IL BAULE DEL MARINAIO - ARTE E MARE - 2

IL BAULE DEL MARINAIO

ARTE E MARE - 2

 

 

Con cinque bambini piccoli, essi salirono su un veliero portando tutto ciò che avevano in un piccolo baule”

La cassetta è il baule che il marinaio porta sempre con sé. Rappresenta la sua identità, il passato e il futuro che appena si intravede fra le condizioni variabili del presente. Può essere di legno intarsiato o povero, solido o deteriorato, non importa, ogni navigante ha la sua cassetta, il senso ben custodito di quel girare apparentemente folle intorno al mondo. Una volta abbandonata la navigazione, chiuso il rapporto professionale con il mare, la cassetta perde la sua attitudine raminga, si distende, comincia ad assorbire vita, esperienza, per diventare archivio e potenzialmente materia narrativa.

Dopo questa premessa, che è la vera definizione letteraria del BAULE del marinaio, devo confessare che forse inconsciamente, attribuivo l’uso del baule del marinaio a quel periodo leggendario legato all’epopea della vela o, tutt’al più, ai primi del ‘900 quando i primi sbuffanti vapori solcavano i mari con tre alberi pronti ad issare le vele di fortuna in caso di avaria alle “novelle” macchine alternative. Si trattava, com’è noto, di una messa in scena degli armatori dell’epoca per tranquillizzare i facoltosi ed elegantissimi passeggeri che, ancora un po’ diffidenti verso i nuovi sistemi propulsivi navali, sfidavano l’ignoto. Il baule carico di prestigiosi vestiti all’ultima moda era il biglietto da visita identitario della Belle Époque. Si dice di esso: quel periodo che va da fine ‘800 allo scoppio della Prima guerra mondiale e che fu caratterizzato da euforia e frivolezza. Bella Epoca perché a seguito di una serie di progressi ed invenzioni si modificò lo stile di vita delle classi borghesi; da qui prese inizio l’idea di viaggiare per fare turismo d’élite. L’ esempio tipico è il TITANIC, una nave di lusso inglese della “WHITE STAR” che si fece simbolo della “BELLE ÉPOQUE” in quanto era grande, moderna e veloce. Un oggetto di lusso per persone molto ricche.

 

Tutto questo mi affiora alla mente trascinandomi un ricordo che solo ora rammento di non averlo mai scritto.

 

Da sinistra, VULCANIA e SATURNIA a Genova

 

 

Era il 1961. Dopo un imbarco di quasi un anno da Allievo Ufficiale di coperta su una petroliera, ebbi la fortuna d’imbarcare sulla nave passeggeri SATURNIA con il grado di Allievo Ufficiale Anziano. Eravamo in partenza da Trieste per il mio secondo viaggio sulla linea Trieste - Venezia - Napoli - Palermo - Palma de Majorca - Gibilterra - Lisbona -Punta Delgado (Azzorre) - Halifax - Boston - New York.

 

 

Mi trovavo tra le scartoffie della segreteria di Coperta, quando percepii un trambusto nel corridoio: due “piccoli di camera” stavano “camallando”, si fa per dire, un ingombrante baule da marinaio verde scuro, bordi e angolari rinforzati con borchie metalliche dorate. Ricordo d’aver detto ai due giovani che quel baule era destinato, probabilmente, ad essere “stivato” nel bagagliaio di bordo.

“Ma no sior, ghe zè una targhetta sul lucchetto: Alloggio Ufficiali – M/n SATURNIA”.

Poco dopo vidi avvicinarsi, col suo inconfondibile “piede marino”, un mio caro amico  camoglino Baj Schiaffino che avevo lasciato qualche mese prima al seguito della mia squadra di pallanuoto di cui era un fervente tifoso.

“Hoo belin, ma cosa ti ghe fae a bordo. Vanni SÛBITO a casa che a squaddra ha l’à bezêugno de ti …”

Baj aveva ragione, avevo lasciato la squadra per una nave passeggeri su cui avevo sempre sognato d’imbarcare… e quella fuga, Baj non me lo perdonò per tutto l’imbarco.

“Dove u l’è u mae beûlo?”

– Il dilemma era risolto – Il baule era proprio il suo!

Baj discendeva da quel ramo degli Schiaffino de Camoggi che da secoli avevano battuto i mari di tutto il mondo. Già, in quella Camogli dei Mille bianchi velieri su cui la tradizione “voleva” che il giovane s’imbarcasse da Allievo e sbarcasse da Comandante: in un solo lunghissimo imbarco. La rottura con la terraferma doveva essere TOTALE per dimostrare innanzitutto a sé stesso amore e dedizione solo per il MARE. Avete capito bene! Da ultimo di bordo a Capitano al comando e in seguito anche Armatore dei velieri di famiglia.

Baj era rimasto “intrappolato” nel solco di quella tradizione old fashion che lui continuava a vivere, come se la marineria fosse tuttora ancorata a quello spirito d’avventura senza tempo che unisce tutti i marinai del mondo da sempre e per sempre avendo per letto il mare e per soffitto il cielo. Baj continuava a vagare sui bordi insieme a tutti gli Schiaffino de Camoggi, ovunque si trovasse, e come loro si muoveva, non solo nel portamento oscillante, ma nel guardare sempre fuori, verso il mare per controllarne l’umore e la forza del vento sulle vele, con quel suo sorriso sempre generoso, ma furbo: “Amîa che no sòn miga nescio!”

Non gli chiesi mai nulla di quella anacronistica presenza do beûlo al seguito… non volevo profanare le sue antiche consuetudini familiari di cui evidentemente andava molto fiero: esibendo quella specie di carta d’identità che solo pochi potevano permettersi. E poi cosa c’era da spiegare ad un giovane come me, al secondo imbarco che il mondo della vela l’aveva conosciuto soltanto di striscio sugli STARS nel golfo Tigullio facendo bordi rischiosi solo per strappare un sorriso alle ragazze straniere… magari dell’entroterra! Questo avrebbe pensato Baj che di Riviera se ne intendeva!

Beh! Qui forse Baj si sbagliava! Anche il suo giovane amico proveniva da una stirpe di naviganti e armatori: i Gazzolo di Ge-Nervi - 25 velieri impiegati sulle rotte del GUANO tra il Cile e Perù ed il Nord Europa. Già! Ognuno ha il suo retroterra spirituale da rispettare e quindi il suo naturale destino da seguire; ma se oggi ricordo ancora quel BAULE della tradizione marinara ligure significa che nel sangue avevamo entrambi gli stessi ricordi ancestrali.

Baj è mancato di questi tempi un po’ di anni fa, ed ho voluto ricordarlo con la scusa do beûlo che racchiude tanti ricordi che in seguito ci hanno legati da Amicizia vera nella sua Camogli:

Società

CAPITANI E MACCHINISTI NAVALI

CAMOGLI

Arrivati al giro di boa, non mi rimane che segnalare un bel libro di Dario PONTUALE:

IL BAULE DI CONRAD

 

 

Una cassa di legno lunga un metro, alta cinquanta centimetri, con tozze zampe quadrate e la base più larga per resistere ai rollii. In passato ogni marinaio degno di tale nome solcava le acque del mondo accompagnato da questa specie di baule, chiamato in gergo “cassetta”, dove riporre i propri effetti personali i beni i ricordi.

Tra le molte sopravvissute agli attacchi del tempo, ne esiste una appesantita dagli anni e dagli oggetti, che riporta su un fianco una sigla incisa con la forza di un coltello, “JTKK”, e una data, “1894”. La sigla altro non è che l’abbreviazione del nome del suo proprietario: Józef Teodor Konrad Korzeniowski, ufficiale della Marina Mercantile Britannica. Il 1894 è l’anno in cui la cassetta è stata calata per l’ultima volta dal ponte di una nave: il battello a vapore Adowa, che avrebbe dovuto salpare per il Québec con a bordo quell’ufficiale di origine polacca, in realtà non ha mai lasciato il porto a causa di un impedimento burocratico.

Un finale in sordina per un uomo irrequieto che fin dall’adolescenza attraversa mari e oceani su ogni barca che gli conceda un incarico, una possibilità, una sfida. Vent’anni di vagabondaggio nei luoghi più selvaggi e remoti del globo, dalle Indie Occidentali alla Malesia e fin dentro il cuore oscuro dell’Africa. Dopo aver affrontato tempeste e bonacce, commerci e intrighi, in quel 1894 Józef Konrad cambia definitivamente il proprio nome in Joseph Conrad, il marinaio esce di scena e cede il testimone allo scrittore.

Con vivace ritmo narrativo, sempre affiancato da uno scrupoloso lavoro di ricerca, questo libro racconta la vita in mare di uno dei maggiori autori di ogni tempo: le imbarcazioni sulle quali Conrad navigò, gli uomini incontrati, le rotte seguite e le avventure fonti di ispirazione per i personaggi, le ambientazioni e le vicende che hanno popolato storie immortali come Cuore di tenebra, Tifone, La linea d’ombra e molti altri capolavori conradiani.

UN PO’ DI CONRAD

Mi si chiede di descrivere brevemente, qui, quest'opera.
Per come la vedo io, questo libro rappresenta lo sfogo di un marinaio che ha visto, praticamente, tutto il mondo, naturalmente dalla parte del mare, in quanto all'epoca viaggiavo già fin troppo per mestiere, da avere voglia di farlo anche da turista.
Ho visto tante cose: Cose antiche, cose moderne, cose affascinanti dal punto di vista naturalistico.
E poi, ancora, ho visto il mare in bonaccia, giorno dopo giorno, per decine di giorni, in oceano, e mi è sembrato la manifestazione della bontà divina.
Poi ho visto quello stesso mare furibondo di rabbia, roba che chi non l'ha visto non può arrivare a crederci, ed anzi adesso, che gli anni sono passati, non riesco più a crederci neppure io, se non facendo uno sforzo mentale, alla fine del quale ancora mi vengono i brividi.
Tutto questo l'ho messo, in questo libro. Ma, soprattutto, ho visto l'uomo.
L'uomo bianco, l'uomo nero, l'uomo giallo, l'uomo rosso.
Ho visto il Cristiano, l'Islamico, l'Ateo, l'Ebreo, lo Shintoista, ed anche altri.
Ho visto l'uomo ricco e potente, ed ho visto l'uomo povero, umile.
Di uomini umili e poveri ne ho visti di più, perché tali erano quelli che popolavano gli ambienti del porto, e delle sue vicinanze.
Ho parlato con quegli uomini. Ne ho osservato il comportamento, ascoltato i discorsi, ed alla fine ho capito che sotto la scorza del colore della pelle, della religione, della lingua, gli uomini, tutti gli uomini, sono abbastanza simili, per lo meno quelli sani di mente, vogliono tutti le stesse cose, che si riassumono poi nel diritto a mantenere la speranza di potere condurre una vita decorosa, migliore di quella vissuta dai loro padri, e di poterne offrire di ancora migliori ai propri figli.
Tutti, a parte i pazzi, vogliono vivere in pace, sognano di vedere riconosciuti i propri diritti, curate le malattie, assicurata la vecchiaia.
Vivono nel terrore che qualche pazzo scatenato decida di portarli in guerra, loro e i loro figli, e trasformi le loro mogli in vedove, le loro madri in vecchie in gramaglie.
In questo libro ho messo anche questo.
Poi, ho tirato giù i miei ragionamenti.
Tranquilli: A parte che il fatto che io, come tutti noi occidentali, sono stato formato nella cultura cristiana, nella qual cosa, tra l'altro, non vedo nulla di male, non ho fedi politiche, e neppure religiose. Ho il cuore, ed ho il cervello. Tutto quanto leggerete, se vorrete, viene dritto da lì: Dal cervello e dal cuore.

IL BAULE DEL MARINAIO

Una carrellata nella storia

 

 

 

 

 

 

 

Carlo GATTI

Rapallo, 28 Novembre 2021


IL VELARIUM DEL COLOSSEO

IL VELARIUM DEL COLOSSEO

ALCUNE NOTE STORICHE

Il COLOSSEO, situato nel centro di Roma, è il più grande anfiteatro mai costruito al mondo. La struttura era in grado di contenere un numero di spettatori stimato tra 50.000 e 87.000 unità (di cui 45.000 seduti), ma è anche il più imponente monumento dell’antica Roma che sia giunto fino ai nostri giorni.


L’Anfiteatro Flavio, (é stato primo nome del COLOSSEO) fu iniziato da Vespasiano nel 70 d.C. e terminato da Tito nell’80. Ulteriori modifiche furono apportate durante l’impero di Domiziano nel ‘90. I lavori furono finanziati, come altre opere pubbliche del periodo, con il provento delle tasse provinciali e il bottino del saccheggio del tempio di Gerusalemme (70 d.C.).

La sua costruzione durò appena 2 anni e 9 mesi. Nella cerimonia di apertura vennero uccise oltre 5.000 belve in un’unica giornata. Per l’inaugurazione dell’edificio, l’imperatore Tito diede dei giochi che durarono tre mesi, durante i quali morirono circa 2.000 gladiatori e 9.000 animali. Per celebrare il trionfo di Traiano sui Daci vi combatterono 10.000 gladiatori.

Conosciuto molto più tardi (nel Medioevo) col nome di COLOSSEO dalla “colossale” statua in bronzo di Nerone (di oltre 30 metri di altezza - Realizzata tra il 64 ed il 69 d.C. per mano dello scultore Zenodoro) che un tempo era stata eretta in prossimità dell’Anfiteatro, che fu il primo ad essere costruito in pietra a Roma il quale, nonostante il suo crudele scopo, rimane uno dei prodigi architettonici del mondo.

Il COLOSSEO è un edificio di forma ellittica, dalle grandi dimensioni di 188 m di lunghezza, 156 m di larghezza e 48 m di altezza. Risulta in più punti gravemente danneggiato, ma conserva ancora l’originaria struttura.

La sua struttura è composta in effetti da due Anfiteatri greci semicircolari messi l’uno contro l’altro, che avevano però dimensioni minori.

Gli ultimi combattimenti tra gladiatori sono testimoniati nel 437, ma l’anfiteatro fu ancora utilizzato per le venationes (uccisione di animali) fino al regno di Teodorico il Grande: le ultime vennero organizzate nel 519, in occasione del consolato di Eutarico (genero di Teodorico), e nel 523, per il consolato di Anicio Massimo.

Il COLOSSEO, con la sua maestosità unica, rivela il genio degli architetti romani per gli effetti spettacolari ed esercitò una grande influenza sugli edifici dell’Europa più recente e, a proposito di effetti speciali, passiamo subito al tema che ci è tanto caro.

IL VELARIUM DEL COLOSSEO


A questo punto vi chiederete: Ma cosa c’entra il COLOSSEO con la tradizionale linea cultural-marinara di MARE NOSTRUM RAPALLO?

Ve lo spiego subito! Si tratta solo di mettere a fuoco un “particolare MARINARO” di questa opera gigantesca che si chiama VELARIUM che ancora oggi viene studiato dalle maggiori facoltà d’Ingegneria e Architettura navale del mondo nell’intento di capirne la progettazione, l’installazione ed il funzionamento.

Per dare un’idea della complessità del problema, gli storici antichi ci hanno tramandato questa informazione:

Il VELARIUM era una magistrale opera di ingegneria. Il suo posizionamento, estremamente complicato, veniva svolto dai migliori marinai del distaccamento della Classis Misenensis.

Secondo stime di oggi il VELARIUM aveva un peso complessivo di circa 24 tonnellate e veniva manovrato da 1.000 provetti marinai abituati all’uso di cavi e cime di ogni calibro e lunghezza, di cui ognuno era destinato ad una precisa funzione.

Mare Notrum Rapallo ha dedicato un saggio a questa famosa Base navale.

CAPO MISENO - LA PIU’ POTENTE BASE MILITARE DELL’ANTICHITA’

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=596;miseno&catid=36;storia&Itemid=163

Carlo GATTIStoria Navale – Sito Mare Nostrum Rapallo

Lo scopo principale del VELARIO era quello di riparare gli spettatori dai raggi solari, ma anche dalle intemperie. Plinio, dopo aver narrato delle vele di vario colore adoperate nelle flotte di Alessandro Magno, e di quelle purpuree che aveva la nave con cui Marco Antonio andò ad Azio con Cleopatra, dice:

"Postea in theatris tantum umbram facere; le quali parole c'insegnano che, abbandonato nelle navi l'uso di vele colorate, passarono queste a far ombra ai teatri.

Anche Lucrezio fa menzione di siffatto lusso nei velari: Et vulgo faciunt id luten intenta. Theatris. Per malos vulgata trabesque trementia flutant.

Dalla sommità del COLOSSEO partiva un complesso sistema di cavi/cime/catene, lungo le quali venivano distese enormi "vele" sospese sull'ARENA che consentiva la copertura della caveae (l’insieme delle gradinate in muratura dove prendevano posto gli spettatori).

La struttura presentava un anello al centro che favoriva l'aerazione dell'anfiteatro; inoltre, per attenuare possibili odori sgradevoli, durante gli spettacoli venivano sparsi tra il pubblico getti d'acqua odorosa ed essenze profumate (sparsiones).

“Il peso della struttura, che altrimenti sarebbe precipitata verso l'interno, era controbilanciato ancorando altre funi su dei cippi di pietra, collocati a raggiera all'esterno della zona anulare pavimentata in travertino .

Alcuni cippi sono ancora visibili sui lati nord ed Est, e il loro posizionamento equidistante fa presumere che in origine fossero in tutto ottanta.


Questa immagine (sopra) ricostruita al Computer, ha una eccellente funzione didattica sulla quale occorre fare riferimento per comprenderne la funzionalità e la dinamica operativa. Ad esempio, in primo piano si notano, (meglio con l’immagine ingrandita), che a sostenere il gigantesco tendaggio: il VELARIUM del Colosseo - vi erano 240 pali (colore scuro) di sostegno e sporgenti, inseriti in altrettanti fori quadrangolari, in corrispondenza di 240 mensole sporgenti di pietra, che si vedono in primo piano. (Vedi immagine sotto).


Il velarium era una copertura mobile in tessuto composta da più teli (o vele) di canapa, che veniva utilizzata nei teatri e negli anfiteatri romani per garantire agli spettatori un’adeguata protezione in caso di maltempo o nelle giornate di gran caldo.


I fori a sezione circolare presenti sulla vela dell’arena di Verona databile all’anno 80 d.C.


Le mensole e i soprastanti fori quadrangolari sull'ordine superiore del Colosseo

Plinio, a proposito del VELARIUM scrisse: «uno spettacolo più stupefacente dei giochi stessi».

Alla legittima domanda: perché proprio i marinai erano necessari al funzionamento del VELARIO DEL COLOSSEO?

Rispondiamo con questa fotografia che spiega, senza l’aiuto di tante parole, chi sono e cosa possono inscenare i marinai “da cattivo tempo”.


I marinai “annusano” le tempeste in arrivo e sono addestrati ad affrontarle in tempo per limitarne i danni. Ve lo immaginate se a causa di un groppo di vento* improvviso fossero cadute 24 tonnellate di vele con tutte le varie attrezzature metalliche sulla testa di 70.000/80.000 spettatori?

A questa domanda possiamo rispondere così: IL NUMEROSO EQUIPAGGIO DEL COLOSSEO ERA COMPOSTO DI VERI MARINAI E SOLO LORO ERANO IN GRADO DI GARANTIRE LA NECESSARIA SICUREZZA E FUNZIONALITA’ DELL’INTERO IMPIANTO.

*groppo di vento In meteorologia, perturbazione consistente nell'improvviso destarsi di venti con mutevole intensità e direzione, accompagnati da forti acquazzoni e turbini di grandine o di neve; dura in genere pochi minuti.

ANEMOSCOPIO DEL PALATINO


La pietra rinvenuta sul Palatino nel 1776, ora ai Musei Vaticani e ritenuta dagli archeologi un anemoscopio, era capace di valutare la direzione e, in qualche modo, anche l’intensità dei venti che potevano interessare il Colosseo. Questo strumento dimostra come i Romani tenessero monitorata questa FORZA per decidere, in base alle norme sulla sicurezza di allora, l’apertura o la chiusura del VELARIUM.

Plinio scrive che in presenza di un vento di notevole intensità si era spezzato un cavo del velarium e che la vela sbattendo faceva un suono che copriva quelli dello spettacolo in atto nella cavea (Colagrossi).


Lo strumento è datato al II - III secolo d.c. ed è ora in Vaticano (IG XIV, 1308). Ha etichette latine e greche dei venti.  Il libro di Liba Taub "Ancient Meteorology" (Sciences of Antiquity) e riguarda gli antichi metodi di meteorologia che si sono confrontati a Roma tra l'Esquilino e il Colosseo,

ALCUNI REPERTI ARCHEO-MARINI FOTOGRAFATI DALL’AUTORE NEL MUSEO DELLE NAVI ROMANE

LAGO DI NEMI - LE NAVI DI CALIGOLA

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=216;nemi&catid=36;storia&Itemid=163

Carlo GATTIArticoli di Storia Navale


MUSEO DELLE NAVI ROMANE – LAGO DI NEMI


Nelle due foto (dell’autore) sopra e sotto, appare la ricostruzione di una delle due ‘Postazioni del Timoniere’ situate a poppa (a dritta) della prima nave, su cui sono state posizionate le copie bronzee delle cassette con protomi ferine.


Lo scavo dei relitti permette, seppur parzialmente, di conoscere l’attrezzatura delle imbarcazioni anche se la fonte principale per le sovrastrutture e la velatura proviene dalle rappresentazioni delle navi antiche (iconografia). Fortunati sono i casi di rinvenimento dei bozzelli in legno delle manovre delle vele oppure di frammenti di cime e cordami. Tra gli attrezzi più comuni, che spesso però viene ritrovato isolato, ricordiamo lo scandaglio che, munito nella sua parte inferiore di una cavità riempita di resina, serviva per conoscere natura e profondità del fondale nonché a seguire la rotta e a riconoscere i migliori luoghi di ancoraggio. L’ancora era lo strumento di bordo più importante e, di solito, ogni nave ne possedeva più di una di diverse dimensioni. In età romana, era costruita in legno con ceppo di appesantimento in piombo oppure interamente in ferro.


Noria a manovella originale di bordo


Pompa a stantuffo originale


Alcuni esemplari dei chiodi utilizzati sulle due navi, di vari tipi e dimensioni: da pochi centimetri a oltre mezzo metro; dal tipo di sezione quadrangolare e capocchia piramidale a quello con testa schiacciata fornita di piccole protuberanze che servivano a far meglio aderire le lamine plumbee di rivestimento dello scafo.

Una  famosa protome ferina dalla forma di testa di felino che stringe tra i denti un anello che in marina si chiama ‘golfare’ ed é usato tuttora nei porti per ormeggiare imbarcazioni, ma anche per sollevare pesi.

E poi, ancora rulli sferici e cilindrici, paglioli, cerniere, filastrini in bronzo, tubi di piombo, ancora tegole di rame dorato, laterizi di varie forme e dimensioni, frammenti di mosaici con abbellimenti in pasta di vetro, lamine di rame ed altro.


Ancora tipo “Ammiragliato”

MUSEO DELLE NAVI ROMANE – FIUMICINO

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=260;fiumicino&catid=36;storia&Itemid=163

Carlo GATTI - Articoli di Storia Navale

 


All'interno delle vetrine sono esposti i materiali recuperati durante lo scavo delle imbarcazioni tra cui: tubi di piombo, rubinetterie, oggetti in bronzo, ceramica, resti organici e elementi dell'attrezzatura di bordo. Tali reperti sono esposti insieme a materiali rinvenuti durante scavi e recuperi nelle aree vicine.

In conclusione, per gli appassionati di questo tema (VELARIUM), suggerisco la lettura di uno STUDIO realizzato su basi matematiche e scientifiche, inerente le varie soluzioni legate all’uso (progettazione e realizzazione) del VELARIUM nella romanità di 2.000 anni fa.

http://amsacta.unibo.it/6307/1/Velarium%2007-01-2020%2B.pdf

Il velarium del Colosseo: una nuova interpretazione

Eugenio D’Anna e Pier Gabriele Molari

già docenti nella Facoltà di Ingegneria dell’Università di Bologna

 

Bibliografia:

L’Anfiteatro Flavio – Marziano Colagrossi

L’Italia Antica e Roma - German Hafner

Le Strade di Roma

La Storia di Roma Antica – Michael Grant

Il Velarium del Colosseo - AMS Acta

Carlo GATTI

Rapallo, Giovedì 21 Ottobre 2021

 


STRETTO DI MESSINA-CACCIA AL PESCE SPADA

STRETTO DI MESSINA

SECONDA PARTE

LA CACCIA AL PESCE SPADA

LO SCHERMITORE DEL MARE

Il leggendario Stretto di Messina, di cui ci siamo occupati nella PRIMA PARTE, è da secoli l’ARENA naturale in cui si svolge l’eterna lotta tra gli uomini dello Stretto e il Pesce Spada. Una lotta in cui entrano in gioco elementi antichi che trasudano misteri, superstizioni, canti propiziatori e personaggi mutuati da favole e leggende che risalgono ad Omero, Polibio e Strabone. Lo "lo achermidore del mare" sempre stato un bottino ambito dai pescatori, non solo per il suo elevato potere nutritivo, ma anche per le sue dimensioni, che possono raggiungere i 4,5 mt di lunghezza per più di 400 kg. Queste caratteristiche, però, sono combinate ad una forza fisica, una resistenza e una furbizia tali da rendere questo pesce una preda difficile da catturare.

 



La caratteristica FELUCA usata nello Stretto di Messina per arpionare i pescespada. A prescindere da come le dimensioni e l’allestimento delle barche adibite alla caccia al pesce spada siano variati nel tempo, la tattica di base è rimasta una costante: avvistare il pesce, inseguirlo o attenderlo, lanciargli un arpione addosso e lottare fino alla resa. Con le moderne feluche questa resa è quasi sempre dell’animale, ma anticamente il duello terminava spesso con quella del pescatore, che rischiava addirittura la morte.




La pesca con l'arpione per la cattura del pesce spada è ancora praticata nello stretto di Messina. Questa pesca avviene nel periodo della riproduzione che nello Stretto di Messina va da maggio ad agosto, quando gli esemplari si avvicinano alla costa.

Si tratta di una “caccia” che nei secoli ha visto cambiare le imbarcazioni, la propulsione e l’attrezzatura ma non il coraggio e la personalità di chi, per affrontare un mostro potente e velocissimo di 4/5 metri, deve conoscerlo nella più profonda intimità per affrontarlo, vincerlo e catturarlo. Ciò avviene ancora oggi, ma solo sul piano di strategie antiche che non s’imparano nei manuali di pesca e neppure servendosi di strumenti moderni super tecnologici. Nulla di tutto questo!



Il duello è regolato dall’intelligenza e dall’astuzia dei contendenti che prima s’individuano, poi si studiano come due pugili che s’inseguono sul ring senza toccarsi, infine, s’affrontano ognuno con le proprie armi sino alla fine del confronto che non è mai scontato.


IL PESCE SENTIMENTALE - Non si lega facilmente, se si innamora è per sempre. Con la spada difende la compagna a costo della vita

A questo punto ci viene in mente Domenico Modugno quando nel 1954 portò sulle scene della neonata Televisione un brano che racconta questa incredibile storia: LU PISCE SPADA

“…..E pigliaru la fimminedda, drittu drittu ‘n tra lu cori, //E chiangia di duluri.//Ahai ahai ai.

E la varca la strascinava //E lu sangu ci curriva, //E lu masculu chiangiva, Ahai ahai ai…..”

La femmina del pesce spada viene arpionata al cuore, il maschio cerca di liberarla dalle reti. Le sta accanto fino all’ultimo istante offrendosi di morire insieme a lei, allo stesso modo.

Impazzisce il pesce spada che per bocca di Modugno urla che “si tu mori, vogghiu murìri ‘nzemi a ttia”.

Morirà anche lui arpionato dall’uomo che dalla lunga passerella della “feluca” non lo perdona ma ogni volta si commuove inchinandosi a questo cavaliere romantico, avversario coraggioso che merita rispetto e ammirazione perchè si fa uccidere per amore.

Non è una storia inventata. E’ una storia maledettamente vera che nel basso tirreno si ripropone intatta da millenni. Lo sanno bene i pescatori dello Stretto di Messina, tra Scilla, Bagnara Calabra, Palmi e Torre Faro.

Purtroppo la legge di natura non è così romantica: è sempre la femmina del pesce spada che va colpita per prima, non solo perché di dimensioni più grandi, ma perché in questo modo si potrà essere certi di catturare anche il maschio, che mai abbandona il suo amore.

UN PO’ DI STORIA

Le prime fonti che c’informano sulla pesca del pesce spada di cui abbiamo accennato all’inizio, risalgono al II secolo a.C. Le imbarcazioni erano di dimensioni ridotte ed erano per così dire “pilotate” da terra, da una rupe alta a sufficienza per avvistare la preda. Ciò avveniva specialmente sulla sponda calabrese più alta della dirimpettaia costa pianeggiante della Sicilia. L’avvistatore segnalava gli spostamenti del pesce spada con diversi sistemi: con bandiere o a voce.



Tra la fine del ‘400 e gli inizi del ‘500, si realizzò l’idea di affiancare al luntru una barca accessoria che, opportunamente zavorrata e ormeggiata vicino o lontano dalla costa, fungeva da “osservatorio galleggiante”, con la stessa funzione di vedetta delle rupi calabresi.



La feluca è una barca piccola, lunga dai 5 ai 7 metri, senza chiglia, alla quale veniva richiesta la massima stabilità, con un equipaggio di cinque rematori e un arpioniere. Questi cambiavano a volte disposizione, ad eccezione del quinto uomo che saliva sull'albero maestro per avvistare la preda.

Questa nuova imbarcazione di origine messinese, venne denominata Feluca e considerata una barca da posta, proprio per la sua mansione.  Per adempiere al suo compito, l’avvistatore necessitava di una posizione più elevata possibile: per questo motivo, a centro-nave, venne innalzata una torretta (detta ‘ntinna) alta dai 15 ai 22 m e dotata di opportuna scaletta, dalla quale era facile segnalare la posizione del pesce agli uomini dei luntri associati. Essi, rimasti in attesa del segnale, si lanciavano veloci all’inseguimento della preda utilizzando la stessa collaudata tecnica dei pescatori calabresi. Solitamente le feluche da posta erano due o tre, ancorate su zone diverse, in modo da ricoprire un più vasto campo d’avvistamento.

Dovendo fungere da osservatori fissi, le feluche non necessitavano di un proprio mezzo propulsivo; i luntri corrispondenti, quindi, le rimorchiavano sulle posteprestabilite.

Luntru GANZIRRI


“Il luntru, partendo dalla base delle pendici calabresi, si dirigeva rapido verso il pesce indicato, grazie a 4 rematori in piedi (introdotti a fine 800); una caratteristica di questa fase (inseguimento) era l’avanzamento di poppa del natante, il quale presentava ottime capacità manovriere anche contro corrente. I 4 remi erano, infatti, di grandi dimensioni in proporzione allo scafo: i due remi a poppavia erano lunghi entrambi 4.68 m; quelli a pruavia 5.46 e 5.72 m.

L’efficacia dell’inseguimento era garantita da un altro pescatore che, al vertice di un piccolo albero (detto farere) alto 3÷3.5 m e posto a centro-nave, dirigeva i rematori e il lanzaturi munito di fiocina”.


Questa bellissima foto scattata ai primi del ‘900, non ha bisogno di tanti commenti in quanto riprende il LUNTRE, una barca lunga 5,49 mt. larga 2,44 mt. ed alta 1,22 mt., al cui centro vi era un albero La FARIERA con tanto di fermapiedi, dove in piedi il VARDIANO stava di vedetta e IL LANZATURI era appostato di prora. L’imbarcazione, originariamente, era a remi, ed il suo equipaggio era costituito da 6-8 marinai.

Ci spiegano che per issare a bordo il pesce spada catturato, servivano un paio di uncini ed una corda; l’armamento era costituito anche da due cannistri”, vari tipi di coltelli, e il cosiddetto bumbuluper conservare l’acqua utile ai marinai per rinfrescarsi.

Tuttavia per entrare nello spirito vero di questa antica “caccia” al pesce spada, non possiamo che affidarci al racconto di chi VIVE da vicino la mattanza nel rispetto delle tradizioni e degli antichi rituali.

Da alcuni prestigiosi siti web locali riportiamo:


… ad esempio, nelle ultime sparute antiche palamitare, sopravvive l'uso di porre a prua un'asta con alla sommità una palla azzurra o rossa in legno, su cui erano dipinte le stelle dell'Orsa maggiore, separate da una fascia bianca, con probabile riferimento alla cultura fenicia.

Un rituale ormai svanito, anche se molte parole permangono nell'espressione dialettale, era quello di accompagnare la pesca con cantilene in greco, perchè la superstizione voleva che se si fosse cantato in altra lingua il pesce sarebbe andato perduto.

Meno intellettuale è il rituale della "runzata", che consisteva nel fare urinare le reti dai bambini, per augurio di una buona pesca.

Un altro rituale, che è divenuto col tempo una specie di diritto territoriale, era quello di suddividere le zone di mare in aree (posta) da assegnare agli equipaggi e in cui pescare.

Lo schiticchio o scialata era un pranzo o una cena abbondantissima che i padroni delle barche offrivano ai marinai nelle feste dei mesi invernali,  per sopperire, specie nei tempi in cui la fame si faceva più sentire, alle necessità alimentari della famiglie, che potevano, fra l'altro, rifornirsi per un po' di tempo con il cibo non consumato. Era anche l'occasione per contrattare gli uomini dell'equipaggio per la stagione successiva.
La tradizione dello schiticchio permane ancora oggi, ma al solo scopo di incontrarsi con gli amici in uno spirito di convivialità.

Cardata da cruci



La tradizione vuole che uno dei pescatori, ed esclusione del lanzaturi, cioè di colui che ha lanciato l’arpione, faccia la “cardata da cruci”, segni cioè con le unghie della mano, quattro croci accanto al foro dell’orecchio destro del pesce appena issato sulla barca. Si ritiene fosse un segno augurale, di prosperità o una sorta di riconoscimento “dell’onore delle armi” al pesce per il suo nobile valore di combattente.

 

In relazione alla cattura, la carne attorno al punto in cui si è conficcato l'arpione (botta) andava al ferraiolo (mestiere pressoché sparito), in qualità di proprietario dell'attrezzo, che veniva dato in affitto. Il taglio del ciuffo spettava invece al fiocinatore.

Ancora adesso, se si avvista una parigghia (un maschio e una femmina), la tradizione vuole che il primo pesce ad essere fiocinato sia la femmina, in modo che si possa fiocinare successivamente il maschio, in quanto questi resta nei paraggi nella ricerca della compagna.

Anche la nomenclatura volgare del pescespada è legata in qualche modo alla stagionalità della pesca, tanto che i pescatori, con un po' di fantasia, riescono ancora distinguere diverse varietà. Così c'è un ipotetico pisci i jùsu, un pisci 'i San Giuvanni, un pisci niru e addirittura un pisci invisibili.

Se per molto tempo non si riusciva a pescare pescespada, il rituale era quella della benedizione della barca da parte di un prete o nei casi più ostinati bisognava fare ricorso a formule magiche e pozioni le più disparate. Se la pesca tardava ancora ad essere proficua una ragazzina doveva fare la pipì sulla prua (questa pratica era in auge specie in Calabria).

In entrambe le sponde dello Stretto (SiciliaCalabria), si era soliti ringraziare, una volta pescato il pesce, il Santo protettore del “faliere” gridando “San Marco è binidittu”. Un ulteriore antico “rituale” era quello di tracciare con le unghie un croce quadrupla sul pesce spada, precisamente sulla guancia destra, simbolo di benedizione, di scongiura al malocchio, e di una pesca fruttuosa. Alcuni pescatori posizionavano nella bocca del pesce un pezzo di pane, mangiando delle parti crude dello stesso pescato.

Come si evince, si credeva molto al malocchio: anche i colori dell’imbarcazione, nero, verde e rosso, erano scelti come forma di scongiura.

PRIMI ANNI ’60 – LA SVOLTA

Evoluzione ed innovazione della feluca spadara:

La passerella


Quando il pesce spada veniva avvistato veniva segnalato da urla e sbandieramenti, diventava proprietà dell’equipaggio che l’aveva individuato, e la barca guadagnava così il diritto di “sconfinare” nei settori assegnati alle altre barche, fino alla eventuale cattura. Fino agli anni 50’ per la pesca al pesce spada si usava, come abbiamo visto, il “luntre”.

Oggi nello stretto e lungo la costa Calabra del Tirreno, per la pesca del pescespada si usano barche a motore che hanno un traliccio alto 20-25 m, alla cui sommità si trovano avvistatori e timonieri, e una passarella molto lunga, alla cui estremità va il fiocinatore (fureri).

FELUCA SPADARA MODERNA


1. dall’alto della ‘ntinna l’avvistatore individua il pesce spada e lo comunica sia al resto dell’equipaggio, che si trova sulla barca, sia al lanciatore a prua (sul luntru era poppa) appostato sulla passerella. Grazie ad un sistema di trasmissione, l’avvistatore manovra la feluca, potendo disporre di tutti i comandi necessari direttamente sulla cima della torretta (marcia avanti/indietro, acceleratore, timone). Quindi egli si occupa sia dell’avvistamento che dell’inseguimento del pesce spada, motivo per il quale il luntru ha lasciato il posto.

2. in perfetta armonia con l’azione dell’avvistatore (dettaglio non scontato), il fiocinatore si prepara al lancio dell’arma, spostandosi sulla passerella. Quest’ultima, a differenza dello scafo, risulta invisibile al pesce, grazie ad una struttura a traliccio (non genera ombra), e alla posizione emersa dall’acqua. Ciò permette al pescatore di avvicinarsi o addirittura trovarsi perfettamente al di sopra della preda.


Nel 1952 il pescatore Antonio Mancuso inventò la passerella per l’arpionaggio, un’innovazione che ha completato definitivamente l’aspetto funzionale della feluca, la barca moderna che ancora oggi si può ammirare in azione sullo stretto di Messina od ormeggiata sulla riviera dell’antico borgo di Torre Faro (Messina).

Con l’introduzione della passerella e l’avvento del motore, le tre fasi della strategia sono oggi tutte eseguite da un’unica imbarcazione. Poiché essa assume non solo il ruolo originario di barca da posta, ma anche di luntru aumentando il profitto globale dell’attività.

La ‘ntinna, un traliccio metallico, è stata elevata fino a 30÷35 m, dotata di collegamenti e leve di controllo del timone e del motore (dagli 80 ai 350 CV) ed equipaggiata di una coffa, dove si apposta l’avvistatore-timoniere.

Come a simulare la spada del pesce, la passerella(traliccio metallico orizzontale) si estende a pruavia della feluca per una lunghezza di 35÷40 m . Essa è in parte retrattile, sicchè può essere ritirata in caso di necessità.

Riguardo l’installazione dei due tralicci tra essi ortogonali, sono saldamente collegati tra loro e allo scafo tramite cavi d’acciaio e tiranti. Con questo complesso sistema di funi, i due oggetti si bilanciano, garantendo l’equilibrio strutturale del natante.

La lunghezza dello scafo della feluca spadara è di circa 25 m (esclusa la passerella) ed è ancora realizzata in legno. Rispetto al luntru, i colori scelti sono più vivaci (tradizionalmente il verde, il bianco, il rosso e l’azzurro). La feluca, quindi, si rivela essere un’incredibile macchina da pesca ed un simbolo della storia marittima siciliana.


Elenco dei siti consultati

https://www.vanillamagazine.it/la-pesca-al-pesce-spada-un-rituale-che-risale-all-epoca-di-greci-e-fenici/

L’antica pesca del pesce spada nello Stretto di Messina.

https://www.sicilying.com/#Sicilying: Tour e Vacanze in Sicilia

L’ecodelsud.it

Caccia al pesce spada, una tradizione della Costa Viola

Un viaggio tra Calabria e Sicilia alla scoperta delle antiche usanze dei pescatori

Rituali nella pesca del Pescespada nello Stretto di Messina

https://www.colapisci.it › Cola-Ricerca › Luoghi › Ritua...

La prima, veloce e maneggevole, era per la pesca diurna e veniva chiamata luntru. Luntru - Ganzirri. Luntru con il classico equipaggio. Il luntro aveva un ...

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Gli originari posti di avvistamento (torrette che si trovavano specie sulla costa calabra) sono stati, quindi, abbandonati e la caccia al pesce spada, dopo ...

La caccia al pesce spada nello Stretto di Messina

https://www.edas.it › Collana Messina e la sua storia

BATTUTA DI CACCIA AL PESCE SPADA - PAN Travel ...

https://www.pantravelsolution.com › servizi › servizio-1


Ringrazio sentitamente gli Amici siciliani che ci hanno concesso la divulgazione al NORD di questa meravigliosa AVVENTURA!

Carlo GATTI

Associazione MARE NOSTRUM RAPALLO

Rapallo, 7 Settembre 2021

 


STRETTO DI MESSINA-ULISSE - MITI E LEGGENDE

STRETTO DI MESSINA

PRIMA PARTE

ULISSE - MITI E LEGGENDE

Lo Stretto di Messina (u Strittu), chiamato nell'antichità Stretto di Scilla e Cariddi, è un braccio di mare che collega il Mar Ionio con il Mar Tirreno, separa la Sicilia dalla Calabria e l'Italia peninsulare dal continente.


Perché parlare di ULISSE nel 2021?

Perché il difficile passaggio dello Stretto di Messina, appartiene alla storia dell’eroe omerico, al suo mare minacciato da Scilla e Cariddi, dalle Sirene e dai Mostri che oggi portano nomi scientifici, ma sono ancora il retaggio di superstizioni vive che ci riportano all’Ulisse uomo di mare che ancora ci illumina come un faro.

ULISSE è uno dei personaggi più amati della letteratura di tutte le epoche, uno dei pochi “miti” capace di passare da un’opera all’altra nella perenne “odissea” della vita, tanto che questo celebre nome è diventato sinonimo del “viaggio” terreno dell’umanità tra le infinite difficoltà che incontra ogni giorno. E si può ancora dire che dai secoli di Omero, 800 avanti Cristo fino al Terzo Millennio, Ulisse c’è, e sta ancora viaggiando perché è dentro ognuno di noi!

La sua fama, così duratura nel tempo, è indice della sua innata modernità imbevuta di malizia, individualismo e intelligenza. Il suo sempre attuale carisma è il riflesso di tante capacità che entrano in gioco nei momenti più difficili: sopportazione, curiosità, diffidenza, pazienza, coraggio e astuzia militare. Non solo! Perché Ulisse è l’emblema dell’ingegno, della calcolata freddezza che gli permette d’uscire sempre indenne dalle tempeste della vita usando qualsiasi mezzo, anche estremo.

Ma prima di immergerci nelle “acque infide dello Stretto” ci è caro fare una breve premessa da uomini di mare ...

Chi ha navigato nello Stretto di Messina più volte nelle due direzioni, in tutte le stagioni e con qualsiasi tempo, sa quanto possano sembrare "impressioni di realtà" le leggende che avvolgono quel passaggio. Oggi, naturalmente, quelle leggende hanno una spiegazione scientifica che vieta ogni riferimento ai mostri marini, alle sirene, ai miraggi ed altro, tuttavia i pericoli nello Stretto ci sono sempre e si chiamano vortici, scontro di correnti di marea, differenza di temperatura tra il mar Ionio ed il Tirreno che tra poco approfondiremo, infine c’è il traffico intenso di navi che incrociano da tutti i quadranti della bussola e che oggi, nonostante il transito sia regolamentato e controllato, è più sicuro ma non per questo è privo di pericoli.

Per entrare ancor più nell’attualità dell’argomento, chi scrive può testimoniare d’aver perso il controllo del governo di una petroliera di 30.000 tonnellate nell’attraversamento dello Stretto per almeno 30 lunghi secondi, a causa dei vortici di Cariddi. In un’altra occasione, per la stessa causa, sempre risalendo lo Stretto da Sud a Nord, con a rimorchio una nave da carico, con il cavo ridotto a 600 metri, perdemmo il controllo della rotta e fummo costretti ad issare i fanali rossi di non governo, ad emettere un Avviso radio di Sicurezza circolare a tutte le navi in transito ed infine a compiere un cerchio in un momento di traffico intenso…

Chi conosce la realtà dello Stretto ha le sue avventure da raccontare…

Posso inoltre confermare che molti Comandanti stranieri che navigano in direzione Suez-porti tirrenici e viceversa, preferiscono evitare il transito dello Stretto per motivi di sicurezza.

Non so esattamente quante siano state le collisioni avvenute nello Stretto nel tempo, ma ormai da parecchi anni, ogni nave si stazza superiore alle 15.000 tons deve prendere obbligatoriamente il Pilota di Messina per il transito nelle due direzioni.

Un po’ di Storia…

Lo Stretto era probabilmente praticato in epoca preistorica dai Sicani e poi dai Siculi, che in tempi diversi dovettero passare dal continente nell’isola. Dopo l’VIII secolo a.C., in seguito alla conquista dei Greci, lo Stretto divenne più noto, perché transitato dai fondatori di Cuma e di altre città. In seguito gli Ioni, fondatori di Zancle (Messina), vollero che sulla riva opposta sorgesse una città sorella, in modo da controllare questo vitale passaggio. Gli Etruschi ottennero il libero transito finché, dopo la sconfitta subita a Cuma (474 a.C.), perdettero il dominio del mare. Subito dopo lo Stretto divenne oggetto di fiere contese tra Reggio e Siracusa, alleata di Locri. In seguito alla distruzione, da parte dei Cartaginesi, di Messana (396 a.C.), rapidamente risorta e divenuta siracusana, la questione dello Stretto, che per tre secoli aveva indotto le città achee a trovarsi scali sul Tirreno attraversando i monti, venne finalmente risolta da Dionisio il Vecchio dopo che questi ebbe conquistato Reggio (387 a.C.). Nel III secolo a.C. fu Roma a mirare alla padronanza dello Stretto (Fretum Siculum), per la lotta contro Cartagine e il possesso della Sicilia. Con il predominio romano del Mediterraneo, l’importanza dello Stretto diminuì, rimanendo però sempre notevole, anche nel medioevo, per i commerci col Levante e per le imprese militari, allorché la Sicilia passò via via ai Bizantini, agli Arabi, ai Normanni e agli Svevi.

Guida d’Italia. Basilicata e Calabria, Touring Club Italiano, Milano 1980

Ma ora ritorniamo ad ULISSE e alla sua STORIA mitologica

Uno degli episodi più celebri è raccontato nel libro XII, dell’Odissea di Omero, quando Ulisse e la sua ciurma, provenienti dall’Isola di Circe (Circeo) navigano verso Sud per ritornare ad Itaca. Lo Stretto si mostra dinanzi ai loro occhi, e per proseguire il viaggio devono attraversarlo; tuttavia, sulla sponda sinistra, sopra uno scoglio, si erge un terribile mostro a sei teste, Scilla, (lato Calabria) mentre sul lato destro risiede un letale mostro marino, Cariddi (lato Sicilia).

La necessità di percorrere la via di mezzo, o quasi, è diventata proverbiale: infatti, quando si afferma di ‘essere tra Scilla e Cariddi’, s’intende il trovarsi in una posizione problematica.

Ulisse sa (perché la maga Circe glielo aveva rivelato) che sebbene Scilla possa attaccarlo con le sue sei mostruose teste (ognuna delle quali contiene tre file di denti aguzzi), e quindi afferrare e uccidere sei dei suoi uomini, Cariddi rappresenta una minaccia ancora più letale, poiché essere risucchiati dai vortici marini che il mostro marino provoca tre volte al giorno, si rivelerebbe fatale per l’intera nave e tutti gli uomini a bordo.

Perciò Ulisse deve navigare nel mezzo, consapevole che se ci dovesse essere un margine di errore sarebbe meglio tendere leggermente a sinistra, verso il lato di Scilla, piuttosto che a destra, poiché in quest’ultimo caso andrebbe incontro alla distruzione totale. Emozionante! Questa difficile situazione è senz’altro una metafora della vita stessa.


“Da una parte ci sono rupi aggettanti, contro cui si frange
con grande fragore l’onda di Anfitrite dagli occhi scuri:
gli dèi beati le chiamano Le erranti.
Di lì non passano neppure gli uccelli, né le trepidanti
colombe, quelle che a Zeus padre portano ambrosia.
Sempre qualcuna ne toglie la roccia liscia,
e il padre un’altra ne manda che ristabilisca il numero.
Di lì mai sfuggì nave di uomini che vi fosse giunta,
ma tavole di navi e insieme corpi di uomini trascinano via
le ondate del mare e i vortici di fuoco funesto.
Una sola nave di lungo corso di lì è riuscita a passare,
Argo da tutti celebrata, che tornava dal paese di Aieta”.

Lì dentro abita Scilla dal latrato inquietante:
la sua voce è pari a quella di una cagnetta poppante,
ma essa è invece un mostro malvagio, e nessuno
a vedersela di fronte gioirebbe, nemmeno un dio.
Dodici sono i suoi piedi, e tutti malformati,
ha sei colli lunghissimi, e ciascuno ha una orrida
testa, e in ognuna ci sono tre file di denti,
moltissimi e fitti, pieni del nero della morte.
Per metà sta sprofondata nell’antro profondo,
ma dal terribile baratro tiene fuori le teste.
Qui pesca, frugando lo scoglio all’intorno,
delfini, pescicani e mostri più grandi, se càpita,
afferra, quanti innumerevoli nutre la mugghiante Anfitrite.
Di lì con la nave nessuno si vanta di esser fuggito
indenne da morte; con ogni singola testa un uomo si prende:

lo afferra da sopra le navi dalla prora scura.

L’altro scoglio vedrai, Ulisse, molto basso, l’un all’altro
vicini: un tiro di freccia la distanza percorre.
Su di esso è un gran fico selvatico, fiorente di foglie.
Sotto, Cariddi divina risucchia l’acqua scura.
Tre volte al giorno emette, tre volte risucchia,
terribile. Che tu non sia lì quando inghiotte:
nemmeno l’Enosictono ti salverebbe da morte.
Accòstati molto allo scoglio di Scilla e presto
porta fuori la nave. Molto meglio sei compagni
piangere sulla nave che non piangerli tutti’.

“Solcavamo gemendo l’angusto passaggio:/ da una parte era Scilla, dall’altra Cariddi/ divina, che l’acqua salata inghiottiva del mare/ con suono tremendo, che poi rigettava di fuori/ e tutta in gorgoglio travolta bolliva/ come una caldaia sul fuoco che arde:/ la schiuma in alto lanciata giù ricadeva/ battendo le cime d’entrambi gli scogli./ E quando di nuovo l’acqua salata inghiottiva/ del mare pareva sconvolgersi dentro;/ […] lo sguardo era fisso a Cariddi, fisso alla morte./ Fu allora che Scilla ghermì dalla nave/ concava sei dei compagni, i più forti;”

Ulisse (Odisseo) tenta di superare i mostri Scilla e Cariddi. Scilla mangia sei volte sei compagni di Ulisse, mentre Cariddi risucchia le acque. Dopo aver affrontato i due mostri, Odisseo, approdato con i suoi compagni sull'isola di Trinacria, non riesce a frenare la voglia dei compagni di banchettare con le invitanti mucche di Elio (altre versioni dicono di Era o Apolo). Per questo Odisseo racconta di essere stato per nove giorni in balia di terribili tempeste scatenate da Zeus, con la nave e i compagni uccisi da Scilla.

Ulisse riesce così ad evitare il naufragio dell’intera nave sacrificando però sei dei suoi compagni, e tristemente continua il suo viaggio fino a Itaca.


In realtà, proprio dove il mito si fonde con la leggenda e dove i racconti antichi trovano poi riscontro, ecco che ci si chiede: ma chi erano Scilla e Cariddi?

Due ninfe diventate mostri


Le statue di Scilla e Cariddi scolpite da Giovanni Angelo

Montorsoli sulla fontana di Orione a Piazza Duomo.

Ci sono diversi racconti popolari tradizionali che hanno fatto nascere molte leggende attorno a Scilla e Cariddi, ma è certo che prima di essere tramutate in due mostri, esse erano due bellissime ninfe del mare.



SCILLA

Scilla, dagli occhi azzurri, era figlia di Forcis e Ceto, figlia di Gea e Ponto, anch’esso un mostro simile ad una balena. Secondo il mito, Scilla vive presso le rive di Zancle, in Calabria, e lì che incontrò Glauco, figlio di Poseidone, che s’innamorò perdutamente di lei.

Ciò nonostante la ninfa respinse il dio marino e quest’ultimo chiese aiuto a Circe, per conquistarla. La maga, però s’innamorò di Glauco e gli chiese di diventare il suo compagno, ma egli rifiutò, perché era completamente rapito da Scilla. Allora la maga trovò il modo di rifilare alla bella ninfa un filtro, che la trasformò in un essere mostruoso, dalle molte gambe serpentine, alle cui estremità si trovano delle bocche con cui divorava i marinai. Scilla, allora, si rifugiò in una grotta, nello stretto di Messina, insieme a Cariddi. Una immagine spaventosa che ha alimentato la loro fama.

La storia è diversa per Cariddi, una naiade figlia di Poseidone e di Gea, ma a differenza della prima, lei era dedita alle rapine prima di diventare un mostro, ed era nota per la sua voracità. Zeus, dopo che ella rubò dei buoi a suo figlio Eracle e a Gerione, il gigante a tre teste, decise di punirla gettandola in mare e trasformandola in un mostro orrendo, simile a una lampreda.

Si dice che per risucchiare le sue vittime, Cariddi creava dei veri e propri vortici nel mare, dove le navi affondavano e lei poteva soddisfare la sua voracità. Lo stesso avvenne poi nei racconti narrati nell’Odissea, dove lo stesso Ulisse si trovò ad affrontare i due terribili mostri.



Geograficamente Cariddi è collocabile sulla punta messinese della Sicilia, a Capo Peloro.

Scilla è sulla spiaggia calabrese, da Punto Pizzo ad Alta Fiumara.

OMERO - ODISSEA

SCILLA E CARIDDI

 

L’altro scoglio, più basso tu lo vedrai, Odisseo, / vicini uno all’altro, / dall’uno potresti colpir l’altro di freccia. / Su questo c’è un fico grande, ricco di foglie; / e sotto Cariddi gloriosamente l’acqua livida assorbe. / Tre volte al giorno la vomita e tre la riassorbe / paurosamente. Ah, che tu non sia là quando riassorbe.

A rendere un’Odissea il passaggio nello Stretto, sin dai tempi in cui Messina era una perla della Magna Grecia, erano soprattutto le correnti irregolari e imprevedibili, capaci di raggiungere una velocità di svariati km/h e di generare vortici letali. Fra questi, due in particolare avevano le sembianze mostruose di esseri ultraterreni, Cariddi (“Colei che risucchia”) sul versante siculo, nei pressi di Torre Faro, e la dirimpettaia Scilla (“Colei che dilania”), nello specchio d’acqua su cui si specchia Cannitello, fra Alta Fiumara a Punto Pezzo.

Figlia di Poseidone (dio il mare) e di Gea (dea la terra), Cariddi. Punita da Zeus per la sua insaziabile voracità e trasformata in un mostro marino, funestava le imbarcazioni in transito sullo Stretto, ingoiando tre volte al giorno un enorme quantità d’acqua per poi sputarla, “deglutendo” barche e marinai. A parlare di Cariddi sono Omero, nel canto XII dell’Odissea, Virgilio, nell’Eneide, e anche Dante, che nell’Inferno si serve dell’immagine del mostro marino per descrivere l’eterno scontrarsi degli avari e dei prodighi: era una delle Naiadi (ninfe che presiedono a tutte le acque dolci della terra) che secondo alcune versioni avrebbe prima rubato e poi divorato i buoi.

(«Come fa l’onda là sovra Cariddi, / che si frange con quella in cui s’intoppa, così convien che qui la gente riddi»).

LA LEGGENDA DELLA FATA MORGANA



Stretto di Messina - La leggenda di Fata Morgana

Una illusione Ottica

di Carlo GATTI

LINK

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=336;morgana&catid=54;saggi&Itemid=160

Dalla costa reggina molto di rado, per breve tempo e di solito in giornate calde e con aria e mare calmi, si produce il noto fenomeno di miraggio detto fata morgana, che dà l’impressione di un avvicinamento della costa sicula, gli edifici della quale si prospettano in mare o nell’aria con immagini stranamente allungate, deformate, sempre nuove, simulando città fantastiche e anche schiere di uomini in moto.

La leggenda ci tramanda che, dopo aver condotto suo fratello Artù ai piedi dell'Etna, Morgana si trasferisce in Sicilia tra l'Etna e lo stretto di Messina, dove i marinai non si avvicinano a causa delle forti tempeste, e si costruisce un palazzo di cristallo.


Sempre in base alla leggenda, Morgana esce dall'acqua con un cocchio tirato da sette cavalli e getta nell'acqua tre sassi, il mare diventa di cristallo e riflette immagini di città. 

Grazie alle sue abilità, la Fata Morgana riesce ad ingannare il navigante che, illuso dal movimento dei castelli aerei, crede di approdare a Messina o a Reggio, ma in realtà naufraga nelle braccia della fata.


Guardando da Messina verso la Calabria, si vede come sospesa nell'aria l'immagine di Messina e, viceversa, guardando da Reggio Calabria verso Capo Peloro, si vede Reggio nello stretto.

 

RIENTRIAMO ORA NEL TERZO MILLENNIO

Siamo nel 2021 e dobbiamo precipitosamente ritornare con i piedi sulla terraferma per rivolgerci alla SCIENZA che ci spiega in breve cosa succede da sempre nello Stretto:

Il braccio di mare che separa la Calabria dalla Sicilia è largo oltre 3 chilometri a nord, fra Torre Cavallaro e il Capo Peloro, e 16 chilometri circa a sud, fra la Punta Péllaro e il Capo d’Alì; nel senso della lunghezza si estende per 33 chilometri. La profondità varia da 120 a 150 metri nel punto più stretto. Contrariamente all’opinione, diffusa nell’antichità dai filosofi greci, che lo Stretto fosse stato aperto da un terremoto o dalla furia del mare agli albori della storia, i moderni studi geologici hanno dimostrato ch’esso esiste da tempi molto remoti: per lo meno dall’epoca in cui ebbero luogo quei movimenti della crosta terrestre che furono alla base della struttura dell’Appennino; lo Stretto, anzi, doveva essere più largo di oggi. La navigazione in esso fu ritenuta pericolosa fin dall’antichità e in effetti presenta difficoltà soprattutto per le correnti rapide e irregolari e per i venti che vi spirano violenti e talvolta in conflitto.

La corrente principale, dovuta al livellamento dei bacini tirrenico e ionico attraverso lo Stretto e al relativo flusso, va da sud a nord col nome di rema montante; quella determinata dal riflusso, con direzione opposta, si chiama rema scendente. Queste correnti toccano una velocità massima di oltre 9 chilometri all’ora e si alternano di sei in sei ore; di norma raggiungono l’intensità massima dopo 4 ore dall’inizio e diminuiscono fino a mezz’ora prima della corrente opposta. Ogni corrente ha ai lati i bastardi, cioè controcorrenti, che si sviluppano in località note circa un’ora dopo l’inizio della corrente. Nei punti d’incontro di correnti opposte, oppure dove una corrente trova notevoli differenze di fondo, si formano vortici detti garófali o réfoli, di cui i principali sono quelli chiamati dagli antichi Scilla e Cariddi, che si formano con la montante, il primo sulla costa calabrese da Alta Fiumara a Punta Pezzo, il secondo alla spiaggia del Faro. I due famosi vortici derivano dall’urto delle acque contro la Punta Torre Cavallo e il Capo Peloro. Cariddi talvolta è accompagnato da un rimescolio delle acque così violento da mettere in pericolo le piccole imbarcazioni. Notevole è anche il vortice che si forma, con la scendente, davanti al faro di Messina e con i venti sciroccali e in giorni di luna piena o nuova rende il mare agitato tra la Grotta e le acque di San Ranieri. Altri garófali sono a Sant’Agata, Punta Grotta, San Salvatore dei Greci, Punta Pezzo e Catona.

Le acque dello Stretto con la montante si abbassano di circa 15 o 20 centimetri; con la scendente si alzano di altrettanto, con un dislivello massimo di mezzo metro. Le depressioni maggiori si hanno in agosto, le elevazioni massime in novembre, dicembre e parte di febbraio. Nei giorni di maggior forza delle correnti, la montante è sempre più violenta della scendente e riesce a strappare dal fondo erbe e alghe. Quando è rafforzata da particolari condizioni meteorologiche getta sulle spiagge di Ganzirri, del Faro e anche di San Ranieri, pesci abissali dagli occhi atrofizzati, con organi produttori di fosforescenza e di forme inconsuete.

Si conclude così il nostro breve viaggio virtuale nello STRITTU che ci ha portato a ritroso nel tempo, quando il breve tratto di mare era “popolato” da mostri, divinità e strane creature, fra misteri, prodigi e fenomeni atmosferici (all’epoca) inspiegabili. Una leggenda siciliana che ispira la fantasia e ci riporta alla memoria viaggi e avventure che hanno reso l’attraversamento dello Stretto di Messina una prova di coraggio nell'immaginario collettivo.

Possiamo definirlo lo Stretto del Mito, reso immortale da alcuni dei più grandi scrittori di sempre, affascinati dalla suggestione di un luogo che nei secoli ha terrorizzato viaggiatori e marinai a causa soprattutto della sua variegata fauna e del perenne scontro fra lo Jonio e il Tirreno.

Millenni di storia e leggenda in un luogo unico al mondo.

Carlo GATTI

Rapallo, 1 Settembre 2021

 


DAL GARUM ALLA COLATURA DI ALICI DI CETARA

DAL GARUM ALLA COLATURA DI ALICI DI CETARA


Porto di Pompei

Con il termine garum si designava quel particolare condimento ottenuto dalla macerazione e dall’auto digestione enzimatica di alcune varietà di pesci. Il sale che veniva aggiunto aveva la funzione di conservante. Le sostanze proteiche degradate dagli stessi enzimi presenti nelle interiora del pesce avevano la funzione di creare aminoacidi liberi, grassi polinsaturi e lipidi essenziali.

Nel porto di Pompei arrivavano anche mercanzie da ogni luogo del Mediterraneo Abbiamo ampie prove di questi traffici commerciali che venivano regolati dalle esigenze di mercato. Presso il Museo Archeologico di Boscoreale sono esposti alcuni esempi di anfore per il trasporto del vino, dell’olio e del garum. La differente morfologia delle anfore, i bolli di fabbrica e le iscrizioni dei contenuti ci fanno comprendere come questi prodotti tipici dell’industria locale venissero trasportati attraverso il mare anche a terre lontanissime.

Il garum di Pompei era servito sulle tavole delle ricche dimore da Leptis Magna a Sidone, da Argo a Tarros, da Gibilterra a Cipro. Un commercio fiorentissimo che connotava rotte e guidava l’economia verso prodotti tipici e oggettivamente validi.

La nostra salsa aveva probabilmente un gusto acidulo ed odoroso di mare. Un forte carattere la distingueva, soprattutto se associata a pietanze quali le cacciagione, i crostacei, ed anche le stesse zuppe di pesce. Nella lingua greca oggi alcuni tipi di pesci piccoli e saporiti e le stesse alici si definiscono con il termine “gavros” ossia ΓΑΥΡΟΣ. Possiamo pensare quindi che le stesse radici gastronomiche di questo condimento, già esistevano tra i popoli del bacino orientale del Mediterraneo. Lo stesso sale ad esempio, utilizzato come conservante naturale delle proteine era noto nel mondo egizio, dove veniva utilizzato miscelato ad altre sostanze per formare il natron.

 

Navigando qua e là per il WEB mi sono imbattuto, per una strana duplice coincidenza.


GARUM MARE NOSTRUM


La prima è che il Garum é una mia vecchia conoscenza di quando mi capitava di visitare i musei di archeologia marina; la seconda é Mare Nostrum, nome che conosco “abbastanza” bene…

Ho pensato quindi di passare la parola a questi nostri Amici di Viareggio che non conosco, ma che sento in qualche modo vicini ai nostri ideali. Non è quindi un caso che il nostro Presidente Agostino Lertora, oltre ad essere un provetto nuotatore e pescatore subacqueo, abbia pure una certa fama di cuoco specializzato in piatti di pesce, come gli amici di F/b ben sanno. La sua fama, per dire il vero, abbraccia anche l’arte pittorica di quel settore, come dimostra la foto che segue:

La parola agli esperti!

“Negli ultimi anni la nostra associazione, nell’ambito dei suoi progetti di ricerca e di studio , sta operando per la valorizzazione delle qualità nutraceutiche del pesce, ed in particolare del pesce azzurro, comunemente identificato con l’appellativo di “pesce povero”.
L’interesse per questa iniziativa è motivata dalla scarso gradimento che i bambini e le bambine hanno nei confronti del pesce, e della scarsa conoscenza delle sue qualità salutistiche.
Il nostro progetto sul pesce coinvolge i pescatori dei nostri mari, ed è condotto con la collaborazione di enti pubblici, fra i quali il Comune di Viareggio, dove è presente la più importante realtà di pescatori della Toscana; la Regione Toscana, che da alcuni anni sostiene progetti legati alla valorizzazione dei prodotti locali nell’ambito delle filiere corte e della ristorazione scolastica.


Nel lavoro di studio e di ricerca sulla tipicità, sulle tradizioni e sul nostro patrimonio alimentare legato al pesce, abbiamo intercettato il
garum, un condimento a base di pesce azzurro, fra i più noti dell’antichità e che i romani adoravano e producevano in grandi quantità nell’area del Mediterraneo.


Dai nostri studi e ricerche abbiamo rilevato che questo condimento con molta probabilità prende il nome da un pesce “Garos”, da cui è derivato il nome “Garon“ usato dagli antichi Greci, e il nome
“Garum” usato dai Romani.


A partire dal II sec. A.C. questa salsa di pesce, usata prevalentemente come condimento ebbe un successo crescente. La qualità del
garum veniva indicata con lettere dipinte sulle anfore ed assicurava anche l’anno di produzione. Le migliori salse erano denominate Garum Excellens (ottenuto con alici e ventresche di tonno); Garum Flos Floris (ottenuto con sgombri, alici, sardine); Garum Flos Murae (ottenuto dalle murene). Il garum prodotto nelle colonie romane dell’Africa settentrionale, della Spagna, veniva chiamato Garum Sociorum. Una delle più importanti officine per la produzione del garum si trovava a Pompei.
Il
garum veniva utilizzato sia come condimento, sia come ingrediente di cottura. Con il garum si insaporivano i funghi e le uova, mescolato all’aceto o ad altre erbe aromatiche, costituiva una salsa di condimento delle carni o del pesce alla brace.


Le sue qualità medica mentali erano altrettanto note: efficace disintossicante e antidolorifico. Le sue proprietà energetiche erano utilizzate dagli eserciti per le loro operazioni militari.
Molte sono le citazioni che si ritrovano sul
garum in epoca romana, il che confermerebbe la sua larga diffusione in tutta l’area del Mediterraneo e i suoi molteplici usi in cucina e come elemento altamente energetico. Fra le citazioni più note, possiamo ricordare quelle di Apicio nel “De ReCoquinaria”; Marziale; Varrone; Plinio Il Vecchio in Naturalis Historia; Columella nel De Rustica.


Il
garum resterà presente nella tradizione gastronomica alto medievale, con fabbriche di produzione a Bisanzio e nell’area adriatica, per avviarsi successivamente verso un progressivo declino. Uno dei principali ed ultimi porti di smercio di questo prodotto è stata la citta’ di Lunae (Luni) in Liguria.


Ai giorni nostri si producono alcune salse a base di pesce, con procedimenti diversi, fra le quali la colatura di
Alici di Cetara.


Il progetto di recupero del
garum, ed in particolare la produzione del “Garum Mare Nostrum” è iniziato tre anni fa.


Nel mese di luglio del 2011 si è realizzata una prima produzione sperimentale del garum mare nostrum. In particolare gli ingredienti usati sono stati: pesce azzurro (alici, sgombri, sardine) pescato nel Mar Tirreno; sale marino integrale; erbe aromatiche della macchia mediterranea (rosmarino, alloro, timo), seguendo alcune tecniche di produzione e conservazione da noi codificate, con riferimento alle fonti storiche”.

Noi possiamo solo aggiungere che la qualità del Garum in antichità veniva indicata con lettere dipinte sulle anfore ed assicurava anche l’anno di produzione. Nella casa di Paquius Proclus, personaggio in vista nell’ultimo periodo di Pompei, è stata trovata un’anfora contenente Garum stagionato di tre anni: ciò dimostra che questa salsa può essere conservata per lungo tempo.
Esisteva un Garum ordinario e uno di qualità, a seconda dell’utilizzo di residui di pesci di vario tipo o piccoli pezzi di pesce scelto. Il Garum migliore era il gari flos, il fiore del Garum, il più puro, il primo liquido filtrato; il Garum nigrum godeva di grande reputazione e si vendeva in vasetti.

Le migliori salse erano così denominate:


Garum Excellens, ottenuto con alici e ventresche di tonno;
Garum Flos Floris, (tipo extra) ottenuto con diverse qualità di pesci (sgombri, alici, tonni, ecc.);
Garum Flos Murae, ottenuto dalle murene.


Altri tipi di Garum si riferiscono a particolari commistioni, come l’Oxygarum, una sorta di bevanda digestiva con numerose erbe tritate, l’Hydrogarum che era lavorato con erbe aromatiche. L’Halex o Allec era il residuo del Garum, ma poteva essere fatto anche con pesci delicati; Apicio inventò un Allec da fegato di triglia (mullus) che faceva macerare nel Garum, il quale ricorda l’olio di fegato di merluzzo considerato nel passato un potente ricostituente per i bambini.


Tre anfore per il garum

Il miglior Garum veniva prodotto da una cooperativa di Cartagine, il cosidetto Garum Sociorum, che si produceva con il gusto prevalente dello sgombro. Un’anfora di sei litri di Garum Cartaginese costava allora mille sesterzi (circa mille euro attuali). Ottimi e più economici erano i tipi prodotti a Pompei, Antibes (sulla Costa Azzurra) ed in altri pochi centri del Mediterraneo.


Garum ottenuto dalla riproduzione sperimentale (GARCÍA VARGAS)


“Garum di Pompei” in fase di preparazione

 

Il garum, nota e famigerata salsa di pesce fermentato, era molto diffuso e apprezzato nel mondo romano; non solo infatti era un metodo, alternativo alla salagione a secco (salsamentum), di conservare il pesce, ma forniva all’alimentazione un buon apporto di sale e serviva a esaltare il sapore di quasi ogni piatto, grazie all’elevata quantità di glutammato (quello che oggi troviamo nel dado da cucina o nella salsa di soia). La lavorazione del pesce, tanto salato quanto in salse, ha origine mesopotamica ed egizia risalente al III millennio a.C., o ancor prima; essa passò poi al Vicino Oriente e fu nota fin dal VII secolo a.C. ai Greci, i quali chiamavano tarichos il pesce salato e garon la salsa, per la quale utilizzavano una specie di piccolo pesce non meglio identificato, il garos. Contemporaneamente, con le loro colonizzazioni, i Greci portarono la produzione in occidente, ma non bisogna dimenticare anche il ruolo dei Fenici, specialmente verso le coste iberiche, che non a caso in seguito saranno i maggiori e migliori produttori. Furono proprio i Fenici a dare inizio a una pesca intensiva, finalizzata alla lavorazione, in particolare nelle aree limitrofe allo stretto di Gibilterra, passaggio obbligato dei tonni nelle migrazioni fra Mediterraneo e Atlantico. Fenicio è il primo impianto di produzione noto, con vasche per la salagione, a Gadir, l’odierna Cadice, risalente al V secolo a.C. Furono, di nuovo, i Fenici a generalizzare l’uso di anfore per il trasporto di questi prodotti, rinvenute in tutto il Mediterraneo. I Romani, poi, recepirono anch’essi queste tecniche e, con l’aumento della domanda, nacque una produzione “industriale”, destinata al commercio anche a lungo raggio, tramite delle anfore specializzate. I centri produttivi romani, detti cetariae, più numerosi e grandi di quelli fenici, si concentrarono soprattutto sulle coste, sia atlantiche che mediterranee, della Baetica, nel sud dell’Hispania. Altri importanti esportatori furono le province dell’Africa settentrionale e la Sicilia, ma Plinio ricorda come centro di produzione rinomato anche Pompei. Una delle cetariae meglio note e studiate è quella di Baelo Claudia, sempre vicino a Cadice. Questi impianti producevano probabilmente tanto il garum quanto il salsamentum e sono caratterizzati da vasche per la salagione, generalmente quadrangolari, ma a volte anche circolari, come alcune di Baelo Claudia che, per le grandi dimensioni, potrebbero essere state destinate a dei cetacei.





La Colatura di Alici è il prodotto principe del borgo marinaro di Cetara, splendida cittadina dell’illustre Costiera Amalfitana. Il liquido di colore ambrato, dalle presunte origini asiatiche e ben noto successivamente agli antichi romani, si ottiene dalla lunga maturazione delle alici sotto sale.

La ricetta venne poi in qualche modo recuperata nel Medioevo da parte dei gruppi monastici presenti in Costiera Amalfitana, i quali ad agosto erano soliti conservare sotto sale le alici in botti di legno con le doghe scollate e poste in mezzo a due travi, dette mbuosti; sotto l'azione del sale, le alici perdevano liquidi che fuoriuscivano tra le fessure delle botti. Il procedimento si diffuse successivamente tra la popolazione della costa, che la perfezionò con l'utilizzo di cappucci di lana per filtrare la salamoia.

La colatura d'alici viene soprattutto utilizzata come condimento di spaghetti, ma anche per insaporire piatti a base di pesce o verdure, come ad esempio la scarola per la pizza ripiena; inoltre con verdure saltate in padella con olio, aglio e peperoncino, quali bietole, spinaci, ecc. Da alcuni è apprezzata anche come condimento per pomodori, olive, persino per panini farciti e uova cotte in vari modi.

“Un prodotto simbolo importante per il rilancio della enogastronomia – dichiara Mauro Rosati, direttore Generale Qualivita – che, data la notorietà che aveva assunto a livello nazionale ed internazionale in questi anni, ora potrà essere tutelato dalle imitazioni”.


Sicuramente abbiamo sentito parlare di Marco Gavio Apicio, un ricco romano vissuto nel I secolo d.C., e del suo “De re coquinaria”, preziosa fonte di informazionI sulle abitudini alimentari degli antichi romani.

Con le sue 478 ricette, alcune delle quali assai stravaganti, ci trasmette la cultura gastronomica del tempo, conosciuta e praticata nelle case dei ricchi, naturalmente. Singolare è la continuità che si riscontra con alcune preparazioni gastronomiche in uso ancora oggi, divenute col tempo vere prelibatezze.

Sembra infatti che Apicio, da grande buongustaio quale era, avesse trovato il modo per ottenere una pietanza simile al moderno foie gras, ingozzando le povere oche con i fichi!

Ma è il garum il vero protagonista della ricca tavola romana, una salsa ottenuta dalla fermentazione di interiora di pesce, il cui solo pensiero sicuramente ci disgusterebbe.


Sorprendentemente esiste un erede del garum nella cucina italiana: la colatura di alici.

Non si produce con interiora, ma con alici eviscerate, ma chissà se la più antica tradizione prevedesse l’uso di alici intere.

Attualmente il borgo di pescatori di Cetara, situato in costiera amalfitana, detiene il primato nella produzione della colatura di alici.

Il garum era preparato mescolando le interiora di pesce con sale e diversi tipi di spezie. Il tutto veniva fatto macerare esponendolo al sole per un paio di mesi.

Il liquido che si formava veniva filtrato, ed era la parte più preziosa, il garum appunto.

la parte solida serviva per la preparazione di un altro tipo di salsa, l’allec.

A Cetara le alici impiegate per la trasformazione sono tradizionalmente quelle pescate tra il 25 marzo, festa dell’Annunciazione, e il 22 luglio, S. Maria Maddalena.

Dopo essere state pulite (vengono rimosse testa e interiora), le alici vengono prima tenute per una giornata in grandi vasi con abbondante sale, poi poste in botticelle chiamate terzigni, a strati alternati con il sale.






CARLO GATTI

Rapallo, 28 Gennaio 2021


NAVI E STELLE


NAVI E STELLE

Tipo di astro

Costellazione

Nome

Tipo di nave

Dal

Al

MOTTO, traduzione e note

Costellazione

ANDROMEDA

Andromeda

Torpediniera

1936

1941


Costellazione

ANDROMEDA

Andromeda

Avviso scorta

1943

1971

Marina USA, come Caccia di scorta, dal 1943 al 1951 con il nome di Wesson

Stella

AQUILA

Altair

Torpediniera

1936

1941


Stella

AQUILA

Altair

Avviso scorta

1943

1971

Appartenuta alla Marina USA dal 1943 al 1951, come Caccia di scorta, Gandy

Costellazione

AQUILA

Aquila

Avviso a ruote

1840

1875


Costellazione

AQUILA

Aquila

Torpediniere avviso

1888

1912


Costellazione

AQUILA

Aquila

Esploratore leggero

1914

1939

ALARUM VERBERA NOSCE   Paventa l'impeto delle mie ali

Costellazione

AQUILA

Aquila

Portaerei

1941

1945

( Ex transatlantico Roma )

Costellazione

AQUILA

Aquila

Corvetta

1961

1991

ALARUM VERBERA NOSCE   Paventa l'impeto delle mie ali

Costellazione

ARIES

Ariete

Torpediniera

1943

1949

MAGIS TENACIA QUAM CORNIBUS EVERTO  Distruggo di più con la tenacia che con l'impeto

Stella

CANIS MAJOR

Sirio

Torpediniera d’alto mare

1905

1923

SIDUS VIGILANS Stella vigilante Sirio: occhio del Cane che veglia sopra il limitar di Dio!

Stella

CANIS MAJOR

Sirio

Pattugliatore d’altura

2003



Stella

CANIS MINOR

Procione

Torpediniera d'alto mare

1906

1924

CAVE CANEM   Attenti al cane

Stella

CANIS MINOR

Procione

Avviso scorta

1936

1943


Personaggio

CAPRICORNUS

Ibis

Corvetta cacciasommergibili

1943

1971

IBIS, REDIBIS, NON MORIERIS IN BELLO  Andrai, ritornerai, non morirai in guerra

Stella

CARINA

Canopo

Torpediniera d’alto mare

1907

1923


Stella

CARINA

Canopo

Torpediniera

1937

1941


Stella

CARINA

Canopo

Avviso scorta

1952

1981

CON ARDIRE E CON TENACIA

Costellazione

CASSIOPEIA

Cassiopea

Corvetta

1937

1959


Costellazione

CASSIOPEIA

Cassiopea

Pattugliatore d’altura

1989

2023

ADSUM  Sono presente… ( sottinteso : Sono presente ovunque vi sia da combattere )

Costellazione

CENTAURUS

Centauro

Torpediniera d’alto mare

1907

1922

NON E' MAI  TARDI  PER ANDAR PIU'  OLTRE  tratto “La  Nave” D'Annunzio

Costellazione

CENTAURUS

Centauro

Torpediniera

1936

1943


Costellazione

CENTAURUS

Centauro

Avviso scorta

1952

1984

FERREA MOLE FERREO CUORE Motto Div. Centauro donato bandiera comb.

Costellazione

CENTAURUS

Chirone

Rimorchiatore d’alto mare

1942

1987

Centauro Chirone : mitico personaggio, metà uomo e metà cavallo

Costellazione

CETUS

Balena

Rimorchiatore

1911

1943


Costellazione

COMA BERENICES

Berenice

Corvetta

1942

1943


Stella

CORONA BOREALIS

Gemma

Sommergibile

1936

1940


Costellazione

CYGNUS

Cigno

Torpediniera

1937

1943


Costellazione

CYGNUS

Cigno

Avviso scorta

1957

1983

PRIMUS IN ACIE   Primo nel combattimento

Costellazione

DELPHINUS

Anfitrite

Sommergibile

1934

1941

Il Delfino, convinse Anfitrite a seguirlo nella dimora sottomarina di Poseidone

Costellazione

DELPHINUS

Delfino

Sommergibile

1892

1919


Costellazione

DELPHINUS

Delfino

Sommergibile

1931

1943

SUBSUM SED SUPERIS OBSUM  Sto sotto ma nuoccio a chi sta sopra

Personaggio

ERIDANUS

Climene

Torpediniera

1936

1943

Fetonte ( significa Radioso) era il figlio mortale del Dio Sole e della oceanina Climene

Costellazione

ERIDANUS

Eridano

Nave idrografica

1895

1907


Costellazione

ERIDANUS

Eridano

Cisterna per acqua

1910

1937


Stella

GEMINI

Castore

Torpediniera

1888

1925


Stella

GEMINI

Castore

Torpediniera

1937

1943


Stella

GEMINI

Castore

Avviso scorta

1955

1980

ARDISCO AD OGNI IMPRESA

Stella

GEMINI

Polluce

Torpediniera

1888

1911


Stella

GEMINI

Polluce

Torpediniera

1937

1942


Costellazione

GRU

Gru

Corvetta cacciasommergibili

1942

1971

TIMEO SED TIMOREM  Non temo che la paura

Costellazione

HERCULES

Ercole

Pirofregata II rango a ruote

1841

1875

Dal 1841 al 1861,  appartenente alla Marina del Regno delle Due Sicilie

Costellazione

HERCULES

Ercole

Rimorchiatore

1944

1989


Costellazione

HERCULES

Ercole

Rimorchiatore costiero

2002


Acquisito dalla MMI nel 2014

Costellazione

LEO

Leone

Esploratore leggero

1921

1941

QUIA SUM LEO   Perché sono il Leone

Costellazione

LIBRA

Libra

Torpediniera

1938

1964


Costellazione

LIBRA

Libra

Pattugliatore d’altura

1989

2023

PATIENS  VIGIL AUDAX   Paziente, vigilante, audace

Costellazione

LINX

Lince

Esploratore leggero

1921

1921


Costellazione

LINX

Lince

Torpediniera

1938

1943


Costellazione

LUPUS

Lupo

Torpediniera

1938

1942

FULMINEO SULLA PREDA

Costellazione

LUPUS

Lupo

Fregata

1977

2003

FULMINEO SULLA PREDA

Costellazione

LYRA

Lira

Torpediniera

1938

1944

Appartenente alla Kriegsmarine ( Marina Militare Tedesca ) dal 1943 al 1944

Stella

LYRA

Vega

Torpediniera

1936

1941

NON NISI IN OBSCURA SIDERA NOCTE MICANT Le stelle non brillano soltanto in una notte oscura

Stella

LYRA

Vega

Pattugliatore d’altura

1990

2022

SEMPRE E OVUNQUE

Costellazione

MUSCA

Mosca

Torpediniera da costa

1882

1898


Costellazione

ORION

Orione

Torpediniera d’alto mare

1907

1923

SPLENDORE IN CIELO GLORIA IN MARE

Costellazione

ORION

Orione

Avviso scorta

1937

1964

SPLENDORE IN CIELO GLORIA IN MARE

Costellazione

PEGASUS

Pegaso

Torpediniera d’alto mare

1905

1923


Costellazione

PEGASUS

Pegaso

Avviso scorta

1936

1965


Personaggio

PERSEUS

Medusa

Sommergibile

1911

1915

La celebre Gorgona Medusa era l’unica delle tre Gorgoni a non essere mmortale

Personaggio

PERSEUS

Medusa

Sommergibile

1931

1942


Costellazione

PERSEUS

Perseo

Torpediniera d'alto mare

1906

1917

VINCERA'  CHI VORRA'  VINCERE

Costellazione

PERSEUS

Perseo

Torpediniera

1936

1943

VINCERA'  CHI VORRA'  VINCERE

Costellazione

PERSEUS

Perseo

Fregata

1980

2005

VINCERA'  CHI VORRA'  VINCERE

Costellazione

PHOENIX

Fenice

Corvetta cacciasommergibili

1943

1965

RESURGIT  Risorge

Costellazione

PHOENIX

Fenice

Corvetta

1990

Serv

RESURGIT  Risorge

Costellazione

SAGITTA

Freccia

Cacciatorpediniere

1899

1911


Costellazione

SAGITTA

Freccia

Cacciatorpediniere

1929

1943

DELIBERATA DI TOCCARE IL SEGNO

Costellazione

SAGITTA

Freccia

Motocannoniera

1965

1985


Costellazione

SAGITTA

Saetta

Motocannoniera

1966

1986


Costellazione

SAGITTARIUS

Sagittario

Torpediniera d'alto mare

1905

1923

NON COHIBETUR SAGITTA  La mia freccia non sia trattenuta

Costellazione

SAGITTARIUS

Sagittario

Fregata

1978

2005

NON COHIBETUR SAGITTA  La mia freccia non sia trattenuta

Stella

SCORPIUS

Antares

Torpediniera

1936

1943


Costellazione

SERPENS

Serpente

Torpediniera d'alto mare

1906

1916

VAFER REPENTE LETIFER  Astuto, rapido e letale

Costellazione

SERPENS

Serpente

Somm. piccola crociera

1932

1943

INSIDIARUM EXPERIENS  Intraprendente nelle insidie

Personaggio

SEXTANS

Urania

Incrociatore torpediniere

1889

1921


Personaggio

SEXTANS

Urania

Corvetta cacciasommergibili

1942

1971


Stella

TAURUS

Alcione

Torpediniera

1938

1941


Stella

TAURUS

Alcione

Corvetta antisom

1953

1992

NIHIL ME DEFLECTIT   Niente mi distoglie

Stella

TAURUS

Aldebaran

Torpediniera

1936

1941


Stella

TAURUS

Aldebaran

Avviso scorta

1943

1975

Appartenuta alla Marina USA dal 1943 al 1951, Caccia di scorta, nome  Thornill

Stella

TAURUS

Atlante

Rimorchiatore

1927

1968

Atlante è una stella dell’Ammasso delle Pleiadi della costellazione TAURUS

Stella

TAURUS

Atlante

Rimorchiatore d’altura

1978


Atlante è una stella dell’Ammasso delle Pleiadi della costellazione TAURUS

Stella

TAURUS

Elettra

Unità Polivalente di Supporto

2003

Serv

Anima i silenzi aerei 

Ammasso

TAURUS

Pleiadi

Torpediniera

1938

1941


Stella

TAURUS

Sterope

Cisterna per nafta

1939

1947

Sterope è una stella dell’Ammasso delle Pleiadi della costellazione TAURUS

Stella

TAURUS

Sterope

Nave logistica di squadra

1944

1977

Appartenuta dal 1944 al 1959 alla Marina USA con il nome di FORBES ROAD ( dal 1944 al 1947 ) e di Enrico Insom ( dal 1947 al 1959 )

Costellazione

URSA MAIOR

Orsa

Avviso scorta

1936

1943


Costellazione

URSA MAIOR

Orsa

Fregata

1980

2003

FORTITUDINE  FORTIOR   Più forte della forza

Costellazione

URSA MAIOR

Orsa Maggiore

Yacht

1994

Serv

Ad maiora duco

Personaggio

URSA MINOR

Aretusa

Incrociatore torpediniere

1889

1912

Nella mitologia greca, le sette stelle dell’Orsa MinoreAretusa, Estia, Espera, Esperusa ed Esperia erano le Esperidi: Egle, Eritea,

Personaggio

URSA MINOR

Aretusa

Torpediniera

1938

1958


Personaggio

URSA MINOR

Aretusa

Nave  idro – oceanografica

1999

Serv

ARETHUSA UNDIS PROSPICIT  Aretusa guarda avanti

Stella

URSA MINOR

Stella Polare

Nave da trasporto

1883

1911


Stella

URSA MINOR

Stella Polare

Yacht

1965

Serv

Cantieri Navali Sangermani di Lavagna Ex vento vis in viris fortitudo

Stella

VIRGO

Spica

Torpediniera d'alto mare

1905

1923

GLORIA E  LATOR   Foriero di gloria

Stella

VIRGO

Spica

Pattugliatore d’altura

1990

2022

VIGILE  ATTENDO   ( Motto già appartenuto al sommergibile F15 )

Asteroide

Z - Asteroide

Cerere

Cisterna nafta

1915

1943

Dal 1915 al 1924 della Kriegsmarine ( Marina Militare Tedesca ) nome di Baltrum

Personaggio

Z – Pianeta

Galatea

Sommergibile

1934

1948

Satellite del pianeta Nettuno

Personaggio

Z – Pianeta

Galatea

Nave Idro - oceanografica

2002


Felix Galatea vivas

Pianeta

Z - Pianeta

Giove

Nave cisterna

1917

1946


Pianeta

Z - Pianeta

Marte

Nave cisterna

1892

1947

Marina Austriaca come Vesta, nel 1923, data Regia Marina in conto riparazione danni

Pianeta

Z - Pianeta

Nettuno

Nave cisterna

1917

1954


Pianeta

Z - Pianeta

Saturno

Rimorchiatore

1905

1973


Pianeta

Z - Pianeta

Saturno

Rimorchiatore d’altura

1987



Personaggio

Z - Pianeta

Titano

Rimorchiatore d’altura

1988


Satellite del pianeta Saturno

Pianeta

Z - Pianeta

Urano

Nave cisterna

1922

1954



* Serv : Unità navale in servizio e che risulta iscritta al ruolo del Naviglio Militare alla data del 31- Marzo - 2007.

ANDROMEDA



 

 

Nome scientifico: ANDROMEDA

Costellazione dell’Emisfero Celeste Nord, ampia 722 gradi2 e presente nell’Almagesto di Tolomeo del 140.

Mitologia greca: Andromeda, figlia di Cefeo e di Cassiopea, minacciata dalla Balena, venne salvata da Perseo e dalla loro unione nacquero Perses (progenitore dei Persiani) e Gorgofone (madre di 5 figli, tra cui Tindaro, Re di Sparta e marito di Leda).

Almak deriva dall’arabo Al anak al ard = un piccolo animale del deserto (simile al tasso)

Effemeridi nautiche  Nr. 6 stella gigante gialla

Alpheratz (oppure Sirah) deriva dall’arabo Al surrat al faras = Ombelico del cavallo

Effemeridi nautiche Nr. 1 stella subgigante bianca-azzurra

Torpediniera Andromeda

Classe Spica – Serie Perseo


Varata a Genova Sestri Ponente il 28 Giugno 1936

Dislocamento standard  630 t

Lunghezza 81,9 m  -  Larghezza  8,2 m - Pescaggio 3 m

Equipaggio: 116 (6 Ufficiali e 110 sottufficiali e marinai)

Armamento:  3 cannoni 108/47 – 8 mitragliere –

4 tubi lanciasiluri – 2 lanciabombe di profondità

Partecipazione alla guerra civile spagnola 1937 – 1938

Operazioni navali in Grecia e Albania 1940 – 1941

Affondata il 17 Marzo 1941, da aerosiluranti inglesi nella Baia di Valona in Albania


Corvetta Andromeda

Classe Aldebaran

Varata il 17 Ottobre 1943 a Newark (USA) con il nome di

Morgan Wesson

Dislocamento standard  1.796 t

Lunghezza 93 m - Larghezza 11,23 m - Pescaggio 3,56 m

Equipaggio 189

Armamento: 3 cannoni 75/60 – 6 cannoni 40/56

18 mitragliere – 1 porcospino – 8 lanciabombe e 1 scarica bombe

Partecipazione alla Guerra nel Pacifico 1943 – 1945, ceduta all’Italia il 10 Gennaio 1951 e denominata Andromeda

Radiata nel 1972


IL NATALE A NEW YORK DI UN EQUIPAGGIO SOPRAVVISSUTO

IL NATALE A NEW YORK DI UN EQUIPAGGIO SOPRAVVISUTO…

Versione Natalizia di un brano del libro

QUELLI DEL VORTICE

La storia del rimorchiatore d’Altura Vortice è stata scritta sul mare da tanti equipaggi. Su di loro è rimasto impresso un sigillo indelebile, corredato di una “certificazione” che è stata rilasciata dalla più esclusiva Università Marinara di Genova – Facoltà: Rimorchi d’Altura Il diploma di laurea però è impresentabile, perché è impregnato di sudore, è sporco del grasso di molte redance e maniglioni, è unto dall’olio del troller ed è schiacciato da pesanti catene.

Il centro della depressione e l’atterraggio del VORTICE a New York sono pericolosamente in rotta di collisione. La metropoli americana é già truccata per l’imminente Natale 1970


Il velo notturno, bloccato a ponente da un’entità superiore, tramonta più lentamente del solito. Le tenebre, acquattate dietro l’orizzonte, sembrano intenzionate a frenare le luci dell’alba, forse per non “chiarire” il suo infausto progetto. Poi, lentamente, la luce nascente di poppa, scolpisce uno scenario dantesco, che si estende come un arco tra i due traversi del Vortice che procede verso ponente, cavalcando su onde alte ormai sei metri o forse anche di più.

Il ponte di comando è largo quel tanto che basta per sgranchirsi le gambe tra un’onda e l’altra. Charly usa esercitare questo tipo di footing per sciogliersi i muscoli e quando il mare monta e ringhia, l’esercizio è utile, almeno così pensa, per esorcizzarne, con una specie di balletto rituale quella nenia furiosa che annunzia la nuova sfida all’O.K. Corral...

Qui la situazione appare molto più grave, perché le misure ed il peso dell’avversario sono fuori scala. Charly lo sa e per una sorta di vanto giovanile non lo teme, tuttavia non osa provocarlo, neppure con lo sguardo. Il gran match sta per cominciare e Charly non intende svelare le sue strategie né tanto meno le sue emozioni all’avversario che si avvicina minaccioso, a testa bassa, simile più ad un toro gigantesco che carica infuriato, che ad un pugile raffinato che usa colpire sempre con jabs pungenti, sfuggenti e senza tregua.


Poi, senza alcun preavviso, verso le otto, il mostro sbuffante apre le sue fauci e mostra i suoi contorni più alti, che paiono scolpiti da mani diaboliche nella nera lava. La sua parte inferiore, ancora lontana, appare invece invitante, affascinante, magica come una grotta di smeraldo, colma d’acqua scintillante… da bere! La caverna stregata è l’occhio del mostro, che incanta e attira le sue vittime per divorarle senza pietà.


Alle spalle di quell’inferno incalzante c’è il sinuoso fiume Hudson che porta alla festosa New York, con i suoi docks resi celebri da Marlon Brando in “Fronte del Porto” e che Charly rivede ora in trasparenza, brulicanti di gente festosa e laboriosa. Su quella immaginaria e cromatica tavolozza non mancano le maestose navi passeggeri, i liners giganteschi che ornano, come tanti fiori freschi appena giunti dall’Europa, l’ovale di Manhattan brulicante d’immensi grattacieli che fluttuano come fantasmi sulle note di West Side Story.

Non è tempo di sognare, il vento forte solleva ormai creste insidiose e disegna con i suoi poderosi artigli, simmetriche graffiate di schiuma che s’infrangono minacciose sui vetri del ponte di comando e scivolano poi lungo i fianchi dello scafo.

“Guardate! Quell’oscuro disegno di prora sembra la costa, invece temo che sia qualcosa di molto più duro e impenetrabile rispetto a ciò che dovremmo vedere domani a quest’ora”.

Il nostromo Zeppin, madido di sudore, stenta a tenere la rotta. La prora, nel precipitare verso l’incavo dell’onda, spiattella attorcigliandosi come un serpente. I colpi del tagliamare sono secchi e sordi nella caduta, lamentosi nel risalire disperato in verticale come un naufrago in cerca d’aria pura verso il cielo aperto.

Charly rimane in posizione d’attesa: alla cappa in mezzo al ring, nella speranza di un’improbabile clemenza dell’avversario o di una più improbabile sospensione del match, per la manifesta inferiorità di un imprudente e vanitoso sfidante.

L’equipaggio, assicurata la chiusura di tutte le aperture dello scafo, corazzati gli oblò e bloccati tutti i tipi d’attrezzature esterne e interne, si è radunato nel caruggio centrale. Nessuno è solo e tutti sono pronti al peggio…


Il muro avanza nella bonaccia. Siamo nell’occhio del Ciclone

 

Il Vortice si trova proprio nel centro della depressione diffusa e riportata nel bollettino meteo americano.

Di prora riappare a tinte evanescenti quel lago azzurro smeraldo, proprio come un miraggio. Si tratta dell’occhio ammaliatore che tanti marinai, prima del Vortice, ha già attirato e divorato nelle sue viscere infernali come vittime sacrificali.

Il Vortice, simile ad un puledro appena domato, si trova improvvisamente nella più surreale bonaccia di vento e di mare; frena guardingo, si solleva ancora una volta, si scrolla il sudore di dosso, sbuffa e sconcertato per la falsa accoglienza, si blocca d’istinto.

Charly sa che la straordinaria “grotta azzurra” è un’infida trappola, zeppa di secche e senza vita. Così come teme che pochi al mondo, o forse nessuno abbia mai potuto raccontare d’essere uscito vivo dall’occhio di una simile tempesta…

La respirazione è diventata nel frattempo tremendamente difficile.

Charly, superato mentalmente l’incantesimo di quella magia, fiuta appena in tempo il tragico pericolo incalzante. Reagisce prontamente con rabbia e, strappando l’interfonico dal suo alloggio, urla all’equipaggio di tenersi forte, con tutta la forza possibile. Avverte la macchina di rimanere attaccati ai comandi:

“Presto manovreremo per la vita. Un muro nero e gigantesco si sta avvicinando a folle velocità!”

Chi può in quei reali frangenti, riportare un po’ di sereno in quegli animi scoraggiati e disperati? I veri marinai hanno paura del mare. Chi, più dei marinai sa gestire la paura che non è rassegnazione o fatalità, ma freddezza e calma interiore che provengono da una preghiera?

I marinai vivono positivamente la solitudine e sono dei veri esperti nel ritrovare dentro di sé quella fermezza che li soccorre, sempre, nella tragicità di certi episodi. Questa forza d’animo, per alcuni si chiama Madonna di Montallegro, per altri della Guardia, del Boschetto oppure lo stesso… Dio Misericordioso.

Poi, si sa! Ritornato il sereno, riemerge uno strano pudore ed i santi invocati diventano: destino, fatalità o addirittura bravura umana… ”Parola di marinaio?”

Sul Vortice, anche i più duri di cuore ed i più ostinati di cervello si piegano e, tenendosi stretti l’uno all’altro, pregano. Chi in silenzio, chi ad alta voce.

Quella vulcanica ombra grigia che Charly vede avanzare terrificante come l’incubo di “Una notte sul Monte Calvo”, non è una montagna staccatasi dal continente, neppure il più mastodontico dei piovaschi apparso sulla terra. E’ un’onda di proporzioni catastrofiche!

Ecco il volto della morte!

Sogghigna Charly.


Mancano cento metri all’inevitabile inghiottimento e i tre uomini sul ponte di comando possono soltanto guardare attoniti l’immensa cresta bianca veleggiare ad altezze celestiali. Già!! Proprio verso quel cielo che sembra averli abbandonati per sempre.

La collisione avviene dopo qualche istante ed il Vortice, come un infimo Golia, s’impenna in verticale e fiero soltanto della sua gioventù, penetra il mostro infilzandolo nel ventre, ad un terzo della sua altezza.

E poi c’è il buio più totale! Profondo! Abissale! Lunghissimo come il film della propria vita che scorre lucido, senza fretta, tra gli affetti lasciati per sempre.

Un enorme scroscio d’acqua precipita sopra lo scafo e tuona come un’esplosione. Il Vortice, schiacciato da una pressa gigantesca, è risucchiato verso gli abissi. Poi, carico d’aria, si ferma di schianto, ha ancora una stridula impennata e comincia a salire lentamente, emana flebili ruggiti, come un vecchio leone schiacciato da un branco d’elefanti. Segue un sussulto rapido e poi risale a pallone, urlando insieme al suo equipaggio che percepisce la salvezza. Il VORTICE è ferito gravemente.  Tonnellate di mare diabolico sono entrate dappertutto portando l’umiliazione e la devastazione.

Il Miracolo

Quando la fine sembra ormai giunta, improvvisamente avviene il miracolo. La “risurrezione” dagli abissi si attua con un’insperata emersione, col rivedere improvvisamente la luce e con i comandi del Vortice che rispondono ancora. In queste fasi distinte, ma collegate strettamente tra loro, c’è il ritorno alla vita. I miracoli purtroppo non si ripetono, almeno per i comuni mortali.

Charly lo teme, si avventa sull’interfonico ed urla alla macchina:

“Datemi  “tutta forza ripetuta e con la massima urgenza.  Dobbiamo volare!”

Il mostro, sicuro ormai della vittoria, non dà tregua. Il colpo di maglio, simile al precedente, è già lì, sospeso, statuario, in posa arcuata, a poche decine di metri, urlante d’odio, ghignante nella sua immensità. Il suo martello è pronto a sferrare con micidiale crudeltà l’ultimo colpo su l’ignobile ed arrogante insetto che ha osato sfidarlo.

Charly balza come un giaguaro sulla ruota del timone e grida a Zeppin:

TUTTA A SINISTRA

insieme, in un abbraccio terrificante e sovraumano, s’avvinghiano urlando appesi alle caviglie della ruota che vibra al limite della rottura. Nella rotazione forzata degli ingranaggi, caldi guizzi d’olio sprizzano sui loro volti già intrisi di sudore.

Bobby abbassa ancora la leva del telegrafo e ripete l’ordine con rabbia :

Tutta forza avanti

Il Vortice parte come una poderosa cannonata ed accosta piegandosi sul fianco sinistro, appiccicato a quella parete livida, perfettamente verticale e levigata come la pista di un circo di periferia.

In quella curva perfettamente circolare, impressa nell’onda densa come un muro, c’è l’ultima speranza.

Chi può dirlo di preciso?  La sensazione è quella di un vero e proprio tuffo in una rotazione avvitata. Attimi di terrore! Il rumore dei motori è sparito, è racchiuso, ovattato nel tunnel verde che lo avvolge a spirale come un serpente che sta per soffocarlo.

Il ponte di comando, sbandato al limite del rovesciamento, perde ogni riferimento visivo e ogni connotazione nautica.

Stivali, incerate, strumenti, sgabelli, bandiere, coperchi, tazze e tazzine sono rimescolati, sparpagliati dal mare vivo e poi lanciati senza mirare come micidiali proiettili impazziti.

Il Vortice è riuscito a girarsi e mettersi il mare in poppa!

Ma l’onda implacabile lo insegue e quando lo raggiunge gli scarica poi il suo macigno dall’alto di quella collina assetata di sangue. La cresta, come una fragorosa valanga, colpisce in pieno la poppa del Vortice che pare staccarsi di netto dal resto dello scafo. La prora, ormai sfuggente, reagisce arrampicandosi in alto, svirgolando come un rettile impaurito che sottrae la sua coda al predatore.

Lo sforzo di Zeppin, Bobby e Charly sulla ruota del timone è immane e forse volutamente esibizionista, plateale, pensò Charly:

“A quel mostro bastardo ed infernale non possiamo che mostrare il volto della nostra sofferenza, del nostro coraggio e quella parte “assistita” della nostra debole intelligenza umana”.

Tra i vetri appannati e striati di bianco, le ombre nere di tre marinai lottano ancora, confusamente attorcigliati. E’ l’unico segno di vita! Il Vortice è ingovernabile, ma non può traversarsi alle onde. Il timone è diventato una ruota di pietra. Nella rinata speranza di vita, quegli uomini veri triplicano le forze ormai esaurite e, dall’Isola dei morti ritornano lentamente alla vita.

Il Vortice ed il suo equipaggio sono ora un ammasso violentato, ammaccato e ferito, ma ancora uniti nei colpi ricevuti, in parti eguali. Tutti a bordo hanno lottato. Nessuno ha deluso l’altro. Ognuno ha dato il massimo di sé, con estremo coraggio ed ora insieme hanno messo le ali.

La musica tambureggiante, scolpita, asimmetrica ed imprevedibile di Prokofiev, lascia la ribalta e, in virtù di un’altra magia, le prorompenti Walkirie fanno il loro ingresso sul nuovo palcoscenico, nella trionfale cavalcata liberatrice di Wagner.

Sospeso come un falco che prende l’ultimo fiato, il Vortice scivola ora in picchiata verso il basso, sparisce e riemerge come un grosso pallone grondante di verde-oceano e striato di schiuma biancastra. Poi risale planando dolcemente alle massime altezze, per restare immobile alcuni istanti sulla cresta dell’onda, e infine precipita a folle velocità, con una schioccante panciata….

Il mostro ci ha pestato ed ora ci prende per il culo. Ci culla e ci spinge, ci risucchia, ci schiaffeggia, ci accarezza e ci scrolla come ragazzini sulla spiaggia dei Cavi in una giornata di burrasca”.

Ammette Charly, cui non restano che vuote parole per frenare l’emozione, un vago senso di sconfitta e tanta stanchezza.

Il Vortice naviga ora verso casa, con un assetto poco virile. Sbandando e sculettando vistosamente, si ritira verso il suo angolo, dolorante come un pugile colpito e frastornato dai colpi.

L’equipaggio è a pezzi, ma vivo, è stato salvato da un “gong celeste” ed è fiero per le manovre fortunate del suo capitano.

Quel silenzio colmo di sagge meditazioni esistenziali è rotto, ben presto, da un urlo incontenibile di gioia, che sale dal carruggio del Vortice, e prende ancora più forza nella tromba delle scale.

“Hip-Hip-Hurrà !! “ Forse per esorcizzare il drago che sputa ancora fiamme e vapori sulfurei,  ma non fa più paura a nessuno. Hip-Hip-Hurrà !!”  Forse per ringraziare il Cielo del dono ricevuto.“Hip-Hip-Hurrà !!”   Per un brindisi di Champagne alla gioia di vivere.

Con una ritirata strategica, la prima parte della spedizione prende una piega assolutamente atipica ed il Vortice, esibendosi in un insolito surf Atlantico, si fa sberleffi della tempesta. Alla comprensibile paura dell’equipaggio, subentra la reazione nervosa, che mira ora al recupero d’energie ed alla rivincita su un avverso destino, mediante un gioco ancora pericoloso, ma affascinante.

La tempesta spinge ancora forte di poppa e scarica, talvolta, sullo scafo onde ancora più alte che, un Vortice sprezzante e altezzoso, respinge ormai sicuro di sé, fuggendo a zig zag come una lepre sulle colline di Carpenissone. Il solcometro, purtroppo, segna 12 nodi di velocità, il doppio di quella registrata con mare calmo e con lo stesso numero di giri-motore. Sembra impossibile, ma il Vortice sta volando.

Passata è la tempesta… Tre navi sono affondate davanti a New York… Il rimorchiatore d’altura VORTICE prende il pilota dell’Hudson e verso mezzogiorno é in banchina. E’ la X-mas Eve (la vigilia di Natale). Il destino gli ha fatto vedere l’inferno ed ora il PARADISO della nascita di Gesù Cristo ed anche quello della rinascita di un equipaggio che ormai tanti davano per disperso.

Quando chiamai mia moglie per AUGURARLE il BUON NATALE, con una punta d’invidia mi disse: “beati voi che passate le feste nella città natalizia più famosa del mondo! Immagino che il viaggio sia andato bene! Avete ritardato solo qualche giorno”. Ricordo d’averle rispostoUn viaggio indimenticabile, ora prenderemo due navi Liberty a rimorchio per la Spagna mediterranea. MAI DI PEGGIO! – Cosa significa? – Te lo spiegherò al ritorno!

Carlo GATTI

Rapallo, 15 Dicembre 2020


DUE STORIE DI MARE D'ALTRI TEMPI

Capitani Camogli

Due storie d'altri tempi

UNA TOCCATA A CAMOGLI

Il veliero sfruttava il Maestrale per costeggiare verso il porticciolo da Ponente. Quella notte d'aprile, lo stesso Capitano Giuseppe Piarengo era al timone del "Pietro Terzo". Con i binocoli, cercava di scorgere le lenzuola rosa che sua moglie Virginia doveva stendere dalla casa sulla spiaggia. Quando la nave doppiò il Castel Dragone, finalmente le scorse: significava che Giuseppe avrebbe visto poco dopo i suoi cari.

Diede ordine al Nostromo di ridurre la velatura e così la velocità. Dalla spiaggia di Ponente si staccò un gozzo con delle persone a bordo. Ai remi c'era "Ghelō", suo suocero, poi riconobbe la sua consorte con i due bimbi. Dopo che i tre salirono in coperta, il gozzo ritornò a terra e scomparve nella penombra del "Giorgio".

Il Capitano istruì il Nostromo di spiegare tutte le vele e di dirigere al largo della Punta, per far poi rotta verso Sud. Giuseppe abbracciò finalmente la famiglia, la quale era euforica di trovarsi su quella splendida nave. Rimasti soli, i due coniugi parlarono delle loro prospettive future.

Virginia era preoccupata, pareva che da tempo, lo sconforto si fosse sparso tra la gente, pure i figli erano insensibili, anzi, lei aveva l'impressione che non avessero più sogni. Giuseppe la rassicurò affermando che ora avrebbero passato dei giorni fantastici a bordo della sua nave, che avrebbe raccontato loro di quando fu quasi ucciso da un pirata malese, di quando il Presidente Argentino apprezzò il suo concerto di violino oppure di tutti i tipi di alberi "foresti" che si trovavano nella vallata di Camogli. La sua nave era adatta a quello scopo: li avrebbe allontanati per un po’ dai pensieri cattivi di ogni giorno. E che sarebbe rientrata in porto appena quella buriana fosse passata.

Nello sciacquio del Golfo Tigullio, tutti si addormentarono. Solo il Capitano - fumando la sua pipa di "albatross" - era vigile al timone e già pensava alla prossima storia da raccontare ai suoi: "...verso fine '800, il veliero "Teresa Olivari" giaceva inerme in una bolla di calma equatoriale nel Mare di Singapore...".=

P.S. Se sei arrivato a leggere sino qui, probabilmente abbiamo allontanato per qualche attimo le preoccupazioni di ogni giorno! Immagini Archivio Ferrari.

Capitani Camogli

ALBERI E ALBERI


A differenza dell'Inglese (trees, masts), in Italiano dobbiamo specificare di quali "alberi" stiamo parlando, cioè quelli naturali o quelli navali. Inaspettatamente, sceglieremo quelli naturali, che sono comunque ben "radicati" alla tradizione marinara Camogliese.

La pianta che oggi è sistemata sul viso di Camogli (cioè l'insieme Basilica-Castel Dragone) è una palma. Forse fu scelta (nel 1930-40?) sull'onda dell'esotica moda delle passeggiate a mare della Costa Azzurra o forse, per richiamare l'originale funzione protettiva del Castello dai pirati Barbareschi.

Comunque sia, notiamo da un'immagine antecedente al 1920 (?) che sul Castel Dragone vi era un albero che non era una palma. Non siamo in grado di affermare di quale albero si trattasse, fatto sta che sale la curiosità di capire se a Camogli siano mai stati importati alberi "foresti", molto probabilmente dai naviganti di tempo fa.

Ecco allora che ci ritroviamo nelle tranquille passeggiate sulle nostre alture. E' abbastanza comune individuare alberi non propriamente Liguri all'interno delle ville di Camogli.

Si incontrano le grandi sequoie della California, sicuramente portate a Camogli da chi navigava a San Francisco; si trovano anche dei "redwood", cioè un tipo più piccolo di sequoia, generalmente originari dell'Oregon, che ha un grande approdo, Portland. Poi, l'eucalipto, proveniente dall'Etiopia, le nostre navi toccavano Djibouti. Non manca il Canada con Halifax, delle cui terre la quercia è il simbolo nazionale; poi il famoso cedro del Libano, il cui porto principale è ancor oggi Beirut. Dal Centro America o dai Caraibi qualcuno importò degli esemplari di seibò, un enorme albero coi fiori scarlatti. Qualche marinaio amante del buon vino aveva importato per la sua casa nel verde anche la vite di Madeira, il cui porto, Funchal, offre ancor oggi un punto di appoggio prima o dopo la traversata Atlantica. Ed infine il celebre "pitchpine" dell'Alabama: molte navi di Camogli toccavano il porto di Mobile, famoso appunto per il traffico di legname. Il pitchpine è un pino di dimensioni ridotte ma che ha un alto contenuto di resina, per questo era molto usato nelle costruzioni navali.

La passeggiata nei viottoli di Camogli alta volge al termine, ritorniamo sul Lungomare chiedendoci: "ma che albero era quello sul Castello?".=

Immagini (Archivio Ferrari): "Porto di Camogli" e "Alture di Camogli".

Bruno MALATESTA

Rapallo, 30 Ottobre 2020

 


ALCUNE SUPERSTIZIONI E CREDENZE MARINARE

ALCUNE SUPERSTIZIONI E CREDENZE MARINARE

Navigando lungo le coste del nostro Paese, ma anche in tutto il Mediterraneo, si notato approdi in cui certe attività di trasporto e di pesca si realizzano, a tutt’oggi, con quelle caratteristiche secolari costruttive e decorative che ci riportano all’epoca dei Fenici e dei Greci che non mancavano mai di fregiare le loro prore con gli occhi apotropaici, grandi, quasi mostruosi per allontanare gli spiriti maligni.

Oggi parliamo di alcune superstizioni, credenze e leggende marinare che ancora sopravvivono nella marineria locale lungo la costa dei nostri mari.

Il trabaccolo ha mantenuto per secoli alcuni elementi apotropaici (che dovevano allontanare la mala sorte) tipici di tutte le imbarcazioni mediterranee. Fra questi gli occhi di prua (da non confondere con gli occhi di cubia).



Ma perché proprio gli occhi?

La barca era considerata da pescatori e naviganti un’entità viva, dotata di una propria anima.

Quindi la prua è la prima a vedere i pericoli e chi sta di vedetta deve, guardare e capire dove sono gli ostacoli dei fondali e i cambiamenti del tempo atmosferico! Non solo, ma con i suoi “occhi” l’imbarcazione controlla la rotta ed evita le trombe marine e “ammascona”* la prora contro le onde del mare quando volge in burrasca oppure in tempesta col pericolo di farla naufragare.

Dall’alba dei tempi i marinai temevano anche i tremendi mostri marini che, secondo antiche leggende popolano le profondità marine, come testimoniano le antiche cartografie medievale e rinascimentale.

*Per mascone, su un'imbarcazione, si intende la parte dello scafo compresa tra il traverso e la prua. Vi sono, quindi, un mascone di sinistra e un mascone di dritta. Il mascone è la parte contrapposta al giardinetto di poppa. In caso di mare masso, con le imbarcazioni a vela e a motore si prende l'onda al mascone per ridurne il beccheggio e il rollio e migliorarne la stabilità.

Fino al primo Novecento, per esempio, la “pernaccia” *di prua veniva decorata con una “cuffia” o un pelliccione” per proteggere il legno:

Questa pratica, al contempo, funzionale ed ornamentale, evocava però l’antico rituale pagano di sacrificio alla divinità, in questo caso un agnello al momento del varo della barca per poi inchiodarlo sopra l’asta di prua per propiziare la navigazione.


*Dalle nostre parti, l'estensione del dritto di prora è chiamata "pernaccia".

Pratiche e simbologie pagane (come la sirena) convivevano con l’offerta alla Madonna del mare affinché proteggesse l’equipaggio dalle trombe marine e dai naufragi o con la costruzione, insieme allo scafo, di una chiesuola che custodiva l’immagine del Santo protettore.

*La chiesuola a bordo: forse il termine nacque per evocare un simbolo religioso, é la custodia di metallo diamagnetico che protegge e sostiene la bussola magnetica navale.

Quando si affrontava la tempesta in mezzo al mare, alla preghiera si univa il gesto rituale, retaggio del mondo classico, di “rompere” i vortici con il forte suono di trombe o tamburi o di “tagliare” le onde con coltelli appuntiti.


In Spagna è ancora in uso questo rituale di battesimo

La foto mostra una scultura sulla sommità dell'asta raffigurante un vello di pecora. Questo elemento sembra derivi dall'usanza di sacrificare un animale al momento del varo e poi legarne il vello attorno alla cima dell'asta di prua. Vello che poi si trasformò in una scultura lignea. ricordiamo che la nave, ma anche la più piccola barchetta, è il solo manufatto umano che viene battezzato e ha un nome proprio.


Dettaglio di prua di trabaccolo. Si notino gli occhi e il pelliccione dipinto, ricordo che il "legno a vista" così come il mattone a vista e le statue bianche, sono invenzioni recenti. Tutto nel passato era dipinto comprese le statue greche e gli stemmi o bassorilievi che vediamo a Venezia ormai dilavati e bianchi.


Pelliccione apotropaico di trabaccolo. Museo storico navale di Venezia


Pelliccione conservato al Museo di Cesenatico


Pelliccione di trabaccolo conservato al Museo di Pirano


Pelliccione apotropaico di trabaccolo. Museo storico navale di Venezia

Sotto, due ex voto provenienti dal Santuario della Madonna dell’arco di Napoli nei quali si vede il vello legato all’asta di prua



Col passare dei secoli, in occidente ci fu un’evoluzione, lasciando il posto al cosiddetto malocchio, contro il quale gli occhi apotropaici costituivano un indispensabile antidoto da una cultura marinara legata essenzialmente alla superstizione. In seguito anche il malocchio passò di moda ed il buon marinaio, legato alle tradizioni dei propri avi, giustificò quegli occhi affermando che: senza di essi la barca non vedeva e non avrebbe più potuto evitare gli ostacoli.

Infine la storia ci racconta che per fronteggiare le immani forze del mare i marinai si convertirono ad un particolare sistema fatto di magia e di religione, in cui i simboli arcaici, le credenze popolari e i rituali magici si mescolavano alla devozione religiosa, al culto della Vergine e dei Santi.


Sestri Ponente (Genova) - Il VARO DEL REX

1 agosto 1931

E quando a fine ottocento s’imposero i bastimenti in ferro, gli occhi non furono più dipinti, ma i nostri marinai non rinunciarono a quella “azione protettiva” e gli occhi apotropaici diventarono gli occhi di cubia*.

Nella foto, li occhi di cubia del REX rappresentano quindi l’eredità, il marchio della tradizione secolare dei marinai del Mediterraneo e non solo.

*La cubìa, detta anche occhio di cubìa, è l'apertura presente sulla superficie dei masconi delle navi dove trovano alloggio le àncora.

Il colore rosso, con cui spesso si usa dipingere l'opera viva delle imbarcazioni e delle navi, è una reminiscenza di quando di aspergeva la chiglia con il sangue di un animale, sacrificato per ingraziarsi le divinità; si passò poi ad aspergere la nave con vino rosso, che ricordava il colore del sangue sacrificale. L'uso odierno di infrangere sulla prora una bottiglia di spumante è riconducibile al solo fatto che è una visione più spettacolare al momento dell'impatto, poiché la schiuma è ben visibile anche da lontano. Pertanto, oggi, colorare di rosso la carena della barca con l'antivegetativa, oltre al fatto che porta bene, rispecchia anche un’antica tradizione marinara che si perde nella notte dei tempi. (Giorgio Blandina)


Il varo è quell’evento con cui una nuova imbarcazione entra per la prima volta in mare, pronta per accogliere marinai e ospiti. Solitamente questa cerimonia è accompagnata da una sorta di battesimo in cui viene annunciato il nome della nave. Per concludere si infrange una bottiglia di vino contro la prua.

Si tratta di una tradizione antichissima che però, nel corso dei secoli, ha subito importanti variazioni. Originariamente, infatti, il rito prevedeva che venisse sacrificato un animale e il suo sangue sparso sulla prua. Un sacrificio in onore degli dei che, in questo modo, avrebbero protetto la nave e il suo equipaggio dalle intemperie e dalle difficoltà che avrebbero potuto incontrare durante il viaggio. Addirittura, i Romani, oltre al sacrificio dell’animale, erano soliti spargere lungo le loro imbarcazioni occhi di cinghiali, cigni o delfini come dono alla barca. Il significato risiede ancora una volta nelle possibili difficoltà incontrate durante la navigazione: dotare la nave di occhi era un tentativo di garantire maggiore sicurezza, soprattutto quando la visibilità era scarsa e il marinaio non era in grado di riconoscere la rotta. In questi casi, si credeva che gli “occhi della nave” avrebbero permesso di intraprendere il tragitto corretto.

Col tempo si affermò anche una versione che possiamo definire “cristiana” di questa cerimonia: alti prelati venivano invitati a benedire e a “battezzare” la nave, con l’imposizione del nome per sancire il suo riconoscimento e il suo ingresso nel mondo marino.

Gli ex voto, infine, ci raccontano come su tavolette in legno venissero dipinti gli incidenti o gli imprevisti durante la navigazione e l’intervento provvidenziale, una sorta di deus ex machina, di un Santo o della Madonna per salvare la barca e il suo equipaggio.

Questo universo di pratiche e credenze ci parla della paura e dell’incertezza che da sempre hanno segnato la complessa interdipendenza fra uomini e mare, ma anche di un profondo sentimento di rispetto nei confronti di una forza naturale come quella marina che diventa rispetto verso una forza che svela i limiti del mito moderno del controllo dell’uomo sulla natura e la fragilità umana dinnanzi ad essa – un grande insegnamento, questo, nell’era dell’Antropocene.*

*Antropocene. L'epoca geologica attuale, in cui l’ambiente terrestre, nell’insieme delle sue caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche, viene fortemente condizionato su scala sia locale sia globale dagli effetti dell’azione umana, con particolare riferimento all'aumento delle concentrazioni di CO2 e CH4 nell'atmosfera.

TROMBE MARINE -ANTIDOTI
Antiche credenze|


In tempi antichi si pensava che le trombe marine fossero dei mostri marini. Nel 1687 il pirata ed esploratore inglese William Dampier riportò sulla carta nautica l'avvistamento di una tromba marina, scrivendo:

«Una tromba è un piccolo pezzo sfilacciato di nube, che pende come un pennone dalla parte più nera di essa. Di solito pende inclinandosi. Quando la superficie del mare comincia a muoversi, vedrete l'acqua, per circa cento passi di circonferenza, schiumeggiare e girare in tondo prima piano, poi più velocemente, fino a quando vola verso l'alto a formare una colonna. Così continua per mezz'ora più o meno, fino a quando l'aspirazione cessa. Allora tutta l'acqua che stava sotto la tromba cade di nuovo in mare, provocando un gran rumore e movimento disordinato del mare».

Si sperimentarono vari metodi per dissolvere le trombe marine, dalle cannonate all'urlare e pestare i piedi sul ponte delle imbarcazioni; ma su quest'ultimo metodo perfino Dampier commentò:

«Non ho mai sentito dire che si sia dimostrato di qualche utilità».

Tuttavia, la tromba marina é ancora oggi l’incubo dei pescatori, perché porta con sé morte e distruzione. L’unico antidoto é la forza dell’irrazionale espressa da speciali rituali … sul
e di sua proprietà.

A Bari, nei vicoli dell’angiporto, regno dei pescatori, si tramandano ancora i riti propiziatori:

Navigando sul

Queste spiegazioni le ho trovate navigando sul web:

Contro il diavolo ingannatore è buona cosa abbassarsi i pantaloni e mostrare il deretano, sempre in direzione della tromba marina - prosegue il giovane - Mentre si compie questo gesto va recitata intensamente una preghiera: "Padre nostro, Padre nostro che stai in cielo, in terra e in mare, guardaci dal diavolo. Padre nostro, Padre nostro taglia la coda al diavolo”.Notizia pubblicata sul portale barinedita.it e di sua proprietà.
Questa non é male…

“Per i marinai è d'obbligo non rasarsi i capelli prima di prendere il largo. In caso di burrasca infatti ci si taglia una ciocca e la si getta in acqua: in pratica è un'offerta al mare che ha l'effetto di placare il suo “spirito” - .Notizia pubblicata

Anche le pietre celesti…

“Le bufere possano essere scacciate persino con degli oggetti. Sulle imbarcazioni per esempio capita che venga caricata l'acquamarina, una pietra celeste considerata come talismano in grado di mantenere calmo il mare sin dai tempi dell'antica Grecia. Le sue "modalità d'uso" furono descritte da Plinio il Vecchio: durante le notti di luna piena la gemma va immersa nel mare o in una bacinella con acqua e sale per essere purificata. Alcuni marinai la usano per farsi una collanina porta fortuna”. pubblicata sul portale

Così ci racconta Nicola…

“In caso di perturbazioni violentissime con un coltello traccio sulla poppa della mia barca una stella a cinque punte. Si tratta della rappresentazione simbolica di un uomo con testa, braccia e gambe e viene disegnata durante l'invocazione di un santo protettore. A quel punto lancio un coltello nel tentativo di centrare il "cuore" della stella: se riesco a colpirlo potrò beneficiare della grazia richiesta e la tromba marina cambierà direzione”. pubblicata sul portale

E’ la volta dei comportamenti di alcuni uccelli che si nutrono sulla scia dei pescherecci…

Tre uccelli che svolazzano sul natante presagiscono incidenti mortali. La stessa premonizione deriva dall'eventuale uccisione da parte dell'equipaggio di gabbiani e albatri, visti come la reincarnazione delle anime di pescatori deceduti in passato. pubblicata sul portale barinedita.it e di sua proprietà.
E occhio ai gatti, che pur non amando l'acqua vengono ospitati sui pescherecci per la loro utilità nel segnalare l'arrivo della pioggia: in quest'ultimo caso si mettono a soffiare insistentemente, mentre con la bonaccia di solito si sdraiano rilassati. I felini però dovrebbero essere curati e coccolati, altrimenti col potere magico delle loro unghie affilate potrebbero attirare una tempesta catastrofica”.

Ritorniamo alle Trombe Marine

IN PASSATO, MA SAPPIAMO CHE ESISTE ANCORA, L’ESORCISTA CONTRO LE TROMBE MARINE.

Di fronte alla minaccia delle trombe marine, viste come segni del demonio, in passato i marinai si affidavano a rituali che ricordano veri e propri esorcismi, Per questo motivo spesso i marinai portavano con sé un caratteristico coltello dall’impugnatura nera, noto come la cultellë di sandë libborië, utilizzato per esorcizzare, letteralmente, l’eventuale tromba marina.

In ogni caso il rituale era così diffuso che persino Cristoforo Colombo ne fece uso. Nel 1502, durante il suo quarto viaggio nelle Americhe: il navigatore genovese incontrò una potente tromba marina in pericoloso avvicinamento alla sua nave e procedette quindi con il rituale d’esorcismo: anziché fare il gesto di tagliare il vortice egli però tracciò un cerchio tutt’attorno a sé e, narra la leggenda, come per miracolo la tromba marina risparmiò la nave, passandole accanto senza colpirla.

TAGLIO DELLE TROMBE D’ARIA

Un fenomeno poco indagato dagli studi antropologici è il cosiddetto taglio delle trombe d’aria, rituale segreto ma ancora oggi utilizzato da alcuni uomini di mare lungo le coste dell’Italia meridionale.

 

RITI TAGLIATROMBE E TRADIZIONI CHE SOPRAVVIVONO…


Tagghiari una tromba marina

La cura di Drau è un fortissimo temporale con vento impetuoso, che al suo verificarsi

è capace di affondare qualsiasi cosa incontra, barche, navi, ma anche tetti di case ecc.

La persona competente, di solito un marinaio, conosce la preghiera adatta.

Porzione da recitarsi durante una Tromba Marina: La Cura di Drau

Lu patri è putenti, lu figghiu è mputenti,

pi lu nomi di Gesu Giuseppe e Maria

tagghiu sta cura e n’atri centu com’a tia

 

“Per tagliarla”, ossia per farla scomparire, sale su un posto elevato e, guardando la tromba, si fa il segno della croce e recita:

“Lunniri è santu,

Martiri è santu,

Mercuri è santu,

joviri è santu,

Vennari è santu,

Sabatu è santu,

la Duminica di Pasqua,

sta cura a mari casca

e pi lu nomu di Maria

sta cura tagghiata sia”.

Poi prende un coltello e fa tre tagli orizzontali con gesto simbolico per tagliare la tromba marina.





 

“Potenza di lu Patri, sapienza di ku Figghiu, virtù di lu Spiritu Santu, e vui tutti li Santi livatimilla di cca davanti”.

Concludiamo questo nostro viaggio ad Amalfi, tra le credenze popolari più note stralciando da un sito locale alcuni passi di notevole suggestione.

Chi si dedicava alla pesca, fino a qualche decennio fa, era considerato depositario di conoscenze magiche, forse perché doveva confrontarsi con le forze della natura e non rimanerne sopraffatto: non a caso erano i pescatori le persone in grado di “spezzare” una tromba marina appena si formava all’orizzonte.

Ovviamente, al primo avvistamento, veniva chiamato in causa il pescatore che conosceva la formula liberatoria per spezzare la tromba marina appena si formava all’orizzonte.

Il pescatore usciva in barca, avvicinava la coda del vortice e, dopo essersi fatto per tre volte il Segno della Croce e aver pronunciato una formula di cui era a conoscenza, assolveva al compito per cui era stato chiamato. Non tutti i pescatori erano in grado di compiere questo rito, infatti occorrevano due caratteristiche che rendevano questi personaggi “speciali”: il non essere stati battezzati e l’avere lunghi baffi rivolti all’insù.

Sulla prima caratteristica ognuno dice la sua… ma nessuno ci giurerebbe su… anche perché le trombe marine venivano spezzate da pescatori non battezzati…

Sulla seconda si azzarda qualche stranezza…: i baffi sono spiegate come una sorta di antenne rivolte verso l’alto, verso cioè un altro mondo da cui provengono misteriosi poteri.

Esistono sul posto testimoni di eventi meteorologici che, dopo essersi formati all’orizzonte, improvvisamente hanno mostrato prima un assottigliamento della parte finale della Tromba e poi la rottura. Un amico sostiene: “nei racconti dei nostri nonni era stato un pescatore del luogo ad operare la rottura e a salvare l’intero paese da danni sicuri”.




TROMBA MARINA E TROMBA D’ARIA

sono la stessa cosa - la prima é situata in mare


Le trombe
non tornadiche, (le nostre), dette anchewaterspout”, invece, si formano soprattutto grazie all'elevata temperatura della superficie marina, che può fornire notevole energia a sistemi nuvolosi in apparenza di scarsa consistenza portando al contrasto aria calda ascendente (marina) e aria fredda discendente (della perturbazione), dando quindi origine a moti vorticosi favoriti anche dall'assenza di corrugamenti ed ostacoli in mare. In questa situazione la forma della tromba d’aria sarà assottigliata, molto contorta e poco potente, ma tuttavia in grado di provocare danni significativi a persone o cose. Contrariamente a quanto si tende a credere, ad eccezione degli spruzzi sollevati in prossimità della superficie, l’acqua presente nella colonna proviene dalla condensazione provocata da una pressione molto bassa all’interno della massa d’aria turbinante e non da un’aspirazione dell’acqua di mare su cui si genera.

Molto spesso le trombe marine si sviluppano in un contesto di calma di vento ed è per questo che possono risultare molto pericolose per le imbarcazioni a vela. L’unico vento apprezzabile, infatti, è quello che si dirige verso la base della tromba e risulta quindi difficile sfuggire al vortice. I venti rotanti all’interno della colonna possono raggiungere i 250 km/h, mentre la velocità di traslazione è piuttosto bassa, intorno ai 20-30 km/h, e la lunghezza, dalla superficie del mare alla base della nube, va da 300 m a circa 700 m, mentre il diametro è di qualche metro in superficie fino a quasi 300 m in corrispondenza della parte inferiore del cumulonembo.

Una tromba marina dura in genere dai 2 ai 20 minuti, ma spesso si esaurisce in circa 4 minuti. A volte possono formarsi “famiglie” di trombe marine, composte da tre o quattro elementi, ma in qualche caso ne sono state osservate sulla stessa zona addirittura quindici.

Nella foto in alto, una delle tante trombe marine che nell'estate 2014 si sono formate di fronte alla costa marchigiana; questa nello specifico è stata fotografata da un peschereccio a 20 miglia al largo di Ancona la mattina del 22 Luglio.

Per approfondire

Trombe d'aria e tornado spiegati dal Capitano Paolo Sottocorona
Un tornado a Lignano
Tornado: tra i fenomeni più distruttivi

 

Ci fermiamo qui - segnalando 8 superstizioni marinare che potrebbero stimolare ancora un po’ la vostra fantasia…

Strane e meno strane, di superstizioni marinare ne esistono un’infinità ma tutte hanno una spiegazione logica o storica. Purtroppo, essendo credenze tramandate verbalmente, non è così facile risalire alle origini e occorre procedere per ipotesi, unendo le poche informazioni alla conoscenza del contesto storico.

PORTA SFORTUNA:

CARLO GATTI

Rapallo, 15 Ottobre 2020


JOSEPH CONRAD UN ESPLORATORE DELLO SPIRITO MARINARO

JOSEPH CONRAD

UN ESPLORATORE DELLO SPIRITO MARINARO

 

PRIMA PARTE

Il 17.2.2012 dedicai un articolo per Mare Nostrum al veliero NARCISSUS il cui capitano, Joseph Conrad, divenne il celebre scrittore che tutti noi conosciamo. Sullo sfondo del racconto emerge il dipinto del famoso veliero (opera dell’artista G. Roberto) che é appeso sui muri della fede nel santuario di Montallegro (tanto caro a Emilio Carta), ma sulle vele di quel VELIERO c’é anche il marchio della marineria camoglina che porta il nome di Vittorio Bertolotto che ne fu il suo ultimo armatore.

 

NARCISSUS - IL VELIERO CHE NON VOLEVA MORIRE - di J. CONRAD

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=180;narcissus&catid=36;storia

 

SECONDA PARTE

IL NEGRO DEL NARCISSUS di Joseph CONRAD

Avventura e metafore di vita ancora attuali in un racconto autentico e avvincente

Nel sottotitolo della copertina c’é la chiave di lettura della SECONDA PARTE del nostro lavoro. Secondo i critici e gli studiosi, il racconto è visto come un’allegoria del tema della solidarietà e dell’isolamento, con il microcosmo della nave che rappresenta una versione in scala ridotta della società umana.

“The Nigger of the Narcissus”- (A Tale of the Sea), è un racconto di Conrad del 1897 considerato come l’inizio della sua carriera letteraria. Lo si indica talvolta come rappresentante dell’impressionismo in letteratura: il mare e le navi con i suoi equipaggi sono spesso raccontati, ieri come oggi, dai pennelli di grandi artisti che sanno cogliere lo spirito avventuroso dei marinai. La prefazione, scritta direttamente dall’autore, è considerata una sorta di manifesto letterario di Conrad.

Il protagonista, James Wait, è un marinaio nero delle Indie Occidentali imbarcato sul veliero mercantile “Narcissus”, lo scenario è la navigazione tra Bombay e Londra. Durante il viaggio Wait viene colpito da una grave malattia polmonare (tubercolosi?), forse contratta poco prima dell’imbarco. Cinque membri dell’equipaggio rischiano la vita per salvarlo durante una tempesta, al contrario il Capitano Allistoun ed il vecchio marinaio Singleton dimostrano freddezza e indifferenza preferendo concentrarsi sulle proprie funzioni di governo della nave

Ma chi era Joseph Conrad ?

(1857-1924)

Vita–e-Opere


Joseph Conrad Theodor Naleçs Korzenioowski nasce da genitori polacchi nella Ucraina occupata dai russi nel 1857. Nel 1868 i suoi genitori muoiono e lui va a vivere con uno zio che aveva una grande passione per la letteratura inglese. All'età di diciassette anni viene impegnato sulle navi francesi come marinaio e visita le Indie Occidentali e l’America Latina. Nel 1878 lo scrittore si reca in Inghilterra per la prima volta e nel 1886 ottiene la cittadinanza britannica, cambiando il suo nome in Joseph Conrad.

Il Capitano-scrittore serve per sedici anni nella Marina mercantile britannica prima di ritirarsi nel 1894. Nel 1883 fa parte dell’equipaggio della nave Narcissus a Bombay, un viaggio che ispirerà il suo romanzo del 1897 Il Negro del Narcissus.

Nel 1889, Conrad soddisfa il suo sogno raggiunge lo Stato Libero del Congo. Diventa Capitano di un battello a vapore in Congo, e assiste ad atrocità che sono riportate sia in Diari del Congo e in Cuore di tenebra nel 1902.

Gravemente malato, è costretto a lasciare il mondo delle navi e nel marzo 1896 si sposa con una signorina inglese, Jessie George. Vivranno per lo più a Londra e vicino a Canterbury, Kent. La coppia avrà due figli. Muore nel 1924. Le sue esperienze sul mare - la solitudine, la corruzione e la spietatezza umana - convergono a formare una visione cupa del mondo. Alla popolarità di Conrad non corrispose un analogo successo finanziario, la sua salute fu cagionevole ma molto intensa dal punto di vista letterario per il resto della sua vita. Questo scrittore di mare si é calato come pochi nell’animo umano in quella platea composita degli uomini di mare obbligati a convivere tra razze e religioni diverse, tra culture e opinioni politiche opposte. Ancora oggi i suoi libri sono studiati nelle maggiori università del mondo nelle facoltà di psichiatria. Morì nel 1924 per arresto cardiaco e fu seppellito nel cimitero di Canterbury (Kent, England), col nome di Korzeniowski

Conrad ha scritto tredici romanzi, ventotto racconti, due volumi di memorie e un gran numero di lettere. Tra le sue opere più significative sono
La Follia di Almayer (Almayer’s Folly, 1895).

Un reietto delle isole (An Outcast of the Island,s 1896), sullo sfondo di in paesaggi esotici uomini emarginati sono distrutti da sogni di potere e di ricchezza.
Il Negro del Narcisso (The Nigger of the Narcissus, 1897) è la storia di un marinaio nero morente su una nave e il comportamento del personale di bordo.
Gioventù (Youth, 1902) è il racconto di un lungo viaggio che diventa simbolo del passaggio dalla giovinezza alla maturità.

Cuore di tenebra (Heart of Darkness, 1902) è un romanzo che racconta un viaggio sul fiume Congo per salvare un commerciante d'avorio.
Tifone (Typhoon, 1903) parla di un capitano che riesce a guidare la sua nave durante un tifone.

Lord Jim, (1900) narra di un uomo che, dopo una vita vile, si redime con una morte eroica.

Nostromo (1904) è un romanzo politico ambientato durante la rivoluzione americana.

L'agente segreto (The Secret Agent, 1907), storia di una spia mediocre che costringe il fratello di sua moglie a un atto di terrorismo.
Sotto gli occhi dell'Occidente (Under Western Eyes, 1911) racconta il conflitto interiore di un rifugiato russo in Svizzera.
Chance (1913) è insolitamente centrata su un personaggio femminile, che sposa un capitano di aiutare il padre imprigionato; la narrazione è complessa con diversi narratori prendono e vari punti di vista.
Vittoria (Victory, 1915) è un romanzo tragico nei mari del Sud.
La Linea d’ombra (The Shadow Line, 1919) riferisce di un viaggio difficile, simbolo della crescita di un giovane uomo.


“Il mare si stendeva lontano, immenso e caliginoso, come l’immagine della vita, con la superficie scintillante e le profondità senza luce”
J. Conrad


Monumento a Joseph Conrad a Gdynia, sulla costa del mar Baltico in Polonia


Era calmo, freddo, imponente, maestoso. I marinai si erano avvicinati e stavano alle sue spalle. Sovrastava il più alto di mezza testa. Rispose: ‘Faccio parte dell’equipaggio.’ Scandì le parole con sicurezza e decisione. Il tono profondo e sonoro della sua voce si diffuse sul cassero nitidamente. Era beffardo per natura, come se dall’alto della sua statura, avesse contemplato tutta l’entità della follia umana e si fosse convinto di voler essere tollerante.



Secondo la critica più autorevole, il romanzo è un'allegoria sul tema della solidarietà e dell'isolamento, con il microcosmo della nave a rappresentare una versione in scala ridotta della società umana.

Il “Negro del NARCISSUS è una storia di mare ma è anche un’indagine sulla natura psicologica dell’uomo che reagisce con le sue passioni nello stesso contesto dove altri uomini pensano ed agiscono secondo le loro origine antropologiche.

La descrizione della tempesta raggiunge la bellezza dei grandi poeti antichi, ma il fortunale è anche nei cuori dell’equipaggio.

Il gigantesco marinaio negro Jimmy Wait imbarca sul Narcissus che é in partenza da Bombay per Londra. Il nativo delle West Indies si ammala pochi giorni dopo la partenza. A bordo emerge subito il dubbio che fosse già ammalato o peggio ancora che stia fingendo... Tante domande, nessuna risposta!

Il NARCISSUS fa rotta contro una furiosa tempesta sull’ormai vicino Capo di Buona Speranza. La navigazione si fa difficile e la malattia di Jimmy peggiora. Quando la tempesta si scatena in tutta la sua violenza le condizioni di Jimmy si aggravano e la sua sorte sembra segnata, ma nessuno capisce se la tempesta sta inseguendo proprio il povero Jimmy oppure la nave.

“Lo curiamo o le gettiamo in mare?” Pare essere questo l’atteggiamento dell’equipaggio che é vittima dell’irrazionale paura d’incorrere nell’eventuale contagio di un cadavere a bordo!

A bordo del Narcissus scrive Conrad “La falsità trionfava. Trionfava grazie al dubbio, la dabbenaggine, la pietà, il sentimentalismo… La pervicacia con la quale Jimmy si ostinava nel suo atteggiamento insincero di fronte alla verità inevitabile, aveva le proporzioni di un enigma mostruoso, di una manifestazione iperbolica che a volte suscitava un meravigliato, timoroso stupore… L’egoismo latente che si annida in tutti noi di fronte alla sofferenza si rivelava nella crescente preoccupazione che ci rodeva nel non volerlo veder morire… Era assurdo al punto da sembrare ispirato. Era unico e affascinante… Stava diventando irreale come un’apparizione… La sua presenza ci avviliva, ci scoraggiava…”.

Il capitano Alliston, da abile uomo di mare, salva la nave con i suoi ordini decisi e precisi, mostra grande coraggio nell’infondere all’equipaggio quella sua stessa forza che diventa decisiva per salvarsi.

Con il suo romanzo Conrad sembra dirci che la tempesta è necessaria per rivelare ad ognuno la sua parte più profonda, per ricordare ad ogni uomo la piccolezza della natura umana.

“Agli uomini ai quali, nella sua sdegnosa misericordia, esso concede un istante di tregua, il mare immortale offre nella propria giustizia, e pienamente, il privilegio, ambito del resto, di non riposare mai. Nell’infinita saggezza della sua grazia non consente loro di poter meditare con calma sull’acre e complesso sapore dell’esistenza, per tema che abbiano a ricordare e forse a rimpiangere la ricompensa di una tazza d’ispiratrice amarezza, tanto spesso assaggiata e altrettanto spesso sottratta alle loro labbra già irrigidite, ma pur sempre riluttanti. Questi uomini devono senza un istante di requie giustificare la propria vita all’eterna pietà…”.

Conrad non troverà mai le risposte alle sue domande esistenziali…

in balia del grande mare …del mare che tutto sapeva, e che avrebbe col tempo infallibilmente svelato a ciascuno la saggezza nascosta in ogni errore, la certezza latente del dubbio, il regno della salvezza, e della pace al di là delle frontiere del dolore e della paura”.

La visione che Conrad ha della nave e del suo equipaggio è racchiusa nelle righe che seguono e che svelano il segreto di quel delicato equilibrio che ognuno a bordo deve stabilire con sé stesso e con gli altri; si tratta dell’unico target che nessuno t’insegna a terra perché appartiene al mondo del mare: partire ed arrivare in sicurezza! Il traguardo lo si può raggiungere soltanto con quella disciplina interiore che nasce e si sviluppa nel rispetto e nella paura del Dio Mare. Forse è questo il vero collante dell’equipaggio per la riuscita della spedizione: uomini di mare, difficili da guidare ma facili da esaltare!

Il marinaio anche se rozzo ed ignorante quando entra in sintonia con il giusto spirito marinaresco diventa un professionista insostituibile nella sua mansione.

 

“(…) la nave, frammento staccato dalla terra, correva solitaria e rapida come un piccolo pianeta. Intorno ad essa gli abissi del cielo e del mare si univano in una irraggiungibile frontiera. (…) Essa aveva il suo futuro; viveva della vita di quegli esseri che si muovevano sopra i suoi ponti; come la terra che l’aveva confidata al mare, essa trasportava un intollerabile carico di speranze e di rimpianti … Essa correva schiumeggiando verso il Sud, come guidata dal coraggio di un’altra impresa. La ridente immensità del mare rimpiccioliva la misura del tempo. I giorni volavano uno dietro l’altro, rapidi e luminosi come il guizzare di un faro, e le notti, movimentate e brevi, parevano fuggevoli sogni..."

 

Qualcuno ha scritto con molta acutezza:

“Amato e odiato, James Wait lascia la terraferma per non ritrovarla più, perché certi viaggi durano per sempre, soprattutto quando resi immortali da una penna sincera, al punto da risultare crudele, come quella di Joseph Conrad”.

“Mentre odiavamo James Wait. Non riuscivamo a liberarci dal sospetto orribile che quel negro sorprendente facesse finta di essere malato, fosse stato testimone insensibile della nostra fatica, del nostro disprezzo, della nostra pazienza, e ora insensibile alla nostra solidarietà di fronte alla morte. Il nostro senso morale, per quanto imperfetto e vago, reagì con disgusto di fronte alla sua vile menzogna. Ma lui continuava a sostenere il suo ruolo con coraggio sorprendente. No! Non era possibile. Era stremato. Il suo temperamento insopportabile era solo il risultato dell’ossessione invincibile della morte che sentiva prossima. Chiunque si sarebbe indignato per una simile imperiosa compagna. Ma allora che razza di uomini eravamo noi con i nostri sospetti! Indignazione e dubbio erano in conflitto dentro di noi, travolgendo ogni nobile sentimento. E noi lo odiavamo a causa del nostro sospetto, lo detestavamo a causa del nostro dubbio. Non potevamo disprezzarlo impunemente e neppure compiangerlo senza ledere la nostra dignità. Così lo odiavamo e ce lo passavamo con cura di mano in mano”.

Per gli appassionati lettori di Conrad aggiungo anche LA LINEA D’OMBRA: “Come in guerra, anche sulla nave, l'unica speranza di salvezza sta nel fare con abnegazione e sacrificio ognuno la propria parte”.

Pochi giorni fa sono stato invitato a partecipare a un gioco su F/B: postare per 10 giorni dieci copertine di libri che ho amato particolarmente, senza spiegarne il perché.

Martedì ho scelto The Nigger of the NARCISSUS per la reminiscenza del suo messaggio morale che mi rimase impresso come l’allegoria della solidarietà….

Oggi stiamo vivendo la storia della pandemia Covid-19, e ho rivisto il negro James Wait, il misterioso reietto del Narcissus, ricoverato in una delle nostre RSA per gli anziani. La sua sorte é segnata perché una società “malata, cinica e crudele” ha deciso che la morte sia la soluzione di tanti problemi reali e psicologici. Una sorte di liberazione che in breve tempo sarà archiviata e dimenticata nelle celebrazioni che seguiranno la VITTORIA sul Virus…

The show must go on nella sua eterna attualità!

Vi segnalo un approfondimento su questo tema.

La strage silenziosa di anziani nelle RSA - “Macelleria messicana” nelle residenze per anziani

“Persone fragili, alcune anche affette da altre patologie, diventate terreno fertile per il virus che sta mettendo in ginocchio l’Italia. Uomini e donne che per troppo tempo hanno dovuto subire il triste clichè che toglieva dignità alle loro vite. "Tanto muoiono solo i vecchi", pensavano in tanti. Era come diventato una sorta di scudo per chi ancora si aggirava per le strade delle città indisturbato, senza protezioni, convinto che, quella del coronavirus, fosse tutta una bufala gonfiata dai media. Eppure, nonostante gli anziani fossero già stati individuati come la preda più facile da attaccare per il virus la realtà sembra raccontare che qualcuno non li ha protetti abbastanza”.

Termino proponendovi l’articolo di una brava giornalista che senza citare IL NEGRO DEL NARCISSUS ne é comunque una fedele interprete.

 

Redazione CDN (Calabria Diretta News)

21 Aprile 2020

Non c’è la violenza, non c’è la premeditazione, non c’è l’orrore del sangue ma quella che si va consumando nelle residenze per anziani è una mortalità che evoca gli stermini della rivoluzione messicana, diventati metafora di ogni mortalità di massa ingiustificata, incontrollata e incontrastata.

Non è soltanto la vicenda di Villa Torano col suo crescente numero di contagiati, dentro e fuori la struttura, con i comportamenti omissivi, le negligenze del personale, la superficialità irresponsabile della gestione, le compiacenze con la Protezione Civile e il Mater Domini di Catanzaro a rappresentare il luttuoso fenomeno di una mortalità anagrafica. E’ tutta l’Italia che rivela nei confronti delle residenze per anziani un atteggiamento di sistema senza controlli adeguati e una pressoché totale privatizzazione del settore che rappresenta uno dei business più redditizi sulla vecchiaia e sul bisogno di assistenza degli anziani.

Ci sarebbe un aspetto etico da considerare e cioè che gli anziani di oggi sono la generazione che ha conosciuto nella sua infanzia la guerra ma, soprattutto, che ha vissuto e realizzato la “ricostruzione”, il boom economico e la modernizzazione del Paese con governi a base democratica. Strappati agli affetti familiari, ricoverati come pazienti ad alto rischio e a bassa possibilità di guarigione, morti in solitudine in corsie congestionate e scaricati nelle loro bare, da camion militari, in spazi cimiteriali improvvisati, questi anziani se ne sono andati, comunque la si voglia mettere, portandosi dietro una percezione di ingratitudine che non meritavano. C’è una responsabilità morale che è ben diversa dalle responsabilità che la giustizia, a volerla considerare tale, avrà il compito di accertare.

Si sapeva che erano i più esposti e per i quali, quindi, bisognava predisporre e intervenire per tempo con dispositivi di protezione, mascherine e tamponi in primis. Invece, oltre a lasciarli indifesi, si è consentito che venissero infettati dall’esterno, per negligenza, incompetenza, cialtroneria politica e irresponsabilità di chi avrebbe dovuto agire.

Ognuno di noi sa, nella propria coscienza, quanto ha valutato, nella paura dilagante, il diritto alla vita degli over 70 se non over 65. Pare, addirittura, che in alcune fasi dell’emergenza e della penuria di ventilatori polmonari sia stato preso in considerazione il codice di guerra secondo il quale, presentandosi l’alternativa ineludibile di salvare un vecchio o un giovane, prevede che sia il vecchio a essere sacrificato. E si può tragicamente capire ma parliamo di codice di guerra, ovvero bombardamenti, massacri indiscriminati, ospedali da campo e carneficine da affrontare.

Niente di tutto questo nell’anno del Signore 2020 dove la “macelleria messicana” nelle residenze per anziani parte e si consuma nelle realtà ritenute eccellenti della sanità italiana, modello – a quanto si dice – invidiatoci a livello internazionale, per espandersi progressivamente in tutto il Paese.

Tutto questo in presenza di una pandemia che ha preso alla sprovvista l’intero pianeta, senza risparmiare le potenze mondiali più ricche, a partire dagli Stati Uniti. Ma il problema delle residenze per anziani esiste da prima che facesse irruzione il coronavirus.

Mettendo da parte, in questa analisi, le “case di riposo” oggetto di incursioni dei carabinieri, rivelatrici di condizioni sub-umane di trattamento paragonabili ai lager nazisti, è il caso di riportare alcuni numeri per comprendere perché le residenze per anziani rappresentano un business redditizio “anticiclico”, dove anticiclico significa che il settore non è soggetto a oscillazioni e crisi di mercato perché la “senilizzazione” ovvero l’invecchiamento della popolazione è una dinamica in espansione non compensata dalle nascite.

Una distinzione preliminare va fatta fra RSA (residenze sanitarie assistenziali) RA ( case di riposo o comunque di assistenza agli anziani ) e “pensioni” di iniziativa privata che sfuggono ad ogni autorizzazione e controllo. Le RSA che non sono a gestione pubblica sono a gestione privata e, nella maggior parte, convenzionate col servizio sanitario nazionale. Percepiscono per ogni paziente una retta mensile valutabile nell’ordine di 140/150 euro al giorno per paziente ma esistono anche quotazioni più basse fino ad arrivare alle “pensioni” più povere dove la retta può essere di 1.200 euro al mese.

Secondo l’Agenas, che opera per conto del governo nazionale, in Italia tutte le residenze per anziani, escluse quelle clandestine e fuorilegge, assommano a oltre 6 mila per complessivi 287.532 posti letto di cui centomila 282 a gestione pubblica e 171mila 445 a gestione privata. Le RSA in senso stretto sarebbero 2.475 per 220mila e 700 utenti.
Ma c’è molta confusione sui dati poiché il sommerso è difficilmente quantificabile.

Quello che è certo è che il settore è progressivamente finito negli appetiti di gruppi imprenditoriali, finanziariamente agguerriti, che ne hanno preso il controllo. Si va da realtà come quella di Villa Torano, capofila di altre residenze gestite dallo stesso gruppo, alle 55 residenze gestite dalla CIR di Carlo De Benedetti in molte regioni con un fatturato che si può immaginare.

Per quanto riguarda Villa Torano, la polemica esplosa riguarda,oltre all’espandersi incontrollato del contagio, il ruolo giocato nella vicenda dalla politica atteso il coinvolgimento di un esponente politico di Forza Italia, tal Parente, la cui consorte detiene il 40 per cento del pacchetto azionario del gruppo che gestisce più residenze per anziani. Al politico in questione e alle protezioni su cui può contare vengono ricondotte le anomale agevolazioni ottenute dalla Protezione Civile con la fornitura di 200 tamponi e con le controverse risultanze dei tamponi effettuati.

Nella polemica esplosa sui controlli non effettuati e sulle negligenze emerse è intervenuto Enzo Paolini che da anni, senza essere titolare di alcuna struttura sanitaria, rappresenta in Calabria, dopo averla rappresentata a livello nazionale, l’AIOP (Associazione Italiana Ospedalità Privata) ovvero quelle comunemente chiamate cliniche o case di cura che prevalentemente sono convenzionate col servizio sanitario e rappresentano “l’altra gamba” del servizio sanitario pubblico.

Paolini, in effetti, non rappresenta le RSA che sono un settore a parte ma ha ritenuto di dover intervenire sulla polemica esplosa su Villa Torano per chiarire cosa debba intendersi per sanità privata e cosa rappresentano le RSA, interessato alla distinzione per diversificare ruoli e responsabilità e scoraggiare ogni strumentalizzazione contro la sanità privata, generalizzando con Villa Torano. Intanto, per Paolini, nessuna indulgenza per chi opera fuori dalle regole e dai protocolli previsti dalla legge, sia che si tratti di cliniche private che di residenze per gli anziani.
Nessuna indulgenza e nessuna giustificazione ma sbaglia chi generalizza e dalla vicenda di Villa Torano trae giudizi sommari sulla sanità privata “tout court”, facendo così torto a chi opera con onestà e trasparenza. Semmai Paolini, superando le affermazioni del sindacato infermieri e le dolenze giustificate per la mancanza di dispositivi di protezionechiama in causa chi deve esercitare i necessari controlli dovuti, sia che si tratti di cliniche che di RSA. E qui sta il punto, dove emergono le supposte connivenze con la malapolitica .

Nessuno, né a destra né a sinistra, ha mai chiesto una verifica di quanti politici, tramite familiari o prestanome, hanno interessi nella sanità. Alcuni casi sono venuti alla luce, altri sono occultati o adeguatamente mascherati. Nelle residenze per anziani si stava male anche prima del coronavirus ma nessuno è andato a vedere.

Ora sembra che la magistratura inquirente abbia scoperto che qualcosa non va, che l’assenza di controlli nasconda qualcosa di più grave, che sulla pelle dei nostri vecchi siano state costruite rendite di posizione che, né a destra né a sinistra, si avverte la necessità di tenere sotto controllo rispetto alla qualità dei servizi e ai requisiti da osservare. In questo la mafia non c’entra o c’entra in compartecipazione di minoranza.

Non sarebbe un eccesso di zelo se, a parte i cartelli colombiani della droga e il coronavirus che incrementerà l’usura, ci fosse un giudice che avesse a cuore le ignominie consumate da gruppi di colletti bianchi, fra di loro collusi, a danno dei nostri vecchi. Ci sono i silenzi colpevoli di chi, ai vari livelli, facendo finta di non sapere, copre e protegge. Verosimilmente sono gli stessi ambienti che, a 60 giorni dal coronavirus, non hanno detto una parola sull’insabbiamento dei quattro nuovi ospedali di Gioia Tauro, Vibo, Sibari e Cosenza. Anche i calabresi, increduli su Villa Torano, tacciono.

Rassegnati al peggio.

redazione Paola Oggi

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CARLO GATTI

Rapallo, 23 oprile 2020