L'IMPORTANZA DELLA REPUTAZIONE

L'IMPORTANZA DELLA REPUTAZIONE

di John Gatti

Un pezzo provocatorio che vuole essere spunto di riflessioni.
Una buona reputazione lavora a tuo favore 24 ore su 24.

Sto parlando a te!

So che mi sto addentrando in un sentiero buio e contorto.

Proprio per questo, prima di fare il primo passo, voglio citare un paio di definizioni sulle parole che seguono:

· La reputazione, in ambito sociologico, è un concetto che attiene alla credibilità che un determinato soggetto ha all’interno di un gruppo (wikipedia).

· Per quanto riguarda la saggezza, mi ha colpito questa definizione di Epicuro: Non è possibile vivere felicemente senza anche vivere saggiamente, bene e giustamente, né saggiamente e bene e giustamente senza anche vivere felicemente. A chi manchi ciò da cui deriva la possibilità di vivere saggiamente, bene, giustamente, manca anche la possibilità di una vita felice.

· Il Compromesso per come lo intendo di qui a seguire: Cedimento morale in vista di un vantaggio pratico (dizionario Corriere della Sera). Ne convengo che “il compromesso” è molto di più, spesso inevitabile e addirittura auspicabile, ma in questo contesto viene considerato solo nella sua accezione negativa.

Mettendo da parte Ia filosofia, ci accorgiamo che i discorsi relativi alla correttezza, alla coerenza e all’onestà, dipendono in larga misura dalla posizione occupata da chi parla.

Un esempio banale: supponiamo di avere due fette di torta, una di fronte a un uomo che non mangia da tre giorni, l’altra davanti a un uomo completamente sazio. Secondo voi chi dei due subirà maggiormente la tentazione di rubare il dolce?

Chi, come me, ha già percorso buona parte del tragitto professionale, si trova nella stessa condizione “dell’uomo sazio” e può quindi permettersi giudizi etici e filosofici a scapito di chi ancora combatte a un quarto della via…

In altre parole, il trentenne che aspira a fare carriera, dovrà confrontarsi con i compromessi imposti dall’ambizione; chi invece ha già superato questa fase, può indossare la veste del saggio e predicare l’importanza dei valori nella vita.

Bello così eh?

A dirla tutta, nutro seri dubbi sull’opinione comune che tiene in alta considerazione le parole di un anziano in virtù della saggezza maturata negli anni.

Il momento cruciale, quello che determinerà la qualità di questa saggezza, lo incornicio in una fase temporale che precede di molto l'”età matura” e, più precisamente, in quel periodo dell’esistenza dove si scontrano opportunità, credibilità e l’ambizione di raggiungere una posizione rilevante. È allora che l’istinto suggerisce strategie di conquista, che spinge verso compromessi che rimbalzano da una discutibile onestà a un allineamento verso idee di convenienza, dalla calunnia all’incoerenza, dalle bugie alle azioni nascoste. Tutto questo, pur di salire sul cavallo che si ritiene vincente nella corsa alla soddisfazione dell’illusoria regola secondo la quale l’universo girerebbe intorno a ognuno di noi…

Ma essere veri uomini non è una cosa scontata.

Non è uno status che spetta di diritto una volta raggiunta una certa età.

Diventare Uomini con la “U” maiuscola, il più delle volte, è il risultato di un percorso fatto di scelte che rispettano la propria scala dei valori, di coerenza intellettuale (che non vuol dire “non essere disposti a cambiare idea”, vuol dire farlo tutte le volte che lo si ritiene necessario, in armonia con il proprio modo di pensare e di essere) e, soprattutto, di decisioni prese con grande apertura mentale, dove l’eventuale sconfitta viene accettata a favore di un’opzione più giusta.

Chi cede al compromesso – quello del “cedimento morale in vista di un vantaggio pratico” – imbocca un sentiero dove il compromesso si autoalimenta; e più ci si addentra e più diventa facile ignorare il rispetto dei valori.

Alla fine si diventa qualcos’altro, che sicuramente non assomiglia all’Uomo con la “U” maiuscola e che, sicuramente, non permetterà di entrare a far parte dei “saggi” che si sono conquistati il prestigioso titolo sul campo.

Sono poche le persone con un’apertura mentale tale da permettere d’imparare scavalcando il proprio orgoglio e la propria presunzione, e più si cerca avanti negli anni e più è difficile trovarle.

Tra le righe di quello che ho scritto c’è la definizione della parola “reputazione”.

Ho iniziato affermando che una buona reputazione lavora a tuo favore 24 ore su 24.

Alle persone piace raccontare le cose belle e le cose brutte, e lo fa tendendo a massimizzarne l’effetto. Questo vuol dire che se qualcuno ha qualcosa da raccontare di “positivamente diverso” – rispetto alla massa – che ti riguarda, stai pur certo che lo farà esagerando, piuttosto che minimizzando. Scatenare un passaparola positivo sulla reputazione è quanto di più produttivo si possa fare per gettare delle solide fondamenta per il proprio futuro, sempre!

Ma distruggere una buona reputazione è veramente molto facile. È sufficiente cadere nella trappola del compromesso, che magari permette un veloce successo temporaneo, ma che alla lunga dipinge la personalità in modo distruttivo.

Mentre scrivo penso ad alcune persone reali, uomini ancora con la “u” minuscola, ma fatti di carne, di ossa e di sangue. Penso a individui che conosco da anni, a cui non manca nulla: intelligenza, preparazione, volontà, presenza fisica, carisma e ambizione; quell’ambizione, potenzialmente sana, ma che a volte spinge verso il famoso e famigerato “compromesso” (inteso sempre in accezione negativa, ovviamente).

Non ne avete bisogno!

Avete tutto quello che vi serve per arrivare dove volete senza calpestare valori a cui ancora non avete dato la giusta importanza.

È meglio un assaggio di buon Tignanello, gustato nel giusto bicchiere, alla giusta temperatura e nel momento giusto, piuttosto che una botte di vino scadente bevuto con la cannuccia nel cimitero dei valori calpestati.

Tu che stai leggendo… che sai che mi sto rivolgendo a te… che so che puoi capire…

non cercare di diventare una persona di successo, cerca di diventare una persona di valore, e arriverai a essere quello che ti spetta diventare.

John Gatti

Rapallo, 28 Giugno 2018


OSKAR IL GATTO INAFFONDABILE

OSCAR

 

IL GATTO INAFFONDABILE

 

(The Unsinkable!)

 

PREMESSA: I naviganti ed i terrestri in generale hanno poche cose in comune. Ogni nave é un’isola che naviga in un mare che divide gli Stati e le civiltà per categorie, razze, religioni ecc…

In terra si parla molto e si fa tanta politica che divide ancora di più i terrestri. In mare l’ambiente é asettico perché il buon senso, quello ANTICO come il mondo, suggerisce una forma di convivenza più saggia: “risparmiare tutte le energie per i giorni tempestosi, perché l’unico obiettivo é quello di arrivare in porto.”

Di problemi in mare ce ne sono anche troppi: navi vecchie e stanche,

logorate da avarie e toppe su cui vigilare… Tutti evitano di creare ulteriori problemi, ogni tentativo in quel senso sarebbe una stupidità inutile. In terra, come tutti sappiamo, esistono tanti problemi, ma i più comuni sono quelli che le persone si creano nei vari tentativi, spesso falliti, di migliorare la propria esistenza.

Tuttavia, tra questi due mondi che si frequentano poco, c’é un punto di contatto: l’amore per gli animali!

I cani e i gatti la fanno da padroni… e molto spesso imbarcano e sbarcano ognuno con il proprio marinaio, dopo imbarchi lunghi ed impegnativi.

I marittimi di una certa età ricordano certi incontri ravvicinati in oceano con vecchie carrette tirate su dal fondo, dopo giorni e giorni di cielo e mare.

Per vedere l’altro da vicino, si accostava un po’ di gradi per sbracciarsi a salutare, sentire abbaiare un cane, cantare il gallo se era l’alba e, a volte, quando si era sottovento ad una nave ligure, si poteva annusare l’aroma del basilico coltivato nei vasi a bordo che arrivava con l’odore di casa, pieno di nostalgia. Quando poi si era al traverso ci si scambiava il rito del fischio: un brivido che ti rimaneva a lungo sulla pelle. Si prendeva il binocolo e spesso si vedeva il Comandante con un gatto tra le braccia, oppure un cagnolone che gli scodinzolava tra le gambe in segno di festa.

Spesso dalla coperta partiva un urlo:

“A peggio di noi !!!”

Come se qualcuno trovasse in quell’ululato gettato al vento un motivo di consolazione…

Certe emozioni si provano solo in mare, tra marittimi che neppure si conoscono ma che si sentono fratelli nella solitudine, nella vita, nel destino di quasi tutti i rivieraschi del mondo.

Questa premessa ci dà lo spunto per addentrarci in un nuovo capitolo

da aggiungere nella “Saggistica Navale” del nostro sito nel quale, chi scrive dedicò insieme all’amico Bruno Malatesta, un articolo intitolato: “CANI MARINAI” da amare.

Di GATTI NAVIGANTI che raggiunsero una certa fama ne ricordiamo due: CHIPPY, gatto soriano, che accompagnò Ernest Shackleton nella spedizione-Endurance (1914-1917) in Antartide. Fu soppresso quando l'Endurance, ormai intrappolata dalla banchisa, non era più in grado di navigare e l'equipaggio fu costretto a proseguire a piedi;

SIMON, gatto arruolato come tradizione antica, mantenuta dagli Inglesi, quale portafortuna e scacciatopi sulla Royal Navy. Fu apprezzato ancor più per vere imprese eroiche e per ferite di guerra nel 1947-1949, meritandosi ambite decorazioni.

Ai gatti vengono riconosciuti dei super poteri, come la capacità di prevedere il meteo e tante altre situazioni più o meno pericolose che vanno ad intrecciarsi con superstizioni e stregonerie che si perdono nella notte dei tempi.

LA STORIA DEL GATTO OSCAR

OSCAR é il meno celebre tra i personaggi a quattro zampe, almeno sulla terraferma, perché la sua fama non nacque dalla fantasia di uno scrittore, ma dalle atrocità di una guerra sui mari che durò dal 1939 al 1945.

Oscar, gatto a macchie bianche e nere, fu mascotte “militarizzato” e roditore ufficiale sulla Bismarck della Kriegsmarine nel 1941, e su alcune unità della Royal Navy come vedremo in seguito.

IL LIBRETTO DI NAVIGAZIONE DI OSCAR

Il gatto-marinaio apparteneva ad un ignoto marinaio in servizio sulla nave da battaglia BISMARCK durante il suo primo e unico viaggio nel maggio del 1941.

La BISMARCK fu affondata in mare aperto dopo una lunga caccia e un intenso cannoneggiamento a opera della marina britannica. Il 27 maggio sopravvissero all'affondamento solo 115 marinai su oltre 2.200 imbarcati.

Il gatto fu trovato ore dopo l'affondamento, era sopravvissuto artigliando un carabottino di bordo. Venne recuperato dall'equipaggio del cacciatorpediniere HMS COSSACK che lo adottò. Il gatto fu ribattezzato Oscar dall'equipaggio britannico.

Oscar rimase a bordo del COSSACK per alcuni mesi, durante i quali la nave fu impiegata come unità di scorta nel Mediterraneo e nel Nord Atlantico. Il 24 ottobre 1941 il COSSACK partì da Gibilterra per scortare un convoglio verso il Regno Unito e fu silurato dal sommergibile tedesco U-563.

Colpito da un siluro, subì danni gravi che ne compromisero la stabilità: la prua era stata danneggiata per circa un terzo della lunghezza della nave, causando 159 vittime su 190 d’equipaggio.

Il cacciatorpediniere HMS LEGION tentò di rimorchiare la nave danneggiata tuttavia, un peggioramento delle condizioni meteo fece fallire il tentativo. Dopodiché l'equipaggio, compreso il gatto Oscar, fu tratto in salvo dal LEGION mentre il COSSACK affondava il 27 ottobre al largo di Gibilterra.

Qualche mese dopo, dalla portaerei UK HMS ARK ROYAL partì la richiesta per avere un gatto, come arma anti-topi. Così Oscar, nel frattempo soprannominato Unsinkable Sam, (l’inaffondabile) prese servizio sulla portaerei.

Durante un viaggio di ritorno dal Mediterraneo centrale, dove aveva lanciato degli aerei di rinforzo verso Malta, il 14 novembre 1941 la HMS ARK ROYAL venne silurata dal sottomarino U-81. Ogni tentativo di traino del relitto fallì per via delle enormi falle da cui entrò il mare vivo. La nave si capovolse a trenta miglia dalla costa di Gibilterra.

L'affondamento fu abbastanza lento tanto da permettere il salvataggio di tutto l'equipaggio, con l'eccezione di un solo uomo.

Unsinkable Sam fu recuperato dall'acqua, aggrappato ad un reperto galleggiante proveniente da una lancia distrutta.

In seguito fu assegnato all’ HMS LIGHTNING che, a sua volta, venne affondato in combattimento nel 1943 senza che Oskar subisse alcun danno fisico e morale....

Il suo ultimo imbarco ebbe luogo sull’ HMS LEGION (che lo aveva già raccolto dopo il siluramento del HMS COSSACK), ma la nave fece naufragio nel 1944. Oscar, arrabbiato ma in perfetta salute, si salvò ancora una volta. Scampato cinque volte alla morte, il fortunato felino venne soprannominato “The Unsinkable Sam” (l’inaffondabile) e divenne popolarissimo tra i marinai inglesi.

IL PENSIONAMENTO DI OSCAR

Dopo l’ultimo naufragio, Oscar fu trasferito presso gli uffici del Governatore di Gibilterra e poi rimpatriato nel Regno Unito per essere affidato ad un marinaio di Belfast.

Prudentemente, (forse per salvargli la nomina di portasfiga…) l’Ammiragliato decise di tenerlo ben lontano dal mare e dopo un congedo onorevole, lo affidò - come riporta Detlef Bluhm nel libro ”Gatti di lungo corso” - in un istituto per marinai: House for Sailors di Belfast. Qui morì di morte naturale nel 1955.

Oscar è protagonista di un ritratto dal titolo: Oscar, il gatto della Bismarck eseguito dall'artista Georgina Shaw-Baker, di proprietà del National Maritime Museum di Greenwich.


Il ritratto di Georgina Shaw Baker è pregevole ma, a parere di qualcuno, non coglie in pieno il carattere coriaceo di Oscar e l’essere, dopo tanti naufragi, INCAZZATO NERO…

APPENDICE

LE NAVI DI OSCAR

LA BISMARCK

La BISMARCK fu una nave da battaglia tedesca della Seconda guerra mondiale, così battezzata in onore del cancelliere del XIX secolo Otto von Bismarck (1815-1898). È famosa per l'affondamento dell’incrociatore da battaglia HOOD e per la caccia successiva che le venne data che portò alla sua distruzione. Eponima della classe Bismarck, l'unica altra unità della stessa classe fu la TIRPITZ.


La nave da battaglia tedesca BISMARCK in navigazione

Cacciatorpediniere UK - HMS COSSACK


Cacciatorpediniere UK - HMS LEGION


Cacciatorpediniere UK - HMS LIGHTNING


La portaerei inglese HMS ARK ROYAL poco prima dell’affondamento

Carlo GATTI

Rapallo, 28 Marzo 2018

 

 


QUANDO UN MARITTIMO DIVENTA TERRESTRE

QUANDO UN MARITTIMO DIVENTA TERRESTRE

Si nasce con una “dotazione di base” fornita dalla natura, arricchita dai genitori e completata da un “ingrediente sconosciuto” che ci rende unici.

Quando veniamo al mondo siamo come un grosso libro ancora da scrivere: il nostro nome stampato sulla copertina, ma con le pagine al suo interno quasi completamente bianche.

In questo testo non verrà narrata la nostra storia, ma il modo in cui vivremo la nostra vita, che dipenderà da come verremo “programmati“.

Da quando si nasce, e per tutta la vita, si ricevono input dall’esterno: suoni, immagini, pensieri, odori, procedure, verità, bugie… qualsiasi cosa è un dato da elaborare e da gestire.

Una quantità immensa di segnali; ma come si difende il cervello dal sovraccarico di informazioni? Nella sua incredibile efficienza, crea dei “programmi” che  attivano degli “automatismi.

Guidare la macchina è un esempio efficace: volante, cambio, frizione, acceleratore, freno… operazioni in successione che vanno eseguite con un certo tempismo. Quando si impara a guidare è necessario ragionare su quanto si sta facendo, sulla giusta sequenza nei giusti tempi. La ripetizione dei gesti arriva a creare un programma nel cervello che permette di agire in automatico, senza pensare e senza più mettere in discussione quello che si deve fare.

Ogni volta che dobbiamo ricordare qualcosa che impariamo, si viene a creare un circuito elettrico tra diversi neuroni chiamato sinapsi“. In questo modo le informazioni che noi archiviamo possono interagire per dare forma a pensieri e conoscenze più profondi. Una volta creata, questa sinapsi non viene più messa in discussione (il fuoco brucia=non bisogna toccarlo, abbassare la maniglia=aprire la porta, allacciarsi le scarpe, scrivere, leggere, ecc.).

Acquisita una certa competenza, la stessa viene gestita da quella parte del cervello che si occupa dei processi automatici che non hanno più bisogno di essere verificati.

Quando il libro è vuoto i processi di programmazione sono semplici e lineari, ma cosa succede se, a distanza di anni, gli automatismi creati non sono più attuali? Quando ci si trova a dover adattare concetti nuovi a idee vecchie? Quando la natura porta a non mettere in discussione le “certezze” già archiviate?

Non è facile riprogrammare un circuito cerebrale, sovrascrivere una sinapsi, cambiare radicalmente idea su qualcosa…

In pratica, con il tempo, si rischia di prendere decisioni sulla base di programmi non più  corretti o non aggiornati, ma che, comunque, non vengono messi in discussione. Programmi che, fuori dal nostro controllo, influenzano i nostri pensieri.

Cosa centra tutto questo con “un marittimo che diventa terrestre”?

Quanto scritto sopra può essere la base per molti argomenti.

L’apertura mentale, la capacità di mettersi in discussione, la predisposizione a cambiare le abitudini affinché gli automatismi non diventino dei limiti. Rendersi conto che nulla è per sempre: cambiano i presupposti, le circostanze, i soggetti, le cose giuste e quelle sbagliate, le cose possibili e quelle impossibili, e pertanto possono e devono cambiare le idee e le prese di posizione.

La differenza tra marittimi e terrestri è simile a quella tra pesci di mare e pesci d’acqua dolce: creature che si sono adattate ad ambienti profondamente diversi tra loro; paragonarli, giudicarli o anche semplicemente parlarne, è tutt’altro che semplice, perché troppi sono gli ingredienti che vanno a modificare la realtà di ognuno.

Per i marittimi, bisogna considerare dove hanno vissuto e lavorato, perché la vita a bordo di una nave passeggeri è molto diversa da quella su di una petroliera, su di un rimorchiatore o su di un traghetto, e così le esperienze che si maturano nel tempo. La nazionalità dell’equipaggio, le rotte che si seguono, i porti che si toccano, il grado che si ricopre, la lunghezza dei contratti, ecc., tutto concorre a rendere difficile la catalogazione del marittimo “tipo”.

Il terrestre può essere un dipendente oppure un imprenditore, lavorare in una grande azienda oppure in proprio, fare il pendolare o lavorare in casa, e così via per un’infinità di variabili.

Uomini di mare

Approfondiamo ora, generalizzando, la conoscenza di alcune verità che vanno a influenzare quasi sicuramente le tracce delle sinapsi dei marittimi:

- la considerazione della “gerarchia” a bordo di una nave non è percepita allo stesso modo in una struttura terrestre. L’estremizzazione del concetto “dopo Dio ci sono io“, riferito al Comandante di una nave, vede la sua giustificazione proprio nella necessità di garantire un certo “ordine” che, in mezzo al mare, equivale a “sicurezza”. L’adattabilità dell’uomo è innegabile ed è dimostrata una volta di più in questo contesto: mesi e mesi lontani dalle abitudini, dai propri interessi, dagli amici, dai propri cari, costretti a dividere uno spazio ristretto e la compagnia di persone che non si conoscono, riunite assolutamente a caso e, spesso, di nazionalità – religione – età – cultura completamente diverse.  No donne. No vita sociale. No cinema. No birra con gli amici. No “ora stacco due giorni e mi rilasso“. Si potrebbe mai gestire una situazione tanto estrema senza una gerarchia ben precisa? Io sono convinto di no. Ma per capirlo e, soprattutto, per accettarlo, si deve entrare in quel mondo in punta di piedi, come ultima ruota del carro, occorre costruire lentamente delle sinapsi robuste e profonde, si deve capire e accettare. L’alternativa è saltare giù dalla giostra al primo porto, che è poi quello che succede a molte persone al primo imbarco.

- Il rapporto tra coloro che vivono in pochi metri quadrati 24 ore su 24 non può essere lo stesso che si viene a creare tra persone che si frequentano per sole 8 ore al giorno. L’importante concetto: “scegli saggiamente gli individui con cui arricchire la tua vita“, non ha possibilità di applicazione, e questo porta a “spaccati di esistenza”. Mi spiego meglio. A terra la vita gira a un ritmo più o meno costante, scandito dagli impegni lavorativi e da quelli famigliari. Le persone che l’arricchiscono (o la impoveriscono) sono sempre le stesse o cambiano lentamente nel tempo. Mi viene da pensare che la vita a terra scorre puntellata da equilibri che possiamo individuare nelle costanti e nelle certezze. Quella del marittimo si sviluppa, quanto meno, in due dimensioni: una nel contesto famigliare, dove spesso fatica a reinserirsi al termine di un imbarco e da cui poi fatica a staccarsi quando arriva il momento di ripartire; l’altra la ritrova a bordo (per circa otto mesi all’anno) dove l’ambiente cambia ogni volta e le costanti le àncora alla passione per il lavoro, alla solitudine, alla malinconia e all’egoismo in cui si rifugia per dare un senso a una routine che è umanamente difficile da accettare. Le parole “spaccati di esistenza”, quindi, intendono evidenziare come ogni periodo d’imbarco, caratterizzato da ingredienti sempre nuovi in un contesto sempre uguale, diventi un pezzo di vita a sé stante condiviso intensamente con persone che forse non si rivedranno più: ogni imbarco un ricordo circoscritto, un pezzo di vita che ha vita propria, quasi scollegata da quella vincolata tra la nascita e la morte.

Marittimo, così come per molti altri mestieri, lo si può diventare solo fino a una certa età. Età in cui le sinapsi non avranno ancora imposto i loro limiti.

Se si sarà già provato a lavorare a terra, se si sarà già conosciuta la possibilità di un rifugio cerebrale dai problemi quotidiani offerto da vite parallele (famiglia, amici, hobby, lavoro, ecc.), se si saranno già apprezzati i diritti e i vantaggi di una “gerarchia controllata, se la gelosia, la nostalgia, e mille altri validi motivi avranno già consolidato profonde sinapsi nel cervello, difficilmente si deciderà di accettare una vita in mezzo al mare, poco conosciuta, ancor meno considerata e, spesso, dimenticata (vedi elezioni politiche, diritti e protezione sociale, ministeri dedicati, garanzia di lavoro, titoli non riconosciuti, ecc.).

Quando i pensieri tendono a prendere questa direzione, mi viene in mente il titolo di un libro: “I vivi, i morti e i naviganti”. Parole che trasmettono l’idea di qualcosa che galleggia  immerso nella nebbia.

Viviamo in uno stivale che per 8000 chilometri è a contatto con il mare, eppure esiste ancora una netta separazione sociale tra chi lavora in un elemento e chi nell’altro.

Per pareggiare i conti della vita dei marittimi, lo Stato italiano deve fare ancora parecchia strada, dando magari un’occhiata a come viene trattato chi naviga sotto altre bandiere.

Ma, nonostante tutto, la nave è anche un rifugio.

Ho detto che la gerarchia è molto sentita, aggiungo che i ruoli, i doveri e i diritti sono ben definiti. I problemi sono quasi quotidiani, spesso indipendenti dalla volontà di qualcuno e il più delle volte legati agli elementi atmosferici, alle avarie, ai cambi di programma. Insomma, spesso si tratta di problemi pratici, risolvibili con la preparazione, la buona volontà e il rispetto delle competenze.

Il marittimo che diventa terrestre s’immerge in una burocrazia personale più profonda: scopre le scadenze, le bollette, le multe, e si accorge della differenza psicologica che passa tra la gestione della “cartaccia lavorativa” – dove si ha un tempo dedicato e previsto a cui ci si abitua – e quella in cui, non avendo più disponibili mesi liberi consecutivi, si rende necessaria una buona organizzazione del tempo. Realizza che non c’è più una seconda dimensione, che è svanita la possibilità di spostarsi in mare o a terra a seconda della convenienza.

Il gioco si fa più sottile, soprattutto se, prima di lasciare il mare, ha navigato per diversi anni.

I terrestri non sono pratici e semplici come i marittimi, per loro i problemi hanno molte facce e qualsiasi questione, a seconda di come viene guardata, ha più colori dell’arcobaleno. Il bianco e il nero, a cui era abituato chi navigava, hanno mutato di significato ampliando all’infinito le sfumature.

Tutto si complica. I rapporti con le persone, per esempio, diventano un mistero. A bordo, non cambiando l’ambiente e il contesto, in poco tempo i caratteri escono per quello che sono – non si può fingere – e di solito si raggiunge un equilibrio in tempi piuttosto brevi.

A terra l’umore e la personalità cambiano più volte al giorno, a seconda che ci si trovi in famiglia, al lavoro, tra amici: muta l’ambiente, il contesto, il ruolo e il modo di porsi, a volte, per cambiare, basta anche solo indossare o togliere la cravatta…

Ma stravolgere le abitudini è spesso una cosa positiva. Si deve uscire dalla zona di “comfort”, quella dove tutto è famigliare, rimettere in discussione gli automatismi creati nel cervello fino a quel momento, costruire nuove sinapsi e adattarsi al cambiamento.

Lo possono fare tutti?

Non credo. Ci vuole una certa predisposizione, la fortuna di capitare nell’ambiente giusto, una forte motivazione e l’elasticità necessaria a mettere in discussione le certezze create fino a quel momento.

Il marittimo che diventa terrestre è, in definitiva, il classico pesce fuor d’acqua e la velocità/possibilità di adattamento dipenderà, in buona misura, dal suo carattere e dalla famigliarità che sarà riuscito a conservare con l’ambiente solido.

Avrà comunque un modo di vedere le cose differente, che a volte sarà un pregio e altre un limite, ma che sicuramente aiuterà a riflettere.

Quando sei su una nave tra cielo e acqua sai a cosa devi stare attento: il mare non è amico di nessuno; a terra anche questo non è mai così chiaro.

 

JOHN GATTI

Rapallo, 5 Marzo 2018

 


HEDY LAMARR, ATTRICE E GENIO DELLE TELECOMUNICAZIONI

UN PO’ DI STORIA DEL CINEMA CHE POCHI SANNO

L’AFFASCINANTE STORIA DI

HEDY LAMARR

UN GENIO NELLA TELECOMUNICAZIONE

 

di Ernani Andreatta originale di Peter Dally di Sidney

Traduzione di Carlo Gatti ed Ernani Andreatta

Nel 1933, una bella, giovanissima austriaca si spogliò per un regista. Corse nei boschi, nuda. Nuotò in un lago, nuda. Andando ben oltre i costumi sociali dell’epoca.

Il più popolare film del 1933 fu King Kong. Ma tutti a Hollywood parlavano di quel film scandaloso con la giovane e vistosa signora austriaca.

Louis B. Mayer, dell’immenso studio MGN, affermò che essa era la donna più bella del mondo. Il film fu pubblicizzato praticamente dovunque, dove naturalmente poteva diventare popolare e apprezzato. Mussolini, secondo quel che si dice, rifiutò di vendere la sua copia per qualsiasi cifra…

La STAR del film, chiamata Ecstasy, era Hedwig Kiesler. Essa disse che il segreto della sua bellezza era: "Qualsiasi ragazza può apparire meravigliosa. Basta che stia ferma e sembri stupida".

In realtà, Kiesler era tutt’altro che stupida, anzi era un genio. Era figlia unica di un famoso banchiere ebreo ed era un genio matematico che eccelleva nelle scienze. Quando fu adulta diventò inossidabile usando tutto il potere che le potevano dare il suo corpo e la sua mente.

Tra i ruoli sexy da lei interpretati, recitò con la sua esuberante bellezza e la forza del suo intelletto, Kiesler avrebbe mandato in rovina gli uomini della sua vita inclusi due dei più inossidabili dittatori della  20th century, nonché uno dei maggiori produttori cinematografici della storia.

La sua bellezza la fece ricca per un po’ di tempo. Di lei si disse che guadagnò e spese 30 milioni di dollari.

Ma il suo vero talento risultò provenire dal suo intelletto e la sua invenzione continua a “disegnare” il mondo in cui oggi viviamo.

Vedi, questa giovane attricetta avrebbe preso da sotto il naso di Hitler, uno dei più preziosi diritti tecnologici mai sviluppati fino ad allora.

Dopo essere volata in America, non solo diventò la più famosa attrice di Hollywood, ma il suo nome comparve su uno dei più importanti Brevetti mai rilasciati dall’U.S. Patent Office.

Oggigiorno, quando usi il tuo cellulare, o quando sperimenterai nei prossimi cinque anni, in base alla tua esperienza di “super-fast wireless Internet access (tramite qualcosa che si chiama “long term evolution” oppure “LTE” technology), ebbene, sarà usata una estensione tecnologica concepita per la prima volta da una attrice di 20 anni mentre era a pranzo con Hitler.

In quel momento essa recitava Ecstasy, la Kiesler era sposata con uno dei più ricchi personaggi in Austria. Friedrich Mandl era un magnate dell’industria bellica che sarebbe diventato la chiave di volta dei rifornimenti bellici del nazismo.

Mandl usò la bellezza della sua giovane moglie da mostrare come pezzo forte in un importante pranzo d’affari con rappresentanti austriaci, italiani e forze fasciste tedesche. Uno dei temi principali in queste riunioni che includevano cene con Hitler e Mussolini, fu la tecnologia che riguardava il controllo radio dei missili e dei siluri.

Le armi telecomandate assicuravano un maggior raggio d’azione rispetto agli altri sistemi usati a quell’epoca.

La Kiesler partecipava a questi pranzi sembrando stupida mentre al contrario “assorbiva” tutto ciò che sentiva.


Essendo ebrea, Kiesler odiava i nazisti e detestava gli ambiziosi affari del marito. Mandl rispose alla sua capricciosa moglie imprigionandola nel suo castello, Schloss Schwarzenau.


Nel 1937 essa tentò la fuga. Drogò la sua domestica, le rubò i vestiti e sgusciò via dal castello, poi vendette i suoi gioielli per finanziarsi il viaggio verso Londra.

Fece giusto in tempo a scappare. Nel 1938, la Germania annesse l’Austria. I nazisti confiscarono la fabbrica di Mandl che era mezzo ebreo. Mandl volò in Brasile. Più tardi divenne il consigliere del presidente Juan Peron, icona del populismo.

A Londra, la Kiesler combinò un incontro con Louis B.Mayer con il quale firmò un contratto a lungo termine diventando una delle più famose STAR della MGM. Apparve in oltre 20 films diventando co-star di Clark Gable, Judy Garland e persino Bob Hope. In ciascuno dei suoi primi sette film fu considerata una bomba ad alto potenziale...per la risonanza riscontrata.

Ma la Kiesler, per combattere i nazisti, guardò più lontano e non soltanto interpretando film erotici. Raggiunto il massimo della sua fama, nel 1942 sviluppò un nuovo sistema di telecomunicazioni ottimizzando l’invio di messaggi in codice che non potevano essere decifrati. Mise in pratica un sistema-guida di siluri e bombe che erano in grado di raggiungere i loro obiettivi. Fu in grado di costruire un sistema per uccidere i nazisti.

Dagli anni 1940, sia i nazisti che gli alleati stavano usando una specie di singola frequenza per il controllo-radio che l’ex marito della Kiesler

aveva prodotto e venduto. Il ritiro di questa tecnologia permise al nemico di trovare la frequenza giusta per intercettare il segnale di guida del missile con interferenze adeguate.

La chiave innovativa di Kiesler consistette nel “cambiare canale”. Questo fu il modo di codificare un messaggio attraverso una banda larga nello spettro delle trasmissioni radio. Se una parte dello spettro subiva interferenze, il messaggio riusciva a passare comunque attraverso le altre frequenze usate nello stesso canale.

Ma c’era un problema: la Kiesler non riusciva a capire come poter sincronizzare il cambio di frequenze su entrambi il ricevitore e il trasmettitore. Per risolvere il problema si rivolse al primo tecno-musicista al mondo: George Anthiel.

Anthiel era un conoscente della Kiesler che acquisì una certa notorietà per la creazione di complesse composizioni. Egli sincronizzava le sue melodie attraverso 12 pianisti producendo suoni stereofonici che nessuno aveva mai ascoltato prima. La Kiesler assimilò la tecnologia per sincronizzare il suo. Poi fu in grado di sincronizzare i cambi di frequenza tra il ricevitore dell’arma ed il suo trasmettitore.

L’11 agosto 1942 fu assegnata la PATENT N° 2,292,387 ad “Anthiel e a Hedy Kiesler Markey”, che era il cognome del marito di quel momento.

La maggior parte di voi non riconoscerebbe il nome Kiesler. E nessuno ricorderebbe il nome Hedy Markey. Ma é una facile scommessa, per chiunque di una certa età che legge questa lettera, ricordare una delle più grandi bellezze dell’epoca d’oro di Hollywood, Hedy Lamarr. Il nome che il regista Louis B. Mayer diede alla sua preziosa attrice. Quel nome che la Compagnia cinematografica rese famoso.


Mentre quasi nessuno conosce Hedwig Kiesler,  Hedy Lamarr,  fu una delle pioniere delle radiotelecomunicazioni. La sua tecnologia fu sviluppata dalla Marina degli USA che la usa fin d’allora.

In questo momento tutti noi stiamo probabilmente usando la Tecnologia Lamarr. Il suo Brevetto é situato presso la “Spread Spectrum Technology”, che usiamo ogni giorno quando ci colleghiamo  alla rete wi-fi o facciamo  delle chiamate con il cellulare abilitato Bluetooth.

Hedy Lamarr è nel cuore di tutti i massicci investimenti nella cosidetta quarta generazione “LTE” (Long Term Evolution) cioè l’evoluzione a lungo termine di queste tecnologie della comunicazione senza fili. La prossima generazione di telefoni cellulari  o di ripetitori di cellulari, sicuramente genereranno un enorme ed esponenziale aumento sulla qualità e velocità delle reti di  trasmissione diffondendo i segnali senza fili attraverso l’intero spettro disponibile. Questa specie di “decodifica” è possibile soltanto usando quel tipo di commutazione di frequenza che “Hedwig Kiesler”, al secolo la bellissima  “Hedy Lamarr”  inventò.

Ed ora sappiamo il resto della storia!

Memory di Ernani Andreatta:

Ed io personalmente ricordo benissimo questa bellissima e affascinante attrice che era HEDY LAMARR nei film proiettati al Teatro Cantero di Chiavari.

 

 

Rapallo, 12 luglio 2018

 


I POSTINI DEL MARE

I POSTINI DEL MARE

Il biglietto da visita “ecumenico” dei frati cattolici del monastero delle Isole Shetland è, paradossalmente, rappresentato da una rustica targa di legno che riporta una frase pronunciata da un famoso tedesco luterano, ed è in bella vista per chi approda alla darsena dello scoglio.

“L’Europa è nata in pellegrinaggio e la sua lingua materna è il Cristianesimo” J.W.Goethe

I Frati e la Posta

Le malelingue esistono dalla notte dei tempi, ma stranamente ristagnano sulla terraferma e mai sul mare, dove la solidarietà è più praticata che promessa. I naviganti adorano quei dodici frati che gli indicano sempre la via di casa; ma tanto affetto risale anche ad una vecchia pratica che si perde nei ricordi più remoti dei marinai della vela e che ora vi raccontiamo.

Se il tempo è sereno, il veliero in arrivo dall’America avvista la scopa luminosa del faro a moltissime miglia di distanza e s’avvicina bordeggiando a cuor leggero verso quella magica luce bianca. Nell’attesa dell’alba, temporeggia navigando a spirale per capire il giro del vento e della corrente intorno al Monastero, evitando con maestria d’incagliare sulle sue secche. Infine ammaina la lancia che, cautamente, dirige verso la piccola darsena. Da questo momento, a bordo, iniziano a battere le campane e se il vento allontana i rintocchi, sparano qualche colpo di falconetto (cannoncino di piccolo calibro) per attirare l’attenzione. I frati rispondono con i gravi rintocchi delle grosse campane che spuntano da ciascun lato del campanile, poco al disotto della lanterna. Suonano a festa in segno di saluto. I marinai s’arrampicano sulle sartie cantando inni di gioia e rimangono a lungo con le gambe divaricate sui marciapiedi dei pennoni, aggrappati alle vele gonfie di vento. In questa cornice di pura poesia, comincia il rito della posta. Quando il montacarichi scende dalla rupe, s’avvicina il momento più atteso dall’equipaggio del veliero e l’ansia si trasforma in autentica felicità. I frati consegnano le lettere al capo-barca e ritirano la posta dei marinai da spedire alle famiglie.

Ma La scialuppa non viaggia mai vuota verso il faro...

Gli equipaggi dei velieri che solcano abitualmente queste latitudini difficili, sono molto generosi e considerano quei frati come gli avamposti delle loro famiglie che sperano di vedere al più presto.

Dei religiosi conoscono nomi, abitudini, gusti, punti deboli e ben sanno quanto un po’ di tabacco, una torta fresca ed una bottiglia di Rhum, siano graditi al Convento, che non lesina benedizioni, preghiere e qualche canto gregoriano che, si sa, sono un po’ difficili da imparare...

Il servizio che i Carmelitani prestano come faristi, non è retribuito con denaro, ma il Comune da cui dipendono, invia loro, settimanalmente, l’occorrente per sopravvivere e curarsi, e con lo stesso cutter che li collega alla terraferma, l’Ufficio Postale spedisce al Frate Guardiano la posta destinata agli equipaggi dei velieri. Persino i grandi e piccoli armatori approfittano della loro disponibilità per consegnare le istruzioni del viaggio ai loro comandanti: porti di destinazione, noli, tipi di carico, cambio equipaggio, rifornimenti ecc…


Navigare necesse est... ma a volte ne vale la pena!

Per chi proviene dal largo, il faro-Monastero appare come una nave vista di prora, che al posto del Jack(l’asta della bandiera sulla prua) mostra il faro che, a sua volta, sembra un minareto ai mussulmani ed un campanile ai cristiani; insomma, è un esempio architettonico di sincretismo religioso, una costruzione sui generis, che offre un misto di sacro e profano, che non è arte pura, ma è sicuramente funzionale, e per chi giunge ai suoi piedi all’alba oppure al tramonto, ricorda un rosso palcoscenico dove si esibisce un Illustre Mago disceso dall’alto e venuto da lontano.

Carlo GATTI

 

IL SERVIZIO POSTALE (dei volontari) NELLO STRETTO DI MESSINA

 

Il nostro amico Comandante Nunzio Catena ha dei ricordi vivissimi di quando transitava lo Stretto di Messina ed entrava in contatto con

I POSTINI DEL MARE

Di recente Nunzio ha scoperto un bellissimo articolo apparso su:

FAMIGLIA CRISTIANA

firmato da Franca Zambonini che vi segnalo.

A cura di Carlo Gatti e Nunzio Catena

Rapallo,  5 Marzo 2018

 

 


ATTENTI A QUEI DUE...!

ATTENTI A QUEI DUE.....!

Il motto era: " Sempre amici anche in tempo di guerra..."

Era il 1958, frequentavamo il IV Nautico Macchinisti. Un pomeriggio, in occasione di un ricevimento delle famiglie, si sono incontrati mio padre e la madre di Terrenzio. A quel tempo, si rientrava quasi tutti i giorni a scuola di pomeriggio e quindi per mangiare, a pranzo, si andava avanti a forza di panini, sempre se non li avevi finiti prima… Parlando di questo disagio, i due genitori pensarono di farci mangiare almeno due volte la settimana al Ristorante: l'unico di Ortona, sito a metà della via principale, il Corso, di ottima qualità.

Ortona - Il corso

Approfittarono così per parlare subito con il proprietario. Queste erano le condizioni: il pranzo normale costava 600 Lire, una cifra importante all’epoca, ma siccome noi non avremmo preso vino e caffè e siccome si trattava di un abbonamento, si pattuì per 500Lire a Pranzo. I clienti erano pochi: un commesso di stoffe che periodicamente si fermava ad Ortona e un nostro Insegnante, ex Uff.le di Marina, single, proprietario di una fornace ai Saraceni. Questo per inquadrare la quasi esclusività del locale. In precedenza, andavamo qualche volta dai genitori di un nostro compagno di classe, Mariani, i quali gestivano una cantina e, quando cucinavano qualche piatto per loro che a noi andava bene, ci univamo alla famiglia. Ricordo, per esempio, dell'ottima pasta e piselli. Trionfavano gli odori di vino e tabacco. Tutto era avvolto in fitta una penombra dovuta alle volte del locale che erano 'a cielo di carrozza'. Per intenderci, si mangiava con sole 120 Lire.

Da destra: Nunzio, Terrenzio, e "Porcellino"

Le prime settimane andammo regolarmente al ristorante e molte persone restavano stupite di questo trattamento che avevamo.., eravamo considerati  miliardari!   Ma in uno di quei giorni in cui quando suonava la sirena ed eravamo già un po’ lontani c'era il rito di posare la borsa per terra e, con tutta calma, fare il gesto 'dell'ombrello', arrivavamo sotto il faro  alla testata del porto, dove a volte ragionavamo sui 'massimi sistemi', ci chiedemmo se era il caso di continuare a spendere tutti quei soldi 'inutilmente'. In effetti avevamo anche altre spese vive giornaliere come le sigarette, qualche  rivista il giovedì, e altro tenuto conto che la legge Merlin non era ancora in vigore. Si convenne allora di rallentare la frequenza al ristorante per disporre di moneta 'frusciante'.

Solo che un giorno, mio padre, mentre andava alla Banca sita nei pressi del ristorante, vide la proprietaria sulla porta e si fermò. Dopo averla salutata, chiese dei ragazzi e del loro comportamento. La Signora rispose la verità: "veramente in questo ultimo periodo li stiamo vedendo poco, forse non sono contenti del trattamento!" al che mio padre rispose: "Signora, mi faccia la gentilezza, lei prenda un quadernino, quando viene mio figlio a pranzo, gli faccia apporre la propria firma e poi quando passo io, regoleremo il conto, se vuole, le anticipo i soldi."  “Va benissimo! Ossequi.”

Quando tornai la sera a casa, mio padre al solito, non disse nulla, solo: "Quando vai al ristorante, non serve dare i soldi. Metti solo una firma sul quaderno che ti porge la Signora.” Cazzo, ci aveva fregato! E la faccia di mio padre non mi piaceva affatto…

Ore 7.00 del mattino successivo. Monto sull'Auto Forlini, posto riservato da Terrenzio: rimorchio, sedili davanti, carte già mischiate, le mie tre già pronte, allegria di sempre… Arrivo, guardo il mio amico con una faccia veramente diversa e lui: "ca success frà??"

E io: "che t'a vist Sciannapupa?", soprannome affibbiato a un professore perché il poveretto quando   camminava ondeggiando a destra e sinistra sembrava uno che culla un bambino.

"No pecchè oggi avem da parlà!" il prof. Nominato viaggiava con lo stesso nostro auto e quel giorno, martedì, avevamo compito in classe!!! Quel giorno non si giocò a carte.


Veduta aerea del porto di Ortona

Arrivati a Ortona, prendemmo la solita via del porto, ma in un angosciante silenzio. Arrivammo sotto il faro, accesa la sigaretta, si inizia con la relazione del fatto e la discussione sui provvedimenti da prendere. Alla fine si decide di parlare con la Signora in questi termini: "Causa cambiate condizioni economiche del mio amico figlio di commercianti, e lei può ben capire i manrovesci della fortuna, verremo a mangiare in due. Io metterò la firma e lei ci darà due primi. Poi lei vedrà se è possibile un solo secondo ed eventualmente la somma da integrare volta per volta. Se le va bene è così, altrimenti io non verrò più perché non posso lasciare un amico fraterno con un panino mentre io me la scialo al ristorante!!!”

All'ora di pranzo, ci presentiamo al ristorante ed esponiamo il problema alla Signora, la quale solo a vedere la faccia di circostanza di Terrenzio, disse: "Ma si, non vi preoccupate, va bene così.., purtroppo il commercio è così.." Neanche a farlo apposta il Ristorante si chiamava per l’appunto  "Il Commercio"...

Nunzio a sinistra e Terrenzio con la gambetta ...

Era fatta! Avevamo contante sufficiente per tutto. Potevamo fare anche qualche opera di bene a qualche amico e abbiamo potuto constatare che non sempre a fare del bene se ne riceve altrettanto.

Il giovedì pomeriggio, spesso durante le ore di officina, con la complicità del buon 'Bob', dopo l'appello, uscivamo dalla finestra per andare a vedere la Rivista. Portavamo con noi, spesso, Vittorio Bisignani, con il quale conservo tutt’oggi un contratto stipulato su carta igienica, in cui si impegnava a portare i libri tutti i giorni per lire 50 al mese. Quando eravamo davanti al cinema, noi gli dicevamo: "Dai Vittò, n'nte preoccupà: ce stà la polvere!" e lui era un po’ restio dicendo: "ma mo' pecchè avet da paà vu!"... "E dai!” lo prendevamo per un braccio e lo portavamo dentro!"


Avevamo dimenticato che proprio dirimpetto a noi, a 20 mt. di distanza, da dietro la tendina, DON ANTONIO ci osservava. Era il nostro Insegnante di Religione, il quale abitava lì e credeva che Vittorio non volesse cadere in tentazione. Quindi risultava che noi lo inducessimo al peccato. Così, quando entrava in aula, con i suoi giri di parole ci faceva sempre capire che eravamo dei degenerati…

E poi vai a fidarti di fare del bene!!!

Nunzio CATENA

Rapallo, 8 Febbraio 2018



ASEPOTESSI - Favola

ASEPOTESSI

Questa è la storia vera di un bambino scontento.

Guardava la TV e pensava: “Ah, se potessi andare in bicicletta!”.

Se un amico gli prestava la bicicletta smetteva di pedalare dopo tre minuti e sospirava: “Ah, se potessi giocare a calcio!” E così via.

I giorni passavano monotoni e grigi tra un sospiro e un’esclamazione: “Ah, se potessi…”

Parenti ed amici lo soprannominarono Asepotessi e questo rimase il suo nome.

Un giorno Asepotessi era a scuola alle prese con un problema che non gli veniva ed esclamò, come al solito: “Ah, se potessi essere sulla spiaggia, invece di star qui a faticare!”

Lo sentì una fatina, di solito occupata in casi più seri, e decise di accontentarlo o, se non ci fosse riuscita, di raddrizzarlo, per non essere più disturbata dai suoi sospiri.


Detto fatto Asepotessi si ritrovò disteso su una sabbia dorata e luccicante come solo le fate possono trovare ormai. Passarono pochi minuti e già sospirava: “Ah, se potessi fare il bagno e rinfrescarmi, ma non so nuotare.”

La fatina esaudì il suo desiderio e Asepotessi fu immerso in un mare limpidissimo, e sapeva galleggiare!

L’euforia di saper nuotare durò poco, presto sostituita dalla fatica. “Ah, se potessi riposarmi su una barchetta, allora sì che sarebbe bello.”

Ciaf, ciaf una barchetta apparve per incanto. Asepotessi vi si issò e si lasciò trasportare per le invisibili strade delle correnti.

Dopo un po’ incominciò a soffrire il mal di mare. “Ah, se potessi…”

La fatina non gli lasciò neanche terminare la frase. Ormai aveva deciso di aiutarlo e con le buone o con le cattive voleva farlo maturare.


Asepotessi si ritrovò così in costume da bagno e scalzo in un fitto bosco di castagni tappezzato di ricci.

Per la prima volta in vita sua doveva pensare alla sopravvivenza, a ripararsi dal freddo, a trovarsi un rifugio. Alla meglio si confezionò sandali di corteccia e una tunica di foglie. Quanto alla fame si accontentò degli avanzi di un pic-nic.

Incominciava ad imbrunire ed il silenzio del bosco si animava di mille rumori: fruscii, gridi, battiti, tonfi. Era giunto il momento della paura.

Il nostro povero amico era così occupato a cercarsi un rifugio, che neanche una volta gli sfuggì la solita frase: “Ah, se potessi!”

Si arrampicò su un albero facile facile, si abbandonò tra i rami divaricati ed, esausto, si addormentò.

Sognò di essere a scuola, di saper risolvere il problema e di passarlo a qualche compagno vicino. Si sentiva felice di scrivere, di faticare, di vivere. E nel sogno sorrise.


La fatina decise che la prova era stata superata e Asepotessi poteva tornare alla vita normale. Ormai era cambiato.

Lo sollevò e lo portò a scuola, dove tutti erano così impegnati che non si erano accorti della sua assenza.

Asepotessi ricordava tutto, ma non era sicuro di aver vissuto quell’esperienza magica e si convinse di averla solo immaginata.

Aveva però fastidio ad un piede. Che fossero spine conficcate? Riccio di mare o di bosco? Sorrise al ricordo e vi assicuro che da quel giorno Asepotessi non fu più né noioso, né annoiato.

 

ADA BOTTINI

Rapallo, 17 Dicembre 2017

 

 


LA FAVOLA DI ANDREA LIMONE

LA FAVOLA DI ANDREA LIMONE

Questa è la storia vera

del bambino Andrea

prima della cura

che fece sulla scura

sabbia di Framura


Tutti dicevano che Andrea era livido e acido come un limone.

I più benevoli gli dicevano: “Dai, ridi un po’, la vita è bella.” E lui se era in vena, tirava le labbra con un sorriso, che pareva una smorfia e lo faceva sembrare ancora più triste. Altri lo prendevano in giro e non lo chiamavano più con il suo nome, l’avevano soprannominato “Limone” e lo lasciavano in disparte.

A vederlo con il suo colorito pallido e olivastro, le occhiaie sotto gli occhi scuri e spenti, le labbra livide sembrava davvero che nel suo corpo circolasse spremuta di limone invece che sangue.

Un giorno, mentre se ne stava seduto su un muretto davanti al mare, le gambe penzoloni che, battevano ritmicamente contro il muro, arrivò sulla spiaggia una bambina un poco più grande di lui.


Non l’aveva mai vista a Framura, però gli piaceva. Decise allora, seguendo le sue tendenze negative, di essere particolarmente antipatico con lei. Lei alzò la testa, lo vide e subito sorridendo, gli chiese “Ciao, come ti chiami?”

“Che te ne importa?”

Lei non ci fece caso e imperterrita continuò: ”Io sono Luisella, e tu?”

“Io Limone, ti va bene così ‘?

“Che strano nome. E’ uno scherzo” fece lei ridendo.

“Non è uno scherzo. Mi chiamano Limone, perché io sono un limone, faccio bruciare gli occhi e la lingua e, se non mi lasci in pace, ti tiro anche una pietra.”

Come se non lo avesse sentito lei piegò la testa da un lato e disse: “Sai, ti devo fare una confidenza, a me i limoni piacciono moltissimo, li mangerei mattino, mezzogiorno e sera. Stai attento: se sei un vero limone, a merenda ti mangio.” Concluse ridendo.

“Ah, ah la spiritosa, non mi fai ridere neanche se mi faccio il solletico.” Rispose lui sbuffando.

Scese dal muretto e se ne andò.

Il giorno dopo però era ancora lì e c’era lei.

“Ciao Limone, giochi con me? Guarda, ho portato una palla, perché speravo che venissi anche tu sulla spiaggia oggi.”

“Oh, che originalità. Una palla. E’ un gioco vecchio come il cucco” rispose lui.

“A me piace sempre, ma se ne sai uno migliore insegnamelo. Io ci sto.” disse lei mentre palleggiava con abilità.

“Va beh, dai non ho voglia di pensare. Tira.”

Per un po’ giocarono e si divertirono poi, stanchi, si sedettero sulla spiaggia a riposare.

Luisella ricominciò a chiacchierare:”non ho capito se ti piace chiamarti Limone oppure no?” Gli chiese.

Andrea non ci aveva mai pensato. Gli altri, quando parlavano con lui, gli davano ordini o consigli. Non gli chiedevano mai il suo parere.. Dopo qualche minuto di riflessione disse:

”Sì, mi piace. Voglio essere acido. Non mi piace piacere. “Che discorso complicato e falso. Chi t’ha detto “che il limone non piace a nessuno? A me piace moltissimo, te l’ho già confidato”.

“Come fa a piacerti una cosa che fa digrignare i denti e venir la saliva in bocca, appena l’assaggi?”

“Sai perché? Tu parli del limone acerbo. Anche tu forse sei un po’ acerbo. Se verrai qui tutti i giorni a parlare e a giocare con me sulla spiaggia e prenderai tanto sole, diventerai un bel limone e… i limoni maturi sono una bontà”

Andrea non rispose, ma fece quello che gli aveva suggerito Luisella, non perché credesse alla sua teoria, ma perché gli piaceva molto stare con quella bambina si sentiva anche meglio come se il gelo che aveva dentro si sciogliesse al sole.

In capo a un mese era irriconoscibile: Abbronzato, sorridente e irrobustito. Insomma un bel limone maturo pieno di vitamine e sali minerali.

Sarà stato il sole, il mare, la spiaggia di Framura o Luisella, chi lo sa?

Fatto sta che dopo la cura la filastrocca suona così:

Questa è la storia vera

del bambino Andrea

dopo la cura

che fece sulla scura

sabbia di Framura

dove divenne

solare e biondo

come un bel limone

luminoso e tondo.

 

ADA BOTTINI

Rapallo, 7 nivembre 2017

 


IL VIAGGIO DI CIRO

IL VIAGGIO DI CIRO

Ciro abita in Abruzzo. E’ figlio e nipote di pastori. Il suo nome fu scelto dal padre prima che lui nascesse. Suo padre aveva ascoltato la storia di Ciro, imperatore persiano, una notte d’estate, quando è bello incontrare i tra pastori sotto le stelle e raccontare, ascoltare. Il giovane pastore ascoltava il vecchio sardo che, a modo suo, gli raccontava di battaglie e vittorie, di giardini e città, di popoli schiavi e liberati.

Quella notte Pietro decise che se avesse avuto un figlio, l’avrebbe chiamato Ciro.

Gruppo della Maiella-Abruzzo

Ciro abita in un paesino ai piedi della Maiella, vive in una casa modesta con la mamma, la nonna e altri due fratelli. Il padre e il nonno passano mesi sulle montagne ad allevare pecore e capre e scendono solo d'inverno quando buio e freddo costringono al riparo uomini e animali.


Due Pastori della Maiella a braccetto…

Ciro vive bene nel suo ambiente: è un bambino sereno con una grande mancanza e un grande desiderio: è cieco e vuol vedere il mare. Come gli sia nato questo desiderio nessuno sa spiegarlo. Fatto sta che spesso chiede alla mamma: - Mamma, quando andiamo a vedere il mare? .- E la mamma brusca gli risponde : - Ma che vuoi vedere e vedere, cosa credi che sia il mare? Una grande pozzanghera ecco cos’è! Come d’inverno qui davanti a casa, quando si scioglie la neve e non puoi uscire senza bagnarti i piedi.-

Ciro non si fa scoraggiare facilmente, torna alla carica, allora la mamma sbuffa: - Siamo poveri noi, non si può viaggiare. Smettila con questi capricci, va fuori a giocare. -

Ciro ha imparato a rivolgersi alla nonna che lo ascolta un po’ di più. Il bambino ha tanto insistito che la povera donna è contagiata dal desiderio di Ciro e quasi quasi anche lei vorrebbe vedere il grande mare. Lo ha già visto in Tv e le fa anche un po’ paura, ma per amore del nipotino un bel giorno si decide a dire di sì.

- Zitto, Ciro, non insistere più. Ti porterò a vedere il mare, ma non parlarne quando ci sono il nonno e il papà in casa. Ci prendono per matti e poi incominciano a sbraitare quei due.-

- Davvero nonna mi ci porti? – chiede Ciro sorpreso.

- Sì, sì a primavera quando gli uomini vanno al pascolo e le galline fanno più uova. –

- Cosa c’entrano le galline, nonna? –

- C’entrano, c’entrano. Fanno le uova e io posso venderne un po’ e risparmiare qualche soldino. Ma, zitto, ci penso io. E’ un segreto tra noi due. Quando sarò pronta partiremo. -

La nonna ha davvero deciso di portare il bambino a vedere il mare, anche se sa che non lo vedrà. Sa però, che potrà conoscerlo in qualche modo. Ogni giorno la vecchia pensa a racimolare qualche soldo per il viaggio: le uova, una piccola risorsa, ma insufficiente, le verdure dell’orto sì anche quelle possono aiutare, ma ci vorrebbe ci vorrebbe qualcosa di più prezioso.


Ecco, le viene in mente il velo, il velo al tombolo, un regalo di nozze, l’unico pezzo importante del suo guardaroba. Lei l’aveva sempre tenuto da parte, bene incartato nella velina con un bigliettino: “Perché mi accompagni nell’ultimo viaggio” e qualche volta aveva immaginato sé stessa morta, le mani giunte sul rosario e il velo a incorniciarle la testa e il viso. Era orgogliosa di questa sua scelta, ma ora decide di venderlo per realizzare il sogno del nipote.

Un giorno di primavera si prepara di buon mattino con il vestito della domenica, il cesto con le uova e la verdura e una vecchia borsetta al braccio.

- Dove andate, mamma? – chiede la nuora impensierita

- Giù al paese grande. C’è mercato oggi e devo fare commissioni mie - risponde lei senza troppo concedere.

- Ma che novità è questa, avete forse bisogno del dottore e non volete dirlo? -

- Mai stata così bene. Non sono una bambina, so badare a me stessa. -

La nuora alza le spalle: - Buon viaggio allora. -

- Eh viaggio, viaggio, questo non è un viaggio - sospira la vecchia che incomincia a spaventarsi per il viaggio che dovrà affrontare. Ha le idee chiare però. Giunta al paese venderà al miglior prezzo la sua merce, compreso il prezioso velo. Garantirà uova e verdura fresca una volta alla settimana al negozio del centro, una coperta all’uncinetto in lana grezza alla moglie del sindaco che gliela chiede da una vita e poi la cosa più difficile per lei, andrà alla stazione e chiederà qual è il paese di mare più vicino e il costo del biglietto. Deve fare tutto da sola, ha deciso di non confidarsi con nessuno per non essere distolta dal suo progetto.

- Nonna, come è andata? – bisbiglia alla sera Ciro, quando sono in camera da soli.

- Tra un mese potremo partire. Tutto a posto. Ma non ti far scappare neanche una parola, altrimenti siamo rovinati.–

Il bambino si addormenta felice sognando il rumore del treno che lo porterà al mare.

Arriva il grande giorno. E’ l’alba quando la nonna e Ciro vestiti di tutto punto bussano alla camera della mamma.

- Noi partiamo, andiamo a vedere il mare. Non ti preoccupare, per sera saremo di ritorno.-

La povera donna è frastornata, le sembra ancora di dormire, accenna un :- Ma..-

La porta si è già richiusa sulle sue obiezioni.

Ancora prima di arrivare a Francavilla Ciro, affacciato al finestrino, sente un profumo diverso di piante aromatiche e di sale. - Nonna, ecco il mare – grida entusiasta.

- Ancora no, ma ci siamo vicini. - risponde la nonna con lo stesso entusiasmo. Quel bambino la fa tornare indietro nel tempo e scopre voglie assopite, mai realizzate.

Appena usciti dalla stazione la nonna decide di non dirigersi verso il centro. Vuole essere sola con Ciro nel momento che incontreranno il mare. I due camminano a lungo, finché una strada sterrata sulla sinistra appare invitante.

- Di qua, Ciro, di qua. – dice la nonna prendendolo per un braccio.

E là in fondo, attraente, un triangolo verde tra due dune ricoperte di cespugli.

La nonna tace, ma inavvertitamente stringe la mano del bambino, che si mette a correre.

- Eccolo, nonna. Lo sento, lo sento. – grida Ciro leccandosi le labbra, già insaporite di sale.

- Aspettami, Ciro. – e i due per mano corrono verso il mare vicinissimo e vociante.

Al di là delle basse dune il mare appare in tutta la sua immensità.

- Nonna, com’è? – chiede Ciro con un filo di tristezza nella voce.


Parco Nazionale della Val Grande – Abruzzo

- Più grande del pascolo di Valgrande, sai quello che ci metti tutta la mattina per attraversarlo, ma adesso, leviamoci scarpe e calze, se vogliamo conoscerlo meglio.- Esclama la nonna, tornata bambina imprudente.


I due ripongono calze e scarpe sotto un cespuglio e poi per mano si avvicinano al mare.


La spiaggia di Ortona  (Abruzzo) (Foto Rossana)

Prima lentamente gustando la sabbia fresca sotto ai piedi, poi sempre più veloci. Ridono, annusano, sguazzano, gridano, assaggiano, sputano, saltano, spruzzano. E’ un’esplosione di energia gioiosa, di vita.

In quest’eccesso di movimento Ciro perde l’equilibrio e cade in mare. Di colpo la nonna sente tutti i suoi anni, l’ansia, la prudenza.

- Dio mio, Ciro, che ti ho fatto!-

Ma lui ride, ride a crepapelle e tra un colpo di tosse e una risata dice : - Un regalo, un regalo mi hai fatto. Ti voglio bene, nonna.

La nonna lo tira fuori dall’acqua e se lo abbraccia stretto, come non aveva mai fatto prima. Così ora sono bagnati tutt’e due. Per fortuna c’è un gran sole in quel giorno di maggio. I vestiti di Ciro sventolano su un cespuglio, mentre lui in mutande si diverte a fare orme e tracce sulla sabbia e poi a toccarle con le mani, la nonna , strizzata la grande gonna nera, cammina avanti e indietro sulla spiaggia per farsi asciugare gli abiti umidi che ha addosso.

- E’ l’ora di mangiare – chiama dopo un po’, e tira fuori dalla grande borsa: polpettone, frittata, formaggio, pane e frutta. Ciro non è mai stato un gran mangione, ma quel giorno divora tutto, mentre chiacchiera senza pause.

- E’ stato bellissimo. Sentivo il mare che si muoveva intorno alle mie gambe, avanti e indietro, avanti e indietro. E’ tiepido, non è come il fiume. E poi così saporito. E la voce!. Mamma mia quanto parla. Adesso senti nonna, ha cambiato voce, parla più piano.-


Ortona Mare (Abruzzo) – Spiaggia al tramonto

(Foto Rossana)

- Sì, è diminuito il vento – sospira la nonna. Lei si riempie gli occhi dei colori del mare, come vorrebbe che anche Ciro vedesse.

Lui come se avesse letto il suo pensiero le chiede di botto: - Di che colore è il mare, nonna? Anzi, te lo dico io come me l’immagino. Ecco, qui dove fa più caldo deve essere color pomodoro, qui proprio all’inizio dove mi bagna il piede dev’essere… bianco, quasi come il sapone, quando mi lavo le mani, e più avanti, nel mezzo… non lo so, ma lontano lontano dev’essere color melanzana, sai quelle lunghe, lisce che mi fai fritte d’estate-

- Bravo, Ciro, hai indovinato tutto- esclama la nonna commossa – Ora che abbiamo visto il mare possiamo tornare a casa.-

- Ci torneremo?-

- Sì, ogni anno a maggio. – risponde risoluta la nonna.

- E i soldi, nonna, dove li trovi? –

- Ah, questa volta so io dove trovarli. Tuo papà, ogni anno deve regalarti una pecora e se non lo farà, se non capirà, vorrà dire che gliela mangerà il lupo. -  conclude ridendo la nonna.


Il Giglio di mare cresce tra le dune della

spiaggia di Ortona

Nonna e nipotino, infilate calze e scarpe, voltano le spalle al mare portandosi dietro il suo ricordo, che li accompagnerà per un anno.

 

Ada BOTTINI

 

Le foto sono state inviate dal socio Com.te Nunzio CATENA

Rapallo, 8 Settembre 2017


 


IL REZZAGLIO DEL MIO AMICO "COCOLA"

 

RACCONTI IN RIVA AL MARE

IL REZZAGLIO DEL MIO AMICO ENNIO detto "COCOLA"

Pubblicazione che riporta le foto di Cocola che seguono

Ennio "Cocola" in attesa

Cocola in azione...

Splendido scatto! che rende l'idea dell'ampiezza del rezzaglio lanciato da Cocola

Cocola aggiusta la sua arma...

Nunzio Catena a lezione  di rezzaglio da "Cocola"

Per quanto riguarda il rezzaglio, come si può vedere dalla foto, bisogna raccogliere la rete in una maniera ben precisa e tenerla nella mano destra, mentre una parte dei piombi della circonferenza  va sul braccio ed un'altra viene lanciata con la mano sinistra per far aprire la rete.. Questa è una pesca che per avere buon esito va fatta ad una profondità massima di un metro, se maggiore, per il tempo che la rete tocca il fondo, il pesce, con un colpo di coda, è già fuori. Per questi motivi non viene pescata dalle vostre parti.

Quella che 'Cocola' faceva per vivere, è una pesca molto sportiva, innanzi tutto ci vuole abilità a lanciarlo perché il pesce, che veloce cerca di entrare nel fiume, vede noi come noi vediamo lui, perciò la rete deve essere lanciata quasi rasente la superficie del mare altrimenti se troppo alta, per quando i piombi toccano il fondo, ha tutto il tempo per fuggire.. Diversa è la pesca in acqua torbida, quando viene lanciato a caso, nel qual caso gioca la fortuna, oppure si lancia un sassolino, se ci sono cefali nei dintorni, questi dapprima si allontanano ma poi, siccome sono curiosi, tornano per vedere cos'è, cercando di calcolare i tempi, può andare anche bene. Purtroppo dove era Cocola, questi ultimi tipi di pesca non potevano essere effettuati e l'unico punto dove i cefali e qualche spigola convergevano, era la foce del fiume, dove la corrente uscente del fiume, 'urtando' l'onda del mare si alza e in quella trasparenza si riesce a vedere il pesce che veloce cerca di entrare.

Anche io ho imparato da piccolo a lanciarlo con una rete proporzionale alla mia 'stazza' e pescavo i pesci piccoli vicino a Cocola (che lui non pescava). Da bambino andavo lì perché papà aveva un 'trabocco' da 6 mt. di lato, al fiume, proprio vicino alla foce.

È stato proprio un bellissimo 'rezzaglio' il regalo che mi aveva fatto Marilena appena dopo sposati, perché spesso mi lamentavo di quello che avevo...Lo aveva fatto a mano il Sordo. A mano, perché spesso lo fanno raccordando diversi pezzi di rete, invece quello era fatto aumentando per ogni giro di rete un certo numero di maglie in modo che dalle poche maglie che formavano  il cerchietto centrale (attraverso il quale passavano i fili che servivano per tirare l'armatura con i piombi), si doveva arrivare ad una circonferenza di circa 15 mt. Mi piaceva da matti quella pesca, che più propriamente era una 'caccia', anche perché i cefali pescati erano commestibili e non come quelle 'petroliere' pescate nei porti, dove si vedono riuniti in gran numero che boccheggiando sembrano aspirare il petrolio come per purificare l'acqua.


La casa paterna di mio padre era molto vicina al fiume ed insieme ai fratelli hanno avuto anche prima della guerra un 'trabocco' che poi hanno ricostruito al ritorno di uno zio dall'America che da pensionato amava passare le giornate in quel tipo di pesca.

A proposito del rezzaglio, chi viveva di quello, era proprio Cocola, che era sempre alla foce del fiume Foro, in attesa di prendere qualche cefalo che cercava di entrare nel fiume. Purtroppo, Cocola non era da solo, ed allora era una lotta a chi prima poteva lanciare la rete; quando Cocola tirava la rete e vedeva nel cavo dell'onda che il cefalo era dentro, restava fermo, immobile, quasi in catalessi per alcuni secondi, chissà, forse la gioia di aver pescato qualcosa da vendere e portare casa qualche soldo.

Nel dopoguerra il REZZAGLIO era ancora molto praticato vicino alla foce dei fiumi e dei torrenti. Era un tipo di pesca molto redditizia, ma allo stesso tempo dispendiosa di energie, sia per il peso del piombo posto alle basi, sia per il fatto che la rete una volta bagnata diventava sempre più pesante.

Nel periodo che va da Ottobre a Dicembre con il passaggio di cefali, spigole e orate che migravano verso il mare si ottenevano risultati eccezionali, pescando soprattutto spigole di grosse dimensioni.

Un tempo il rezzaglio veniva costruito (sarebbe meglio dire autocostruito) in canapa o cotone, ora viene utilizzata la tortiglia di polyester o il nylon. Anticamente cucita a maglia sempre più fitta mano a mano che la rete si allontanava dal centro del cerchio, adesso viene cucito a fasce di diversa grana, mano a mano più fitta. Esistono infatti diversi tipi di grana a seconda della dimensione dei pesci a cui un rezzaglio è destinato.

Lungo il bordo inferiore del rezzaglio vi è una corda ricoperta di piombi (la funaia) che trascina la rete verso il fondo. La circonferenza della rete varia tra i dodici e i quindici metri.


Dal bordo partono circa venti cordicelle (i ramiglione) che passano all’interno della galla e confluiscono verso la corda del giacchio, lunga più di tre metri. Alle estremità della corda vi sono due occhielli (cappiole).
In alcuni modelli i ramiglione a circa venti centimetri dalla funaia si biforcano, questa deviazione è detta femmenella.


Ma come si usa? La barca si avvicina in modo lento e silenzioso verso la zona individuata. Il lanciatore si sposta verso la prua e posiziona la tavola del giacchio tra le sponde.

Il pescatore comincia serrando la corda intorno al polso (o infilando l’anello della corda al mignolo) così da non perdere la rete. Raccoglie con una mano la parte superiore del giacchio per circa metà della sua lunghezza. Con l’altra mano afferra il lembo rimasto libero.

Il pescatore ruota il busto all’indietro e, subito dopo, fa seguire un movimento in avanti. L’abilità del pescatore sta nel coordinare questi movimenti e nel lasciare andare la rete al momento giusto, facendo in modo che, grazie alla rotazione impressa, si apra completamente in aria prima di toccare la superficie dell’acqua.


Quando cade in acqua il rezzaglio deve essere disteso, così da coprire la maggior area possibile. Il peso dei piombi lungo la funaialo fa scendere rapidamente verso il fondo, imprigionando i pesci che incontra inabissandosi.

Il rezzaglio viene recuperato tirando lentamente con piccoli colpi la corda del giacchio e poi il fascio dei ramaglione. Mentre la rete viene raccolta, il perimetro della funaia si stringe e i piombi si avvicinano tra loro scorrendo sul fondo così da non far uscire i pesci.

Al pescatore non resta che issare il rezzaglio a bordo, posando la rete sulla tavola dove la libera del pescato.


Nunzio CATENA- Carlo GATTI

Rapallo, 2 agosto 2017