collega pari grado, che lo avrebbe portato ai lavori a Genova (ossia a casa) per la trasformazione  di una nave passeggeri italiana (la ROMA n.d.r.) nella portaerei AQUILA. (Andò a finire che l’Aquila non si fece più, e il suo collega morì in guerra).

In teoria, una ‘Nave Ospedale’, non avrebbe mai dovuto essere coinvolta in operazioni belliche navali, ma non fu così, perché spesso gli equipaggi si trovarono sotto i  bombardamenti aero-navali, mitragliamenti vari e susseguenti incendi; ci furono pure la morte del comandante a bordo, varie vittime, ed ordini assurdi di Supermarina. Per ogni viaggio la nave trasportava centinaia e centinaia di soldati feriti o morenti di ritorno dal fronte. In seguito ricordava quel periodo con tanta tristezza per lo scempio di vite umane cui aveva assistito.

–  Dove si trovava suo padre l’8 settembre del 1943?

Mio padre sbarcò  a La Spezia il 9 Settembre del 1943 per ordine della Società. La flotta navale di stanza a Spezia era partita nella notte, quel famigerato 8 Settembre con la nuovissima corazzata ROMA che affondò subito dopo, come sappiamo, fuori dell’Asinara. Mio padre aveva poco ‘penchant’ per le cose militari e non  ricordava nulla di quel movimento di navi da guerra. La sua nave-ospedale, nell’attesa di fare lavori di manutenzione, credo sia stata saccheggiata e quindi sequestrata dai Tedeschi in quei terribili giorni di caos.

Il lato paradossale della sua carriera militare come ‘guardiamarina’, sta nel fatto che non dormì mai una notte in caserma (la legge di allora lo prevedeva, perché era il quinto figlio maschio, di cui quattro avevano già prestato il servizio militare).

La sera del 9 Settembre tornò nella casa sopra Camogli, dove nel frattempo si erano trasferiti anche i fratelli sposati con le relative famiglie.  Iniziò per lui un periodo molto particolare.

Non aver nulla da fare è la peggior disgrazia che possa capitare a chiunque, ma soprattutto a chi lavorava e vegliava anche nelle ore di riposo, proprio come succedeva agli uomini di mare in navigazione su percorsi di guerra, tra agguati di sottomarini e mine più o meno vaganti. Questo capitò a mio padre.

In realtà, dopo l’8 settembre, egli era confinato in quella casa in una sorta di “arresti domiciliari” ma, paradossalmente, non poteva farsi trovare in casa se l’avessero cercato i nazi-fascisti. La casa e il giardino erano molto grandi e, tra un lavoretto e l’altro, aveva studiato e predisposto tutte le possibili vie di fuga verso il ‘monte’ di Portofino. Usciva solo di notte con il coprifuoco ed andava a far legna sulle colline circostanti. Sin da bambino conosceva tutte le ‘creuse’ delle nostre colline. I fratelli avevano una decina d’anni più di lui e non avevano problemi, al di là delle restrizioni belliche. Suo fratello il commissario, a furia di richiami, era diventato tenente di vascello ed era rimasto al sud. Non ne seppero più nulla sin dopo il 25 Aprile 1945. I tedeschi, nel frattempo, avevano chiesto di mio padre alla Società Italia per rispedirlo sulla VIRGILIO. Ne scaturì un nulla di fatto. La Società in qualche modo dovette aiutarlo, perché nessuno venne mai a cercarlo, per di più era proprio a casa sua…

Un suo fratello medico, periodicamente, gli faceva ottenere qualche certificato. Tutti lo conoscevano, sapevano o immaginavano che se non era nella sua abitazione a Camogli  doveva trovarsi sicuramente in villa o nascosto da qualche parte sulle alture.

Mio padre rifiutava d’andare in guerra a combattere contro suo fratello rimasto al Sud. Se i tedeschi l’avessero scoperto, si sarebbe giocato l’ultima carta arruolandosi nelle Brigate Partigiane della Liguria, facili da raggiungere da Ruta.

Gli andò bene! I tedeschi non bussarono mai alla sua porta, ed é molto strano, visto che il Comando tedesco alloggiava in una villa distante solo qualche centinaio di  metri. Credo che la gente di Pissorella lo abbia in qualche modo protetto. Dirò forse una banalità, ma credo che mio padre e i suoi fratelli fossero benvoluti da tutti e non stessero proprio  sui ‘cosiddetti’ a nessuno.

Trascorse 20 mesi da recluso, ma anche da fuggiasco, passando dalla noia alla tensione, dalla preoccupazione per i fratelli in guerra, alla tristezza di non poter essere utile a nessuno. Fumava, ma non aveva né sigarette né soldi, però si innamorò di mia madre che si trovava in frangenti anche più difficili, ma almeno poteva muoversi liberamente.

Sono certo che entrambi uscirono indenni dalla guerra con l’assoluta desiderio di dimenticare in fretta tutto quanto era successo. Li attendeva un mondo completamente rinnovato che andava affrontato con nuovi ideali e nuove forze, nonostante le ristrettezze economiche impensabili per tutti solo pochi anni prima.

Racconto soltanto un piccolo dettaglio che ritengo sia indicativo del pacifismo praticato dalla mia famiglia: sono nato nel ’48, ma da bambino non ho mai avuto un’arma giocattolo, quel che al massimo mi era concesso era una pistola ad acqua d’estate. Ciò spiega il motivo per cui le domande sui bombardamenti ed azioni belliche in cui si era trovato mio padre, non andassero mai a buon fine.

–  Nonostante la guerra e i bombardamenti che non risparmiarono nulla e nessuno, la nave-ospedale VIRGILIO fu un’unità fortunata per suo padre?

Alla fine si. L’imbarco sulla ‘Nave Ospedale VIRGILIO’, almeno in teoria, non era stata la peggior sorte toccatagli, dati i tempi, ma io seppi di quel che successe alla M/n VIRGILIO  leggendolo sui libri di storia di quel periodo, e quando provai a discutere con lui di certi fatti, mi resi conto che mio padre aveva accantonato per sempre quel genere di ricordi.

Un’altra mia fonte fu l’ex Cappellano di bordo della VIRGILIO che, nel frattempo, da Carmelitano si era fatto Certosino di Clausura. Il religioso, grande amico di mio padre, era un uomo davvero straordinario, sembrava fatto apposta per smentire tutti i possibili luoghi comuni sui religiosi.

–  Nel difficile dopoguerra italiano, il comandante Luigi Oneto riprende a navigare con la Società Italia di Navigazione, alle cui dipendenze rimarrà sino alla pensione percorrendo tutti i gradi della sua carriera su i più prestigiosi  ‘Passenger Liners’ italiani dell’epoca. Suo padre rinasce una seconda volta?

Alla fine della guerra, mio padre ebbe una storia comune a molti suoi colleghi, e forse anche più defilata all’interno dell’ambiente-Finmare. Dalla Società, pur essendo ormai in organico, prendeva uno stipendio assai modesto, che certo non gli avrebbe consentito di sposarsi e mettere su famiglia. Fatto più preoccupante, mancavano le navi e non era per niente scontato che gli USA avrebbero restituito i nostri Transatlantici sequestrati all’inizio delle ostilità.

Di sicuro so soltanto che non prese mai, nemmeno per un attimo in considerazione l’idea di abbandonare il mare. Stava invece esaminando la possibilità di andare a fare il Pilota del Canale di Suez.

Le incertezze finirono quando mio padre fu chiamato per il primo imbarco sul P.fo PATRIOTA. Questa nave meriterebbe una ricerca, perché nelle tante letture in cui mi sono imbattuto, ho ‘incrociato’ questo nome soltanto una volta e senza tanti particolari significativi. Si trattava in realtà di un ex-panfilo risalente, come costruzione, all’inizio del novecento ed era stato adattato nel dopoguerra al trasporto di passeggeri tra Civitavecchia e Olbia (ambedue quasi distrutte dalla guerra).

–  Si trattò sicuramente di una piccola nave adattata, nel disastro post-bellico, al collegamento del continente con la Sardegna altrimenti isolata e abbandonata a se stessa.

Il problema però era un altro, questo ex-panfilo non aveva DDFF !! (dispositivi di sicurezza)  Sic et sempliciter… Non c’è bisogno di aggiungere molto! Bussola magnetica, carta nautica, timone e via!

Di quella nave mio padre, arruolato come 3° ufficiale di coperta, mi  raccontò due cose:

– La prima consisteva nella diffusione della corruzione a tutti i livelli. Tra i compiti del 3° ufficiale rientrava il controllo dei biglietti dei passeggeri ai piedi dello scalandrone e, ad ogni partenza, mio padre subiva pressanti tentativi di corruzione. Ci raccontava, a questo proposito, che se avesse avuto altri principi… con quell’imbarco, si era nel 1946, sarebbe diventato certamente ricco!

– La seconda, più tecnica, riguardava le incertezze del Comandante nel manovrare  la nave sotto costa, in fase d’atterraggio e in manovra, e quindi dei pericoli che ne potevano derivare. Mio padre aveva già 35 anni e disponeva di una buona esperienza per poter giudicare un comportamento poco marinaro. Tenne duro, prese tutto con filosofia, terminò l’imbarco e mise i soldi da parte per sposarsi. Nel frattempo mia madre si laureò e finalmente convolarono a nozze. Nel ’47, anche le cose più semplici erano difficili, ma molti italiani paiono oggi aver dimenticato quei tempi poi non così lontani.

 

Il suo secondo imbarco (postbellico) portò la fine delle incertezze, ed avvenne sulla ex-Liberty USA – STRONBOLI, adibita ai viaggi del Nord Atlantico.

‘I Liberty nu sun miga rumenta’

Questa frase (non sua) l’ho sentita pronunciare molte volte nella mia lontana infanzia, ma in effetti si trattò di una delle più grandiose imprese industriali del secolo scorso.

–  Ai lettori interessati all’argomento LIBERTY, segnaliamo l’articolo sul nostro sito:

La Seconda Spedizione dei Mille”.

https://www.marenostrumrapallo.it/spedizione/

Ed eccoci finalmente a riparlare di navi celebri, ma questa volta negli anni della RINASCITA.

Siamo giunti al 1948 con prospettive decisamente migliorate. Il suo terzo imbarco posbellico fu su sulla MARCO POLO, una nave da carico della serie NAVIGATORI, (A.Vespucci, M.Polo, P.Toscanelli, S.Caboto, A.Usodimare, A.Vivaldi – n.d.r) che era stata recuperata dopo l’affondamento causato dalle bombe d’aereo piovute dal cielo di Genova, prima ancora d’entrare in linea. I ‘navigatori’ furono navi provvidenziali in quel momento per la Marina Mercantile Italiana. L’operazione ‘recupero’ fu opera della FINMARE che le trasformò in ‘Navi Miste’ (carico e passeggeri). Tre andarono alla linea Centro America-Sud Pacifico e ci rimasero 15 anni circa, le altre navigarono in genere per il Llody Triestino.

Ho sempre sentito raccontare in famiglia l’aneddoto, peraltro vero, di una coppia di Camogli, ormai sulla sessantina, (famiglie emigrate da varie generazioni, cosa non rara in riviera) che  aveva il biglietto in 1a classe per il ritorno in Peru’ nell’estate del ’40, dopo una vacanza di pochi mesi a Camogli, ma finì per  partire solo nel 1948,  in un camerone di 3a Classe.

Mio padre partecipò ai lavori sulla MARCO POLO nei Cantieri di Sestri Ponente, fece l’allestimento e  poi un anno d’imbarco, sempre da 3°ufficiale. La nave viaggiava ogni volta con il massimo dei passeggeri trasportabile e le stive cariche di merci.

Presumo che i problemi a bordo non mancassero, ma la ripresa commerciale era in atto:

le Liberty, la restituzione delle navi sequestrate dagli Usa e le prime newbuidings della Società, costituivano una buona base per ripartire con nuove assunzioni. Mio padre decise di restare anche se molti suoi colleghi, nel frattempo, avevano dato le dimissioni  o erano andati in pensione da 1° ufficiale proprio a causa della mancanza di navi.

 

La M/n Marco Polo in una ‘chiusa’ del Canale di Panama

La Marco Polo insieme con la A.Vespucci, la P. Toscanelli, la A.Usodimare, formavano la Classe ‘Navigatori’ della Società Italia. Furono impegnate per molti decenni nel trasporto di emigranti e merci verso i porti del Sud-Pacifico.

–  Vedo dal libretto che suo padre fece ancora tre mesi da 3° Uff.le sulla M/n CONTE BIANCAMANO e nel 1950 fu promosso 2° Uff.le. La guerra gli aveva ritardato la carriera di almeno 10 anni, in compenso si era avvantaggiato sul piano dell’esperienza. Forse lo ammetteva lui stesso?

Nel 1951 (compiva ormai 40 anni) iniziò un imbarco di 15 mesi sulla M/n PAOLO TOSCANELLI (un altro ‘Navigatore’!), sulla rotta Genova-Buenos Aires (Baires). Gli imbarchi lunghi allora erano normali. Questa fu la prima nave che io vidi! Ne sono sicuro.

I successivi imbarchi furono più importanti: CONTE BIANCAMANO e CONTE GRANDE. All’inizio del ’55 fu promosso 1° Uff. ed imbarcò sulla M/n GIULIO CESARE. Per la prima volta, la sua paga superò le 100.000 lire al mese, amava ricordare mia madre!

Incontro tra due Conti: C. GRANDE (nella foto) e C. BIANCAMANO

Nel periodo compreso tra il ’48 e il ’55, salvo pochi viaggi su i vecchi ‘CONTI’ sulla linea di New York, mio padre fece quasi sempre viaggi per il Sud America con la classe ‘Navigatori’ che avevano un solo motore, trasportavano centinaia di passeggeri ed appare strano, ancora oggi, questa carenza di sicurezza perché erano linee molto richieste per via dei flussi consistenti d’emigrazione.

–  Sulla sua interessante osservazione, vorrei aggiungere un commento personale, dal momento che feci due viaggi proprio sulla Marco Polo nel 1963, quando forse mi sfiorai con suo padre… I cosiddetti ‘Navigatori’ erano navi eccezionali che potevano usufruire di una buona manutenzione nei numerosissimi porti che scalava. Il loro limite, per quei viaggi era la mancanza dell’impianto dell‘aria condizionata’ di cui parleremo tra breve.

Verissimo, e credo che fin verso la metà degli anni ’60 abbiano fatto viaggi assai redditizi per la Compagnia.

L’Armamento Costa iniziò nel dopoguerra la sua attività nel settore passeggeri proprio con i viaggi per il Sud America. Sul piano ‘nautico’ non mi risulta che avessero avuto particolari problemi, al contrario, credo che non sia stata facile la gestione dei passeggeri. Molti erano poverissimi e magari analfabeti. Altri erano più abbienti, ma ‘gli si leggeva in faccia’ che per un motivo o per l’altro erano ‘uomini in fuga’, non che fossero dei criminali, i casi erano magari i più impensabili, sia per i nostri connazionali che per i numerosissimi stranieri. Gli ho sempre sentito ripetutamente dire: “cosa dobbiamo aver portato in quegli anni in Sud America… non lo sapremo mai!”

Per questo motivo, non mi sono mai meravigliato più di tanto quando, molti anni dopo, sono usciti vari libri e romanzi sulla ‘rotta dei topi’, alcuni dei quali erano anche molto ben documentati. Nel periodo postbellico si erano rimescolate tante carte e si dovevano accettare anche situazioni estreme.

–  Nei primi Anni ’60, nella Società Italia di Navigazione esistevano diverse anime: quella genovese, quella triestina e quella napoletana. Tre modi diversi d’interpretare la vita di bordo, di navigare, di rapportarsi con l’equipaggio e con i passeggeri. Si diceva, per esempio, che i genovesi fossero degli ottimi teorici, i triestini e dalmati degli buoni marinai, manovratori ecc… e che i napoletani fossero una via di mezzo. Anche sulla disciplina si facevano dei distinguo: diversi comandanti della scuola di Trieste e Lussimpicolo, davano un taglio piuttosto militaresco (austro-ungarico) al proprio ruolo. Mentre i genovesi, come suo padre, ma anche i napoletani preferivano un atteggiamento più moderno e mercantile. Personalmente, pur essendo allora molto giovane, trovavo queste differenze un arricchimento, un travaso d’esperienze e di vedute professionali di grande spessore, e devo dire che anche i burberi Comandanti di allora erano degli eccellenti padri di famiglia e rispettosissimi “personaggi” nella vita civile triestina dei primi anni ’60. Ne vorrei citare alcuni: Giovanni Assereto, Pietro Castro, Alfredo Cosulich, Claudio Cosulich, Giovanni Peranovich e Danieli che sono stati miei comandanti, tutti gli altri che non ho citato, li ho conosciuti da pilota del Porto di Genova: il comandante Gladulich (Gladioli) ha abitato per moltissimi anni a Rapallo ed ho frequentato a lungo la sua casa.

Suo padre  fece mai cenno in famiglia di questa “complessa” convivenza di SCUOLE della tradizione a bordo dei nostri transatlantici ?

Su questa interessante pagina della storia della Società ITALIA mi trova impreparato a rispondere sul piano tecnico. Mio padre guardava ai singoli uomini, ed oltre ad esser poco attratto dalle memorie familiari a livelli da non credere, e qui c’entra il fatto di essere stato l’ultimo di dieci figli, non ha mai raccontato molto di quel che gli accadeva a bordo.

Probabilmente avrà raccontato molto di più a mia madre (c’é qui da ricordare il capitolo che riguarda le lunghissime lettere – allora ‘aeree’ – che si scambiavano in tutti i porti!), ma a noi figli raccontava poco o nulla, forse anche per colpa nostra. Vent’anni dopo diceva di non ricordare più niente… ed era anche vero!

–  Il Comandante di una nave passeggeri ha il compito istituzionale di “lasciare il segno dell’ospitalità latina” sugli ospiti, a volte molto illustri, che viaggiano sulla sua nave, tuttavia egli deve essere anche un buon marinaio. Quale dei due ruoli amava di più suo padre?

Da Comandante, uno dei suoi molti doveri professionali era frequentemente quello di accogliere ed intrattenere a bordo personaggi illustri ed assai noti alle cronache. Assolveva a questo aspetto del suo lavoro con scrupolo, cortesia e cordialità. Da ‘padrone di casa’, era a suo agio, di carattere era allegro e cordiale, non musone, ma in privato non mostrò mai di annettere a questo lato del suo lavoro un’importanza particolare. Ne parlava raramente. Tra gli altri passeggeri illustri dell’epoca, ad esempio, ha ospitato a bordo lo scrittore Thornton Wilder, gli attori Burt Lancaster, Rossella Falk, Giorgio De Lullo, Romolo Valli, Alberto Sordi e Monica Vitti, gli anziani Duchi di Windsor, la ex-regina di Bulgaria Giovanna di Savoia, il simpatico Raymond Peynet (l’autore della fortunata serie dei “fidanzatini” di Parigi), il celebre pittore Pietro Annigoni, i soprani Renata Tebaldi ed Anna Moffo e la lista non é esaustiva, oltre naturalmente ad altri personaggi di varie istituzioni: Politici, Vescovi, Cardinali e Diplomatici.

Durante i lunghi anni di lavoro sul mare per la Società Italia di Navigazione, ebbe ben due proposte di ‘passare a terra’ con la dichiarata prospettiva di diventare capo dell’ufficio marittimo (Capitano d’Armamento), ma serenamente e cortesemente declinò le due proposte. In privato diceva che lui aveva scelto, a suo tempo, il suo lavoro sul mare, e di non aver mai avuto un solo motivo per ‘cambiar rotta’. A lui piaceva il mare… persino in vacanza non andava in montagna perché /testuale) “doveva vedere l’orizzonte”…

 

New York. Anni ’60 – Una bella immagine dell’epoca dei “liners”. In mezzo al fiume Hudson sta manovrando la Queen Elizabeth della celebre Cunard Line. Ormeggiate nei Piers di Manhattan si vedono da sinistra: la Costitution gemella dell’Indipedence (dell’American Export Line), l’Andrea Doria gemella della C.Colombo (Soc. Italia di Navigazione), la United States, la Olimpia (American Greek Line).

 

Una bella immagine dell’ANDREA DORIA davanti ai grattacieli di Manhattan

 

–  Nel 1956 accadde la gravissima tragedia dell’ANDREA DORIA. Suo padre era il 1° Ufficiale della nave. A distanza di quasi 60 anni, dopo tanta confusione, dubbi e forse anche un atteggiamento sbagliato delle istituzioni italiane di quel tempo, oggi se ne può parlare alla luce di fatti accertati che hanno ristabilito la verità. Qual’é il suo punto di vista?

 

L’ANDREA DORIA nella fase drammatica del suo affondamento

 

Nel Luglio del 1956 mio padre visse in prima persona la tragedia dell’affondamento della M/n ANDREA DORIA, su cui era da molti mesi imbarcato in qualità di 1° Ufficiale Anziano.

Ma veniamo all’affondamento della ANDREA DORIA, di cui mio padre, suo malgrado, dovette raccontarci qualcosa, in varie occasioni, sino alla vecchiaia, ma sempre con la stessa pena.

Il 5 Novembre 1955 mio padre imbarcò con il Com.te Pietro Calamai sulla T/n ANDREA DORIA, il gioiello più ammirato dello shipping di allora. Mia sorella Franca ed io, per la prima volta in vita nostra, abbiamo avuto modo di conoscerla da vicino. La nave arrivava ogni 19 o 20 gg. ed ogni volta andavamo in banchina a riceverlo. Quando la nave cominciava ad indietreggiare verso il molo, riuscivamo a vederlo subito perché il posto di manovra del 1° Ufficiale era sull’aletta di poppa (alette poppiere, tipiche delle costruzioni passeggeri di quegli anni). Per noi era un bel divertimento ed eravamo sempre molto contenti. Andò così per otto mesi consecutivi.

Tralascio per ovvi motivi di riservatezza, l’evento fin troppo noto e ormai (voglio augurarmi) sostanzialmente chiarito anche sotto il profilo tecnico. Mi permetta di tralasciare anche i risvolti familiari per tutti noi molto pesanti. Ancora oggi, con mia sorella Camilla abbiamo qualche problema a parlarne, sebbene siamo gli unici superstiti della famiglia.

Mi sto già preparando psicologicamente a tutto quel che mi toccherà leggere sui giornali e ascoltare in TV quando si celebrerà il 60° anniversario nel 2016. D’altronde, a nessuno della famiglia è mai piaciuto fuggire dai problemi, tuttavia, in questa sede, qualcosa vorrei accennarla.

Mio padre stimava molto il Comandante Calamai e, da anziano, mi disse che era stato uno dei suoi due maestri. Le cose andarono così: mio padre doveva sbarcare per normale avvicendamento all’ultima sosta della ANDREA DORIA a Genova prima che iniziasse quel viaggio disgraziato.

Terminato l’ultimo ormeggio a Genova, il comandante Calamai chiamò mio padre nel suo ufficio e gli disse più o meno queste parole: “Oneto, lei sa che non amo troppo i giri di valzer sul ponte. Ieri in Società ho ottenuto che lei rimanesse a bordo, tra 20 gg. sbarcheremo insieme. Lei ha problemi?”

Allora il mondo andava cosi. Mio padre fu un attimo sorpreso, c’era l’estate di mezzo e tante promesse alla famiglia, ma non ebbe dubbi ed accettò di proseguire l’imbarco seduta stante. Credo che mio padre non avrebbe mai detto ‘NO’ al suo Comandante, per di più davanti ad un simile attestato di stima!

Mio padre era il piu’ anziano degli ufficiali e faceva la prima guardia (04-08/16-20). Quando avvenne la collisione era franco di guardia e mai avrebbe immaginato che sarebbe stata l’ultima guardia della sua vita. Appena ‘smontato’ fece le solite cose e andò in cuccetta. Con l’urto improvviso e tremendo tra le due navi,  si ritrovò sul pavimento senza rendersi conto dell’accaduto, pochi istanti e fu subito sul Ponte.

Mio padre non era stato neppure testimone della collisione, ma aveva capito subito la dinamica dell’incidente e fin dal primo momento si convinse dell’assoluta buona fede del Comandante e dei suoi colleghi. Con questa radicata convinzione andò avanti sino a 80 anni suonati, sempre difendendo il buon nome del comandante Calamai, della sua nave e dei suoi colleghi in mille modi, con tanta ammirevole ostinazione.

Quando nel 1972 fu pubblicato il Rapporto Carrothers sulle cause della collisione, lo stesso anno in cui morì Pietro Calamai, ricordo che mio padre lo leggeva e rileggeva con tanta intensità e partecipazione, ed era felice che finalmente la verità fosse emersa tra le mille menzogne raccontate in giro per tanti anni. Era davvero strano sentirlo parlare di navi tra le mura domestiche, proprio lui che era sempre stato così restio a confondere i due ambienti. Improvvisamente si era trasformato. Di quella collisione ne parlava con tutti. “ma non era ancora finita…” continuava a sostenere!

Dopo l’incidente, mio padre era davvero amareggiato. Sorvolo su quanto pensava allora della Società Italia, ancor peggio del suo Management e delle stesse Autorità Marittime italiane…

Mio padre era ancora lontano dal pensare di smettere di navigare, ma la Società escogitò una soluzione davvero strana: da un giorno all’altro, mise tutti gli ufficiali di coperta della ANDREA DORIA in banchina, in una specie di ‘quarantena’  che durò fino al Marzo ’57.

La mia famiglia approfittò della ‘sosta forzata’ per traslocare a Genova.

Arrivati a questo punto del racconto, vista anche la mia professione nel settore marittimo, colgo questa opportunità per formulare la mia opinione sul periodo post-collisione. La Società, a livello di pubbliche relazioni, fece proprio tutto quello che non doveva fare e che avrebbe dovuto fare, come qualsiasi armatore di questo mondo, in circostanze similari, avrebbe fatto. Questo concetto mi è fin troppo chiaro e non sono certo il primo ad esternarlo.

Sul piano interno, diciamo operativo, la Società non fece sostanzialmente  nulla, salvo:

a) – Promettere verbalmente al Comandante P.Calamai che sarebbe stato subito imbarcato sulla T/n COLOMBO. Si lasciò però correre un po’ di tempo, sino a che compì 60 anni… é qui la ferrea prassi della Società era di collocare a riposo Comandanti, Direttori e Commissari! La chiamata ci fu, ma si trattò della  “comunicazione di pensionamento”.

b) – Tenere per oltre sei mesi in ‘quarantena’ tutti gli ufficiali di coperta, e credo anche alcuni ufficiali di macchina (la scusa ufficiale era l’inchiesta ministeriale).

Ovviamente la Compagnia doveva rispettare procedure burocratiche e prassi interne per casi gravi come quello avvenuto a Nantucket: testimonianze scritte e verbali a non finire, dal Comandante  sino all’ultimo ‘piccolo di camera’,  senza mai giungere a conclusioni definitive ed ufficiali. Tutto era molto pilatesco. Non mi é noto alcun strascico giudiziario, degno di nota, per alcun membro dell’equipaggio. L’unico ‘agnello sacrificale’ fu il povero comandante Pietro Calamai, lasciato solo in pasto ad una pubblica opinione frastornata e disinformata, fino a trasformarlo nel personaggio principale di un farsa ordita alla perfezione per salvare chi e che cosa?

Di fatto, fu il solo a ‘pagare’ un conto salatissimo pur essendo innocente, anzi il primo tra quelli che impedirono conseguenze peggiori. Ancor oggi mi capita di sentire persone in buona fede (che non sanno nulla di cose di mare) affermare che: Il Comandante Calamai aveva comunque qualcosa da nascondere.” Certe idee potevano essere maturate per opera anche di certa stampa ‘deviata’ o comunque incompetente.

In casa nostra abbiamo provato sempre tanta pena per le due figlie del comandante  Calamai, che avevano una decina d’anni più di noi e forse erano più ‘scafate’, ma i successivi anni della loro vita, trascorsi sino allo scagionamento USA, (ma anche dopo!) devono esser stati pesanti sotto ogni punto di vista, una sorta di calvario psicologico.

–  Sulla base di quanto si lesse e si sentì allora, solo poche persone si resero veramente conto della brillantissima opera di salvataggio e del limitato numero di vittime che si verificarono dopo una collisione tra due navi cariche di passeggeri e numerosi equipaggi.

Esatto! Si rischia di dimenticare che molti passeggeri e membri dell’equipaggio, senza saperlo, dovettero la vita proprio alle decisioni marinarescamente perfette, prese dal comandante Calamai in quelle difficili ore. Oggi sappiamo che le manovre impartite da Calamai in quella circostanza, oggi sono prese a modello da tutte le Accademie navali del mondo e vengono insegnate ai futuri ufficiali di marina.

Molti anni fa, il giornalista Corradino Corbò scrisse un ottimo testo divulgativo: “Quella notte a Nantucket”, editore Nistri-Lischi (una piccola Casa Editrice di Pisa). Leggendolo mi resi conto che non occorreva essere un ‘esperto’ per capire la dinamica dell’accaduto. Quel libro, purtroppo, ebbe scarsa diffusione ed oggi credo sia introvabile persino sul mercato dei libri usati: un’occasione mancata per il grande pubblico, purtroppo.

–  Ma chi prese quelle assurde decisioni?

Da quel giorno sono ormai passati quasi 60 anni, nel frattempo la cronaca é diventata storia. Solo storia. Oggi é mia personale convinzione che la ‘regia’ dell’atto burocratico post-collisione sia stata decisa a Roma, molto in alto, a pochissimi giorni dalla collisione, da un numero ristretto di persone che per mentalità politica e formazione professionale era completamente estraneo al mondo dello shipping. Il top-management della Società Italia, sostanzialmente composto da ‘yes-man’, ebbe soltanto la funzione esecutiva di quanto era già stato deciso nella capitale.

Se si mettono in ordine cronologico date e fatti, emergono tutte le contraddizioni prive di logica messe in opera dall’Armamento genovese nei successivi 12-18 mesi. Quella ‘linea politica aziendale’’, rimase immutata nei decenni successivi fino alla scomparsa della Società.

Il Ministero della Marina Mercantile promosse un’inchiesta abbastanza seria, ma i risultati non furono mai pubblicati, la legge lo consente, questa è l’unica cosa chiara che emerse, pur se si trattava e si tratta di una prassi politicamente  inaccettabile.

Nessuno sarà mai in grado di scrivere la vera storia dell’ANDREA DORIA. Quella  conosciuta dal grande pubblico é stata dettata al telefono da burocrati senza scrupoli. Chi aveva il diritto di raccontarla é stato messo a tacere, a suo tempo, e oggi non é più tra noi.

Per noi Oneto, il naufragio dell’ANDREA DORIA non fu solo un dramma legato alla perdita di vite umane e della nave stessa. La storia marinara é maestra di naufragi e i santuari vicini alle coste lo ricordano a tutti con migliaia e migliaia di ex voto. Noi, sebbene molto giovani, eravamo preparati anche a questo, come lo é qualsiasi famiglia di un marittimo impegnato a guadagnarsi il pane sul mare. Il naufragio era tra gli eventi che potevano  accadere, ma il vero dramma fu il peso psicologico ed emotivo che pesò a lungo sulle nostre spalle. Nei successivi 40 anni abbiamo dovuto sopportare polemiche inconsistenti, sensazionalismi, leggende metropolitane, idee recepite in modo sbagliato, magari, in perfetta buona fede da parte di tanta gente che ancora oggi, dopo tanti anni trascorsi dall’avvenimento, insiste e persiste su quelle sbagliate convinzioni che erano state diffuse e inculcate dall’irrazionale, autolesionistico, ed illogico comportamento dell’armatore dell’ANDREA DORIA.

Da questo punto di vista, il rapporto Carrothers resta comunque, anche dopo 40 anni, un atto scientifico rigoroso e convincente che ha fatto giustizia e messo una pietra pesante su una serie infinita di menzogne.

Da italiano, é triste doverlo ammettere, ma se solidarietà c’é stata, questa é venuta dallo shipping straniero. Non mi riferisco soltanto agli Istituti americani e a Carrothers, ma ai miei compagni di lavoro e conoscenti che pur sapendo tutto della collisione e chi era mio padre, non senza mia sorpresa, non fecero mai un passo falso nei miei confronti.

–  La ringrazio per questa sua pacata, ma decisa presa di posizione sulla collisione avvenuta tra la Andrea Doria e la Stockholm. Quel che conta é la vera STORIA, non quella che é in vendita dal giornalaio e che ha sempre un padrone. Riprendiamo il racconto. Cosa accadde dopo la strana ‘quarantena’ ?

Mio padre imbarcò da 1° ufficiale all’inizio dell’estate ’57 sulla M/n MARCO POLO, di cui abbiamo già parlato. I viaggi del Sud-Pacifico duravano 70 giorni. Su quel tipo di nave mista: carico-passeggeri, il 1° ufficiale svolgeva il compito di Comandante in 2° ed era ‘giornaliero’, ossia fuori guardia. Si avvicinava il sospirato ‘comando’ e quella era la strada obbligata. L’imbarco durò un anno. Di quel periodo ho conservato un ricordo nella mia memoria: la nave arrivava alla Stazione Marittima di Ponte dei Mille a Genova e, subito dopo lo sbarco dei passeggeri, faceva “movimento” a P.te Assereto, oppure a P.te Somalia, per le operazioni commerciali.  Rimanevo a bordo con lui, mentre mia madre e le mie sorelle tornavano a casa. Una volta riuscii ad intrufolarmi tra i marinai che andavano al posto di manovra a prua e ci rimasi, sempre attento a non intralciare la manovra in corso. Avevo 10 anni e i pantaloni corti.

Quando mio padre mi vide dal ponte di comando, mi fece un gesto che nulla di buono lasciava presagire. Quella sera mi presi una bella ‘arronzata’. Aveva ragione, al di là del rischio di farmi seriamente male tra quella selva di cime e cavi in tensione, temeva anche la reazione del Comandante che per fortuna non se n’era accorto o, come credo tuttora, fece finta di non accorgersene, date le distanze davvero ridotte tra il ponte di comando e la prora.

La M/N VULCANIA incontra la M/n SATURNIA

Un bel salto nella carriera di mio padre ci fu il 29 Settembre 1959, quando mio imbarcò, alla bella età di 48 anni, da Comandante in 2a sulla M/n SATURNIA a Trieste. Da quel momento girò con quel grado su tutte le grandi navi passeggeri dell’epoca d’oro della Società: CONTE BIANCAMANO, GIULIO CESARE, AUGUSTUS e sulla T/n CRISTOFORO COLOMBO.

Da Comandante in 2a cominciò il periodo secondo me forse più ‘sottovalutato’ della sua vita professionale, che durò siano al 1963 quando imbarcò a 52 anni suonati come Comandante in 1a sulla M/n MARCO POLO (sempre lei!) per l’ultimo viaggio con la Società Italia.

La figura del Comandante in 2a era sottovalutata nel senso che operava  un intenso lavoro che non appariva quasi a nessuno, eppure tutto a bordo dipendeva da lui, dalle sue direttive. Tutto quanto succedeva a bordo faceva riferimento alla sua persona, ed a lui spettava la soluzione dei problemi del personale imbarcato, di ‘certi’ noiosi passeggeri, rispondere alle lamentele, indagare sugli infortuni, sui furti, interagire con gli altri capi servizi (coperta-macchina-commissari) per la routine quotidiana, e poi c’erano gli imprevisti di ogni genere, oltre ai lavori di manutenzione di bordo. Infine doveva sovrintendere alla disciplina di tutto l’equipaggio. Anche la navigazione era sottoposta alla sua supervisione. Sulle sue spalle pesava un lavoro vasto e pesante che gli prefigurava, comunque, l’ultimo avanzamento  della sua carriera.

–  Ricordo benissimo il ruolo del Comandante in 2a sulle nave passeggeri e concordo con lei. Tuttavia, ritengo che questo ‘delicato passaggio di carriera’ sia una grande risorsa per tutti: passeggeri ed equipaggio. Avere un Comandante esperto a bordo, che sia in grado di risolvere i tanti problemi che si presentano, va sicuramente a vantaggio della sicurezza di tutti. (I fatti recenti del Giglio ce lo ricordano ampiamente!). Tra l’altro, ricordo che su certe linee avvenivano anche fatti gravi. Suo padre forse le avrà raccontato alcuni episodi?

Si, ma semplici aneddoti, irrilevanti. I LINERS di allora  non esistono più da decenni, così come quell’eterogenea clientela composta da persone agiate, pescatori destinati alla campagna del merluzzo al largo di Terranova ed emigranti di tante nazionalità. Spesso capitava che per futili motivi scoppiassero disordini ed anche risse (dovute all’alcool) talvolta pericolose e difficili da sedare.

Oggi sulle navi da crociera la situazione é più gestibile. La popolazione di bordo é costituita da una massa molto omogenea di turisti, che imbarca con lo spirito vacanziero, é più autosufficiente: infatti ha a sua disposizione un numero d’equipaggio limitato rispetto al passato.

Al Comandante in 2a arrivavano quindi tutti i problemi di bordo e, a volte, dopo una giornata intensa in cui succedeva di tutto, poteva capitargli che intorno alle 23.00, nel bel mezzo di una buriana, il Comandante gli dicesse “Adesso le lascio la nave. Io me ne vado in cuccetta” e rimaneva sul Ponte di Comando per tutta la notte. Fatto, peraltro, probabilmente ‘gradito’ ad un aspirante al comando come mio padre.

Sono certo che gli anni trascorsi con il grado di Comandante in 2a siano stati sotto alcuni aspetti poco gratificanti, ma furono assai importanti e utili per l’esperienza maturata.

Presso le più importanti Marine Occidentali, le carriere degli ufficiali anticipavano, in quegli anni, mediamente  di 10-15 anni e lui ne era ben conscio.

(In proposito avrei un aneddoto anche divertente….. ma è meglio glissare!)

–  Che carattere aveva suo padre, era paziente oppure nervoso come tanti marittimi ?

Nervoso no! Mai! Quando in quegli anni mio padre  era in porto a Genova, arrivava tardi o molto tardi a casa per ripartire molto presto all’indomani mattina. Nelle relazioni umane era paziente, certo molto più di me, e c’insegnava che le cose era meglio vederle in tempo che sentirsele raccontare in un secondo tempo. Amava rispettare la ‘persona’, anche quando la riprendeva dopo aver compiuto un errore  professionale. Nessuno conosceva mio padre al di fuori della Società Italia e del porto, ed appariva sempre sereno. Al di là delle apparenze, non parlava quasi mai dei fatti di bordo. Questo é stato.

–  Com’erano viste le navi italiane all’estero?

All’estero, le navi della Società Italia erano viste  come un pezzo di suolo nazionale dalle comunità dei nostri emigranti in tutti gli scali. Specialmente in Sud America, le navi della Società Italia erano sempre accolte da folle incredibili che sostavano ore per vivere con nostalgia la partenza o l’arrivo di questa o quella nave italiana. Per altri aspetti, erano invece navi complicate, con le ben note contraddizioni che ci appartengono. In alcuni scali nazionali, le navi della Società erano invece considerate alla stregua di ‘vacche da mungere’ con tutto quel che si può immaginare in una Italia che, per molti versi, é sempre la stessa, ancora oggi.

 

La M/n ROSSINI entra nel porto di Genova.

Con Verdi e Donizzetti formavano la Classe Musicisti che sostituì la Classe Navigatori, ormai obsoleta sulla rotta del Sud-Pacifico

–  Un bel salto di qualità avvenne con la messa in linea della classe MUSICISTI in sostituzione della classe NAVIGATORI ormai superata. Finalmente, sulla linea del Sud-Pacifico subentrò anche un po’ di eleganza e soprattutto comodità. Anche suo padre poté quindi navigare nei climi tropicali con l’aria condizionata.

Nel 1963 assunse il primo comando per l’ultimo viaggio sulla linea Mediterraneo-Centro America-Sud Pacifico della M/n MARCO POLO (prima della loro vendita e trasformazione in nave da carico).

Arrivati a Genova, l’equipaggio fu spedito in treno a Napoli per imbarcare sulla M/n VERDI proveniente dal Lloyd Triestino, ed entrare sulla medesima linea del Sud Pacifico. La nave era più veloce, ed il viaggio sarebbe durato solo 2 mesi, ma soprattutto era alleviato dall’aria condizionata. Diciamo che a me (avevo ormai 15 anni) la Verdi fece l’impressione di un ‘Luxury Liner’ al confronto del Marco Polo! Il viaggio inaugurale ebbe un grande successo, e seguirono molte prenotazioni che incrementarono lo storico legame tra l’Italia ed i santuari dell’emigrazione nostrana in Sud-America!

Sulla M/n VERDI restò 10 mesi, ed oltre 11 mesi sulla M/n ROSSINI (sulla stessa linea). Erano gli anni della nostra adolescenza. Gli imbarchi di mio padre erano più lunghi, ma anche le soste a Genova si erano allungate e si aveva l’impressione d’averlo a casa più spesso, naturalmente solo di sera, ma per noi era già una festa.

Frequentavo l’Istituto Nautico S.Giorgio di Genova. Mio padre non entrò mai nel merito di questa decisione e gliene sono tuttora grato.

–  Finalmente cap. Luigi Oneto prende il sospirato Comando!

La M/n GIULIO CESARE (gemella della M/N AUGUSTUS) in navigazione

 

Mio padre prese il comando della bella M/n GIULIO CESARE per oltre 10 Mesi sui viaggi di BAIRES. Nel nuovo ambiente si sussurrava che la Società avesse ‘confinato’ su quella unità gli ufficiali un po’ birichini, che avevano maturato qualche castigo… ma si trattava di persone di gran spirito, e l’impressione che se ne ebbe in famiglia ( e non solo nella nostra famiglia…) fu che se si erano divertiti ben oltre l’usuale non erano da biasimare. In fondo la vita di mare era già fin troppo dura. Posso solo arguire che mio padre ebbe anche qui il suo bel da fare, ma navi e viaggi senza grane non credo siano di questo mondo!

 

CRISTOFORO COLOMBO in partenza da  Genova nella livrea bianca sulla linea del Sud America

 

Nel Settembre del ’66 mio padre imbarcò a Napoli sulla T/n CRISTOFORO COLOMBO, che faceva allora capolinea a Trieste ed era dipinta di nero come tutte le navi impiegate sulla linea del Nord America.

L’imbarco durò 11 mesi. Ricordo che ebbe i suoi problemi pratici e diplomatici dovuti all’itinerario carico di scali: Venezia – Trieste – Messina – Palermo – Maiorca- Malaga – Gibilterra – Lisbona – Azzorre – Canada – Boston N.Y. Molti di questi scali erano ‘schedulati’  forse per esigenze politico-clientelari, con indubbia influenza sui costi. So che fu per lui un anno impegnativo, sotto diversi aspetti.

–  Dal punto di vista della manovra, i grandi transatlantici di allora erano veramente impegnativi. Disponevano di lente turbine e avevano grandi pescaggi. Non si parlava ancora di eliche trasversali, di azipod ecc… e come si diceva allora: chi le manovrava doveva essere un buon manico!

E’ vero! Un ulteriore problema era la manovra di una grossa turbonave di quell’epoca, in certi piccoli porti. Se si pensa che nella marcia indietro la turbina navale concede soltanto 1/3 della propria potenza e l’attesa é di circa 40 secondi per l’inversione della marcia. Ricordo che quando gli chiesi spiegazioni (facevo ormai il  5° Nautico, e avevo già navigato un po’) mi rispose: “Ho avuto tanti anni di carriera per studiare il problema e ho visto manovrare tanti comandanti….che quando é stato il mio turno, non ho più avuto difficoltà!”. Comunque, appena imbarcato su una nave che non aveva ancora comandato le sue evoluzioni di prova fuori dal porto le faceva alla prima occasione possibile!

 

La LEONARDO DA VINCI entra a New York

Salvo un bel Natale trascorso a Trieste, quell’anno lo vedemmo pochissimo. Mia madre, invece, andava regolarmente a trovarlo a  Trieste.

Venne poi l’imbarco sulla T/n LEONARDO DA VINCI, già dipinta di bianco, ed ebbe un incarico particolare: la nave era destinata ad una ‘campagna crocieristica sperimentale’ di 5 mesi ai Caraibi.

Il solo pensarci, oggi può far sorridere, perché il tipo di clientela era completamente diverso e improvvisamente cambiato. La Sede di Genova era distante e ciò significava che il Comando di bordo si trovava improvvisamente nella necessità d’imporre un cambio di mentalità a molti membri dell’equipaggio.

I risultati furono ottimi, l’esperimento fu ripreso da altre navi sociali, a mio padre  fu riconosciuto il merito d’aver portato l’esperimento a buon fine per la Società.

Oltretutto, nemmeno esisteva a bordo la figura del Direttore di Crociera. Per tale ragione il Comandante dove gestire il ‘settore passeggeri’ dopo aver sentito il Capo Commissario.

Le T/n MICHELANGELO e RAFFAELLO sono ormeggiate a Ponte Andrea Doria-Genova

 

Siamo giunti così al 1968. Negli anni successivi mio padre prese il  comando, alternativamente e a più riprese, delle ammiraglie MICHELANGELO e RAFFAELLO sino al pensionamento avvenuto nel 1971. Nel frattempo i turni d’imbarco si sono accorciati per tutti.

–  Suo padre le confidò mai qualche segreto nautico in previsione di una carriera simile alla sua?

No, nel modo più assoluto. E non avrebbe nemmeno gradito troppe domande! Era arci convinto che a bordo si dovesse iniziare dal basso con i più banali lavori in coperta (cosa che di fatto feci), e poi imparare guardandosi attorno e facendo funzionare cervello e capacità critiche. Ideologizzava quasi la cosa………. E poi c’era anche una dose del mio orgoglio di ventenne!

–  Avere il comando di una delle due ‘ammiraglie’, così sotto gli occhi della stampa italiana in quegli anni, lo preoccupava o lo innervosiva in qualche modo ?

No, direi proprio di no, e se c’era qualche preoccupazione era di carattere extra-marinaresco. Questa almeno era la percezione che se ne aveva in famiglia. Assai banalmente, non ricordo d’averlo nemmeno mai sentito, visto o percepito preoccupato per le condizioni meteo che lo aspettavano dietro l’angolo.

Quelle navi erano lunghe più di 270 metri e gli davano una grande sicurezza. Mio padre conosceva molto bene la meteorologia, interpretava a dovere le carte del tempo, ma soprattutto conosceva i limiti della sua nave e ad essa si adeguava. Forse era questo il suo segreto: un notevole senso marinaro gli suggeriva in anticipo le mosse da fare, con determinazione, ma anche con prudenza. Mio padre fu conosciuto dentro e fuori il suo ambiente per le sue doti umane e marinaresche.  Non furono tutte rose e fiori né per lui, né per mia madre e neppure per noi figli, ma proprio in questo intreccio di contrasti forti, sta il vero senso della vita: saper convivere con le gioie e i dolori. Mio padre fu un maestro in tutto ciò, e ancora oggi ci sentiamo orgogliosi d’essergli stati figli.

Scambio di presenti sulla RAFFAELLO tra il Comandante Luigi Oneto e lo scrittore Raymond Peynet.

 

–  Come pilota del porto di Genova ebbi diverse occasioni di manovrare sia la T/n MICHELANGELO che la gemella RAFFAELLO. Impiegavano 3-4 rimorchiatori a seconda della direzione e  forza del vento. Erano manovre impegnative anche per un pilota rutinato che eseguiva un migliaio di manovre-anno.

Seppi in quegli anni che suo padre “by-passò” uno sciopero dei rimorchiatori di New York e ormeggiò personalmente la MICHELANGELO. Dinanzi ad un fatto del genere, che non ha precedenti nel nostro mestiere, non solo mi tolgo tanto di cappello, ma aggiungo che manovrare una nave nel porto di New York presenta difficoltà a volte insuperabili per via della corrente del Hudson che naturalmente varia con le piogge e le condi-meteo del periodo. Non tutti lo sanno, ma i famosi Piers (i Dock di Manhattan) sono posizionati di traverso alla direzione della corrente, per cui é addirittura impensabile avventurarsi in certe manovre senza pilota e rimorchiatori portuali (McAllister e Moran). Come ci riuscì suo padre?

Professionalmente, la cosa che ricordava con più piacere dei suoi ultimi anni sul mare era quella di esser riuscito durante un lungo sciopero e per ben tre volte consecutive ad ormeggiare e disormeggiare la RAFFAELLO al ‘Pier’ di Manhattan senza Pilota e – soprattutto – senza rimorchiatori: “senza rompere nemmeno un cavo”, come diceva lui (ciò accadeva durante un altro ciclo di crociere ai Caraibi, e non era certo una cosa semplice per una turbonave di allora, senza eliche trasversali, senza eliche a passo variabile, etc.: altre navi dello stesso tipo evitarono di far scalo a New York, altre ancora causarono danni).

–  Mi risulta che suo padre, da vecchio lupo di mare, una volta in pensione continuò a lavorare per il ‘Nuovo Mondo Crocieristico’ che stava sorgendo sulle ceneri di tante Società di Navigazione che non seppero ‘vedere lungo’, come la Soc. Italia di Navigazione. Che ruolo assunse il comandante Luigi Oneto in questa fase epocale?

Una volta in pensione, mio padre accettò l’offerta giuntagli inaspettatamente di selezionare gli equipaggi per le prime navi da crociera CARNIVAL degli allora poco noti armatori americani Arison: le T/n MARDI GRAS e FESTIVALE (Ufficiali e Sottufficiali di Coperta e di Macchina, tutti italiani). Lo fece per un paio d’anni circa.

Questo travaso di veri specialisti del mare, avvenne subito dopo il fallimento della Società Italia di Navigazione ed il contemporaneo decollo della Flotta Carnival di Teddy Arison che inaugurò con le sue Fun Ship il mondo crocieristico. I comandanti Calvillo, Castagnino, Fabietti, Fossati, Gavino, Sbisà, Schiaffino  e naturalmente molti altri, una volta entrati in Carnival, richiamarono a loro volta un piccolo esercito di ufficiali di coperta, di macchina e di tutte le altre categorie, dai commissari, al personale alberghiero di camera e di cucina. Si può tranquillamente affermare che quarant’anni di professionalità e di massimo prestigio italiano sui mari, si mise su quella nuova “rotta di grande successo” che continua ancora ai nostri giorni ed é sempre in crescita.

Lui non lo sapeva e non lo avrebbe mai immaginato, ma proprio in quei due anni di reclutamento era nata la moderna industria delle navi da crociera (decisamente un’altra epoca rispetto alla sua…). Oggi CARNIVAL è il più importante Armatore di navi da crociera del mondo: la vecchia scelta di mantenere personale di S.M. italiano è però rimasta, ed ancor oggi contraddistingue le navi della società. 
Molti anni dopo, ossia nel 1996, ebbe la personale soddisfazione di essere invitato dall’Armatore a Venezia per l’inaugurazione della M/n CARNIVAL DESTINY, costruita nei cantieri di Monfalcone. Allora era la nave da crociera più grande del mondo, la prima nave  passeggeri da oltre 100.000 T.S.L. Non andò, aveva ormai 85 anni compiuti e, pur godendo di buona salute, era da qualche tempo quasi cieco: forse temeva l’emozione, di sicuro temeva l’eventualità di non riconoscere e salutare qualcuno che in altri tempi gli era stato ben noto. Questo problema era ormai diventato il suo assillo abituale anche quando usciva di casa a Camogli.

–  Mi sembra di ricordare che suo padre dedicò gli ultimi anni della sua vita al servizio dei marittimi. Ha qualche ricordo più dettagliato da raccontarci?

Dettagliato no, non ero più a Camogli e avevo ben altro di cui occuparmi in quegli anni.

Negli anni ’80 è stato per un mandato quinquennale Presidente dell’USCLAC (Unione Sindacale Capitani di Lungo Corso al Comando e D.M.). Questo incarico lo impegnò molto, e ne fu sempre particolarmente orgoglioso. 
Negli stessi anni ’80 è stato presidente dell’Associazione Nazionale Medaglie D’Oro di Lunga Navigazione.

Conoscendolo, Credo proprio che in ambo i casi lo fece perchè i colleghi lo reclamavano!

E’ stato componente attivo del “Gruppo di Lavoro” sulla collisione Stockolm-Andrea Doria. 
Era ormai il più anziano di tutti
 e lo viveva come un dovere morale nei confronti del Comandante Calamai.

–  Da un articolo apparso nel 1986  sulla Rivista Marittima, firmato dal Comandante Giuseppe Longo,  95enne, ex Capo Pilota del Porto di Genova, estrapoliamo la seguente  testimonianza:

“….Un Comandante che voglio ricordare è Luigi Oneto di  Camogli: nel 1966, al comando della T/n MICHELANGELO, fu sbarcato su due piedi, dal funzionario responsabile della Finmare, il quale – non conoscendo né il Codice della Navigazione, né le disposizioni impartite dalla sua stessa Finmare – ebbe un ingiusto motivo di disappunto nei riguardi del Comandante Luigi Oneto e ne ordinò lo sbarco immediato. L’intero equipaggio, caso unico negli annali del sindacalismo attuale, si fermò e dichiarò sciopero per 24 ore bloccando la partenza della nave. Non penso si potesse dimostrare meglio di così la stima universale di cui godeva il comandante Luigi Oneto: e anche  se ben pochi, all’infuori dei marinai, ottimi giudici, osarono farlo, i piloti del porto gli fecero pervenire subito un caldissimo telegramma di solidarietà.”

–  Uno dei miei 11 nipoti si é iscritto quest’anno all’Istituto Nautico di Camogli. Il senso di questa intervista al dott. Gianni Oneto, che riguarda la rievocazione della brillante carriera di suo padre, comandante Luigi Oneto, consiste anche nel dare la “rotta giusta” a questi futuri ufficiali di marina, facendogli capire che comandanti si diventa con il sacrificio, con l’uso di quelle due bussole citate… e con tanta modestia, tanto amore e rispetto per il mare e la sua gente.

QUALCHE ANNOTAZIONE FINALE:

In questo lavoro, spesso si é fatto riferimento alla Classe ‘Navigatori’, riteniamo pertanto utile, riportare alcune note storiche di notevole interesse che abbiamo estrapolato dal sito Navi e Armatori, a cura di Maurizio Gadda che ringrazio.

Tra il 1947 e 1949 vennero consegnate le sei motonavi della serie “Navigatori”, ordinate prima del periodo bellico come navi da carico per il programma della legge Benni. Solo tre di esse erano state varate prima dell’armistizio, ma nessuna era entrata in servizio in quanto affondate per azione bellica o sabotate nelle acque dei cantieri costruttori durante la ritirata delle forze tedesche. Le tre unità rimaste sullo scalo, benché anch’esse danneggiate, furono le prime a essere completate trasformando il progetto originario in unità miste con sistemazioni per 520 emigranti in cameroni di terza classe.

Ugolino Vivaldi”, impostata come “Ferruccio Bonapace”, fu varata dall’Ansaldo il 25 novembre 1945, consegnata il 10 maggio 1947, partì in viaggio inaugurale sulla linea per il Brasile – Plata il 18 maggio al comando del cap. Pietro Calamai. “Sebastiano Caboto”, impostata come “Mario Visentin”, fu varata a Sestri Ponente il 4 novembre 1946 e consegnata a fine aprile 1948 (velocità 15 nodi, 90 passeggeri in classe cabina e 530 in terza classe). Quest’ultima riaprì il servizio per Napoli – Cannes – Barcellona – Tenerife – La Guayra – Curacao – Cartagena – Panama – Buonaventura – Puna – Callao – Arica – Antofagasta – Valparaiso (Sud Pacifico) partendo in viaggio inaugurale da Genova il 4 maggio 1948 al comando del cap. Achille Danè : fu la prima nave italiana ad attraversare il Canale di Panama nel dopoguerra. Lo scalo di La Guayra fu importante per il flusso migratorio verso il Venezuela che nel 1947 fu di 2.292 persone, nel 1950 15.914. La terza unità era “Paolo Toscanelli”, nominativo non assegnato durante la costruzione, varata a Sestri Ponente il 30 gennaio 1947 e consegnata a metà marzo 1948; la nave partì per il Brasile – Plata da Genova il 25 marzo 1948 al comando del cap. Filippo Rando.

Contemporaneamente, si procedette al recupero delle altre tre unità affondate, anch’esse completate come navi miste ma con capienza di 90 passeggeri in classe unica e 612 emigranti in cameroni di terza classe, più tardi denominata turistica ed estesa su sei ponti (precisamente dal basso verso l’alto): sul Ponte D gli alloggi di classe turistica, sul Ponte C gli alloggi e la sala da pranzo di classe turistica, sul Ponte B il vestibolo, la sala di soggiorno e le passeggiate, sul Ponte A il vestibolo e gli alloggi di classe unica; sul Ponte Passeggiata la sala da pranzo, la sala di soggiorno la veranda e le passeggiate di classe unica; sul Ponte Sole bar e piscina di classe unica.

La “Marco Polo”, impostata e varata come “Nicolò Giani”, affondata il 29 aprile 1944, fu consegnata a fine luglio 1948 e partì per il primo viaggio verso il Sud Pacifico il 7 agosto 1948 al comando del cap. Cesare Gotelli.

L’ “Amerigo Vespucci”, varata nel 1942 come “Giuseppe Majorana” e sabotata nell’aprile 1945 dai tedeschi in ritirata, venne consegnata a fine aprile 1949 e partì per il viaggio inaugurale per il Brasile – Plata il 5 maggio 1949 al comando del cap. Pietro Passano poi trasferita alla linea del Sud Pacifico il 5 luglio 1949.

L’ “Antoniotto Usodimare”, varata come “Vittorio Mocagatta” il 16 ottobre 1942, trovata affondata a La Spezia nel dopoguerra e ripristinata a Genova, venne consegnata a metà luglio 1949, dopo aver raggiunto alle prove in mare i 18,24 nodi, e partì il 25 luglio 1949 per il Sud Pacifico al comando del cap. Pasquale Pezzato.

Le prime unità vennero modificate dopo pochi viaggi sull’esempio delle ultime. Con l’entrata in servizio delle “Navigatori” sulle linee del Sud America, la turbonave “Gerusalemme” venne trasferita in servizio sperimentale sulla linea centro-americana per La Guayra, Cartagena e Cristobal dal 23 luglio 1948, rimanendovi sino a settembre quando venne consegnata alla Lloyd Triestino di Trieste per la linea del Sud Africa.

Dopo il 1950, le navi della classe “Navigatori” potevano trasportare:

Nave

Cl. cabina

3^ classe

Equip.

Ugolino Vivaldi

95

620

129

Sebastiano Caboto

90

615

129

Paolo Toscanelli

97

698

129

Marco Polo

99

702

129

Amerigo Vespucci

92

518

129

Antoniotto Usodimare

92

614

129

***

Rapporto Carrothers. Studi e simulazioni computerizzate svolte dal capitano Robert J. Meurn della Accademia della Marina Mercantile degli Stati Uniti, per conto della stessa Accademia e in parte basate anche sulle scoperte di John C. Carrothers, conclusero che fu l’inesperto terzo ufficiale della Stockholm, Carstens-Johannsen, unico ufficiale sul ponte di comando al momento della collisione a mal interpretare i tracciati radar e a sottostimare la distanza tra le due navi a causa di un’errata regolazione del radar. (n.d.r.)

Ringrazio il dott. Gianni Oneto per la sua disponibilità.

 

 

Carlo GATTI

Rapallo, 3.12.22

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


NARVIK - S'AVVICINA LA FINE DELLA SUPER CORAZZATA TIRPITZ - QUARTA PARTE

QUARTA PARTE

S’AVVICINA LA FINE DELLA SUPER CORAZZATA

VON TIRPITZ

 Il 22 settembre 1943. Mentre in Italia meridionale si andava costituendo il Fronte Alleato, si registrava un importante fatto d'armi nel Mare Artico: i britannici, con l’aiuto e la complicità di agenti segreti norvegesi, studiavano il modo per mettere definitivamente fuori combattimento la corazzata von Tirpitz, di 52.000 tonnellate che era diventata l’ossessione di Churchill.

La Tirpitz protetta dalle reti anti siluri, non lo era dagli attacchi aerei.

Operazione Catechism

Un ulteriore attacco aereo ebbe luogo il 12 novembre 1944, sempre con l'impiego degli stessi squadroni. La Tirpitz fu colta di sorpresa in una giornata serena e soleggiata, priva della cortina difensiva di fumo e senza alcun caccia di scorta. Il primo allarme dell'incursione fu dato verso le 08.00, quando la Tirpitz fu collegata immediatamente con il centro antiaereo di Tromsø. Un quarto d'ora più tardi fu richiesta la protezione dei caccia e fu dato l'allarme. Le sirene della base di Tromsø suonarono alle 08.45 e alle 09.15 quando furono avvistati i veivoli inglesi. Cinque minuti più tardi fu ripetuta la richiesta di protezione aerea e da Bardufoss decollarono immediatamente i caccia tedeschi FW190 del gruppo JG5, ma la Luftwaffe non era stata (inspiegabilmente) informata dello spostamento della nave a Tromsø.  Dalla corazzata furono lanciate salve da 38 cm e poi un intenso fuoco di sbarramento con il resto del proprio armamento in un vano tentativo di difesa. Lo squadrone n° 617  formato da 32 Lancaster sganciò con estrema precisione 29 bombe Tallboy, quindi fu sganciato lo stesso carico del n° 9. L'artiglieria della nave da 10,5 cm aprì il fuoco verso le 09.34, e l’aumento pochi minuti dopo con i pezzi da 3,7 cm e 2 cm. Una Tallboy, probabilmente la quarta, colpì la nave insieme ad altri due lanci successivi. La bomba più disastrosa raggiunse la Tirpitz sul lato sinistro, vicino alla catapulta nel compartimento laterale della sala-macchine, penetrando il ponte di coperta e la corazzatura; un'altra cadde in mare al traverso sinistro, con un grande fragore, mentre le altre quattro bombe caddero nella rete. Un’altra cadde al traverso della torretta "D" provocando una grande colonna di fumo nero, cui seguì un lampo per lo scoppio di munizioni nella parte centrale della nave. Molte altre bombe scoppiarono nel porto con il conseguente riversarsi di una ingente quantità d'acqua sulla nave, che sbandò di 35°. Venne dato l'ordine di esaurire l’acqua infiltrata, ma nessuna pompa era in grado di funzionare e l’ordine fu ignorato.  L’ordine successivo fu quello  di abbandonare la nave. Lo sbandamento continuò fino a 60°, dove si assestò per breve tempo. 

Seguì una tremenda esplosione presso la torretta "C" che sollevò tutta la massa rotante dalla nave, dopodichè la Tirpitz si rovesciò fino a che “l'opera morta” (le sovrastrutture) non raggiunse il fondo del mare.

Un esame successivo dimostrò che il fianco della nave era stato divelto tra le ordinate 98 e 132, ma ad eccezione di questa falla, gli altri danni furono di piccola entità. La vera causa dell'esplosione nella torretta "C" non fu mai definitivamente accertata ma l’idea ricorrente indicava nella rapida entrata di migliaia di tonnelate d’acqua in caldaia, la causa dell’esplosione. L’enorme falla fu sufficiente a fare sbandare la nave di 35°, e ciò fu facilitato dal fatto che la nave fosse relativamente leggera per la scarsità di carburante e scorte. L'inondazione continuò e la nave sbandò ancor più, fino a 60°; allora si calcolò che la quantità d'acqua doveva equivalere a circa 17.000 tonnellate e che sarebbe aumentata. I morti furono molti, tra essi l'ufficiale al comando, Capitano di vascello Weber, che aveva sostituito Junge all'arrivo della nave a Tromsø. Alla Kriegmarine rimanevano solamente due Panzerschiffe, ambedue nel Baltico.

DISOBBEDIENZA CIVILE

Un aspetto di minore importanza militare, ma molto significativo sul piano umano e sociale,  fu la distribuzione continua e costante di giornali clandestini che mostrando coraggio e fierezza agli invasori, manteneva nella popolazione un sentimento nazionalista e anti-tedesco. La propaganda clandestina norvegese costò ai tedeschi più risorse degli effetti reali della stessa operazione. Un altro interessante aspetto dell’ostruzionismo norvegese antitedesco, fu il  fronte del ghiaccio che consisteva nel non parlare mai la lingua tedesca (in realtà molti la capivano) e rifiutarsi di sedere accanto ad un tedesco nei trasporti pubblici. Tale consuetudine fu così irritante per le autorità tedesche di occupazione che divenne illegale stare in piedi se sull'autobus c'erano posti liberi a sedere. Negli ultimi anni di guerra, la Resistenza si acquartierò spesso e volentieri nelle foreste attorno alle maggiori città della Norvegia, e da queste basi partivano commando che eliminarono numerosi ufficiali nazisti che si erano macchiati di efferati delitti, e con loro furono eliminati, durante e dopo la guerra, molti collaboratori delle autorità tedesche o di Quisling. Vennero costituite forze militari segrete, che erano considerate una seria minaccia da parte dei tedeschi.

Un ruolo importante fu quello svolto dalla flotta civile norvegese, che fu presente sia nelle Campagne Navali dell’Atlantico, sia durante i combattimenti che seguirono il D-Day. Nell’ultimo anno di guerra, gli svedesi concessero alla Norvegia di addestrare e rafforzare le unità militari che in seguito presero parte alle campagne contro la Germania. Questo avvenne con la complicità delle truppe sovietiche che avevano attaccato e liberato una piccola Contea del Finnmark nel nord-est della Norvegia.

La Norvegia rimase occupata fino alla capitolazione della Germania, nel 1945. Quando giunse la resa, erano presenti in Norvegia 400.000 soldati tedeschi su una popolazione che a quel tempo contava solo 3 milioni di abitanti. L’occupazione portò allo sfruttamento da parte della Germania dell’economia norvegese e a un dominio nazista basato sul terrore che includeva esecuzioni e stermini di massa, anche se su scala leggermente inferiore rispetto agli altri paesi occupati.

LA LIBERAZIONE

 

1945- Dalla Svezia arriva un treno a Narvik con le truppe di Polizia norvegese destinate a governare l’atto finale: la ritirata dei tedeschi sconfitti. Questo Corpo faceva parte delle Forze Militari Norvegesi e si era stabilito nella neutrale Svezia ed era composto di 8 Battaglioni di Riserva di Polizia e 8 Compagnie di polizia Nazionale. Quando si trasferirono in Norvegia nella primavera  del 1945, essi costituivano una forza militare di circa 13.000 uomini equipaggiati e organizzati in ordine militare.

L’incubo è finito. Le truppe tedesche lasciano la città di Narvik.

L’8 maggio 1945 gli uomini della Resistenza Norvegese guadagnarono posizioni strategiche sui nazisti e spianarono la strada agli Alleati e alle forze militari norvegesi presenti in Gran Bretagna e in Svezia. Il tanto atteso passaggio di consegna del territorio si svolse senza problemi.

Il 7 giugno 1945 - Re Haakon rientrò in Norvegia facendo il suo ingresso nel porto di Oslo a bordo di una nave militare inglese.

 Col reimbarco delle truppe di Narvik, che seguiva a pochi giorni di distanza quello dei contingenti sbarcati più a sud, si concludeva disastrosamente per gli Alleati la campagna norvegese. L'intero paese cadeva così, con le sue importantissime basi aereonavali, sotto il controllo delle forze armate germaniche. Non è facile stabilire nemmeno oggi, a tanti anni di distanza, quali furono le perdite negli scontri aereonavali nel Mare del Nord. Da parte britannica fu accusata la perdita di quattro torpediniere, di una corvetta e di dieci altre navi da guerra. I tedeschi dichiararono invece di aver distrutto complessivamente sessantaquattro unità britanniche tra le quali nove incrociatori e nove caccia. Per parte loro, i tedeschi persero - secondo notizie britanniche - due navi da battaglia, quattro incrociatori e undici torpediniere.

 

Alcuni dati statistici

 

Alla fine della guerra, i norvegesi sopravissuti dai campi di concentramento nazisti, cominciarono a riapparire.

92.000    norvegesi erano all’estero

46.000    in Svezia.

141.000 cittadini stranieri, oltre ai tedeschi, erano presenti in Norvegia, per la maggior parte erano prigionieri di guerra.

84.000    erano russi.

10.262    norvegesi  persero la vita  durante la guerra o in prigione.

40.000    furono incarcerati.

Durante la guerra, i tedeschi avevano confiscato il 40% del prodotto interno lordo. Notevoli furono i danni provocati dalla guerra stessa, ma nella contea di Finnmark furono ingenti: vastissime aree furono distrutte eseguendo l’ordine dei tedeschi durante la loro ritirata di fare terra bruciata. Altre città e paesi furono distrutti dai bombardamenti o incendiati deliberatamente usando le stesse metodiche sperimentate in tutti i Paesi occupati

 

Il Dopoguerra

I problemi del dopoguerra furono quelli dell’Europa messa in ginocchio dall’occupazione tedesca: città bombardate, impianti distrutti, penuria di case, la flotta mercantile ridotta ai minimi termini.

La volontà di ricostruire, di riprendersi, e l’aiuto del Piano Marshall annullarono in pochi anni questa situazione, portando anche a una modernizzazione del sistema produttivo accompagnata dalla piena occupazione. Le Elezioni Generali dell’ottobre 1945 portarono al governo il Partito laburista al cui leader, Einar Gerhardsen, fu affidato il compito di costituire il primo Governo del dopoguerra. Il partito rimase al potere per i successivi vent’anni, periodo durante il quale il paese divenne una socialdemocrazia compiuta, con un articolato stato sociale; intanto la Norvegia partecipò alla fondazione delle Nazioni Unite, al Programma di ricostruzione europeo del 1947 e divenne membro dell’Organizzazione del trattato dell’Atlantico del Nord (NATO) (1949), abbandonando così la sua tradizionale neutralità.

L’economia norvegese uscì dalla guerra molto indebolita, ma il processo di ricostruzione prese subito avvio. Nel 1957 Olaf V succedette a Haakon. Nel 1959 la Norvegia fu tra i membri fondatori dell’EFTA (Associazione europea di libero scambio). Nel 1965 la sconfitta del Partito laburista alle elezioni generali pose fine a un lungo dominio politico.

 

ALCUNE IMMAGINI DEL “WAR MUSEUM” DI NARVIK

 

RPM Panzer Hotchkiss H 35- Francia 1940 - Cannone 47 mm - Peso 20 t. Vel.23 km/h –  equipaggio: capocarro, cannoniere, guidatore.

 

All’interno del War Museum si trova questa  stele commemorativa in ricordo dei Caduti sul fronte di Narvik nel 1940.

 

 

La Johnny WalkerSpecial Bomb” fu disegnata e costruita appositamente dagli inglesi per distruggere la nave da battaglia tedesca Tirpitz (dislocamento: 52.600 tons-lunghezza: 253,60 mt.- larghezza: 36 mt. potenza: 163.26 CV – velocità 30,8 nodi – equipaggio: 2.608 uomini – armamento principale: otto pezzi da 380 mm. 12 da 150 – 16 da 37 mm. – 8 lanciasiluri da 533 mm. 2/4 idrovolanti Arado Ar 196A-4. La Tirpitz era gemella della Bismarck.  La bomba J.W. aveva all’interno una “pressure vessel” che rilasciava idrogeno e lavorava come un water-jet. La bomba era disegnata in modo tale che entrando nell’acqua affondava sino a 50 piedi, poi rimergeva sino a pochi piedi dalla superficie.  La bomba doveva colpire il bersaglio durante la sua ascesa, in caso negativo, ridiscendeva e ripeteva lo stesso ciclo zigzagando con angoli leggermente diversi. La bomba aveva un carico esplosivo di 100 lb di Torpex.

 

Nella salone d’ingresso del War Museo di Narvik ci s’imbatte in un siluro tedesco inesploso. Si calcolò che durante la Campagna di Norvegia andarono a vuoto, a causa dei siluri difettosi, ben 14 attacchi contro navi da guerra e 15 contro navi da carico. Il solo Warspite ne uscì (senza saperlo) indenne per ben 4 volte. Sotto a sinistra è visibile una delle 25.000 mine che erano state depositate dagli Stati belligeranti in quei primi anni di guerra. All'inizio delle ostilità i Tedeschi, gli unici ad essere in Europa veramente pronti alla guerra di mine, sorpresero gli avversari con l'impiego della mina magnetica ad ago, la cui attivazione era determinata dalla perturbazione magnetica generata dal transito di uno scafo metallico. I danni provocati furono notevoli e sottoposero i Britannici, in particolare, ad uno sforzo che mobilitò buona parte delle forze della Nazione.  A questo riguardo Winston Churchill  nella sua «Storia della Seconda guerra mondiale»  scrive: "Tutte le energie e la scienza della Marina britannica vennero messe in opera; una parte notevole dei nostri sforzi bellici dovette venire impiegata negli esperimenti per combattere questo pericolo. Si sottrassero ad altri impieghi materiali e mezzi finanziari, giorno e notte migliaia di uomini rischiarono la vita a bordo di dragamine». Lo sforzo maggiore fu fatto dai Britannici nel 1940, quando quasi 60.000 uomini furono adibiti a questi servizi. Basterebbe l'entità di tale impegno, anche senza citare quella degli affondamenti, a giustificare, da sola, l'azione di minamento attuata dai Tedeschi, tanto più che questo risultato rilevante fu ottenuto con ben poche perdite di mezzi posamine. Per quanto riguarda le perdite causate dalle mine, gli affondamenti dovuti ad esse rappresentano il 6,5% del totale, cifra che a prima vista dice ben poco perché non tiene conto di tutti gli altri tipi di danni e delle implicazioni ad essi relative, non agevolmente quantificabili".

 

 

A sinistra il plastico riporta le posizioni delle postazioni e batterie costiere, sotto, alcuni proiettili di diversi calibri.

Per gli appassionati d’artiglieria leggera abbiamo scattato alcune foto di cannoni da campo di piccolo e medio calibro e contraerea.

Questo cannone da 5-in. faceva parte della Batteria di Framnes ed era stato prelevato dalla nave costiera corazzata Tordenskjold.

 

 

In questa bacheca del War Museum di Narvik sono visibili le armi leggere del Terzo Reich. In alto l’ampia gamma di pistole automatiche, tra cui le Walter e le Luger. Al centro la Mauser cal. 7.63 con il calcio allungato dalla custodia di legno e sotto la Schmeisser. Infine, pistole lanciarazzi. In primo piano, il manichino tedesco porta nel cinturone la bomba a mano Handgranate M.24.

 

MUSEO DI SVOLVAER (Lofoten)

Lofoten Krigsminnemuseum

www.lofotenkrigmus.no

Sul sito internet di questo interessante e fornitissimo Museo di Svolvaer è attivato un circuito interno televisivo che scorre lentamente dopo aver cliccato su ogni fotografia degli 8 reparti che lo compongono.

Barchini esplosivi. Si tratta di nuove armi che si trovavano presso basi segrete nei dintorni di Svolvaer-Lofoten. Si trattava di motoscafi velocissimi costruiti per essere impiegati contro le corazzate e gli incrociatori tedeschi che  transitavano dentro e fuori il Vestfjord.

 

Il conduttore lancia il “Barchino” carico di tritolo sull’obiettivo e si getta in mare salvandosi a nuoto.

War Museum-Svolvaer (Isole Lofoten)

 

La giovane e fiera “levatrice-partigiana” di Svolvaer

 

Nel giardino della Chiesa principale di Svolvaer (Isole Lofoten) abbiamo ripreso la Stele commemorativa dei soldati caduti durante la Seconda guerra mondiale.

 

 

Torre trinata da 280 mm della batteria “Orlandet” (Oslo) in Norvegia, già appartenente all’incrociatore da battaglia tedesco Gneisenau

foto A.Bonomi. Dalla rivista Storia militare-Settembre 2007

 

 

MUSEO DELL’AVIAZIONE DI BODØ

NORSK LUFTFARTSMUSEUM

http://luftfart.museum.no/engelsk

Dieci telecamere permettono di visitare virtualmente il Museo

 

 

Questa stele ricorda i tre valorosi piloti di Gloster Gladiator inglesi che si batterono per la libertà  fino alla morte contro forze nettamente superiori. Museo dell’Aviazione di Bodø, Norvegia.

 

 

  MK-1   SPITFIRE SUPERMARINE

Del 74° Squadron della RAF - estate 1940.

Museo dell’Aviazione di Bodø, Norvegia.

 

APPENDICE STORICA 

Narvik un Punto Chiave ..............................................................................    268

Quadro Storico ............................................................................................   270

Il Caso della Nave ALTMARK .................................................................. ...     274

I Piani D’attacco di Hitler ............................................................................    276

La Germania e L’invasione della Norvegia .................................................      279

Il Museo della Guerra di Narvik ..................................................................      287

L’Odissea di Narvik .................................................................................... .   288

La Prima Battaglia di Narvik per gli Inglesi .............................................. ...    296

La Seconda Battaglia di Narvik per gli Inglesi ............................................     298

Elenco delle Navi affondate nel Porto di Narvik ........................................      309

Fotografie dei Bombardamenti della Città .................................................     310

Batterie Costiere ........................................................................................    314

Battaglie sui Monti di Narvik .....................................................................      319

Coinvolgimento delle Contee a Nord di Narvik ....................................... ..     320

Carta delle Battaglie terrestri a NE di Narvik ............................................      323

“Tutte le Forze Norvegesi devono ritirarsi” .............................................      326

La Fuga del Re Haakon e del Governo .....................................................      327

La Resistenza Norvegese - Organizzazione.............................................      329

L’Acqua Pesante nel Telemark ............................................................... ..     331

La Battaglia di Hegra Fort ...................................................................... .     333

La Resistenza e la corazzata Tirpitz ........................................................     335

Disobbedienza Civile – La liberazione ....................................................      341

Immagini del Museo di Narvik ................................................................      345

Immagini dal Museo di Svolvaer (I.Lofoten) ......................................... ..     352

Immagini dal Museo dell’Aviazione di Bodø ........................................ ....    359

 

 

Carlo GATTI

Rapallo, 22 novembre 2022

 


APRILE 1940 - I TEDESCHI INVADONO LA NORVEGIA - LA RESISTENZA NORVEGESE - PARTE TERZA

APRILE 1940 - I TEDESCHI INVADONO LA NORVEGIA 

LA RESISTENZA NORVEGESE

PARTE TERZA

Dopo la ritirata delle forze alleate dalla Norvegia centrale, il teatro delle operazioni si restrinse a Narvik ed ai territori settentrionali. In quella zona il comandante tedesco Dietl, isolato e circondato, al comando di 2.000 soldati da montagna e di un numero piuttosto cospicuo di marinai (circa 2.000) superstiti dei cacciatorpediniere tedeschi, si stava rivelando un osso duro. 
Durante il mese di aprile, il Maggiore inglese Generale P.J. Mackesy, Comandante di tutte le Forze di terra, aveva ricevuto buoni rinforzi: mezza brigata di “Chasseurs Alpins”, mezza brigata di uomini della Legione Straniera, una brigata di “Chasseurs du Nord” polacchi, alcuni pezzi di artiglieria e carri armati. Egli riuscì ad attestarsi in alcune postazioni a cavallo dell'Ofotfjord mediante sbarchi effettuati fuori dalla portata delle postazioni tedesche. All'inizio di maggio, a causa della sua scarsa aggressività, oppure per l'incapacità di quei forti contingenti alleati di avere ragione di Dietl, la situazione diventò intollerabile. 
Al suo posto di Mackesy fu nominato l’Ammiraglio Lord Cork quale comandante di tutte le forze inglesi, francesi e polacche intorno a Narvik. L’alto ufficiale era già stato coinvolto con successo in una Spedizione in aiuto ai finlandesi e si era guadagnato la fama di aggressive attacking officer.

Un discorso a parte merita il contingente territoriale norvegese, il cui comandante, il Generale norvegese Carl Gustav Fleischer ebbe un grande ruolo in quei giorni, perchè seppe infondere nei giovani militari norvegesi il giusto spirito bellico che servì per comunicare ai tedeschi il primo segnale di resistenza. La sua prima azione fu quella di mobilitare  le scarse forze disponibili per contrastare l’azione degli invasori tedeschi. A sua disposizione aveva:

il 2° Battaglione del Nord Hålogaland-Reggimento di Fanteria (II°/IR-15) che fu inviato verso il fronte Sud all’alba del 9.4.40.

1 Compagnia costituita da Cadetti e Istruttori della Scuola Ufficiali di Harstad (60 Km a nord-ovest da Narvik) che venne per prima in contatto con il nemico.

In questa mappa del War Museum di Narvik, a sinistra le frecce nere indicano l’attacco terrestre tedesco del 9 aprile 1940 partito in due direttrici, verso la zona del Lapphaugen a nord-est e verso il Bjørnfjell alle spalle di Narvik. A destra invece è segnato da frecce bianche il contrattacco dei norvegesi e degli alleati il  10 giugno 1940.

 

La Guerra sui Monti.

In questa seconda cartina viene riprodotta ancora una volta la controffensiva dei norvegesi del 10 giugno 1940                          

    p.g.c. del War Museum di Narvik

Il 12 aprile i tedeschi furono temporaneamente fermati a Gratangen (30 km  a Nord-Nord-Est di Narvik-vedi cartina sopra) dopo una dura battaglia. I ragazzi norvegesi dimostrarono un eccezionale spirito combattivo che si prolungò per i due mesi successivi, fino al ritiro degli Alleati.

 

ANCHE LE CONTEE A NORD DI NARVIK SONO COINVOLTE NELLA GUERRA

CONTEA DI TROMS

 

 

a.b.c. - Centro amministrativo è Tromsø, (150 km in linea d’aria a NNE da Narvik),  sede delle Forze Armate Norvegesi, 6° Divisione di Fanteria e gran parte dell’Aeronautica. Molti paesi nominati in questo saggio fanno parte di questa contea: Balsfjord, Bardu, Gratangen, Harstad, Lavangen, Målselv, Tranøy, Tromsø ecc..

I tedeschi ebbero qualche ripensamento sull’efficienza delle truppe del Nord e durante questo periodo di cautela, i norvegesi mobilitarono i 2 Battaglioni di Troms 16° Reggimento di Fanteria (IR-16)  e di spostare il Battaglione di Alta (il più popoloso comune del Finnmark- 17.000 abitanti) e il 1° Battaglione di Sør-Trøndelag del Reggimento di fanteria (1°/IR-12) dal Finnmark (la regione più a nord della Norvegia) verso sud.

CONTEA DI FINNMARK

Centro Amministrativo è Vadsø, la maggior parte dei Lapponi è concentrata nel Finnmark. I comuni principali sono: Alta, Hammerfest, Nordkapp, Tana, Vadsø, Vardø.

Le forze norvegesi furono spinte insieme verso Fossbakken (vedi cartina) e riuscirono a tenere a distanza le forze germaniche che si erano assestate fin dal 13 aprile sul fronte di Lapphaugen. A questo punto c’è da rilevare un fatto importante: Questa battuta d’arresto fu considerata dagli storici come la prima sconfitta della Germania nella Seconda guerra mondiale. Il 24 aprile sull’onda del successo proseguirono la controffensiva, ma i tedeschi operarono una ritirata strategica dall’area di Lapphaugen (vedi cartina) favoriti da forti burrasche e piovaschi intensi. In effetti si riunirono con altre truppe che avevano bivaccato a Elvenes (vedi cartina) e mossero con rapidità un attacco di sorpresa al I°IR-12 che aveva ripiegato di notte verso una postazione che aveva una scarsa via di fuga. Il risultato dell’incursione tedesca fu pesante: il Battaglione ebbe 24 soldati uccisi e 60 feriti. Il morale dei norvegesi, tuttavia, non fu scalfito e lo dimostrò pochi giorni dopo durante l’offensiva del 1° maggio. Il nemico infatti si era ritirato verso sud e si trovava a Gressdalen e sui monti intorno a Leigastiden (10 km a NE di Bjerkvik), quando le truppe Chasseurs Alpins francesi cominciarono a fluire in forze dal fronte meridionale e occidentale.

 

 

La cartina mostra le località dove si sono svolte le maggiori battaglie tra i Tedeschi e gli Alleati inglesi, francesi e polacchi sbarcati nel nord della Norvegia.

 

I primi sbarchi delle truppe inglesi avvennero a nord e sud di Trondheim soltanto una settimana dopo il colpo di mano tedesco, più precisamente era il 15 aprile e sbarcarono nel nord, presso Harstad (50 km a NW di Narvik). Il giorno successivo altri sbarchi si ebbero nel fiordo di Namsos (130 km a NNE di Trondheim) con mezza brigata di Chasseurs Alpins francesi e presso le città di Aandaisnes e Molde (180 km a SW di Trondheim). Le difficoltà sul terreno per le truppe alleate si manifestarono subito, sia per la mancanza di adeguato equipaggiamento pesante, sia per il completo dominio dei cieli da parte della Luftwaffe, che ora poteva usufruire anche degli aeroporti di Sola (vicino a Stavanger -170 km a sud di Bergen) e di Fornebu (Oslo). Inoltre i tedeschi si impadronirono delle linee ferroviarie, fondamentali per lo spostamento in un paese come la Norvegia privo di grosse infrastrutture stradali.

Il secondo sbarco degli Alleati. Nella notte del 13 maggio, con i sette mezzi da sbarco inglesi disponibili, sbarcò a Bjervik il 1° battaglione della Legione straniera e 3 carri armati francesi. Nonostante il fuoco delle mitragliatrici tedesche, le perdite furono leggere. I carri armati ridussero ben presto al silenzio le mitragliatrici, ed i legionari avanzarono lungo la strada per congiungersi con i norvegesi che, sulle montagne orientali, avevano preparato la strada per lo sbarco mediante un nuovo attacco. 
Non restava che occupare Narvik e circondare Dietl.

I tedeschi erano presi tra due fuochi, a Nord dai norvegesi, a Sud dai francesi. Lo sbarco degli alleati francesi avvenne con la copertura dei cannoneggiamenti delle navi da guerra inglesi che, purtroppo, distrussero un numero incredibile di case e fecero anche 16 vittime tra i civili.

Il tenente generale inglese Sir C.J.E Auchinleck, arrivato a Harstad  l'11 maggio, decise, come si è visto, di esonerare Mackesy dal comando, ma saggiamente evitò di troncare la collaborazione tra la Legione Straniera e la Marina Inglese, che stava cominciando a dare buoni frutti. Intanto i norvegesi avevano ricacciato indietro i tedeschi, raggiungendo la zona elevata di Kobberfjell (22 km NE di Narvik), da dove potevano minacciare la base di rifornimento di Dietl situata sulla frontiera svedese. Le condizioni atmosferiche erano proibitive. Tanto i norvegesi quanto i tedeschi risentivano del fatto di essere rimasti a lungo sulle montagne coperte di neve, e gli uomini di Dietl, reduci da un lungo periodo di ininterrotta attività, erano stremati.

Il 20 maggio i norvegesi attaccarono ancora una volta, costringendo i tedeschi a ritirarsi nella loro ultima posizione di montagna. Il 22 ed il 25 maggio Dietl ricevette rinforzi. Dai primi di aprile in poi, alcune unità di paracadutisti che avevano preso parte ai primi colpi di mano, furono lanciate in suo aiuto. 
Infine, nelle prime ore del 28 maggio, dopo un preliminare bombardamento navale, gli uomini della Legione Straniera, utilizzando i cinque ultimi mezzi da sbarco disponibili, sbarcarono sul lato settentrionale della penisola di Narvik. Il resto dei due battaglioni della Legione ed un battaglione norvegese seguirono su battelli da pesca. Un attacco tedesco sulla parte alta del litorale fu respinto. Francesi e norvegesi avanzarono attraverso la penisola puntando su Narvik e i tedeschi dovettero ritirarsi come meglio poterono su una nuova linea difensiva più a nord. Béthouart intanto si preparava a premere lungo i fianchi del fiordo, mentre sulle montagne in prossimità della frontiera svedese, i norvegesi si apprestavano a sferrare l'attacco decisivo che avrebbe isolato Dietl dalla linea ferroviaria, disperdendone le forze. Purtroppo la fine della resistenza nella Norvegia centrale aveva permesso ai tedeschi di disimpegnare forze e il primo pericolo che minacciò gli alleati a nord, fu costituito dagli attacchi aerei. Harstad era stata bombardata a più riprese, e sebbene gli alleati vi avessero installato notevoli difese contraeree, era ormai chiaro quanto fosse indispensabile farvi affluire aerei da caccia. Il 26 aprile la Furious, che era rimasta a nord con i suoi lenti Swordfish da ricognizione e da bombardamento, salpò per la Scozia.

La Ark Royal  poco dopo il completamento (fine 1938-inizio 1939)

Dieci giorni dopo l’Ark Royal arrivò al largo di Harstad ed i suoi Blackburn Skua (bombardieri in picchiata) poterono finalmente svolgere una modesta  attività di copertura. I lavori per l'approntamento di campi d'atterraggio per i caccia erano a buon punto, ed il 21 maggio i Gladiator del 263° gruppo giunsero a Bardufoss; i caccia inglesi riportarono subito notevoli successi abbattendo numerosi aerei tedeschi. Il 28 maggio giunsero nel settore gli Hurricane del 46° gruppo e, poiché una seconda pista di atterraggio allestita in prossimità di Harstad si dimostrò inutilizzabile, scesero anch'essi su Bardufoss. Da quel momento in poi le forze alleate poterono contare su di un certo grado di copertura da parte dei caccia. 
Ma i tedeschi avevano anche cominciato a muoversi a terra dirigendosi verso nord.

I francesi e i norvegesi avevano occupato Narvik il 28 maggio,  ma i preparativi per l'evacuazione erano cominciati, mentre ancora si stavano completando quelli per la conquista della città. La sera del 11 giugno Cork ebbe finalmente il permesso di comunicare a Re Haakon che gli alleati intendevano ritirarsi; Ruge ne fu informato la mattina seguente. Le parti convennero di posticipare di 24 ore l'operazione, sperando che i tedeschi accettassero la proposta di dichiarare Narvik città neutrale e d’affidarne il controllo agli svedesi; ma la richiesta fu respinta e la ritirata continuò. 


Nello stesso momento, a Sud di Narvik presero posizione 4 Battaglioni della Brigata Polacca Podhale (4778 soldati) che rilevarono le forze Inglesi e Francesi. Li comandava il generale Zygmunt Bohusz Szyszko, 47 anni. I polacchi facevano parte della North Western Expeditionary Force che contava su 12 battaglioni in totale. I Polacchi possedevano armi francesi e si rivelarono degli eccellenti combattenti. Durante le due settimane successive, liberarono le coste da SO a SE di Narvik (Ankenes-Halvøya e Beisfjorden) e spinsero i tedeschi verso i monti a NE della città.

Gli incrociatori da battaglia Gneisenau e Scharnhorst l'incrociatore Hipper e quattro cacciatorpediniere salparono da Kiel la mattina del 4 giugno. L'ammiraglio Marschall, che comandava la formazione, aveva ricevuto ordine di alleggerire la pressione su Dietl attaccando Harstad e di portare poi le sue navi a Trondheim in modo da appoggiare l'avanzata verso nord. Sebbene le condizioni atmosferiche fossero buone, le navi attraversarono il Mare del Nord senza essere avvistate, incontrarono una nave cisterna in punto prestabilito e, nelle prime ore dell’8 si avvicinarono alla costa settentrionale della Norvegia in formazione di perlustrazione (anziché entrare nei fiordi per bombardare Harstad, Marschall aveva infatti deciso di attaccare i convogli britannici cui era segnalata la presenza in mare). Quasi improvvisamente i tedeschi avvistarono navi inglesi: le prime due, una nave cisterna ed una nave di linea vuota, furono affondate, la terza, una nave ospedale, fu lasciata andare.

Ritornando allo scenario precedente, ci furono delle cruente battaglie sulle alte montagne a Est di Leigastinden tra Lapphaugen e il Bjørnfjell, vicino al confine svedese. I due Battaglioni Troms, con grande sacrifici e difficoltà di rifornimenti e comunicazioni di qualsiasi tipo, senza alcuna possibilità di essere sostituiti da truppe fresche, con cannoni pesanti da trasportare con i cavalli in condizioni ambientali estreme, spinsero i tedeschi indietro, roccia dopo roccia, da una cima all’altra per il lungo periodo che va dal 1° maggio fino al 8 giugno. Poi, improvvisamente, giunse l’ordine che aveva in sé una profonda delusione:

“Tutte le Forze Norvegesi devono ritirarsi”

La vittoria era ormai acquisita. I vagoni ferroviari erano pronti al confine per evacuare i tedeschi dalla Norvegia alla Svezia. 

Con l’entrata in guerra dell’Italia, si era aperto un nuovo Fronte nel Sud Europa che richiedeva l’immediato rientro degli Alleati dalla Norvegia.

Prima di quell’infausto annuncio, anche Narvik fu riconquistata dopo una spettacolare battaglia sul Taraldsfjellet alle spalle della città. Le truppe norvegesi e la Legione Straniera francese presero d’assalto la montagna con l’appoggio del fuoco di copertura delle navi inglesi e con i cannoni francesi e norvegesi di Øyjordhaløya poste sull’imboccatura del Rombaksfjord. Nello spazio di poche ore di fuoco intenso, la II/IR-15 perse un quarto della sua forza. 17 furono le vittime.

 Purtroppo, il sacrificio di tutti questi giovani valorosi combattenti norvegesi di tutte le armi valse solo a salvare l’onore della Patria e a guadagnarsi il rispetto di tutto il mondo che in quei primi mesi di guerra tenne gli occhi e gli orecchi puntati su questo teatro di guerra, dove i tedeschi non ebbero vita facile come credevano, e soltanto un capovolgimento strategico della storia in corso, li salvò, probabilmente, da una grande umiliazione, sproporzionata senz’altro alle loro sconfinate ambizioni di espansione territoriale.

Così il 7 Giugno i soldati alleati, stanchi e demotivati, abbandonarono Narvik. Insieme a loro, anche il Re e i membri del governo lasciarono la Norvegia.

Fu sulle montagne, quindi, che i soldati norvegesi furono informati che il loro attacco,  che avrebbe completato la disfatta di Dietl, era stato annullato. Il 7 giugno Re Haakon e i ministri norvegesi s’imbarcarono a Tromsø sull'incrociatore Devonshire, lasciando Ruge, dietro sua richiesta, con i suoi soldati.

L' 8 giugno gli ultimi soldati inglesi e francesi s’imbarcarono a Harstad, mentre le difese contraere rimasero attive fino all’ultimo momento. Dopo di che i cannoni furono distrutti e gli aerei da caccia decollarono per ritornare sulla Glorious.

Il 9 giugno entrò in vigore un armistizio preliminare tra i tedeschi e i norvegesi superstiti. Dietl si mostrò generoso nei confronti di Ruge, e i soldati norvegesi poterono tornarsene alle loro case. Sebbene gli inglesi non se ne rendessero conto, in quel momento la minaccia più grave  non era quella proveniente dalla terra o dal cielo, bensì dal mare.

LA FUGA DEL RE HAAKON E DEL GOVERNO

Anticipando gli sforzi tedeschi per catturare il Governo,  la Famiglia Reale, l’intero Parlamento e alcuni alti funzionari del Ministero della Difesa e dell’Amministrazione civile prepararono la loro fuga in Gran Bretagna insieme alle truppe alleate che si stavano ritirando. La ritirta cominciò quando le Autorità norvegesi lasciarono frettolosamente Oslo in treno e in auto, trasferendosi prima a Hamar (120 km a Nord di Oslo) e poi a Elverum (25 km a Est di Hamar), dove fu convocata una sessione straordinaria del Parlamento. Grazie alla presenza di spirito del presidente del Parlamento Carl Johan Hambro, il governo approvò un provvedimento d’emergenza (noto come: Autorizzazione Elverum)* che dette la piena autorità al Re e al Governo fino a che l’Esecutivo non si fosse di nuovo riunito. Tale Atto dette al Regno e al suo Governo l’autorità costituzionale per rifiutare l’ultimatum dell’emissario tedesco Curt Bräuer. Re Haakon e il Principe Olav con i membri del Governo norvegese riuscirono a evitare tutti i tentativi di cattura e viaggiarono attraverso le remote regioni dell’interno finchè  arrivarono a Målselv (90 km a NNE di Narvik), dove fecero una sosta breve a Trollhaugen vicino a Olsborg (3 km a Nord di Målselv), prima di continuare per Dybwad Holmboe’s presso Langvatnet in Balsfjord (60 km a Sud di Tromsø).

Qui rimasero fino al 7 giugno Assicurando la legittimità costituzionale.

* Il Parlamento norvegese minò alla base qualsiasi tentativo di Vidkun Quisling (collaborazionista nazista) di rivendicare il Governo per sé. Dopo che Quisling ebbe proclamato la propria assunzione del Governo di Norvegia, diversi membri della Corte Suprema presero l’iniziativa di istituire un Consiglio Amministrativo (Administrasjonsrådet) nel tentativo di fermarlo. Ciò fu però considerata un’iniziativa controversa e infatti il legittimo Governo norvegese rifiutò di appoggiare tale Consiglio, mentre le autorità tedesche semplicemente lo sciolsero.

 

ALCUNI PUNTI FERMI....

  1. a) - Durante l’invasione germanica della Norvegia, si ricorda che diverse unità militari norvegesi lanciarono numerosi contrattacchi contro i tedeschi, cooperando con le forze britanniche e polacche, ed ebbero un certo successo.

  2. b) - Con lo sbarco degli Inglesi-Francesi-Polacchi a Narvik, si accese una grande speranza di liberazione, che purtroppo tramontò poco dopo, con il ritiro delle loro truppe a causa dell’apertura di un nuovo fronte nella Francia meridionale.

  3. c) - Quando la Norvegia settentrionale cadde in mano naziste, il Governo norvegese era già riuscito a fuggire in Inghilterra, insieme alla Famiglia Reale. In esilio a Londra, fu mantenuta la legittimità costituzionale e, di fatto, la Norvegia entrò a far parte dello schieramento alleato.

  4. d) - Il Governo Inglese si mosse su due linee: unì le truppe norvegesi a quelle alleate, e collaborò con la Norwegen Transport Shipping (Nortraship), la maggior organizzazione mondiale di spedizioni marittime, (mobilitava circa 1.000 navi mercantili), per il supporto logistico nel trasporto di merci e

e) - Quest’ultimo punto determinò nell’Alto Comando germanico la preoccupazione che gli Alleati potessero tentare di riprendere la Norvegia. Ciò spiega l’impegno in Norvegia di centinaia di migliaia di soldati che altrimenti sarebbero stati dislocati su altri fronti.

LA  RESISTENZA  NORVEGESE

La Norvegia si difende

Dal 1940 al 1945, la Resistenza Norvegese si oppose all’invasore ed occupante nazista con diverse forme di ostilità e combattimento:

  1. A) - Sostegno al Governo norvegese in esilio e, di conseguenza, mancato riconoscimento di legittimità al regime di Vidkun Quisling e all'amministrazione del Reichskommissar Josef Terboven.

  2. B) - Difesa iniziale della Norvegia meridionale che fu in larga parte disorganizzata, ma diede tempo al Governo norvegese di evitare la cattura.

  3. C) - Difesa e contrattacco militare, maggiormente organizzata nelle regioni della Norvegia occidentale e settentrionale, che fu finalizzata ad assicurarsi posizioni strategiche e all'evacuazione del Governo.

  4. D) - Resistenza armata, nelle forme del sabotaggio, dei raid dei commando e altre operazioni speciali durante l'occupazione.

  5. E) - Disobbedienza civile e resistenza passiva.

 

Le basi SEPALS dei partigiani norvegesi a Est della città di Narvik sono segnate sulla carta (sopra) dalle bandierine con il loro nome in codice.                        

(Narvik, War Museum)

 RESISTENZA ARMATA. Oltre alle già citate battaglie di Narvik, furono portate a compimento numerose altre azioni militari con l’intento, sia di rovesciare le Autorità naziste, sia di contribuire allo sforzo bellico in generale. La Resistenza Norvegese s’impegnò attivamente nel “transito clandestino” di popolazione tra la Svezia e la Norvegia, ma anche verso le Isole Shetland, impiegando barche da pesca che furono chiamate Shetland Bus.

La MILORG iniziò come piccola unità di sabotatori e finì per costituire una vera e propria Unità militare.

La COMPANY LINGE si specializzò in incursioni e combattimenti costieri. Si ricordano le ripetute incursioni realizzate presso le Isole Lofoten, Måløy e altre aree costiere. La sua partecipazione si estese, con ricognitori norvegesi, alla distruzione delle corazzate tedesche Bismarck e Tirpiz.

 

 

Manifesto del celebre film “Gli Eroi di Telemark”

 Nell’area occupata del Telemark (Regione centro-meridionale della Norvegia) funzionava a pieno ritmo una fabbrica di Acqua Pesante, ritenuta indispensabile per la costruzione della Bomba Atomica tedesca. La fabbrica era una minaccia per gli Alleati e andava neutralizzata. La complessa operazione è stata fra l’altro rievocata in un celebre film:

GLI EROI DI TELEMARK

La fabbrica era arroccata fra le montagne, difficilissima da bombardare, così fu decisa un’azione di sabotaggio. L’impresa fu affidata a un pugno di uomini della Resistenza norvegese. Il 27 febbraio 1943, quattro di loro riuscirono ad introdursi nel sorvegliatissimo complesso. Sistemarono l’esplosivo e uscirono prima che si consumassero i trenta secondi della miccia. L’operazione riuscì brillantemente, ma le speranze di arrestare definitivamente i lavori della fabbrica andarono deluse. I nazisti rimisero rapidamente in piedi le apparecchiature e pochi mesi dopo fu necessaria una nuova operazione. Questa volta gli Alleati scelsero un bombardamento aereo grazie al quale, la produzione fu fermata ancora una volta, ma la minaccia non era stata neutralizzata.

Nel febbraio 1944, il Comando nazista decise di trasferire in Germania la preziosa Acqua Pesante prodotta in Norvegia. Di nuovo fu necessario l’intervento degli uomini della Resistenza che, questa volta, riuscirono pienamente nel loro intrepido atto di sabotaggio, affondando il traghetto incaricato del trasporto. La trama del film, così riassunta, è fedele alla storia dello spettacolare avvenimento, ma i principali e reali sabotatori si chiamavano Joachim Rønneberg, Knut Haukelid, Max Manus Gunnar Sønsteby ed altri. Questo coraggiosissimo atto di sabotaggio permise agli scienziati americani di recuperare tempo prezioso sulla finalizzazione del programma atomico USA.

Sebbene le loro gesta siano passate alla storia per aver distrutto l’impianto di Acqua Pesante e le “riserve” imbarcate sul traghetto Norsk Hydro a Vemork (Rjukan), questi  impavidi eroi norvegesi, insieme ad altri sabotatori della Resistenza Armata norvegese, distrussero numerose altre navi e rifornimenti del Terzo Reich. I nazisti, per rappresaglia e vendetta, ad ogni atto di sabotaggio, uccisero numerosi norvegesi innocenti. Il peggior di tutti fu l’assalto al villaggio di pescatori di Telavåg (25 km a sud ovest di Bergen) nella primavera del 1942.

 

GLI EROI DI TELEMARK, LA VERA STORIA

https://www.marenostrumrapallo.it/eroi/

di Carlo GATTI

ACQUA PESANTE

L’Acqua Pesante doveva servire alla Germania nazista per costruire la sua prima bomba atomica e se ciò fosse accaduto, chiaramente, la storia sarebbe stata completamente stravolta.

L’Acqua pesante in apparenza é identica a quella normale, ma ha una composizione completamente diversa: aniziché essere composta da un atomo di ossigeno e due di idrogeno è formata da un atomo di ossigeno e da due atomi di un isotopo dell’idrogeno, il deuterio.

Il deuterio è un elemento il cui nucleo invece di avere un protone è composto da un protone e un neutrone. Questa differenza è importante perché in una reazione nucleare l’Acqua pesante può rallentare i neutroni, dando luogo così alla fissione nucleare; a tale scopo si può anche utilizzare l’uranio naturale e non quello arricchito. I nazisti avevano realizzato un impianto pilota in Norvegia per la produzione di Acqua Pesante e, quindi sarebbero riusciti a costruire la loro prima bomba atomica.

Ecco come sono andati i fatti.

Durante la Seconda Guerra Mondiale, mentre milioni di uomini si massacravano con mezzi non troppo dissimili da quelli delle guerre precedenti, i politici ed alcuni scienziati avevano ben chiaro un fatto cruciale. In questo conflitto sarebbe stata giocata una carta totalmente nuova e decisiva, uno strumento bellico capace di uccidere in un colpo solo centinaia di migliaia di persone. Il solo nome sarebbe stato in grado di terrorizzare interi popoli:

si trattava della bomba atomica

Sia le forze alleate che i nazisti si buttarono a capofitto nel tentativo di costruire l’ordigno. Ciascuno sapeva che anche l’avversario inseguiva il medesimo scopo e che il possesso della bomba avrebbe significato la vittoria finale. Nel 1943 negli Stati Uniti la piccolissima cittadina di Los Alamos, nel Deserto del Nuovo Messico, era stata trasformata in una sorta di immenso recinto di massima sicurezza. Qui, praticamente segregati, vivevano e lavoravano alcuni dei più brillanti fisici, chimici e ingegneri del mondo. Quello a cui partecipavano era il celebre e costosissimo Progetto Manhattan che avrebbe poi effettivamente portato alla messa a punto della bomba nucleare. Fra di loro c’erano:

Enrico Fermi, Segre e gli amici di via Panisperna) Robert Oppenheimer e molti altri.

Ma anche i nazisti non lesinavano gli sforzi necessari, anche se in seguito fu appurato che essi non erano mai stati vicini al risultato finale.

Non molto tempo fa, fu rivelato che la Svezia aiutò la Resistenza norvegese addestrando ed equipaggiando molte reclute in numerosi campi militari lungo il confine norvegese. Per sviare i sospetti, i centri furono camuffati da campi di addestramento della Polizia. Di notevole importanza per gli Alleati, fu il lavoro di Intelligence svolto dalle diverse Organizzazioni, tra le quali si distinse la XU fondata da Arvid Storsveen che era formata da studenti dell’Università di Oslo. A questo proposito, mi sembra opportuno ricordare che tra i quattro capi riconosciuti della Resistenza norvegese, due erano giovani donne, una di loro, si chiamava Anne-Sofie Østvedt. (Nel romanzo “IL GIUSTIZIERE DI NARVIK” ogni riferimento è del tutto casuale...). 

Hans Reidar Holtermann, 1895-1966, Colonnello norvegese, meglio conosciuto come il Comandante di Hegra Fort.

LA BATTAGLIA DI HEGRA FORT. Durante l’avanzata in terra norvegese, i tedeschi occuparono poco alla volta tutti i forti e le batterie dell’Esercito norvegese per poi avere il controllo del territorio. La conquista del  Forte di Hegra era un importante obiettivo militare dei tedeschi per unire le loro linee d’attacco. In questa delicata fase, Holtermann fu incaricato di mobilitare il 3° Reggimento di artiglieria a Värnes (50 km a nord-ovest di Trondheim-Norvegia centrale), ma l’incalzante avanzata nemica gli impedì di completare il piano, allora ripiegò su una località più sicura: Hegra Fort (35 km a Est di Tromdheim), una fortezza di riserva del 1926 che era tuttora in ottime condizioni e difendibile. Holtermann con una forza improvvisata di 250 soldati, organizzò una “resistenza” con l’intenzione di tenere il Forte sino all’arrivo di un supporto effettivo che, purtroppo non arrivò. L’eroe Holtermann, con i suoi valorosi soldati resistettero 25 giorni (dal 15 aprile al 5 maggio 1940)  all’assedio delle artiglierie germaniche e ai bombardamenti della Lufwaffe. Nella prima settimana, gli invasori tentarono con due massicci assalti della fanteria ed in seguito con bombardamenti dell’aviazione e pesanti bombardamenti dell’artiglieria. Poi, alle 05.15 del 5 maggio 1940, venne il giorno della resa. Holtermann incontrò il Comandante delle locali Forze tedesche e si arrese con le sue truppe come ultimo Comandante del Sud della Norvegia.

PoW - Dopo la resa di Hegra, Holtermann e i suoi umini marciarono come PoW (prigionieri di guerra) sino a Berkåk (70 km a Sud di Trondheim) dove furono impiegati per riparare le strade colpite dalle bombe. I prigionieri furono rilasciati in tre gruppi in date diverse. Holtermann fu l’ultimo ad essere liberato il 2 giugno 1940, ma l’uomo non era il tipo da sottomettersi ai tedeschi e divenne molto attivo nel Movimento della Resistenza norvegese. Dal 1940 al 1942 lavorò come manager presso la “Okla Metall” a Orkanger (32 km  Sud Ovest di Trondheim) mentre era segretamente attivo per la Resistenza. Nel 1942 la sua attività illegale fu scoperta dai tedeschi e fu costretto a  varcare il confine verso la neutrale Svezia. Dalla Svezia riuscì a scappare in Inghilterra dove, nel 1943 assunse il grado di Colonnello e prese il Comando dell’Esercito norvegese in esilio della principale Unità: la Brigata Norvegese in Scozia. Nel 1944 il colonnello Holtermann fu trasferito alla conduzione del Comando del Distretto-Trøndelag (40 km a sud di Tronheim), e ritornò in Svezia dove prese parte alle operazioni di liberazione della Norvegia l’8 maggio 1945 insieme con battaglioni rinforzati da 2.570 truppe di polizia, di cui si è già parlato e, infine, prese parte alle operazioni di disarmo ed internamento delle Forze di Occupazione tedesche.

 

Il Ruolo della Resistenza Norvegese nella

 Fine della corazzata

TIRPITZ

La nave che si nascose e si difese per tre anni nei fiordi norvegesi

Gemella della Bismarck, la corazzata von Tirpitz, dislocamento 52.000 tons. era la più moderna e potente nave da guerra tedesca. Il suo armamento principale era costituito da 8 cannoni da 381 mm.

 

 

Durante le operazioni belliche nell’Ofotenfjord nel 1940, il riparatissimo fjordo di Bogen bay, situato a 15 km in linea d’aria a NW di Narvik, era stato già per gli Alleati il luogo nascosto, sicuro ed ideale per “staccare” dai combattimenti, ritemprarsi e riorganizzarsi. Anche i tedeschi, subito dopo il ritiro degli anglo-francesi, trasformarono Bogen in base navale con tanto di banchine e cantieri di riparazioni navali. Essendo Narvik il Quartiere Generale della Marina Tedesca, Bogen diventò il naturale punto d’incontro per la Flotta d’altomare germanica, con la Tirpitz al centro del progetto. “Admiral Nordmeer” fu la designazione del Quartiere Generale di Narvik  collegato con l’Alto Comando Navale di Kiel. Il Comando supremo si trovava a bordo del Grille, ancorato nel porto di Narvik. Questa unità era stata in precedenza lo Yacht privato di Hitler.

 

Questa foto aerea mostra la Tirpitz ripresa da un ricognitore britannico che riuscì a scoprirla in un fiordo a ridosso delle conifere e delle rocce.

 

 

La corazzata Tirpitz  veniva periodicamente usata negli attacchi ai convogli dell'estremo nord. Nella foto sopra si trovava alla fonda nel Kåa Fjord, (60 km a Est di Tromsø), appendice dell'Alten Fjord, nella Norvegia settentrionale. Proprio qui, in questo ramo laterale che si vede nella foto, la nave troverà la sua tomba.

 

La foto mostra un mini-sommergibile inglese X-craft, lungo 16 metri, che aveva quattro uomini d’equipaggio ed una massima immersione fino a 100 metri. Lungo i fianchi dello scafo, trasportava  due contenitori con 2 tonnellate di potente esplosivo AMATOL. Ne furono costruiti 6 con lo scopo preciso di sabotare la Tirpitz. Il 22 settembre, tutti questi mezzi furono impiegati per la missione. Purtroppo, solo 3 sommergibili tascabili inglesi riuscirono a superare gli sbarramenti ed a danneggiare gravemente l'unità tedesca, mettendola fuori combattimento per molti mesi.  I tre sommergibili supertiti, a missione compiuta, furono scoperti e distrutti dalle vedette germaniche.

 

UN’ALTRA AZIONE TANTO IMPAVIDA QUANTO SFORTUNATA

Il peschereccio norvegese ARTHUR trasportò due siluri-umani dalle isole Shetland sino al Trondheim Fjord. Quattro membri della Resistenza Norvegese, tra cui Leif Larsen, noto come “Shetland-Larsen”, accettarono la missione. Un team di 6 marinai inglesì s’unirono al gruppo per pilotare gli Chariot. Giunti nelle acque norvegesi, i mezzi d’assalto furono presi a rimorchio dell’Arthur.  Purtroppo il tempo peggiorò improvvisamente e, durante la forte burrasca, andarono persi i mezzi proprio mentre entravano nell’Aase Fjord. La Tirpitz era ormeggiata a poca distanza. La Resistenza collaborò a far sparire i relitti ed aiutò i superstiti a varcare il confine svedese dopo quattro interi giorni di freddo intenso che provocò in alcuni di loro congelamenti alle dita. In seguito, mentre si trovavano su una strada deserta, furono avvicinati dalla polizia tedesca. Soltanto Larsen era armato di fucile automatico ed una piccola pistola. Il norvegese, con un balzo da felino, saltò addosso a due tedeschi creando una tale confusione che un inglese, Billy Tebb, riuscì a disarmare un altro tedesco e a sparargli contro. L’altro tedesco rimase illeso, ma prima di sparire nel bosco riuscì a sua volta a sparare e a colpire Bob Evans allo stomaco. Purtroppo l’inglese morì prima di varcare la frontiera. I superstiti inglesi di questa sfortunata missione furono decorati col Distinguished Service Cross, mentre Larsen ottenne la Conspicuocus Gallantry Medal.

La corazzata Tirpitz non ebbe certamente il ruolo leggendario della sua gemella Bismarck. La mancanza di una portaerei (la Graf Zeppelin non fu mai ultimata) la privò di un valido appoggio aereo e rese deboli ed indifese anche le altre navi da battaglia Scharnhost e Gneisenau. In pratica la Tirpitz passò la propria esistenza rintanata nei fiordi norvegesi, fuggendo continuamente dagli attacchi aerei alleati. Churchill dipinse egregiamente la situazione definendola: "fleet in being", cioè “flotta in potenza”, in grado cioè di tenere impegnate un gran numero di navi ed aerei nemici, senza nemmeno muoversi. Nei suoi tre anni di vita la Tirpitz costituì sempre un forte pericolo potenziale, e fu per questo motivo che subì 22 attacchi, quasi tutti da velivoli partiti dalle portaerei.

La difesa della Tirpitz rappresentava un problema non secondario dopo la perdita dell’incrociatore pesante tedesco Scharnhost, poiché nel fiordo di Alten era costituita solamente dalla torretta "H" della corazzata: due pezzi d'artiglieria da 15 cm e la batterie di siluri Lillan e Drott che erano stati portati da Trondheim. 

Nel frattempo il servizio segreto britannico, sia con i rapporti di Ultra che con quelli degli agenti norvegesi, aveva seguito costantemente le riparazioni della nave dopo ogni attacco. Durante tutto il Capitolo Tirpitz, un notevole ruolo lo svolse, ancora una volta, la Resistenza norvegese con il continuo aggiornamento d’informazioni relative la nave nascosta nel fjordo. Il norvegese Torstein Raaby, del Secret Service (SIS), fu sbarcato da un sottomarino per una missione di spionaggio ai danni dei tedeschi. Si unì a lui Karl Rasmussen, un giovane della Resistenza. Insieme montarono una stazione radio nel centro di Alta a soli 200 metri di distanza da un campo tedesco e da lì cominciò il loro lavoro di intelligence sull’evolversi della situazione a bordo della nave Tirpitz. Le loro informazioni furono decisive per il grande raid inglese contro la corazzata del 3 aprile 1944. Torstein Raaby riuscì a rietrare in Inghilterra, mentre Karl Rasmussen, catturato dai tedeschi e torturato dalla Gestapo, si suicidò.

Raaby diventò il radiotelegrafista del Kon-Tiki nella spedizione del 1947. Morì durante una spedizione artica nel 1964.

CONTINUA ...

Carlo GATTI

Rapallo, 20 novembre 2022