STRETTO DI MESSINA-ULISSE - MITI E LEGGENDE
STRETTO DI MESSINA
PRIMA PARTE
ULISSE - MITI E LEGGENDE
Lo Stretto di Messina (u Strittu), chiamato nell'antichità Stretto di Scilla e Cariddi, è un braccio di mare che collega il Mar Ionio con il Mar Tirreno, separa la Sicilia dalla Calabria e l'Italia peninsulare dal continente.
Perché parlare di ULISSE nel 2021?
Perché il difficile passaggio dello Stretto di Messina, appartiene alla storia dell’eroe omerico, al suo mare minacciato da Scilla e Cariddi, dalle Sirene e dai Mostri che oggi portano nomi scientifici, ma sono ancora il retaggio di superstizioni vive che ci riportano all’Ulisse uomo di mare che ancora ci illumina come un faro.
ULISSE è uno dei personaggi più amati della letteratura di tutte le epoche, uno dei pochi “miti” capace di passare da un’opera all’altra nella perenne “odissea” della vita, tanto che questo celebre nome è diventato sinonimo del “viaggio” terreno dell’umanità tra le infinite difficoltà che incontra ogni giorno. E si può ancora dire che dai secoli di Omero, 800 avanti Cristo fino al Terzo Millennio, Ulisse c’è, e sta ancora viaggiando perché è dentro ognuno di noi!
La sua fama, così duratura nel tempo, è indice della sua innata modernità imbevuta di malizia, individualismo e intelligenza. Il suo sempre attuale carisma è il riflesso di tante capacità che entrano in gioco nei momenti più difficili: sopportazione, curiosità, diffidenza, pazienza, coraggio e astuzia militare. Non solo! Perché Ulisse è l’emblema dell’ingegno, della calcolata freddezza che gli permette d’uscire sempre indenne dalle tempeste della vita usando qualsiasi mezzo, anche estremo.
Ma prima di immergerci nelle “acque infide dello Stretto” ci è caro fare una breve premessa da uomini di mare ...
Chi ha navigato nello Stretto di Messina più volte nelle due direzioni, in tutte le stagioni e con qualsiasi tempo, sa quanto possano sembrare "impressioni di realtà" le leggende che avvolgono quel passaggio. Oggi, naturalmente, quelle leggende hanno una spiegazione scientifica che vieta ogni riferimento ai mostri marini, alle sirene, ai miraggi ed altro, tuttavia i pericoli nello Stretto ci sono sempre e si chiamano vortici, scontro di correnti di marea, differenza di temperatura tra il mar Ionio ed il Tirreno che tra poco approfondiremo, infine c’è il traffico intenso di navi che incrociano da tutti i quadranti della bussola e che oggi, nonostante il transito sia regolamentato e controllato, è più sicuro ma non per questo è privo di pericoli.
Per entrare ancor più nell’attualità dell’argomento, chi scrive può testimoniare d’aver perso il controllo del governo di una petroliera di 30.000 tonnellate nell’attraversamento dello Stretto per almeno 30 lunghi secondi, a causa dei vortici di Cariddi. In un’altra occasione, per la stessa causa, sempre risalendo lo Stretto da Sud a Nord, con a rimorchio una nave da carico, con il cavo ridotto a 600 metri, perdemmo il controllo della rotta e fummo costretti ad issare i fanali rossi di non governo, ad emettere un Avviso radio di Sicurezza circolare a tutte le navi in transito ed infine a compiere un cerchio in un momento di traffico intenso…
Chi conosce la realtà dello Stretto ha le sue avventure da raccontare…
Posso inoltre confermare che molti Comandanti stranieri che navigano in direzione Suez-porti tirrenici e viceversa, preferiscono evitare il transito dello Stretto per motivi di sicurezza.
Non so esattamente quante siano state le collisioni avvenute nello Stretto nel tempo, ma ormai da parecchi anni, ogni nave si stazza superiore alle 15.000 tons deve prendere obbligatoriamente il Pilota di Messina per il transito nelle due direzioni.
Un po’ di Storia…
Lo Stretto era probabilmente praticato in epoca preistorica dai Sicani e poi dai Siculi, che in tempi diversi dovettero passare dal continente nell’isola. Dopo l’VIII secolo a.C., in seguito alla conquista dei Greci, lo Stretto divenne più noto, perché transitato dai fondatori di Cuma e di altre città. In seguito gli Ioni, fondatori di Zancle (Messina), vollero che sulla riva opposta sorgesse una città sorella, in modo da controllare questo vitale passaggio. Gli Etruschi ottennero il libero transito finché, dopo la sconfitta subita a Cuma (474 a.C.), perdettero il dominio del mare. Subito dopo lo Stretto divenne oggetto di fiere contese tra Reggio e Siracusa, alleata di Locri. In seguito alla distruzione, da parte dei Cartaginesi, di Messana (396 a.C.), rapidamente risorta e divenuta siracusana, la questione dello Stretto, che per tre secoli aveva indotto le città achee a trovarsi scali sul Tirreno attraversando i monti, venne finalmente risolta da Dionisio il Vecchio dopo che questi ebbe conquistato Reggio (387 a.C.). Nel III secolo a.C. fu Roma a mirare alla padronanza dello Stretto (Fretum Siculum), per la lotta contro Cartagine e il possesso della Sicilia. Con il predominio romano del Mediterraneo, l’importanza dello Stretto diminuì, rimanendo però sempre notevole, anche nel medioevo, per i commerci col Levante e per le imprese militari, allorché la Sicilia passò via via ai Bizantini, agli Arabi, ai Normanni e agli Svevi.
Guida d’Italia. Basilicata e Calabria, Touring Club Italiano, Milano 1980
Ma ora ritorniamo ad ULISSE e alla sua STORIA mitologica
Uno degli episodi più celebri è raccontato nel libro XII, dell’Odissea di Omero, quando Ulisse e la sua ciurma, provenienti dall’Isola di Circe (Circeo) navigano verso Sud per ritornare ad Itaca. Lo Stretto si mostra dinanzi ai loro occhi, e per proseguire il viaggio devono attraversarlo; tuttavia, sulla sponda sinistra, sopra uno scoglio, si erge un terribile mostro a sei teste, Scilla, (lato Calabria) mentre sul lato destro risiede un letale mostro marino, Cariddi (lato Sicilia).
La necessità di percorrere la via di mezzo, o quasi, è diventata proverbiale: infatti, quando si afferma di ‘essere tra Scilla e Cariddi’, s’intende il trovarsi in una posizione problematica.
Ulisse sa (perché la maga Circe glielo aveva rivelato) che sebbene Scilla possa attaccarlo con le sue sei mostruose teste (ognuna delle quali contiene tre file di denti aguzzi), e quindi afferrare e uccidere sei dei suoi uomini, Cariddi rappresenta una minaccia ancora più letale, poiché essere risucchiati dai vortici marini che il mostro marino provoca tre volte al giorno, si rivelerebbe fatale per l’intera nave e tutti gli uomini a bordo.
Perciò Ulisse deve navigare nel mezzo, consapevole che se ci dovesse essere un margine di errore sarebbe meglio tendere leggermente a sinistra, verso il lato di Scilla, piuttosto che a destra, poiché in quest’ultimo caso andrebbe incontro alla distruzione totale. Emozionante! Questa difficile situazione è senz’altro una metafora della vita stessa.
“Da una parte ci sono rupi aggettanti, contro cui si frange
con grande fragore l’onda di Anfitrite dagli occhi scuri:
gli dèi beati le chiamano Le erranti.
Di lì non passano neppure gli uccelli, né le trepidanti
colombe, quelle che a Zeus padre portano ambrosia.
Sempre qualcuna ne toglie la roccia liscia,
e il padre un’altra ne manda che ristabilisca il numero.
Di lì mai sfuggì nave di uomini che vi fosse giunta,
ma tavole di navi e insieme corpi di uomini trascinano via
le ondate del mare e i vortici di fuoco funesto.
Una sola nave di lungo corso di lì è riuscita a passare,
Argo da tutti celebrata, che tornava dal paese di Aieta”.
Lì dentro abita Scilla dal latrato inquietante:
la sua voce è pari a quella di una cagnetta poppante,
ma essa è invece un mostro malvagio, e nessuno
a vedersela di fronte gioirebbe, nemmeno un dio.
Dodici sono i suoi piedi, e tutti malformati,
ha sei colli lunghissimi, e ciascuno ha una orrida
testa, e in ognuna ci sono tre file di denti,
moltissimi e fitti, pieni del nero della morte.
Per metà sta sprofondata nell’antro profondo,
ma dal terribile baratro tiene fuori le teste.
Qui pesca, frugando lo scoglio all’intorno,
delfini, pescicani e mostri più grandi, se càpita,
afferra, quanti innumerevoli nutre la mugghiante Anfitrite.
Di lì con la nave nessuno si vanta di esser fuggito
indenne da morte; con ogni singola testa un uomo si prende:
lo afferra da sopra le navi dalla prora scura.
L’altro scoglio vedrai, Ulisse, molto basso, l’un all’altro
vicini: un tiro di freccia la distanza percorre.
Su di esso è un gran fico selvatico, fiorente di foglie.
Sotto, Cariddi divina risucchia l’acqua scura.
Tre volte al giorno emette, tre volte risucchia,
terribile. Che tu non sia lì quando inghiotte:
nemmeno l’Enosictono ti salverebbe da morte.
Accòstati molto allo scoglio di Scilla e presto
porta fuori la nave. Molto meglio sei compagni
piangere sulla nave che non piangerli tutti’.
“Solcavamo gemendo l’angusto passaggio:/ da una parte era Scilla, dall’altra Cariddi/ divina, che l’acqua salata inghiottiva del mare/ con suono tremendo, che poi rigettava di fuori/ e tutta in gorgoglio travolta bolliva/ come una caldaia sul fuoco che arde:/ la schiuma in alto lanciata giù ricadeva/ battendo le cime d’entrambi gli scogli./ E quando di nuovo l’acqua salata inghiottiva/ del mare pareva sconvolgersi dentro;/ […] lo sguardo era fisso a Cariddi, fisso alla morte./ Fu allora che Scilla ghermì dalla nave/ concava sei dei compagni, i più forti;”
Ulisse (Odisseo) tenta di superare i mostri Scilla e Cariddi. Scilla mangia sei volte sei compagni di Ulisse, mentre Cariddi risucchia le acque. Dopo aver affrontato i due mostri, Odisseo, approdato con i suoi compagni sull'isola di Trinacria, non riesce a frenare la voglia dei compagni di banchettare con le invitanti mucche di Elio (altre versioni dicono di Era o Apolo). Per questo Odisseo racconta di essere stato per nove giorni in balia di terribili tempeste scatenate da Zeus, con la nave e i compagni uccisi da Scilla.
Ulisse riesce così ad evitare il naufragio dell’intera nave sacrificando però sei dei suoi compagni, e tristemente continua il suo viaggio fino a Itaca.
In realtà, proprio dove il mito si fonde con la leggenda e dove i racconti antichi trovano poi riscontro, ecco che ci si chiede: ma chi erano Scilla e Cariddi?
Due ninfe diventate mostri
Le statue di Scilla e Cariddi scolpite da Giovanni Angelo
Montorsoli sulla fontana di Orione a Piazza Duomo.
Ci sono diversi racconti popolari tradizionali che hanno fatto nascere molte leggende attorno a Scilla e Cariddi, ma è certo che prima di essere tramutate in due mostri, esse erano due bellissime ninfe del mare.
SCILLA
Scilla, dagli occhi azzurri, era figlia di Forcis e Ceto, figlia di Gea e Ponto, anch’esso un mostro simile ad una balena. Secondo il mito, Scilla vive presso le rive di Zancle, in Calabria, e lì che incontrò Glauco, figlio di Poseidone, che s’innamorò perdutamente di lei.
Ciò nonostante la ninfa respinse il dio marino e quest’ultimo chiese aiuto a Circe, per conquistarla. La maga, però s’innamorò di Glauco e gli chiese di diventare il suo compagno, ma egli rifiutò, perché era completamente rapito da Scilla. Allora la maga trovò il modo di rifilare alla bella ninfa un filtro, che la trasformò in un essere mostruoso, dalle molte gambe serpentine, alle cui estremità si trovano delle bocche con cui divorava i marinai. Scilla, allora, si rifugiò in una grotta, nello stretto di Messina, insieme a Cariddi. Una immagine spaventosa che ha alimentato la loro fama.
La storia è diversa per Cariddi, una naiade figlia di Poseidone e di Gea, ma a differenza della prima, lei era dedita alle rapine prima di diventare un mostro, ed era nota per la sua voracità. Zeus, dopo che ella rubò dei buoi a suo figlio Eracle e a Gerione, il gigante a tre teste, decise di punirla gettandola in mare e trasformandola in un mostro orrendo, simile a una lampreda.
Si dice che per risucchiare le sue vittime, Cariddi creava dei veri e propri vortici nel mare, dove le navi affondavano e lei poteva soddisfare la sua voracità. Lo stesso avvenne poi nei racconti narrati nell’Odissea, dove lo stesso Ulisse si trovò ad affrontare i due terribili mostri.
Geograficamente Cariddi è collocabile sulla punta messinese della Sicilia, a Capo Peloro.
Scilla è sulla spiaggia calabrese, da Punto Pizzo ad Alta Fiumara.
OMERO - ODISSEA
SCILLA E CARIDDI
L’altro scoglio, più basso tu lo vedrai, Odisseo, / vicini uno all’altro, / dall’uno potresti colpir l’altro di freccia. / Su questo c’è un fico grande, ricco di foglie; / e sotto Cariddi gloriosamente l’acqua livida assorbe. / Tre volte al giorno la vomita e tre la riassorbe / paurosamente. Ah, che tu non sia là quando riassorbe.
A rendere un’Odissea il passaggio nello Stretto, sin dai tempi in cui Messina era una perla della Magna Grecia, erano soprattutto le correnti irregolari e imprevedibili, capaci di raggiungere una velocità di svariati km/h e di generare vortici letali. Fra questi, due in particolare avevano le sembianze mostruose di esseri ultraterreni, Cariddi (“Colei che risucchia”) sul versante siculo, nei pressi di Torre Faro, e la dirimpettaia Scilla (“Colei che dilania”), nello specchio d’acqua su cui si specchia Cannitello, fra Alta Fiumara a Punto Pezzo.
Figlia di Poseidone (dio il mare) e di Gea (dea la terra), Cariddi. Punita da Zeus per la sua insaziabile voracità e trasformata in un mostro marino, funestava le imbarcazioni in transito sullo Stretto, ingoiando tre volte al giorno un enorme quantità d’acqua per poi sputarla, “deglutendo” barche e marinai. A parlare di Cariddi sono Omero, nel canto XII dell’Odissea, Virgilio, nell’Eneide, e anche Dante, che nell’Inferno si serve dell’immagine del mostro marino per descrivere l’eterno scontrarsi degli avari e dei prodighi: era una delle Naiadi (ninfe che presiedono a tutte le acque dolci della terra) che secondo alcune versioni avrebbe prima rubato e poi divorato i buoi.
(«Come fa l’onda là sovra Cariddi, / che si frange con quella in cui s’intoppa, così convien che qui la gente riddi»).
LA LEGGENDA DELLA FATA MORGANA
Stretto di Messina - La leggenda di Fata Morgana
Una illusione Ottica
di Carlo GATTI
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Dalla costa reggina molto di rado, per breve tempo e di solito in giornate calde e con aria e mare calmi, si produce il noto fenomeno di miraggio detto fata morgana, che dà l’impressione di un avvicinamento della costa sicula, gli edifici della quale si prospettano in mare o nell’aria con immagini stranamente allungate, deformate, sempre nuove, simulando città fantastiche e anche schiere di uomini in moto.
La leggenda ci tramanda che, dopo aver condotto suo fratello Artù ai piedi dell'Etna, Morgana si trasferisce in Sicilia tra l'Etna e lo stretto di Messina, dove i marinai non si avvicinano a causa delle forti tempeste, e si costruisce un palazzo di cristallo.
Sempre in base alla leggenda, Morgana esce dall'acqua con un cocchio tirato da sette cavalli e getta nell'acqua tre sassi, il mare diventa di cristallo e riflette immagini di città.
Grazie alle sue abilità, la Fata Morgana riesce ad ingannare il navigante che, illuso dal movimento dei castelli aerei, crede di approdare a Messina o a Reggio, ma in realtà naufraga nelle braccia della fata.
Guardando da Messina verso la Calabria, si vede come sospesa nell'aria l'immagine di Messina e, viceversa, guardando da Reggio Calabria verso Capo Peloro, si vede Reggio nello stretto.
RIENTRIAMO ORA NEL TERZO MILLENNIO
Siamo nel 2021 e dobbiamo precipitosamente ritornare con i piedi sulla terraferma per rivolgerci alla SCIENZA che ci spiega in breve cosa succede da sempre nello Stretto:
Il braccio di mare che separa la Calabria dalla Sicilia è largo oltre 3 chilometri a nord, fra Torre Cavallaro e il Capo Peloro, e 16 chilometri circa a sud, fra la Punta Péllaro e il Capo d’Alì; nel senso della lunghezza si estende per 33 chilometri. La profondità varia da 120 a 150 metri nel punto più stretto. Contrariamente all’opinione, diffusa nell’antichità dai filosofi greci, che lo Stretto fosse stato aperto da un terremoto o dalla furia del mare agli albori della storia, i moderni studi geologici hanno dimostrato ch’esso esiste da tempi molto remoti: per lo meno dall’epoca in cui ebbero luogo quei movimenti della crosta terrestre che furono alla base della struttura dell’Appennino; lo Stretto, anzi, doveva essere più largo di oggi. La navigazione in esso fu ritenuta pericolosa fin dall’antichità e in effetti presenta difficoltà soprattutto per le correnti rapide e irregolari e per i venti che vi spirano violenti e talvolta in conflitto.
La corrente principale, dovuta al livellamento dei bacini tirrenico e ionico attraverso lo Stretto e al relativo flusso, va da sud a nord col nome di rema montante; quella determinata dal riflusso, con direzione opposta, si chiama rema scendente. Queste correnti toccano una velocità massima di oltre 9 chilometri all’ora e si alternano di sei in sei ore; di norma raggiungono l’intensità massima dopo 4 ore dall’inizio e diminuiscono fino a mezz’ora prima della corrente opposta. Ogni corrente ha ai lati i bastardi, cioè controcorrenti, che si sviluppano in località note circa un’ora dopo l’inizio della corrente. Nei punti d’incontro di correnti opposte, oppure dove una corrente trova notevoli differenze di fondo, si formano vortici detti garófali o réfoli, di cui i principali sono quelli chiamati dagli antichi Scilla e Cariddi, che si formano con la montante, il primo sulla costa calabrese da Alta Fiumara a Punta Pezzo, il secondo alla spiaggia del Faro. I due famosi vortici derivano dall’urto delle acque contro la Punta Torre Cavallo e il Capo Peloro. Cariddi talvolta è accompagnato da un rimescolio delle acque così violento da mettere in pericolo le piccole imbarcazioni. Notevole è anche il vortice che si forma, con la scendente, davanti al faro di Messina e con i venti sciroccali e in giorni di luna piena o nuova rende il mare agitato tra la Grotta e le acque di San Ranieri. Altri garófali sono a Sant’Agata, Punta Grotta, San Salvatore dei Greci, Punta Pezzo e Catona.
Le acque dello Stretto con la montante si abbassano di circa 15 o 20 centimetri; con la scendente si alzano di altrettanto, con un dislivello massimo di mezzo metro. Le depressioni maggiori si hanno in agosto, le elevazioni massime in novembre, dicembre e parte di febbraio. Nei giorni di maggior forza delle correnti, la montante è sempre più violenta della scendente e riesce a strappare dal fondo erbe e alghe. Quando è rafforzata da particolari condizioni meteorologiche getta sulle spiagge di Ganzirri, del Faro e anche di San Ranieri, pesci abissali dagli occhi atrofizzati, con organi produttori di fosforescenza e di forme inconsuete.
Si conclude così il nostro breve viaggio virtuale nello STRITTU che ci ha portato a ritroso nel tempo, quando il breve tratto di mare era “popolato” da mostri, divinità e strane creature, fra misteri, prodigi e fenomeni atmosferici (all’epoca) inspiegabili. Una leggenda siciliana che ispira la fantasia e ci riporta alla memoria viaggi e avventure che hanno reso l’attraversamento dello Stretto di Messina una prova di coraggio nell'immaginario collettivo.
Possiamo definirlo lo Stretto del Mito, reso immortale da alcuni dei più grandi scrittori di sempre, affascinati dalla suggestione di un luogo che nei secoli ha terrorizzato viaggiatori e marinai a causa soprattutto della sua variegata fauna e del perenne scontro fra lo Jonio e il Tirreno.
Millenni di storia e leggenda in un luogo unico al mondo.
Carlo GATTI
Rapallo, 1 Settembre 2021
DAL GARUM ALLA COLATURA DI ALICI DI CETARA
DAL GARUM ALLA COLATURA DI ALICI DI CETARA
Porto di Pompei
Con il termine garum si designava quel particolare condimento ottenuto dalla macerazione e dall’auto digestione enzimatica di alcune varietà di pesci. Il sale che veniva aggiunto aveva la funzione di conservante. Le sostanze proteiche degradate dagli stessi enzimi presenti nelle interiora del pesce avevano la funzione di creare aminoacidi liberi, grassi polinsaturi e lipidi essenziali.
Nel porto di Pompei arrivavano anche mercanzie da ogni luogo del Mediterraneo Abbiamo ampie prove di questi traffici commerciali che venivano regolati dalle esigenze di mercato. Presso il Museo Archeologico di Boscoreale sono esposti alcuni esempi di anfore per il trasporto del vino, dell’olio e del garum. La differente morfologia delle anfore, i bolli di fabbrica e le iscrizioni dei contenuti ci fanno comprendere come questi prodotti tipici dell’industria locale venissero trasportati attraverso il mare anche a terre lontanissime.
Il garum di Pompei era servito sulle tavole delle ricche dimore da Leptis Magna a Sidone, da Argo a Tarros, da Gibilterra a Cipro. Un commercio fiorentissimo che connotava rotte e guidava l’economia verso prodotti tipici e oggettivamente validi.
La nostra salsa aveva probabilmente un gusto acidulo ed odoroso di mare. Un forte carattere la distingueva, soprattutto se associata a pietanze quali le cacciagione, i crostacei, ed anche le stesse zuppe di pesce. Nella lingua greca oggi alcuni tipi di pesci piccoli e saporiti e le stesse alici si definiscono con il termine “gavros” ossia ΓΑΥΡΟΣ. Possiamo pensare quindi che le stesse radici gastronomiche di questo condimento, già esistevano tra i popoli del bacino orientale del Mediterraneo. Lo stesso sale ad esempio, utilizzato come conservante naturale delle proteine era noto nel mondo egizio, dove veniva utilizzato miscelato ad altre sostanze per formare il natron.
Navigando qua e là per il WEB mi sono imbattuto, per una strana duplice coincidenza.
GARUM MARE NOSTRUM
La prima è che il Garum é una mia vecchia conoscenza di quando mi capitava di visitare i musei di archeologia marina; la seconda é Mare Nostrum, nome che conosco “abbastanza” bene…
Ho pensato quindi di passare la parola a questi nostri Amici di Viareggio che non conosco, ma che sento in qualche modo vicini ai nostri ideali. Non è quindi un caso che il nostro Presidente Agostino Lertora, oltre ad essere un provetto nuotatore e pescatore subacqueo, abbia pure una certa fama di cuoco specializzato in piatti di pesce, come gli amici di F/b ben sanno. La sua fama, per dire il vero, abbraccia anche l’arte pittorica di quel settore, come dimostra la foto che segue:
La parola agli esperti!
“Negli ultimi anni la nostra associazione, nell’ambito dei suoi progetti di ricerca e di studio , sta operando per la valorizzazione delle qualità nutraceutiche del pesce, ed in particolare del pesce azzurro, comunemente identificato con l’appellativo di “pesce povero”.
L’interesse per questa iniziativa è motivata dalla scarso gradimento che i bambini e le bambine hanno nei confronti del pesce, e della scarsa conoscenza delle sue qualità salutistiche.
Il nostro progetto sul pesce coinvolge i pescatori dei nostri mari, ed è condotto con la collaborazione di enti pubblici, fra i quali il Comune di Viareggio, dove è presente la più importante realtà di pescatori della Toscana; la Regione Toscana, che da alcuni anni sostiene progetti legati alla valorizzazione dei prodotti locali nell’ambito delle filiere corte e della ristorazione scolastica.
Nel lavoro di studio e di ricerca sulla tipicità, sulle tradizioni e sul nostro patrimonio alimentare legato al pesce, abbiamo intercettato il garum, un condimento a base di pesce azzurro, fra i più noti dell’antichità e che i romani adoravano e producevano in grandi quantità nell’area del Mediterraneo.
Dai nostri studi e ricerche abbiamo rilevato che questo condimento con molta probabilità prende il nome da un pesce “Garos”, da cui è derivato il nome “Garon“ usato dagli antichi Greci, e il nome “Garum” usato dai Romani.
A partire dal II sec. A.C. questa salsa di pesce, usata prevalentemente come condimento ebbe un successo crescente. La qualità del garum veniva indicata con lettere dipinte sulle anfore ed assicurava anche l’anno di produzione. Le migliori salse erano denominate Garum Excellens (ottenuto con alici e ventresche di tonno); Garum Flos Floris (ottenuto con sgombri, alici, sardine); Garum Flos Murae (ottenuto dalle murene). Il garum prodotto nelle colonie romane dell’Africa settentrionale, della Spagna, veniva chiamato Garum Sociorum. Una delle più importanti officine per la produzione del garum si trovava a Pompei.
Il garum veniva utilizzato sia come condimento, sia come ingrediente di cottura. Con il garum si insaporivano i funghi e le uova, mescolato all’aceto o ad altre erbe aromatiche, costituiva una salsa di condimento delle carni o del pesce alla brace.
Le sue qualità medica mentali erano altrettanto note: efficace disintossicante e antidolorifico. Le sue proprietà energetiche erano utilizzate dagli eserciti per le loro operazioni militari.
Molte sono le citazioni che si ritrovano sul garum in epoca romana, il che confermerebbe la sua larga diffusione in tutta l’area del Mediterraneo e i suoi molteplici usi in cucina e come elemento altamente energetico. Fra le citazioni più note, possiamo ricordare quelle di Apicio nel “De ReCoquinaria”; Marziale; Varrone; Plinio Il Vecchio in Naturalis Historia; Columella nel De Rustica.
Il garum resterà presente nella tradizione gastronomica alto medievale, con fabbriche di produzione a Bisanzio e nell’area adriatica, per avviarsi successivamente verso un progressivo declino. Uno dei principali ed ultimi porti di smercio di questo prodotto è stata la citta’ di Lunae (Luni) in Liguria.
Ai giorni nostri si producono alcune salse a base di pesce, con procedimenti diversi, fra le quali la colatura di Alici di Cetara.
Il progetto di recupero del garum, ed in particolare la produzione del “Garum Mare Nostrum” è iniziato tre anni fa.
Nel mese di luglio del 2011 si è realizzata una prima produzione sperimentale del garum mare nostrum. In particolare gli ingredienti usati sono stati: pesce azzurro (alici, sgombri, sardine) pescato nel Mar Tirreno; sale marino integrale; erbe aromatiche della macchia mediterranea (rosmarino, alloro, timo), seguendo alcune tecniche di produzione e conservazione da noi codificate, con riferimento alle fonti storiche”.
Noi possiamo solo aggiungere che la qualità del Garum in antichità veniva indicata con lettere dipinte sulle anfore ed assicurava anche l’anno di produzione. Nella casa di Paquius Proclus, personaggio in vista nell’ultimo periodo di Pompei, è stata trovata un’anfora contenente Garum stagionato di tre anni: ciò dimostra che questa salsa può essere conservata per lungo tempo.
Esisteva un Garum ordinario e uno di qualità, a seconda dell’utilizzo di residui di pesci di vario tipo o piccoli pezzi di pesce scelto. Il Garum migliore era il gari flos, il fiore del Garum, il più puro, il primo liquido filtrato; il Garum nigrum godeva di grande reputazione e si vendeva in vasetti.
Le migliori salse erano così denominate:
Garum Excellens, ottenuto con alici e ventresche di tonno;
Garum Flos Floris, (tipo extra) ottenuto con diverse qualità di pesci (sgombri, alici, tonni, ecc.);
Garum Flos Murae, ottenuto dalle murene.
Altri tipi di Garum si riferiscono a particolari commistioni, come l’Oxygarum, una sorta di bevanda digestiva con numerose erbe tritate, l’Hydrogarum che era lavorato con erbe aromatiche. L’Halex o Allec era il residuo del Garum, ma poteva essere fatto anche con pesci delicati; Apicio inventò un Allec da fegato di triglia (mullus) che faceva macerare nel Garum, il quale ricorda l’olio di fegato di merluzzo considerato nel passato un potente ricostituente per i bambini.
Tre anfore per il garum
Il miglior Garum veniva prodotto da una cooperativa di Cartagine, il cosidetto Garum Sociorum, che si produceva con il gusto prevalente dello sgombro. Un’anfora di sei litri di Garum Cartaginese costava allora mille sesterzi (circa mille euro attuali). Ottimi e più economici erano i tipi prodotti a Pompei, Antibes (sulla Costa Azzurra) ed in altri pochi centri del Mediterraneo.
Garum ottenuto dalla riproduzione sperimentale (GARCÍA VARGAS)
“Garum di Pompei” in fase di preparazione
Il garum, nota e famigerata salsa di pesce fermentato, era molto diffuso e apprezzato nel mondo romano; non solo infatti era un metodo, alternativo alla salagione a secco (salsamentum), di conservare il pesce, ma forniva all’alimentazione un buon apporto di sale e serviva a esaltare il sapore di quasi ogni piatto, grazie all’elevata quantità di glutammato (quello che oggi troviamo nel dado da cucina o nella salsa di soia). La lavorazione del pesce, tanto salato quanto in salse, ha origine mesopotamica ed egizia risalente al III millennio a.C., o ancor prima; essa passò poi al Vicino Oriente e fu nota fin dal VII secolo a.C. ai Greci, i quali chiamavano tarichos il pesce salato e garon la salsa, per la quale utilizzavano una specie di piccolo pesce non meglio identificato, il garos. Contemporaneamente, con le loro colonizzazioni, i Greci portarono la produzione in occidente, ma non bisogna dimenticare anche il ruolo dei Fenici, specialmente verso le coste iberiche, che non a caso in seguito saranno i maggiori e migliori produttori. Furono proprio i Fenici a dare inizio a una pesca intensiva, finalizzata alla lavorazione, in particolare nelle aree limitrofe allo stretto di Gibilterra, passaggio obbligato dei tonni nelle migrazioni fra Mediterraneo e Atlantico. Fenicio è il primo impianto di produzione noto, con vasche per la salagione, a Gadir, l’odierna Cadice, risalente al V secolo a.C. Furono, di nuovo, i Fenici a generalizzare l’uso di anfore per il trasporto di questi prodotti, rinvenute in tutto il Mediterraneo. I Romani, poi, recepirono anch’essi queste tecniche e, con l’aumento della domanda, nacque una produzione “industriale”, destinata al commercio anche a lungo raggio, tramite delle anfore specializzate. I centri produttivi romani, detti cetariae, più numerosi e grandi di quelli fenici, si concentrarono soprattutto sulle coste, sia atlantiche che mediterranee, della Baetica, nel sud dell’Hispania. Altri importanti esportatori furono le province dell’Africa settentrionale e la Sicilia, ma Plinio ricorda come centro di produzione rinomato anche Pompei. Una delle cetariae meglio note e studiate è quella di Baelo Claudia, sempre vicino a Cadice. Questi impianti producevano probabilmente tanto il garum quanto il salsamentum e sono caratterizzati da vasche per la salagione, generalmente quadrangolari, ma a volte anche circolari, come alcune di Baelo Claudia che, per le grandi dimensioni, potrebbero essere state destinate a dei cetacei.
La Colatura di Alici è il prodotto principe del borgo marinaro di Cetara, splendida cittadina dell’illustre Costiera Amalfitana. Il liquido di colore ambrato, dalle presunte origini asiatiche e ben noto successivamente agli antichi romani, si ottiene dalla lunga maturazione delle alici sotto sale.
La ricetta venne poi in qualche modo recuperata nel Medioevo da parte dei gruppi monastici presenti in Costiera Amalfitana, i quali ad agosto erano soliti conservare sotto sale le alici in botti di legno con le doghe scollate e poste in mezzo a due travi, dette mbuosti; sotto l'azione del sale, le alici perdevano liquidi che fuoriuscivano tra le fessure delle botti. Il procedimento si diffuse successivamente tra la popolazione della costa, che la perfezionò con l'utilizzo di cappucci di lana per filtrare la salamoia.
La colatura d'alici viene soprattutto utilizzata come condimento di spaghetti, ma anche per insaporire piatti a base di pesce o verdure, come ad esempio la scarola per la pizza ripiena; inoltre con verdure saltate in padella con olio, aglio e peperoncino, quali bietole, spinaci, ecc. Da alcuni è apprezzata anche come condimento per pomodori, olive, persino per panini farciti e uova cotte in vari modi.
“Un prodotto simbolo importante per il rilancio della enogastronomia – dichiara Mauro Rosati, direttore Generale Qualivita – che, data la notorietà che aveva assunto a livello nazionale ed internazionale in questi anni, ora potrà essere tutelato dalle imitazioni”.
Sicuramente abbiamo sentito parlare di Marco Gavio Apicio, un ricco romano vissuto nel I secolo d.C., e del suo “De re coquinaria”, preziosa fonte di informazionI sulle abitudini alimentari degli antichi romani.
Con le sue 478 ricette, alcune delle quali assai stravaganti, ci trasmette la cultura gastronomica del tempo, conosciuta e praticata nelle case dei ricchi, naturalmente. Singolare è la continuità che si riscontra con alcune preparazioni gastronomiche in uso ancora oggi, divenute col tempo vere prelibatezze.
Sembra infatti che Apicio, da grande buongustaio quale era, avesse trovato il modo per ottenere una pietanza simile al moderno foie gras, ingozzando le povere oche con i fichi!
Ma è il garum il vero protagonista della ricca tavola romana, una salsa ottenuta dalla fermentazione di interiora di pesce, il cui solo pensiero sicuramente ci disgusterebbe.
Sorprendentemente esiste un erede del garum nella cucina italiana: la colatura di alici.
Non si produce con interiora, ma con alici eviscerate, ma chissà se la più antica tradizione prevedesse l’uso di alici intere.
Attualmente il borgo di pescatori di Cetara, situato in costiera amalfitana, detiene il primato nella produzione della colatura di alici.
Il garum era preparato mescolando le interiora di pesce con sale e diversi tipi di spezie. Il tutto veniva fatto macerare esponendolo al sole per un paio di mesi.
Il liquido che si formava veniva filtrato, ed era la parte più preziosa, il garum appunto.
la parte solida serviva per la preparazione di un altro tipo di salsa, l’allec.
A Cetara le alici impiegate per la trasformazione sono tradizionalmente quelle pescate tra il 25 marzo, festa dell’Annunciazione, e il 22 luglio, S. Maria Maddalena.
Dopo essere state pulite (vengono rimosse testa e interiora), le alici vengono prima tenute per una giornata in grandi vasi con abbondante sale, poi poste in botticelle chiamate terzigni, a strati alternati con il sale.
CARLO GATTI
Rapallo, 28 Gennaio 2021
NAVI E STELLE
NAVI E STELLE
Tipo di astro |
Costellazione |
Nome |
Tipo di nave |
Dal |
Al |
MOTTO, traduzione e note |
|
Costellazione |
ANDROMEDA |
Andromeda |
Torpediniera |
1936 |
1941 |
|
|
Costellazione |
ANDROMEDA |
Andromeda |
Avviso scorta |
1943 |
1971 |
Marina USA, come Caccia di scorta, dal 1943 al 1951 con il nome di Wesson |
|
Stella |
AQUILA |
Altair |
Torpediniera |
1936 |
1941 |
|
|
Stella |
AQUILA |
Altair |
Avviso scorta |
1943 |
1971 |
Appartenuta alla Marina USA dal 1943 al 1951, come Caccia di scorta, Gandy |
|
Costellazione |
AQUILA |
Aquila |
Avviso a ruote |
1840 |
1875 |
|
|
Costellazione |
AQUILA |
Aquila |
Torpediniere avviso |
1888 |
1912 |
|
|
Costellazione |
AQUILA |
Aquila |
Esploratore leggero |
1914 |
1939 |
ALARUM VERBERA NOSCE Paventa l'impeto delle mie ali |
|
Costellazione |
AQUILA |
Aquila |
Portaerei |
1941 |
1945 |
( Ex transatlantico Roma ) |
|
Costellazione |
AQUILA |
Aquila |
Corvetta |
1961 |
1991 |
ALARUM VERBERA NOSCE Paventa l'impeto delle mie ali |
|
Costellazione |
ARIES |
Ariete |
Torpediniera |
1943 |
1949 |
MAGIS TENACIA QUAM CORNIBUS EVERTO Distruggo di più con la tenacia che con l'impeto |
|
Stella |
CANIS MAJOR |
Sirio |
Torpediniera d’alto mare |
1905 |
1923 |
SIDUS VIGILANS Stella vigilante Sirio: occhio del Cane che veglia sopra il limitar di Dio! |
|
Stella |
CANIS MAJOR |
Sirio |
Pattugliatore d’altura |
2003 |
|
|
|
Stella |
CANIS MINOR |
Procione |
Torpediniera d'alto mare |
1906 |
1924 |
CAVE CANEM Attenti al cane |
|
Stella |
CANIS MINOR |
Procione |
Avviso scorta |
1936 |
1943 |
|
|
Personaggio |
CAPRICORNUS |
Ibis |
Corvetta cacciasommergibili |
1943 |
1971 |
IBIS, REDIBIS, NON MORIERIS IN BELLO Andrai, ritornerai, non morirai in guerra |
|
Stella |
CARINA |
Canopo |
Torpediniera d’alto mare |
1907 |
1923 |
|
|
Stella |
CARINA |
Canopo |
Torpediniera |
1937 |
1941 |
|
|
Stella |
CARINA |
Canopo |
Avviso scorta |
1952 |
1981 |
CON ARDIRE E CON TENACIA |
|
Costellazione |
CASSIOPEIA |
Cassiopea |
Corvetta |
1937 |
1959 |
|
|
Costellazione |
CASSIOPEIA |
Cassiopea |
Pattugliatore d’altura |
1989 |
2023 |
ADSUM Sono presente… ( sottinteso : Sono presente ovunque vi sia da combattere ) |
|
Costellazione |
CENTAURUS |
Centauro |
Torpediniera d’alto mare |
1907 |
1922 |
NON E' MAI TARDI PER ANDAR PIU' OLTRE tratto “La Nave” D'Annunzio |
|
Costellazione |
CENTAURUS |
Centauro |
Torpediniera |
1936 |
1943 |
|
|
Costellazione |
CENTAURUS |
Centauro |
Avviso scorta |
1952 |
1984 |
FERREA MOLE FERREO CUORE Motto Div. Centauro donato bandiera comb. |
|
Costellazione |
CENTAURUS |
Chirone |
Rimorchiatore d’alto mare |
1942 |
1987 |
Centauro Chirone : mitico personaggio, metà uomo e metà cavallo |
|
Costellazione |
CETUS |
Balena |
Rimorchiatore |
1911 |
1943 |
|
|
Costellazione |
COMA BERENICES |
Berenice |
Corvetta |
1942 |
1943 |
|
|
Stella |
CORONA BOREALIS |
Gemma |
Sommergibile |
1936 |
1940 |
|
|
Costellazione |
CYGNUS |
Cigno |
Torpediniera |
1937 |
1943 |
|
|
Costellazione |
CYGNUS |
Cigno |
Avviso scorta |
1957 |
1983 |
PRIMUS IN ACIE Primo nel combattimento |
|
Costellazione |
DELPHINUS |
Anfitrite |
Sommergibile |
1934 |
1941 |
Il Delfino, convinse Anfitrite a seguirlo nella dimora sottomarina di Poseidone |
|
Costellazione |
DELPHINUS |
Delfino |
Sommergibile |
1892 |
1919 |
|
|
Costellazione |
DELPHINUS |
Delfino |
Sommergibile |
1931 |
1943 |
SUBSUM SED SUPERIS OBSUM Sto sotto ma nuoccio a chi sta sopra |
|
Personaggio |
ERIDANUS |
Climene |
Torpediniera |
1936 |
1943 |
Fetonte ( significa Radioso) era il figlio mortale del Dio Sole e della oceanina Climene |
|
Costellazione |
ERIDANUS |
Eridano |
Nave idrografica |
1895 |
1907 |
|
|
Costellazione |
ERIDANUS |
Eridano |
Cisterna per acqua |
1910 |
1937 |
|
|
Stella |
GEMINI |
Castore |
Torpediniera |
1888 |
1925 |
|
|
Stella |
GEMINI |
Castore |
Torpediniera |
1937 |
1943 |
|
|
Stella |
GEMINI |
Castore |
Avviso scorta |
1955 |
1980 |
ARDISCO AD OGNI IMPRESA |
|
Stella |
GEMINI |
Polluce |
Torpediniera |
1888 |
1911 |
|
|
Stella |
GEMINI |
Polluce |
Torpediniera |
1937 |
1942 |
|
|
Costellazione |
GRU |
Gru |
Corvetta cacciasommergibili |
1942 |
1971 |
TIMEO SED TIMOREM Non temo che la paura |
|
Costellazione |
HERCULES |
Ercole |
Pirofregata II rango a ruote |
1841 |
1875 |
Dal 1841 al 1861, appartenente alla Marina del Regno delle Due Sicilie |
|
Costellazione |
HERCULES |
Ercole |
Rimorchiatore |
1944 |
1989 |
|
|
Costellazione |
HERCULES |
Ercole |
Rimorchiatore costiero |
2002 |
|
Acquisito dalla MMI nel 2014 |
|
Costellazione |
LEO |
Leone |
Esploratore leggero |
1921 |
1941 |
QUIA SUM LEO Perché sono il Leone |
|
Costellazione |
LIBRA |
Libra |
Torpediniera |
1938 |
1964 |
|
|
Costellazione |
LIBRA |
Libra |
Pattugliatore d’altura |
1989 |
2023 |
PATIENS VIGIL AUDAX Paziente, vigilante, audace |
|
Costellazione |
LINX |
Lince |
Esploratore leggero |
1921 |
1921 |
|
|
Costellazione |
LINX |
Lince |
Torpediniera |
1938 |
1943 |
|
|
Costellazione |
LUPUS |
Lupo |
Torpediniera |
1938 |
1942 |
FULMINEO SULLA PREDA |
|
Costellazione |
LUPUS |
Lupo |
Fregata |
1977 |
2003 |
FULMINEO SULLA PREDA |
|
Costellazione |
LYRA |
Lira |
Torpediniera |
1938 |
1944 |
Appartenente alla Kriegsmarine ( Marina Militare Tedesca ) dal 1943 al 1944 |
|
Stella |
LYRA |
Vega |
Torpediniera |
1936 |
1941 |
NON NISI IN OBSCURA SIDERA NOCTE MICANT Le stelle non brillano soltanto in una notte oscura |
|
Stella |
LYRA |
Vega |
Pattugliatore d’altura |
1990 |
2022 |
SEMPRE E OVUNQUE |
|
Costellazione |
MUSCA |
Mosca |
Torpediniera da costa |
1882 |
1898 |
|
|
Costellazione |
ORION |
Orione |
Torpediniera d’alto mare |
1907 |
1923 |
SPLENDORE IN CIELO GLORIA IN MARE |
|
Costellazione |
ORION |
Orione |
Avviso scorta |
1937 |
1964 |
SPLENDORE IN CIELO GLORIA IN MARE |
|
Costellazione |
PEGASUS |
Pegaso |
Torpediniera d’alto mare |
1905 |
1923 |
|
|
Costellazione |
PEGASUS |
Pegaso |
Avviso scorta |
1936 |
1965 |
|
|
Personaggio |
PERSEUS |
Medusa |
Sommergibile |
1911 |
1915 |
La celebre Gorgona Medusa era l’unica delle tre Gorgoni a non essere mmortale |
|
Personaggio |
PERSEUS |
Medusa |
Sommergibile |
1931 |
1942 |
|
|
Costellazione |
PERSEUS |
Perseo |
Torpediniera d'alto mare |
1906 |
1917 |
VINCERA' CHI VORRA' VINCERE |
|
Costellazione |
PERSEUS |
Perseo |
Torpediniera |
1936 |
1943 |
VINCERA' CHI VORRA' VINCERE |
|
Costellazione |
PERSEUS |
Perseo |
Fregata |
1980 |
2005 |
VINCERA' CHI VORRA' VINCERE |
|
Costellazione |
PHOENIX |
Fenice |
Corvetta cacciasommergibili |
1943 |
1965 |
RESURGIT Risorge |
|
Costellazione |
PHOENIX |
Fenice |
Corvetta |
1990 |
Serv |
RESURGIT Risorge |
|
Costellazione |
SAGITTA |
Freccia |
Cacciatorpediniere |
1899 |
1911 |
|
|
Costellazione |
SAGITTA |
Freccia |
Cacciatorpediniere |
1929 |
1943 |
DELIBERATA DI TOCCARE IL SEGNO |
|
Costellazione |
SAGITTA |
Freccia |
Motocannoniera |
1965 |
1985 |
|
|
Costellazione |
SAGITTA |
Saetta |
Motocannoniera |
1966 |
1986 |
|
|
Costellazione |
SAGITTARIUS |
Sagittario |
Torpediniera d'alto mare |
1905 |
1923 |
NON COHIBETUR SAGITTA La mia freccia non sia trattenuta |
|
Costellazione |
SAGITTARIUS |
Sagittario |
Fregata |
1978 |
2005 |
NON COHIBETUR SAGITTA La mia freccia non sia trattenuta |
|
Stella |
SCORPIUS |
Antares |
Torpediniera |
1936 |
1943 |
|
|
Costellazione |
SERPENS |
Serpente |
Torpediniera d'alto mare |
1906 |
1916 |
VAFER REPENTE LETIFER Astuto, rapido e letale |
|
Costellazione |
SERPENS |
Serpente |
Somm. piccola crociera |
1932 |
1943 |
INSIDIARUM EXPERIENS Intraprendente nelle insidie |
|
Personaggio |
SEXTANS |
Urania |
Incrociatore torpediniere |
1889 |
1921 |
|
|
Personaggio |
SEXTANS |
Urania |
Corvetta cacciasommergibili |
1942 |
1971 |
|
|
Stella |
TAURUS |
Alcione |
Torpediniera |
1938 |
1941 |
|
|
Stella |
TAURUS |
Alcione |
Corvetta antisom |
1953 |
1992 |
NIHIL ME DEFLECTIT Niente mi distoglie |
|
Stella |
TAURUS |
Aldebaran |
Torpediniera |
1936 |
1941 |
|
|
Stella |
TAURUS |
Aldebaran |
Avviso scorta |
1943 |
1975 |
Appartenuta alla Marina USA dal 1943 al 1951, Caccia di scorta, nome Thornill |
|
Stella |
TAURUS |
Atlante |
Rimorchiatore |
1927 |
1968 |
Atlante è una stella dell’Ammasso delle Pleiadi della costellazione TAURUS |
|
Stella |
TAURUS |
Atlante |
Rimorchiatore d’altura |
1978 |
|
Atlante è una stella dell’Ammasso delle Pleiadi della costellazione TAURUS |
|
Stella |
TAURUS |
Elettra |
Unità Polivalente di Supporto |
2003 |
Serv |
Anima i silenzi aerei |
|
Ammasso |
TAURUS |
Pleiadi |
Torpediniera |
1938 |
1941 |
|
|
Stella |
TAURUS |
Sterope |
Cisterna per nafta |
1939 |
1947 |
Sterope è una stella dell’Ammasso delle Pleiadi della costellazione TAURUS |
|
Stella |
TAURUS |
Sterope |
Nave logistica di squadra |
1944 |
1977 |
Appartenuta dal 1944 al 1959 alla Marina USA con il nome di FORBES ROAD ( dal 1944 al 1947 ) e di Enrico Insom ( dal 1947 al 1959 ) |
|
Costellazione |
URSA MAIOR |
Orsa |
Avviso scorta |
1936 |
1943 |
|
|
Costellazione |
URSA MAIOR |
Orsa |
Fregata |
1980 |
2003 |
FORTITUDINE FORTIOR Più forte della forza |
|
Costellazione |
URSA MAIOR |
Orsa Maggiore |
Yacht |
1994 |
Serv |
Ad maiora duco |
|
Personaggio |
URSA MINOR |
Aretusa |
Incrociatore torpediniere |
1889 |
1912 |
Nella mitologia greca, le sette stelle dell’Orsa MinoreAretusa, Estia, Espera, Esperusa ed Esperia erano le Esperidi: Egle, Eritea, |
|
Personaggio |
URSA MINOR |
Aretusa |
Torpediniera |
1938 |
1958 |
|
|
Personaggio |
URSA MINOR |
Aretusa |
Nave idro – oceanografica |
1999 |
Serv |
ARETHUSA UNDIS PROSPICIT Aretusa guarda avanti |
|
Stella |
URSA MINOR |
Stella Polare |
Nave da trasporto |
1883 |
1911 |
|
|
Stella |
URSA MINOR |
Stella Polare |
Yacht |
1965 |
Serv |
Cantieri Navali Sangermani di Lavagna Ex vento vis in viris fortitudo |
|
Stella |
VIRGO |
Spica |
Torpediniera d'alto mare |
1905 |
1923 |
GLORIA E LATOR Foriero di gloria |
|
Stella |
VIRGO |
Spica |
Pattugliatore d’altura |
1990 |
2022 |
VIGILE ATTENDO ( Motto già appartenuto al sommergibile F15 ) |
|
Asteroide |
Z - Asteroide |
Cerere |
Cisterna nafta |
1915 |
1943 |
Dal 1915 al 1924 della Kriegsmarine ( Marina Militare Tedesca ) nome di Baltrum |
|
Personaggio |
Z – Pianeta |
Galatea |
Sommergibile |
1934 |
1948 |
Satellite del pianeta Nettuno |
|
Personaggio |
Z – Pianeta |
Galatea |
Nave Idro - oceanografica |
2002 |
|
Felix Galatea vivas |
|
Pianeta |
Z - Pianeta |
Giove |
Nave cisterna |
1917 |
1946 |
|
|
Pianeta |
Z - Pianeta |
Marte |
Nave cisterna |
1892 |
1947 |
Marina Austriaca come Vesta, nel 1923, data Regia Marina in conto riparazione danni |
|
Pianeta |
Z - Pianeta |
Nettuno |
Nave cisterna |
1917 |
1954 |
|
|
Pianeta |
Z - Pianeta |
Saturno |
Rimorchiatore |
1905 |
1973 |
|
|
Pianeta |
Z - Pianeta |
Saturno |
Rimorchiatore d’altura |
1987 |
|
|
|
Personaggio |
Z - Pianeta |
Titano |
Rimorchiatore d’altura |
1988 |
|
Satellite del pianeta Saturno |
|
Pianeta |
Z - Pianeta |
Urano |
Nave cisterna |
1922 |
1954 |
|
|
* Serv : Unità navale in servizio e che risulta iscritta al ruolo del Naviglio Militare alla data del 31- Marzo - 2007.
ANDROMEDA
Nome scientifico: ANDROMEDA Costellazione dell’Emisfero Celeste Nord, ampia 722 gradi2 e presente nell’Almagesto di Tolomeo del 140. Mitologia greca: Andromeda, figlia di Cefeo e di Cassiopea, minacciata dalla Balena, venne salvata da Perseo e dalla loro unione nacquero Perses (progenitore dei Persiani) e Gorgofone (madre di 5 figli, tra cui Tindaro, Re di Sparta e marito di Leda). |
|
Almak deriva dall’arabo Al anak al ard = un piccolo animale del deserto (simile al tasso) Effemeridi nautiche Nr. 6 stella gigante gialla |
|
Alpheratz (oppure Sirah) deriva dall’arabo Al surrat al faras = Ombelico del cavallo Effemeridi nautiche Nr. 1 stella subgigante bianca-azzurra |
|
Torpediniera Andromeda Classe Spica – Serie Perseo |
|
|
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Varata a Genova Sestri Ponente il 28 Giugno 1936
Dislocamento standard 630 t Lunghezza 81,9 m - Larghezza 8,2 m - Pescaggio 3 m Equipaggio: 116 (6 Ufficiali e 110 sottufficiali e marinai) Armamento: 3 cannoni 108/47 – 8 mitragliere – 4 tubi lanciasiluri – 2 lanciabombe di profondità Partecipazione alla guerra civile spagnola 1937 – 1938 Operazioni navali in Grecia e Albania 1940 – 1941 Affondata il 17 Marzo 1941, da aerosiluranti inglesi nella Baia di Valona in Albania
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Corvetta Andromeda
Classe Aldebaran
Varata il 17 Ottobre 1943 a Newark (USA) con il nome di
Morgan Wesson
Dislocamento standard 1.796 t
Lunghezza 93 m - Larghezza 11,23 m - Pescaggio 3,56 m
Equipaggio 189
Armamento: 3 cannoni 75/60 – 6 cannoni 40/56
18 mitragliere – 1 porcospino – 8 lanciabombe e 1 scarica bombe
Partecipazione alla Guerra nel Pacifico 1943 – 1945, ceduta all’Italia il 10 Gennaio 1951 e denominata Andromeda
Radiata nel 1972
IL NATALE A NEW YORK DI UN EQUIPAGGIO SOPRAVVISSUTO
IL NATALE A NEW YORK DI UN EQUIPAGGIO SOPRAVVISUTO…
Versione Natalizia di un brano del libro
QUELLI DEL VORTICE
La storia del rimorchiatore d’Altura Vortice è stata scritta sul mare da tanti equipaggi. Su di loro è rimasto impresso un sigillo indelebile, corredato di una “certificazione” che è stata rilasciata dalla più esclusiva Università Marinara di Genova – Facoltà: Rimorchi d’Altura – Il diploma di laurea però è impresentabile, perché è impregnato di sudore, è sporco del grasso di molte redance e maniglioni, è unto dall’olio del troller ed è schiacciato da pesanti catene.
Il centro della depressione e l’atterraggio del VORTICE a New York sono pericolosamente in rotta di collisione. La metropoli americana é già truccata per l’imminente Natale 1970
Il velo notturno, bloccato a ponente da un’entità superiore, tramonta più lentamente del solito. Le tenebre, acquattate dietro l’orizzonte, sembrano intenzionate a frenare le luci dell’alba, forse per non “chiarire” il suo infausto progetto. Poi, lentamente, la luce nascente di poppa, scolpisce uno scenario dantesco, che si estende come un arco tra i due traversi del Vortice che procede verso ponente, cavalcando su onde alte ormai sei metri o forse anche di più.
Il ponte di comando è largo quel tanto che basta per sgranchirsi le gambe tra un’onda e l’altra. Charly usa esercitare questo tipo di footing per sciogliersi i muscoli e quando il mare monta e ringhia, l’esercizio è utile, almeno così pensa, per esorcizzarne, con una specie di balletto rituale quella nenia furiosa che annunzia la nuova sfida all’O.K. Corral...
Qui la situazione appare molto più grave, perché le misure ed il peso dell’avversario sono fuori scala. Charly lo sa e per una sorta di vanto giovanile non lo teme, tuttavia non osa provocarlo, neppure con lo sguardo. Il gran match sta per cominciare e Charly non intende svelare le sue strategie né tanto meno le sue emozioni all’avversario che si avvicina minaccioso, a testa bassa, simile più ad un toro gigantesco che carica infuriato, che ad un pugile raffinato che usa colpire sempre con jabs pungenti, sfuggenti e senza tregua.
Poi, senza alcun preavviso, verso le otto, il mostro sbuffante apre le sue fauci e mostra i suoi contorni più alti, che paiono scolpiti da mani diaboliche nella nera lava. La sua parte inferiore, ancora lontana, appare invece invitante, affascinante, magica come una grotta di smeraldo, colma d’acqua scintillante… da bere! La caverna stregata è l’occhio del mostro, che incanta e attira le sue vittime per divorarle senza pietà.
Alle spalle di quell’inferno incalzante c’è il sinuoso fiume Hudson che porta alla festosa New York, con i suoi docks resi celebri da Marlon Brando in “Fronte del Porto” e che Charly rivede ora in trasparenza, brulicanti di gente festosa e laboriosa. Su quella immaginaria e cromatica tavolozza non mancano le maestose navi passeggeri, i liners giganteschi che ornano, come tanti fiori freschi appena giunti dall’Europa, l’ovale di Manhattan brulicante d’immensi grattacieli che fluttuano come fantasmi sulle note di West Side Story.
Non è tempo di sognare, il vento forte solleva ormai creste insidiose e disegna con i suoi poderosi artigli, simmetriche graffiate di schiuma che s’infrangono minacciose sui vetri del ponte di comando e scivolano poi lungo i fianchi dello scafo.
“Guardate! Quell’oscuro disegno di prora sembra la costa, invece temo che sia qualcosa di molto più duro e impenetrabile rispetto a ciò che dovremmo vedere domani a quest’ora”.
Il nostromo Zeppin, madido di sudore, stenta a tenere la rotta. La prora, nel precipitare verso l’incavo dell’onda, spiattella attorcigliandosi come un serpente. I colpi del tagliamare sono secchi e sordi nella caduta, lamentosi nel risalire disperato in verticale come un naufrago in cerca d’aria pura verso il cielo aperto.
Charly rimane in posizione d’attesa: alla cappa in mezzo al ring, nella speranza di un’improbabile clemenza dell’avversario o di una più improbabile sospensione del match, per la manifesta inferiorità di un imprudente e vanitoso sfidante.
L’equipaggio, assicurata la chiusura di tutte le aperture dello scafo, corazzati gli oblò e bloccati tutti i tipi d’attrezzature esterne e interne, si è radunato nel caruggio centrale. Nessuno è solo e tutti sono pronti al peggio…
Il muro avanza nella bonaccia. Siamo nell’occhio del Ciclone
Il Vortice si trova proprio nel centro della depressione diffusa e riportata nel bollettino meteo americano.
Di prora riappare a tinte evanescenti quel lago azzurro smeraldo, proprio come un miraggio. Si tratta dell’occhio ammaliatore che tanti marinai, prima del Vortice, ha già attirato e divorato nelle sue viscere infernali come vittime sacrificali.
Il Vortice, simile ad un puledro appena domato, si trova improvvisamente nella più surreale bonaccia di vento e di mare; frena guardingo, si solleva ancora una volta, si scrolla il sudore di dosso, sbuffa e sconcertato per la falsa accoglienza, si blocca d’istinto.
Charly sa che la straordinaria “grotta azzurra” è un’infida trappola, zeppa di secche e senza vita. Così come teme che pochi al mondo, o forse nessuno abbia mai potuto raccontare d’essere uscito vivo dall’occhio di una simile tempesta…
La respirazione è diventata nel frattempo tremendamente difficile.
Charly, superato mentalmente l’incantesimo di quella magia, fiuta appena in tempo il tragico pericolo incalzante. Reagisce prontamente con rabbia e, strappando l’interfonico dal suo alloggio, urla all’equipaggio di tenersi forte, con tutta la forza possibile. Avverte la macchina di rimanere attaccati ai comandi:
“Presto manovreremo per la vita. Un muro nero e gigantesco si sta avvicinando a folle velocità!”
Chi può in quei reali frangenti, riportare un po’ di sereno in quegli animi scoraggiati e disperati? I veri marinai hanno paura del mare. Chi, più dei marinai sa gestire la paura che non è rassegnazione o fatalità, ma freddezza e calma interiore che provengono da una preghiera?
I marinai vivono positivamente la solitudine e sono dei veri esperti nel ritrovare dentro di sé quella fermezza che li soccorre, sempre, nella tragicità di certi episodi. Questa forza d’animo, per alcuni si chiama Madonna di Montallegro, per altri della Guardia, del Boschetto oppure lo stesso… Dio Misericordioso.
Poi, si sa! Ritornato il sereno, riemerge uno strano pudore ed i santi invocati diventano: destino, fatalità o addirittura bravura umana… ”Parola di marinaio?”
Sul Vortice, anche i più duri di cuore ed i più ostinati di cervello si piegano e, tenendosi stretti l’uno all’altro, pregano. Chi in silenzio, chi ad alta voce.
Quella vulcanica ombra grigia che Charly vede avanzare terrificante come l’incubo di “Una notte sul Monte Calvo”, non è una montagna staccatasi dal continente, neppure il più mastodontico dei piovaschi apparso sulla terra. E’ un’onda di proporzioni catastrofiche!
“Ecco il volto della morte!”
Sogghigna Charly.
Mancano cento metri all’inevitabile inghiottimento e i tre uomini sul ponte di comando possono soltanto guardare attoniti l’immensa cresta bianca veleggiare ad altezze celestiali. Già!! Proprio verso quel cielo che sembra averli abbandonati per sempre.
La collisione avviene dopo qualche istante ed il Vortice, come un infimo Golia, s’impenna in verticale e fiero soltanto della sua gioventù, penetra il mostro infilzandolo nel ventre, ad un terzo della sua altezza.
E poi c’è il buio più totale! Profondo! Abissale! Lunghissimo come il film della propria vita che scorre lucido, senza fretta, tra gli affetti lasciati per sempre.
Un enorme scroscio d’acqua precipita sopra lo scafo e tuona come un’esplosione. Il Vortice, schiacciato da una pressa gigantesca, è risucchiato verso gli abissi. Poi, carico d’aria, si ferma di schianto, ha ancora una stridula impennata e comincia a salire lentamente, emana flebili ruggiti, come un vecchio leone schiacciato da un branco d’elefanti. Segue un sussulto rapido e poi risale a pallone, urlando insieme al suo equipaggio che percepisce la salvezza. Il VORTICE è ferito gravemente. Tonnellate di mare diabolico sono entrate dappertutto portando l’umiliazione e la devastazione.
Il Miracolo
Quando la fine sembra ormai giunta, improvvisamente avviene il miracolo. La “risurrezione” dagli abissi si attua con un’insperata emersione, col rivedere improvvisamente la luce e con i comandi del Vortice che rispondono ancora. In queste fasi distinte, ma collegate strettamente tra loro, c’è il ritorno alla vita. I miracoli purtroppo non si ripetono, almeno per i comuni mortali.
Charly lo teme, si avventa sull’interfonico ed urla alla macchina:
- “Datemi “tutta forza ripetuta e con la massima urgenza. Dobbiamo volare!” –
Il mostro, sicuro ormai della vittoria, non dà tregua. Il colpo di maglio, simile al precedente, è già lì, sospeso, statuario, in posa arcuata, a poche decine di metri, urlante d’odio, ghignante nella sua immensità. Il suo martello è pronto a sferrare con micidiale crudeltà l’ultimo colpo su l’ignobile ed arrogante insetto che ha osato sfidarlo.
Charly balza come un giaguaro sulla ruota del timone e grida a Zeppin:
“TUTTA A SINISTRA”
insieme, in un abbraccio terrificante e sovraumano, s’avvinghiano urlando appesi alle caviglie della ruota che vibra al limite della rottura. Nella rotazione forzata degli ingranaggi, caldi guizzi d’olio sprizzano sui loro volti già intrisi di sudore.
Bobby abbassa ancora la leva del telegrafo e ripete l’ordine con rabbia :
“Tutta forza avanti “
Il Vortice parte come una poderosa cannonata ed accosta piegandosi sul fianco sinistro, appiccicato a quella parete livida, perfettamente verticale e levigata come la pista di un circo di periferia.
In quella curva perfettamente circolare, impressa nell’onda densa come un muro, c’è l’ultima speranza.
Chi può dirlo di preciso? La sensazione è quella di un vero e proprio tuffo in una rotazione avvitata. Attimi di terrore! Il rumore dei motori è sparito, è racchiuso, ovattato nel tunnel verde che lo avvolge a spirale come un serpente che sta per soffocarlo.
Il ponte di comando, sbandato al limite del rovesciamento, perde ogni riferimento visivo e ogni connotazione nautica.
Stivali, incerate, strumenti, sgabelli, bandiere, coperchi, tazze e tazzine sono rimescolati, sparpagliati dal mare vivo e poi lanciati senza mirare come micidiali proiettili impazziti.
Il Vortice è riuscito a girarsi e mettersi il mare in poppa!
Ma l’onda implacabile lo insegue e quando lo raggiunge gli scarica poi il suo macigno dall’alto di quella collina assetata di sangue. La cresta, come una fragorosa valanga, colpisce in pieno la poppa del Vortice che pare staccarsi di netto dal resto dello scafo. La prora, ormai sfuggente, reagisce arrampicandosi in alto, svirgolando come un rettile impaurito che sottrae la sua coda al predatore.
Lo sforzo di Zeppin, Bobby e Charly sulla ruota del timone è immane e forse volutamente esibizionista, plateale, pensò Charly:
“A quel mostro bastardo ed infernale non possiamo che mostrare il volto della nostra sofferenza, del nostro coraggio e quella parte “assistita” della nostra debole intelligenza umana”.
Tra i vetri appannati e striati di bianco, le ombre nere di tre marinai lottano ancora, confusamente attorcigliati. E’ l’unico segno di vita! Il Vortice è ingovernabile, ma non può traversarsi alle onde. Il timone è diventato una ruota di pietra. Nella rinata speranza di vita, quegli uomini veri triplicano le forze ormai esaurite e, dall’Isola dei morti ritornano lentamente alla vita.
Il Vortice ed il suo equipaggio sono ora un ammasso violentato, ammaccato e ferito, ma ancora uniti nei colpi ricevuti, in parti eguali. Tutti a bordo hanno lottato. Nessuno ha deluso l’altro. Ognuno ha dato il massimo di sé, con estremo coraggio ed ora insieme hanno messo le ali.
La musica tambureggiante, scolpita, asimmetrica ed imprevedibile di Prokofiev, lascia la ribalta e, in virtù di un’altra magia, le prorompenti Walkirie fanno il loro ingresso sul nuovo palcoscenico, nella trionfale cavalcata liberatrice di Wagner.
Sospeso come un falco che prende l’ultimo fiato, il Vortice scivola ora in picchiata verso il basso, sparisce e riemerge come un grosso pallone grondante di verde-oceano e striato di schiuma biancastra. Poi risale planando dolcemente alle massime altezze, per restare immobile alcuni istanti sulla cresta dell’onda, e infine precipita a folle velocità, con una schioccante panciata….
“Il mostro ci ha pestato ed ora ci prende per il culo. Ci culla e ci spinge, ci risucchia, ci schiaffeggia, ci accarezza e ci scrolla come ragazzini sulla spiaggia dei Cavi in una giornata di burrasca”.
Ammette Charly, cui non restano che vuote parole per frenare l’emozione, un vago senso di sconfitta e tanta stanchezza.
Il Vortice naviga ora verso casa, con un assetto poco virile. Sbandando e sculettando vistosamente, si ritira verso il suo angolo, dolorante come un pugile colpito e frastornato dai colpi.
L’equipaggio è a pezzi, ma vivo, è stato salvato da un “gong celeste” ed è fiero per le manovre fortunate del suo capitano.
Quel silenzio colmo di sagge meditazioni esistenziali è rotto, ben presto, da un urlo incontenibile di gioia, che sale dal carruggio del Vortice, e prende ancora più forza nella tromba delle scale.
“Hip-Hip-Hurrà !! “ Forse per esorcizzare il drago che sputa ancora fiamme e vapori sulfurei, ma non fa più paura a nessuno. “Hip-Hip-Hurrà !!” Forse per ringraziare il Cielo del dono ricevuto.“Hip-Hip-Hurrà !!” Per un brindisi di Champagne alla gioia di vivere.
Con una ritirata strategica, la prima parte della spedizione prende una piega assolutamente atipica ed il Vortice, esibendosi in un insolito surf Atlantico, si fa sberleffi della tempesta. Alla comprensibile paura dell’equipaggio, subentra la reazione nervosa, che mira ora al recupero d’energie ed alla rivincita su un avverso destino, mediante un gioco ancora pericoloso, ma affascinante.
La tempesta spinge ancora forte di poppa e scarica, talvolta, sullo scafo onde ancora più alte che, un Vortice sprezzante e altezzoso, respinge ormai sicuro di sé, fuggendo a zig zag come una lepre sulle colline di Carpenissone. Il solcometro, purtroppo, segna 12 nodi di velocità, il doppio di quella registrata con mare calmo e con lo stesso numero di giri-motore. Sembra impossibile, ma il Vortice sta volando.
Passata è la tempesta… Tre navi sono affondate davanti a New York… Il rimorchiatore d’altura VORTICE prende il pilota dell’Hudson e verso mezzogiorno é in banchina. E’ la X-mas Eve (la vigilia di Natale). Il destino gli ha fatto vedere l’inferno ed ora il PARADISO della nascita di Gesù Cristo ed anche quello della rinascita di un equipaggio che ormai tanti davano per disperso.
Quando chiamai mia moglie per AUGURARLE il BUON NATALE, con una punta d’invidia mi disse: “beati voi che passate le feste nella città natalizia più famosa del mondo! Immagino che il viaggio sia andato bene! Avete ritardato solo qualche giorno”. Ricordo d’averle risposto – Un viaggio indimenticabile, ora prenderemo due navi Liberty a rimorchio per la Spagna mediterranea. MAI DI PEGGIO! – Cosa significa? – Te lo spiegherò al ritorno!
Carlo GATTI
Rapallo, 15 Dicembre 2020
DUE STORIE DI MARE D'ALTRI TEMPI
Due storie d'altri tempi
UNA TOCCATA A CAMOGLI
Il veliero sfruttava il Maestrale per costeggiare verso il porticciolo da Ponente. Quella notte d'aprile, lo stesso Capitano Giuseppe Piarengo era al timone del "Pietro Terzo". Con i binocoli, cercava di scorgere le lenzuola rosa che sua moglie Virginia doveva stendere dalla casa sulla spiaggia. Quando la nave doppiò il Castel Dragone, finalmente le scorse: significava che Giuseppe avrebbe visto poco dopo i suoi cari.
Diede ordine al Nostromo di ridurre la velatura e così la velocità. Dalla spiaggia di Ponente si staccò un gozzo con delle persone a bordo. Ai remi c'era "Ghelō", suo suocero, poi riconobbe la sua consorte con i due bimbi. Dopo che i tre salirono in coperta, il gozzo ritornò a terra e scomparve nella penombra del "Giorgio".
Il Capitano istruì il Nostromo di spiegare tutte le vele e di dirigere al largo della Punta, per far poi rotta verso Sud. Giuseppe abbracciò finalmente la famiglia, la quale era euforica di trovarsi su quella splendida nave. Rimasti soli, i due coniugi parlarono delle loro prospettive future.
Virginia era preoccupata, pareva che da tempo, lo sconforto si fosse sparso tra la gente, pure i figli erano insensibili, anzi, lei aveva l'impressione che non avessero più sogni. Giuseppe la rassicurò affermando che ora avrebbero passato dei giorni fantastici a bordo della sua nave, che avrebbe raccontato loro di quando fu quasi ucciso da un pirata malese, di quando il Presidente Argentino apprezzò il suo concerto di violino oppure di tutti i tipi di alberi "foresti" che si trovavano nella vallata di Camogli. La sua nave era adatta a quello scopo: li avrebbe allontanati per un po’ dai pensieri cattivi di ogni giorno. E che sarebbe rientrata in porto appena quella buriana fosse passata.
Nello sciacquio del Golfo Tigullio, tutti si addormentarono. Solo il Capitano - fumando la sua pipa di "albatross" - era vigile al timone e già pensava alla prossima storia da raccontare ai suoi: "...verso fine '800, il veliero "Teresa Olivari" giaceva inerme in una bolla di calma equatoriale nel Mare di Singapore...".=
P.S. Se sei arrivato a leggere sino qui, probabilmente abbiamo allontanato per qualche attimo le preoccupazioni di ogni giorno! Immagini Archivio Ferrari.
Capitani Camogli
ALBERI E ALBERI
A differenza dell'Inglese (trees, masts), in Italiano dobbiamo specificare di quali "alberi" stiamo parlando, cioè quelli naturali o quelli navali. Inaspettatamente, sceglieremo quelli naturali, che sono comunque ben "radicati" alla tradizione marinara Camogliese.
La pianta che oggi è sistemata sul viso di Camogli (cioè l'insieme Basilica-Castel Dragone) è una palma. Forse fu scelta (nel 1930-40?) sull'onda dell'esotica moda delle passeggiate a mare della Costa Azzurra o forse, per richiamare l'originale funzione protettiva del Castello dai pirati Barbareschi.
Comunque sia, notiamo da un'immagine antecedente al 1920 (?) che sul Castel Dragone vi era un albero che non era una palma. Non siamo in grado di affermare di quale albero si trattasse, fatto sta che sale la curiosità di capire se a Camogli siano mai stati importati alberi "foresti", molto probabilmente dai naviganti di tempo fa.
Ecco allora che ci ritroviamo nelle tranquille passeggiate sulle nostre alture. E' abbastanza comune individuare alberi non propriamente Liguri all'interno delle ville di Camogli.
Si incontrano le grandi sequoie della California, sicuramente portate a Camogli da chi navigava a San Francisco; si trovano anche dei "redwood", cioè un tipo più piccolo di sequoia, generalmente originari dell'Oregon, che ha un grande approdo, Portland. Poi, l'eucalipto, proveniente dall'Etiopia, le nostre navi toccavano Djibouti. Non manca il Canada con Halifax, delle cui terre la quercia è il simbolo nazionale; poi il famoso cedro del Libano, il cui porto principale è ancor oggi Beirut. Dal Centro America o dai Caraibi qualcuno importò degli esemplari di seibò, un enorme albero coi fiori scarlatti. Qualche marinaio amante del buon vino aveva importato per la sua casa nel verde anche la vite di Madeira, il cui porto, Funchal, offre ancor oggi un punto di appoggio prima o dopo la traversata Atlantica. Ed infine il celebre "pitchpine" dell'Alabama: molte navi di Camogli toccavano il porto di Mobile, famoso appunto per il traffico di legname. Il pitchpine è un pino di dimensioni ridotte ma che ha un alto contenuto di resina, per questo era molto usato nelle costruzioni navali.
La passeggiata nei viottoli di Camogli alta volge al termine, ritorniamo sul Lungomare chiedendoci: "ma che albero era quello sul Castello?".=
Immagini (Archivio Ferrari): "Porto di Camogli" e "Alture di Camogli".
Bruno MALATESTA
Rapallo, 30 Ottobre 2020
ALCUNE SUPERSTIZIONI E CREDENZE MARINARE
ALCUNE SUPERSTIZIONI E CREDENZE MARINARE
Navigando lungo le coste del nostro Paese, ma anche in tutto il Mediterraneo, si notato approdi in cui certe attività di trasporto e di pesca si realizzano, a tutt’oggi, con quelle caratteristiche secolari costruttive e decorative che ci riportano all’epoca dei Fenici e dei Greci che non mancavano mai di fregiare le loro prore con gli occhi apotropaici, grandi, quasi mostruosi per allontanare gli spiriti maligni.
Oggi parliamo di alcune superstizioni, credenze e leggende marinare che ancora sopravvivono nella marineria locale lungo la costa dei nostri mari.
Il trabaccolo ha mantenuto per secoli alcuni elementi apotropaici (che dovevano allontanare la mala sorte) tipici di tutte le imbarcazioni mediterranee. Fra questi gli occhi di prua (da non confondere con gli occhi di cubia).
Ma perché proprio gli occhi?
La barca era considerata da pescatori e naviganti un’entità viva, dotata di una propria anima.
Quindi la prua è la prima a vedere i pericoli e chi sta di vedetta deve, guardare e capire dove sono gli ostacoli dei fondali e i cambiamenti del tempo atmosferico! Non solo, ma con i suoi “occhi” l’imbarcazione controlla la rotta ed evita le trombe marine e “ammascona”* la prora contro le onde del mare quando volge in burrasca oppure in tempesta col pericolo di farla naufragare.
Dall’alba dei tempi i marinai temevano anche i tremendi mostri marini che, secondo antiche leggende popolano le profondità marine, come testimoniano le antiche cartografie medievale e rinascimentale.
*Per mascone, su un'imbarcazione, si intende la parte dello scafo compresa tra il traverso e la prua. Vi sono, quindi, un mascone di sinistra e un mascone di dritta. Il mascone è la parte contrapposta al giardinetto di poppa. In caso di mare masso, con le imbarcazioni a vela e a motore si prende l'onda al mascone per ridurne il beccheggio e il rollio e migliorarne la stabilità.
Fino al primo Novecento, per esempio, la “pernaccia” *di prua veniva decorata con una “cuffia” o un pelliccione” per proteggere il legno:
Questa pratica, al contempo, funzionale ed ornamentale, evocava però l’antico rituale pagano di sacrificio alla divinità, in questo caso un agnello al momento del varo della barca per poi inchiodarlo sopra l’asta di prua per propiziare la navigazione.
*Dalle nostre parti, l'estensione del dritto di prora è chiamata "pernaccia".
Pratiche e simbologie pagane (come la sirena) convivevano con l’offerta alla Madonna del mare affinché proteggesse l’equipaggio dalle trombe marine e dai naufragi o con la costruzione, insieme allo scafo, di una chiesuola che custodiva l’immagine del Santo protettore.
*La chiesuola a bordo: forse il termine nacque per evocare un simbolo religioso, é la custodia di metallo diamagnetico che protegge e sostiene la bussola magnetica navale.
Quando si affrontava la tempesta in mezzo al mare, alla preghiera si univa il gesto rituale, retaggio del mondo classico, di “rompere” i vortici con il forte suono di trombe o tamburi o di “tagliare” le onde con coltelli appuntiti.
In Spagna è ancora in uso questo rituale di battesimo
La foto mostra una scultura sulla sommità dell'asta raffigurante un vello di pecora. Questo elemento sembra derivi dall'usanza di sacrificare un animale al momento del varo e poi legarne il vello attorno alla cima dell'asta di prua. Vello che poi si trasformò in una scultura lignea. ricordiamo che la nave, ma anche la più piccola barchetta, è il solo manufatto umano che viene battezzato e ha un nome proprio.
Dettaglio di prua di trabaccolo. Si notino gli occhi e il pelliccione dipinto, ricordo che il "legno a vista" così come il mattone a vista e le statue bianche, sono invenzioni recenti. Tutto nel passato era dipinto comprese le statue greche e gli stemmi o bassorilievi che vediamo a Venezia ormai dilavati e bianchi.
Pelliccione apotropaico di trabaccolo. Museo storico navale di Venezia
Pelliccione conservato al Museo di Cesenatico
Pelliccione di trabaccolo conservato al Museo di Pirano
Pelliccione apotropaico di trabaccolo. Museo storico navale di Venezia
Sotto, due ex voto provenienti dal Santuario della Madonna dell’arco di Napoli nei quali si vede il vello legato all’asta di prua
Col passare dei secoli, in occidente ci fu un’evoluzione, lasciando il posto al cosiddetto malocchio, contro il quale gli occhi apotropaici costituivano un indispensabile antidoto da una cultura marinara legata essenzialmente alla superstizione. In seguito anche il malocchio passò di moda ed il buon marinaio, legato alle tradizioni dei propri avi, giustificò quegli occhi affermando che: senza di essi la barca non vedeva e non avrebbe più potuto evitare gli ostacoli.
Infine la storia ci racconta che per fronteggiare le immani forze del mare i marinai si convertirono ad un particolare sistema fatto di magia e di religione, in cui i simboli arcaici, le credenze popolari e i rituali magici si mescolavano alla devozione religiosa, al culto della Vergine e dei Santi.
Sestri Ponente (Genova) - Il VARO DEL REX
1 agosto 1931
E quando a fine ottocento s’imposero i bastimenti in ferro, gli occhi non furono più dipinti, ma i nostri marinai non rinunciarono a quella “azione protettiva” e gli occhi apotropaici diventarono gli occhi di cubia*.
Nella foto, li occhi di cubia del REX rappresentano quindi l’eredità, il marchio della tradizione secolare dei marinai del Mediterraneo e non solo.
*La cubìa, detta anche occhio di cubìa, è l'apertura presente sulla superficie dei masconi delle navi dove trovano alloggio le àncora.
Il colore rosso, con cui spesso si usa dipingere l'opera viva delle imbarcazioni e delle navi, è una reminiscenza di quando di aspergeva la chiglia con il sangue di un animale, sacrificato per ingraziarsi le divinità; si passò poi ad aspergere la nave con vino rosso, che ricordava il colore del sangue sacrificale. L'uso odierno di infrangere sulla prora una bottiglia di spumante è riconducibile al solo fatto che è una visione più spettacolare al momento dell'impatto, poiché la schiuma è ben visibile anche da lontano. Pertanto, oggi, colorare di rosso la carena della barca con l'antivegetativa, oltre al fatto che porta bene, rispecchia anche un’antica tradizione marinara che si perde nella notte dei tempi. (Giorgio Blandina)
Il varo è quell’evento con cui una nuova imbarcazione entra per la prima volta in mare, pronta per accogliere marinai e ospiti. Solitamente questa cerimonia è accompagnata da una sorta di battesimo in cui viene annunciato il nome della nave. Per concludere si infrange una bottiglia di vino contro la prua.
Si tratta di una tradizione antichissima che però, nel corso dei secoli, ha subito importanti variazioni. Originariamente, infatti, il rito prevedeva che venisse sacrificato un animale e il suo sangue sparso sulla prua. Un sacrificio in onore degli dei che, in questo modo, avrebbero protetto la nave e il suo equipaggio dalle intemperie e dalle difficoltà che avrebbero potuto incontrare durante il viaggio. Addirittura, i Romani, oltre al sacrificio dell’animale, erano soliti spargere lungo le loro imbarcazioni occhi di cinghiali, cigni o delfini come dono alla barca. Il significato risiede ancora una volta nelle possibili difficoltà incontrate durante la navigazione: dotare la nave di occhi era un tentativo di garantire maggiore sicurezza, soprattutto quando la visibilità era scarsa e il marinaio non era in grado di riconoscere la rotta. In questi casi, si credeva che gli “occhi della nave” avrebbero permesso di intraprendere il tragitto corretto.
Col tempo si affermò anche una versione che possiamo definire “cristiana” di questa cerimonia: alti prelati venivano invitati a benedire e a “battezzare” la nave, con l’imposizione del nome per sancire il suo riconoscimento e il suo ingresso nel mondo marino.
Gli ex voto, infine, ci raccontano come su tavolette in legno venissero dipinti gli incidenti o gli imprevisti durante la navigazione e l’intervento provvidenziale, una sorta di deus ex machina, di un Santo o della Madonna per salvare la barca e il suo equipaggio.
Questo universo di pratiche e credenze ci parla della paura e dell’incertezza che da sempre hanno segnato la complessa interdipendenza fra uomini e mare, ma anche di un profondo sentimento di rispetto nei confronti di una forza naturale come quella marina che diventa rispetto verso una forza che svela i limiti del mito moderno del controllo dell’uomo sulla natura e la fragilità umana dinnanzi ad essa – un grande insegnamento, questo, nell’era dell’Antropocene.*
*Antropocene. L'epoca geologica attuale, in cui l’ambiente terrestre, nell’insieme delle sue caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche, viene fortemente condizionato su scala sia locale sia globale dagli effetti dell’azione umana, con particolare riferimento all'aumento delle concentrazioni di CO2 e CH4 nell'atmosfera.
TROMBE MARINE -ANTIDOTI
Antiche credenze|
In tempi antichi si pensava che le trombe marine fossero dei mostri marini. Nel 1687 il pirata ed esploratore inglese William Dampier riportò sulla carta nautica l'avvistamento di una tromba marina, scrivendo:
«Una tromba è un piccolo pezzo sfilacciato di nube, che pende come un pennone dalla parte più nera di essa. Di solito pende inclinandosi. Quando la superficie del mare comincia a muoversi, vedrete l'acqua, per circa cento passi di circonferenza, schiumeggiare e girare in tondo prima piano, poi più velocemente, fino a quando vola verso l'alto a formare una colonna. Così continua per mezz'ora più o meno, fino a quando l'aspirazione cessa. Allora tutta l'acqua che stava sotto la tromba cade di nuovo in mare, provocando un gran rumore e movimento disordinato del mare».
Si sperimentarono vari metodi per dissolvere le trombe marine, dalle cannonate all'urlare e pestare i piedi sul ponte delle imbarcazioni; ma su quest'ultimo metodo perfino Dampier commentò:
«Non ho mai sentito dire che si sia dimostrato di qualche utilità».
Tuttavia, la tromba marina é ancora oggi l’incubo dei pescatori, perché porta con sé morte e distruzione. L’unico antidoto é la forza dell’irrazionale espressa da speciali rituali … sul
e di sua proprietà.
A Bari, nei vicoli dell’angiporto, regno dei pescatori, si tramandano ancora i riti propiziatori:
Navigando sul
Queste spiegazioni le ho trovate navigando sul web:
“Contro il diavolo ingannatore è buona cosa abbassarsi i pantaloni e mostrare il deretano, sempre in direzione della tromba marina - prosegue il giovane - Mentre si compie questo gesto va recitata intensamente una preghiera: "Padre nostro, Padre nostro che stai in cielo, in terra e in mare, guardaci dal diavolo. Padre nostro, Padre nostro taglia la coda al diavolo”.Notizia pubblicata sul portale barinedita.it e di sua proprietà.
Questa non é male…
“Per i marinai è d'obbligo non rasarsi i capelli prima di prendere il largo. In caso di burrasca infatti ci si taglia una ciocca e la si getta in acqua: in pratica è un'offerta al mare che ha l'effetto di placare il suo “spirito” - .Notizia pubblicata
Anche le pietre celesti…
“Le bufere possano essere scacciate persino con degli oggetti. Sulle imbarcazioni per esempio capita che venga caricata l'acquamarina, una pietra celeste considerata come talismano in grado di mantenere calmo il mare sin dai tempi dell'antica Grecia. Le sue "modalità d'uso" furono descritte da Plinio il Vecchio: durante le notti di luna piena la gemma va immersa nel mare o in una bacinella con acqua e sale per essere purificata. Alcuni marinai la usano per farsi una collanina porta fortuna”. pubblicata sul portale
Così ci racconta Nicola…
“In caso di perturbazioni violentissime con un coltello traccio sulla poppa della mia barca una stella a cinque punte. Si tratta della rappresentazione simbolica di un uomo con testa, braccia e gambe e viene disegnata durante l'invocazione di un santo protettore. A quel punto lancio un coltello nel tentativo di centrare il "cuore" della stella: se riesco a colpirlo potrò beneficiare della grazia richiesta e la tromba marina cambierà direzione”. pubblicata sul portale
E’ la volta dei comportamenti di alcuni uccelli che si nutrono sulla scia dei pescherecci…
Tre uccelli che svolazzano sul natante presagiscono incidenti mortali. La stessa premonizione deriva dall'eventuale uccisione da parte dell'equipaggio di gabbiani e albatri, visti come la reincarnazione delle anime di pescatori deceduti in passato. pubblicata sul portale barinedita.it e di sua proprietà.
“E occhio ai gatti, che pur non amando l'acqua vengono ospitati sui pescherecci per la loro utilità nel segnalare l'arrivo della pioggia: in quest'ultimo caso si mettono a soffiare insistentemente, mentre con la bonaccia di solito si sdraiano rilassati. I felini però dovrebbero essere curati e coccolati, altrimenti col potere magico delle loro unghie affilate potrebbero attirare una tempesta catastrofica”.
Ritorniamo alle Trombe Marine
IN PASSATO, MA SAPPIAMO CHE ESISTE ANCORA, L’ESORCISTA CONTRO LE TROMBE MARINE.
Di fronte alla minaccia delle trombe marine, viste come segni del demonio, in passato i marinai si affidavano a rituali che ricordano veri e propri esorcismi, Per questo motivo spesso i marinai portavano con sé un caratteristico coltello dall’impugnatura nera, noto come la cultellë di sandë libborië, utilizzato per esorcizzare, letteralmente, l’eventuale tromba marina.
In ogni caso il rituale era così diffuso che persino Cristoforo Colombo ne fece uso. Nel 1502, durante il suo quarto viaggio nelle Americhe: il navigatore genovese incontrò una potente tromba marina in pericoloso avvicinamento alla sua nave e procedette quindi con il rituale d’esorcismo: anziché fare il gesto di tagliare il vortice egli però tracciò un cerchio tutt’attorno a sé e, narra la leggenda, come per miracolo la tromba marina risparmiò la nave, passandole accanto senza colpirla.
TAGLIO DELLE TROMBE D’ARIA
Un fenomeno poco indagato dagli studi antropologici è il cosiddetto taglio delle trombe d’aria, rituale segreto ma ancora oggi utilizzato da alcuni uomini di mare lungo le coste dell’Italia meridionale.
RITI TAGLIATROMBE E TRADIZIONI CHE SOPRAVVIVONO…
Tagghiari una tromba marina
La cura di Drau è un fortissimo temporale con vento impetuoso, che al suo verificarsi
è capace di affondare qualsiasi cosa incontra, barche, navi, ma anche tetti di case ecc.
La persona competente, di solito un marinaio, conosce la preghiera adatta.
Porzione da recitarsi durante una Tromba Marina: La Cura di Drau
Lu patri è putenti, lu figghiu è mputenti,
pi lu nomi di Gesu Giuseppe e Maria
tagghiu sta cura e n’atri centu com’a tia
“Per tagliarla”, ossia per farla scomparire, sale su un posto elevato e, guardando la tromba, si fa il segno della croce e recita:
“Lunniri è santu,
Martiri è santu,
Mercuri è santu,
joviri è santu,
Vennari è santu,
Sabatu è santu,
la Duminica di Pasqua,
sta cura a mari casca
e pi lu nomu di Maria
sta cura tagghiata sia”.
Poi prende un coltello e fa tre tagli orizzontali con gesto simbolico per tagliare la tromba marina.
“Potenza di lu Patri, sapienza di ku Figghiu, virtù di lu Spiritu Santu, e vui tutti li Santi livatimilla di cca davanti”.
Concludiamo questo nostro viaggio ad Amalfi, tra le credenze popolari più note stralciando da un sito locale alcuni passi di notevole suggestione.
Chi si dedicava alla pesca, fino a qualche decennio fa, era considerato depositario di conoscenze magiche, forse perché doveva confrontarsi con le forze della natura e non rimanerne sopraffatto: non a caso erano i pescatori le persone in grado di “spezzare” una tromba marina appena si formava all’orizzonte.
Ovviamente, al primo avvistamento, veniva chiamato in causa il pescatore che conosceva la formula liberatoria per spezzare la tromba marina appena si formava all’orizzonte.
Il pescatore usciva in barca, avvicinava la coda del vortice e, dopo essersi fatto per tre volte il Segno della Croce e aver pronunciato una formula di cui era a conoscenza, assolveva al compito per cui era stato chiamato. Non tutti i pescatori erano in grado di compiere questo rito, infatti occorrevano due caratteristiche che rendevano questi personaggi “speciali”: il non essere stati battezzati e l’avere lunghi baffi rivolti all’insù.
Sulla prima caratteristica ognuno dice la sua… ma nessuno ci giurerebbe su… anche perché le trombe marine venivano spezzate da pescatori non battezzati…
Sulla seconda si azzarda qualche stranezza…: i baffi sono spiegate come una sorta di antenne rivolte verso l’alto, verso cioè un altro mondo da cui provengono misteriosi poteri.
Esistono sul posto testimoni di eventi meteorologici che, dopo essersi formati all’orizzonte, improvvisamente hanno mostrato prima un assottigliamento della parte finale della Tromba e poi la rottura. Un amico sostiene: “nei racconti dei nostri nonni era stato un pescatore del luogo ad operare la rottura e a salvare l’intero paese da danni sicuri”.
TROMBA MARINA E TROMBA D’ARIA
sono la stessa cosa - la prima é situata in mare
Le trombe non tornadiche, (le nostre), dette anche “waterspout”, invece, si formano soprattutto grazie all'elevata temperatura della superficie marina, che può fornire notevole energia a sistemi nuvolosi in apparenza di scarsa consistenza portando al contrasto aria calda ascendente (marina) e aria fredda discendente (della perturbazione), dando quindi origine a moti vorticosi favoriti anche dall'assenza di corrugamenti ed ostacoli in mare. In questa situazione la forma della tromba d’aria sarà assottigliata, molto contorta e poco potente, ma tuttavia in grado di provocare danni significativi a persone o cose. Contrariamente a quanto si tende a credere, ad eccezione degli spruzzi sollevati in prossimità della superficie, l’acqua presente nella colonna proviene dalla condensazione provocata da una pressione molto bassa all’interno della massa d’aria turbinante e non da un’aspirazione dell’acqua di mare su cui si genera.
Molto spesso le trombe marine si sviluppano in un contesto di calma di vento ed è per questo che possono risultare molto pericolose per le imbarcazioni a vela. L’unico vento apprezzabile, infatti, è quello che si dirige verso la base della tromba e risulta quindi difficile sfuggire al vortice. I venti rotanti all’interno della colonna possono raggiungere i 250 km/h, mentre la velocità di traslazione è piuttosto bassa, intorno ai 20-30 km/h, e la lunghezza, dalla superficie del mare alla base della nube, va da 300 m a circa 700 m, mentre il diametro è di qualche metro in superficie fino a quasi 300 m in corrispondenza della parte inferiore del cumulonembo.
Una tromba marina dura in genere dai 2 ai 20 minuti, ma spesso si esaurisce in circa 4 minuti. A volte possono formarsi “famiglie” di trombe marine, composte da tre o quattro elementi, ma in qualche caso ne sono state osservate sulla stessa zona addirittura quindici.
Nella foto in alto, una delle tante trombe marine che nell'estate 2014 si sono formate di fronte alla costa marchigiana; questa nello specifico è stata fotografata da un peschereccio a 20 miglia al largo di Ancona la mattina del 22 Luglio.
Per approfondire
Trombe d'aria e tornado spiegati dal Capitano Paolo Sottocorona
Un tornado a Lignano
Tornado: tra i fenomeni più distruttivi
Ci fermiamo qui - segnalando 8 superstizioni marinare che potrebbero stimolare ancora un po’ la vostra fantasia…
Strane e meno strane, di superstizioni marinare ne esistono un’infinità ma tutte hanno una spiegazione logica o storica. Purtroppo, essendo credenze tramandate verbalmente, non è così facile risalire alle origini e occorre procedere per ipotesi, unendo le poche informazioni alla conoscenza del contesto storico.
PORTA SFORTUNA:
- 1 Il colore verde
- 2 Fischiare a bordo
- 3 Ombrello a bordo
- 4 La bottiglia che non si rompe durante il varo
- 5 Cambiare nome alla barca
- 6 Salpare di venerdì
- 7 Parlare di Conigli
- 8 Banane a bordo
CARLO GATTI
Rapallo, 15 Ottobre 2020
JOSEPH CONRAD UN ESPLORATORE DELLO SPIRITO MARINARO
JOSEPH CONRAD
UN ESPLORATORE DELLO SPIRITO MARINARO
PRIMA PARTE
Il 17.2.2012 dedicai un articolo per Mare Nostrum al veliero NARCISSUS il cui capitano, Joseph Conrad, divenne il celebre scrittore che tutti noi conosciamo. Sullo sfondo del racconto emerge il dipinto del famoso veliero (opera dell’artista G. Roberto) che é appeso sui muri della fede nel santuario di Montallegro (tanto caro a Emilio Carta), ma sulle vele di quel VELIERO c’é anche il marchio della marineria camoglina che porta il nome di Vittorio Bertolotto che ne fu il suo ultimo armatore.
NARCISSUS - IL VELIERO CHE NON VOLEVA MORIRE - di J. CONRAD
SECONDA PARTE
IL NEGRO DEL NARCISSUS di Joseph CONRAD
Avventura e metafore di vita ancora attuali in un racconto autentico e avvincente
Nel sottotitolo della copertina c’é la chiave di lettura della SECONDA PARTE del nostro lavoro. Secondo i critici e gli studiosi, il racconto è visto come un’allegoria del tema della solidarietà e dell’isolamento, con il microcosmo della nave che rappresenta una versione in scala ridotta della società umana.
“The Nigger of the Narcissus”- (A Tale of the Sea), è un racconto di Conrad del 1897 considerato come l’inizio della sua carriera letteraria. Lo si indica talvolta come rappresentante dell’impressionismo in letteratura: il mare e le navi con i suoi equipaggi sono spesso raccontati, ieri come oggi, dai pennelli di grandi artisti che sanno cogliere lo spirito avventuroso dei marinai. La prefazione, scritta direttamente dall’autore, è considerata una sorta di manifesto letterario di Conrad.
Il protagonista, James Wait, è un marinaio nero delle Indie Occidentali imbarcato sul veliero mercantile “Narcissus”, lo scenario è la navigazione tra Bombay e Londra. Durante il viaggio Wait viene colpito da una grave malattia polmonare (tubercolosi?), forse contratta poco prima dell’imbarco. Cinque membri dell’equipaggio rischiano la vita per salvarlo durante una tempesta, al contrario il Capitano Allistoun ed il vecchio marinaio Singleton dimostrano freddezza e indifferenza preferendo concentrarsi sulle proprie funzioni di governo della nave…
Ma chi era Joseph Conrad ?
(1857-1924)
Vita–e-Opere
Joseph Conrad Theodor Naleçs Korzenioowski nasce da genitori polacchi nella Ucraina occupata dai russi nel 1857. Nel 1868 i suoi genitori muoiono e lui va a vivere con uno zio che aveva una grande passione per la letteratura inglese. All'età di diciassette anni viene impegnato sulle navi francesi come marinaio e visita le Indie Occidentali e l’America Latina. Nel 1878 lo scrittore si reca in Inghilterra per la prima volta e nel 1886 ottiene la cittadinanza britannica, cambiando il suo nome in Joseph Conrad.
Il Capitano-scrittore serve per sedici anni nella Marina mercantile britannica prima di ritirarsi nel 1894. Nel 1883 fa parte dell’equipaggio della nave Narcissus a Bombay, un viaggio che ispirerà il suo romanzo del 1897 Il Negro del Narcissus.
Nel 1889, Conrad soddisfa il suo sogno raggiunge lo Stato Libero del Congo. Diventa Capitano di un battello a vapore in Congo, e assiste ad atrocità che sono riportate sia in Diari del Congo e in Cuore di tenebra nel 1902.
Gravemente malato, è costretto a lasciare il mondo delle navi e nel marzo 1896 si sposa con una signorina inglese, Jessie George. Vivranno per lo più a Londra e vicino a Canterbury, Kent. La coppia avrà due figli. Muore nel 1924. Le sue esperienze sul mare - la solitudine, la corruzione e la spietatezza umana - convergono a formare una visione cupa del mondo. Alla popolarità di Conrad non corrispose un analogo successo finanziario, la sua salute fu cagionevole ma molto intensa dal punto di vista letterario per il resto della sua vita. Questo scrittore di mare si é calato come pochi nell’animo umano in quella platea composita degli uomini di mare obbligati a convivere tra razze e religioni diverse, tra culture e opinioni politiche opposte. Ancora oggi i suoi libri sono studiati nelle maggiori università del mondo nelle facoltà di psichiatria. Morì nel 1924 per arresto cardiaco e fu seppellito nel cimitero di Canterbury (Kent, England), col nome di Korzeniowski
Conrad ha scritto tredici romanzi, ventotto racconti, due volumi di memorie e un gran numero di lettere. Tra le sue opere più significative sono
La Follia di Almayer (Almayer’s Folly, 1895).
Un reietto delle isole (An Outcast of the Island,s 1896), sullo sfondo di in paesaggi esotici uomini emarginati sono distrutti da sogni di potere e di ricchezza.
Il Negro del Narcisso (The Nigger of the Narcissus, 1897) è la storia di un marinaio nero morente su una nave e il comportamento del personale di bordo.
Gioventù (Youth, 1902) è il racconto di un lungo viaggio che diventa simbolo del passaggio dalla giovinezza alla maturità.
Cuore di tenebra (Heart of Darkness, 1902) è un romanzo che racconta un viaggio sul fiume Congo per salvare un commerciante d'avorio.
Tifone (Typhoon, 1903) parla di un capitano che riesce a guidare la sua nave durante un tifone.
Lord Jim, (1900) narra di un uomo che, dopo una vita vile, si redime con una morte eroica.
Nostromo (1904) è un romanzo politico ambientato durante la rivoluzione americana.
L'agente segreto (The Secret Agent, 1907), storia di una spia mediocre che costringe il fratello di sua moglie a un atto di terrorismo.
Sotto gli occhi dell'Occidente (Under Western Eyes, 1911) racconta il conflitto interiore di un rifugiato russo in Svizzera.
Chance (1913) è insolitamente centrata su un personaggio femminile, che sposa un capitano di aiutare il padre imprigionato; la narrazione è complessa con diversi narratori prendono e vari punti di vista.
Vittoria (Victory, 1915) è un romanzo tragico nei mari del Sud.
La Linea d’ombra (The Shadow Line, 1919) riferisce di un viaggio difficile, simbolo della crescita di un giovane uomo.
“Il mare si stendeva lontano, immenso e caliginoso, come l’immagine della vita, con la superficie scintillante e le profondità senza luce”
J. Conrad
Monumento a Joseph Conrad a Gdynia, sulla costa del mar Baltico in Polonia
“Era calmo, freddo, imponente, maestoso. I marinai si erano avvicinati e stavano alle sue spalle. Sovrastava il più alto di mezza testa. Rispose: ‘Faccio parte dell’equipaggio.’ Scandì le parole con sicurezza e decisione. Il tono profondo e sonoro della sua voce si diffuse sul cassero nitidamente. Era beffardo per natura, come se dall’alto della sua statura, avesse contemplato tutta l’entità della follia umana e si fosse convinto di voler essere tollerante.”
Secondo la critica più autorevole, il romanzo è un'allegoria sul tema della solidarietà e dell'isolamento, con il microcosmo della nave a rappresentare una versione in scala ridotta della società umana.
Il “Negro del NARCISSUS” è una storia di mare ma è anche un’indagine sulla natura psicologica dell’uomo che reagisce con le sue passioni nello stesso contesto dove altri uomini pensano ed agiscono secondo le loro origine antropologiche.
La descrizione della tempesta raggiunge la bellezza dei grandi poeti antichi, ma il fortunale è anche nei cuori dell’equipaggio.
Il gigantesco marinaio negro Jimmy Wait imbarca sul Narcissus che é in partenza da Bombay per Londra. Il nativo delle West Indies si ammala pochi giorni dopo la partenza. A bordo emerge subito il dubbio che fosse già ammalato o peggio ancora che stia fingendo... Tante domande, nessuna risposta!
Il NARCISSUS fa rotta contro una furiosa tempesta sull’ormai vicino Capo di Buona Speranza. La navigazione si fa difficile e la malattia di Jimmy peggiora. Quando la tempesta si scatena in tutta la sua violenza le condizioni di Jimmy si aggravano e la sua sorte sembra segnata, ma nessuno capisce se la tempesta sta inseguendo proprio il povero Jimmy oppure la nave.
“Lo curiamo o le gettiamo in mare?” Pare essere questo l’atteggiamento dell’equipaggio che é vittima dell’irrazionale paura d’incorrere nell’eventuale contagio di un cadavere a bordo!
A bordo del Narcissus – scrive Conrad – “La falsità trionfava. Trionfava grazie al dubbio, la dabbenaggine, la pietà, il sentimentalismo… La pervicacia con la quale Jimmy si ostinava nel suo atteggiamento insincero di fronte alla verità inevitabile, aveva le proporzioni di un enigma mostruoso, di una manifestazione iperbolica che a volte suscitava un meravigliato, timoroso stupore… L’egoismo latente che si annida in tutti noi di fronte alla sofferenza si rivelava nella crescente preoccupazione che ci rodeva nel non volerlo veder morire… Era assurdo al punto da sembrare ispirato. Era unico e affascinante… Stava diventando irreale come un’apparizione… La sua presenza ci avviliva, ci scoraggiava…”.
Il capitano Alliston, da abile uomo di mare, salva la nave con i suoi ordini decisi e precisi, mostra grande coraggio nell’infondere all’equipaggio quella sua stessa forza che diventa decisiva per salvarsi.
Con il suo romanzo Conrad sembra dirci che la tempesta è necessaria per rivelare ad ognuno la sua parte più profonda, per ricordare ad ogni uomo la piccolezza della natura umana.
“Agli uomini ai quali, nella sua sdegnosa misericordia, esso concede un istante di tregua, il mare immortale offre nella propria giustizia, e pienamente, il privilegio, ambito del resto, di non riposare mai. Nell’infinita saggezza della sua grazia non consente loro di poter meditare con calma sull’acre e complesso sapore dell’esistenza, per tema che abbiano a ricordare e forse a rimpiangere la ricompensa di una tazza d’ispiratrice amarezza, tanto spesso assaggiata e altrettanto spesso sottratta alle loro labbra già irrigidite, ma pur sempre riluttanti. Questi uomini devono senza un istante di requie giustificare la propria vita all’eterna pietà…”.
Conrad non troverà mai le risposte alle sue domande esistenziali…
“…in balia del grande mare …del mare che tutto sapeva, e che avrebbe col tempo infallibilmente svelato a ciascuno la saggezza nascosta in ogni errore, la certezza latente del dubbio, il regno della salvezza, e della pace al di là delle frontiere del dolore e della paura”.
La visione che Conrad ha della nave e del suo equipaggio è racchiusa nelle righe che seguono e che svelano il segreto di quel delicato equilibrio che ognuno a bordo deve stabilire con sé stesso e con gli altri; si tratta dell’unico target che nessuno t’insegna a terra perché appartiene al mondo del mare: partire ed arrivare in sicurezza! Il traguardo lo si può raggiungere soltanto con quella disciplina interiore che nasce e si sviluppa nel rispetto e nella paura del Dio Mare. Forse è questo il vero collante dell’equipaggio per la riuscita della spedizione: uomini di mare, difficili da guidare ma facili da esaltare!
Il marinaio anche se rozzo ed ignorante quando entra in sintonia con il giusto spirito marinaresco diventa un professionista insostituibile nella sua mansione.
“(…) la nave, frammento staccato dalla terra, correva solitaria e rapida come un piccolo pianeta. Intorno ad essa gli abissi del cielo e del mare si univano in una irraggiungibile frontiera. (…) Essa aveva il suo futuro; viveva della vita di quegli esseri che si muovevano sopra i suoi ponti; come la terra che l’aveva confidata al mare, essa trasportava un intollerabile carico di speranze e di rimpianti … Essa correva schiumeggiando verso il Sud, come guidata dal coraggio di un’altra impresa. La ridente immensità del mare rimpiccioliva la misura del tempo. I giorni volavano uno dietro l’altro, rapidi e luminosi come il guizzare di un faro, e le notti, movimentate e brevi, parevano fuggevoli sogni..."
Qualcuno ha scritto con molta acutezza:
“Amato e odiato, James Wait lascia la terraferma per non ritrovarla più, perché certi viaggi durano per sempre, soprattutto quando resi immortali da una penna sincera, al punto da risultare crudele, come quella di Joseph Conrad”.
“Mentre odiavamo James Wait. Non riuscivamo a liberarci dal sospetto orribile che quel negro sorprendente facesse finta di essere malato, fosse stato testimone insensibile della nostra fatica, del nostro disprezzo, della nostra pazienza, e ora insensibile alla nostra solidarietà di fronte alla morte. Il nostro senso morale, per quanto imperfetto e vago, reagì con disgusto di fronte alla sua vile menzogna. Ma lui continuava a sostenere il suo ruolo con coraggio sorprendente. No! Non era possibile. Era stremato. Il suo temperamento insopportabile era solo il risultato dell’ossessione invincibile della morte che sentiva prossima. Chiunque si sarebbe indignato per una simile imperiosa compagna. Ma allora che razza di uomini eravamo noi con i nostri sospetti! Indignazione e dubbio erano in conflitto dentro di noi, travolgendo ogni nobile sentimento. E noi lo odiavamo a causa del nostro sospetto, lo detestavamo a causa del nostro dubbio. Non potevamo disprezzarlo impunemente e neppure compiangerlo senza ledere la nostra dignità. Così lo odiavamo e ce lo passavamo con cura di mano in mano”.
Per gli appassionati lettori di Conrad aggiungo anche LA LINEA D’OMBRA: “Come in guerra, anche sulla nave, l'unica speranza di salvezza sta nel fare con abnegazione e sacrificio ognuno la propria parte”.
Pochi giorni fa sono stato invitato a partecipare a un gioco su F/B: postare per 10 giorni dieci copertine di libri che ho amato particolarmente, senza spiegarne il perché.
Martedì ho scelto The Nigger of the NARCISSUS per la reminiscenza del suo messaggio morale che mi rimase impresso come l’allegoria della solidarietà….
Oggi stiamo vivendo la storia della pandemia Covid-19, e ho rivisto il negro James Wait, il misterioso reietto del Narcissus, ricoverato in una delle nostre RSA per gli anziani. La sua sorte é segnata perché una società “malata, cinica e crudele” ha deciso che la morte sia la soluzione di tanti problemi reali e psicologici. Una sorte di liberazione che in breve tempo sarà archiviata e dimenticata nelle celebrazioni che seguiranno la VITTORIA sul Virus…
The show must go on nella sua eterna attualità!
Vi segnalo un approfondimento su questo tema.
La strage silenziosa di anziani nelle RSA - “Macelleria messicana” nelle residenze per anziani
“Persone fragili, alcune anche affette da altre patologie, diventate terreno fertile per il virus che sta mettendo in ginocchio l’Italia. Uomini e donne che per troppo tempo hanno dovuto subire il triste clichè che toglieva dignità alle loro vite. "Tanto muoiono solo i vecchi", pensavano in tanti. Era come diventato una sorta di scudo per chi ancora si aggirava per le strade delle città indisturbato, senza protezioni, convinto che, quella del coronavirus, fosse tutta una bufala gonfiata dai media. Eppure, nonostante gli anziani fossero già stati individuati come la preda più facile da attaccare per il virus la realtà sembra raccontare che qualcuno non li ha protetti abbastanza”.
Termino proponendovi l’articolo di una brava giornalista che senza citare IL NEGRO DEL NARCISSUS ne é comunque una fedele interprete.
Redazione CDN (Calabria Diretta News)
21 Aprile 2020
Non c’è la violenza, non c’è la premeditazione, non c’è l’orrore del sangue ma quella che si va consumando nelle residenze per anziani è una mortalità che evoca gli stermini della rivoluzione messicana, diventati metafora di ogni mortalità di massa ingiustificata, incontrollata e incontrastata.
Non è soltanto la vicenda di Villa Torano col suo crescente numero di contagiati, dentro e fuori la struttura, con i comportamenti omissivi, le negligenze del personale, la superficialità irresponsabile della gestione, le compiacenze con la Protezione Civile e il Mater Domini di Catanzaro a rappresentare il luttuoso fenomeno di una mortalità anagrafica. E’ tutta l’Italia che rivela nei confronti delle residenze per anziani un atteggiamento di sistema senza controlli adeguati e una pressoché totale privatizzazione del settore che rappresenta uno dei business più redditizi sulla vecchiaia e sul bisogno di assistenza degli anziani.
Ci sarebbe un aspetto etico da considerare e cioè che gli anziani di oggi sono la generazione che ha conosciuto nella sua infanzia la guerra ma, soprattutto, che ha vissuto e realizzato la “ricostruzione”, il boom economico e la modernizzazione del Paese con governi a base democratica. Strappati agli affetti familiari, ricoverati come pazienti ad alto rischio e a bassa possibilità di guarigione, morti in solitudine in corsie congestionate e scaricati nelle loro bare, da camion militari, in spazi cimiteriali improvvisati, questi anziani se ne sono andati, comunque la si voglia mettere, portandosi dietro una percezione di ingratitudine che non meritavano. C’è una responsabilità morale che è ben diversa dalle responsabilità che la giustizia, a volerla considerare tale, avrà il compito di accertare.
Si sapeva che erano i più esposti e per i quali, quindi, bisognava predisporre e intervenire per tempo con dispositivi di protezione, mascherine e tamponi in primis. Invece, oltre a lasciarli indifesi, si è consentito che venissero infettati dall’esterno, per negligenza, incompetenza, cialtroneria politica e irresponsabilità di chi avrebbe dovuto agire.
Ognuno di noi sa, nella propria coscienza, quanto ha valutato, nella paura dilagante, il diritto alla vita degli over 70 se non over 65. Pare, addirittura, che in alcune fasi dell’emergenza e della penuria di ventilatori polmonari sia stato preso in considerazione il codice di guerra secondo il quale, presentandosi l’alternativa ineludibile di salvare un vecchio o un giovane, prevede che sia il vecchio a essere sacrificato. E si può tragicamente capire ma parliamo di codice di guerra, ovvero bombardamenti, massacri indiscriminati, ospedali da campo e carneficine da affrontare.
Niente di tutto questo nell’anno del Signore 2020 dove la “macelleria messicana” nelle residenze per anziani parte e si consuma nelle realtà ritenute eccellenti della sanità italiana, modello – a quanto si dice – invidiatoci a livello internazionale, per espandersi progressivamente in tutto il Paese.
Tutto questo in presenza di una pandemia che ha preso alla sprovvista l’intero pianeta, senza risparmiare le potenze mondiali più ricche, a partire dagli Stati Uniti. Ma il problema delle residenze per anziani esiste da prima che facesse irruzione il coronavirus.
Mettendo da parte, in questa analisi, le “case di riposo” oggetto di incursioni dei carabinieri, rivelatrici di condizioni sub-umane di trattamento paragonabili ai lager nazisti, è il caso di riportare alcuni numeri per comprendere perché le residenze per anziani rappresentano un business redditizio “anticiclico”, dove anticiclico significa che il settore non è soggetto a oscillazioni e crisi di mercato perché la “senilizzazione” ovvero l’invecchiamento della popolazione è una dinamica in espansione non compensata dalle nascite.
Una distinzione preliminare va fatta fra RSA (residenze sanitarie assistenziali) RA ( case di riposo o comunque di assistenza agli anziani ) e “pensioni” di iniziativa privata che sfuggono ad ogni autorizzazione e controllo. Le RSA che non sono a gestione pubblica sono a gestione privata e, nella maggior parte, convenzionate col servizio sanitario nazionale. Percepiscono per ogni paziente una retta mensile valutabile nell’ordine di 140/150 euro al giorno per paziente ma esistono anche quotazioni più basse fino ad arrivare alle “pensioni” più povere dove la retta può essere di 1.200 euro al mese.
Secondo l’Agenas, che opera per conto del governo nazionale, in Italia tutte le residenze per anziani, escluse quelle clandestine e fuorilegge, assommano a oltre 6 mila per complessivi 287.532 posti letto di cui centomila 282 a gestione pubblica e 171mila 445 a gestione privata. Le RSA in senso stretto sarebbero 2.475 per 220mila e 700 utenti.
Ma c’è molta confusione sui dati poiché il sommerso è difficilmente quantificabile.
Quello che è certo è che il settore è progressivamente finito negli appetiti di gruppi imprenditoriali, finanziariamente agguerriti, che ne hanno preso il controllo. Si va da realtà come quella di Villa Torano, capofila di altre residenze gestite dallo stesso gruppo, alle 55 residenze gestite dalla CIR di Carlo De Benedetti in molte regioni con un fatturato che si può immaginare.
Per quanto riguarda Villa Torano, la polemica esplosa riguarda,oltre all’espandersi incontrollato del contagio, il ruolo giocato nella vicenda dalla politica atteso il coinvolgimento di un esponente politico di Forza Italia, tal Parente, la cui consorte detiene il 40 per cento del pacchetto azionario del gruppo che gestisce più residenze per anziani. Al politico in questione e alle protezioni su cui può contare vengono ricondotte le anomale agevolazioni ottenute dalla Protezione Civile con la fornitura di 200 tamponi e con le controverse risultanze dei tamponi effettuati.
Nella polemica esplosa sui controlli non effettuati e sulle negligenze emerse è intervenuto Enzo Paolini che da anni, senza essere titolare di alcuna struttura sanitaria, rappresenta in Calabria, dopo averla rappresentata a livello nazionale, l’AIOP (Associazione Italiana Ospedalità Privata) ovvero quelle comunemente chiamate cliniche o case di cura che prevalentemente sono convenzionate col servizio sanitario e rappresentano “l’altra gamba” del servizio sanitario pubblico.
Paolini, in effetti, non rappresenta le RSA che sono un settore a parte ma ha ritenuto di dover intervenire sulla polemica esplosa su Villa Torano per chiarire cosa debba intendersi per sanità privata e cosa rappresentano le RSA, interessato alla distinzione per diversificare ruoli e responsabilità e scoraggiare ogni strumentalizzazione contro la sanità privata, generalizzando con Villa Torano. Intanto, per Paolini, nessuna indulgenza per chi opera fuori dalle regole e dai protocolli previsti dalla legge, sia che si tratti di cliniche private che di residenze per gli anziani.
Nessuna indulgenza e nessuna giustificazione ma sbaglia chi generalizza e dalla vicenda di Villa Torano trae giudizi sommari sulla sanità privata “tout court”, facendo così torto a chi opera con onestà e trasparenza. Semmai Paolini, superando le affermazioni del sindacato infermieri e le dolenze giustificate per la mancanza di dispositivi di protezione, chiama in causa chi deve esercitare i necessari controlli dovuti, sia che si tratti di cliniche che di RSA. E qui sta il punto, dove emergono le supposte connivenze con la malapolitica .
Nessuno, né a destra né a sinistra, ha mai chiesto una verifica di quanti politici, tramite familiari o prestanome, hanno interessi nella sanità. Alcuni casi sono venuti alla luce, altri sono occultati o adeguatamente mascherati. Nelle residenze per anziani si stava male anche prima del coronavirus ma nessuno è andato a vedere.
Ora sembra che la magistratura inquirente abbia scoperto che qualcosa non va, che l’assenza di controlli nasconda qualcosa di più grave, che sulla pelle dei nostri vecchi siano state costruite rendite di posizione che, né a destra né a sinistra, si avverte la necessità di tenere sotto controllo rispetto alla qualità dei servizi e ai requisiti da osservare. In questo la mafia non c’entra o c’entra in compartecipazione di minoranza.
Non sarebbe un eccesso di zelo se, a parte i cartelli colombiani della droga e il coronavirus che incrementerà l’usura, ci fosse un giudice che avesse a cuore le ignominie consumate da gruppi di colletti bianchi, fra di loro collusi, a danno dei nostri vecchi. Ci sono i silenzi colpevoli di chi, ai vari livelli, facendo finta di non sapere, copre e protegge. Verosimilmente sono gli stessi ambienti che, a 60 giorni dal coronavirus, non hanno detto una parola sull’insabbiamento dei quattro nuovi ospedali di Gioia Tauro, Vibo, Sibari e Cosenza. Anche i calabresi, increduli su Villa Torano, tacciono.
Rassegnati al peggio.
https://www.calabriadirettanews.com/author/stefania/
CARLO GATTI
Rapallo, 23 oprile 2020
FORTE CASTELLACCIO - GENOVA-Parte Seconda
I FORTI DI GENOVA
PARTE SECONDA
IL FORTE CASTELLACCIO
La caserma sulla Val Bisagno, vista dall’esterno delle mura
E’ stato la sede di due ENTI molto importanti per il
MONDO DELLE NAVI E DEI MARITTIMI fino agli ANNI ’50-’60
La torre vista da Nord
GENOVA RADIO E L’ISTITUO IDROGRAFICO DELLA MARINA
GENOVA RADIO
Genova-Radio (Icb), nel cuore del quartiere di Quarto, proprio davanti alla storica Via Romana della Castagna, è una ex stazione radiofonica fondata nel 1952 e all’epoca usata per comunicazioni in ambito marittimo.
Composta da due diverse stazioni: quella ricevente nel quartiere levantino, l’altra dislocata a pochi chilometri, sul Monte Righi – i suoi trasmettitori si trovano oggi all’interno dell’antico forte denominato “Il Castelaccio” (sembrerebbe che lo stesso Guglielmo Marconi abbia definito questo luogo “una delle migliori postazioni d’Italia per le radiotrasmissioni”). Entrambe le stazioni, ricevente e trasmittente, erano impiegate per adempiere a diverse funzioni: trasmissione di messaggi in codice Morse tra nave e radio; invio di telegrammi, ad esempio ai parenti, durante la permanenza in mare lontano da casa; uso del sistema telex per la trasmissione di dati commerciali; invio di chiamate di soccorso 24 ore su 24, 365 giorni l’anno.
I due tralicci di oltre 60 metri che ancora svettano nel bel mezzo dell’antico abitato di Quarto e la passione di alcuni “agguerriti” amatori, tengono in vita la memoria di questa eccellenza genovese e di un mestiere, quello del radiotelegrafista, ormai scomparso.
La radiotelegrafia a GENOVA
Forte Castellaccio e Torre Specola
Il complesso visto dal parco del Peralto
Mentre le prime operazioni erano svolte grazie allo sfruttamento di onde corte, a varie frequenze, la chiamata di soccorso sfruttava le onde medie a 500 kHz: usata per circa 90 anni nell’ambito del Servizio Radio Mobile Marittimo per la sicurezza in mare, tutte le stazioni radio che utilizzavano la radiotelegrafia in onda media avevano l’obbligo di assicurare l’ascolto continuo su questa frequenza, con un operatore preposto o tramite un ricevitore, in modo da ricevere in ogni momento SOS e messaggi di “urgenza”, per salvaguardare la sicurezza della vita umana in mare. Solo nel 1999, la 500 kHz è stata rimpiazzata da sistemi digitali satellitari. Era possibile anche sfruttare queste tecnologie per permettere a chi si trovava in mare di utilizzare un sistema radiotelefonico e fare telefonate a casa anche se, molto dispendiose in termini di consumi di corrente e di tempi di organizzazione, questo tipo di chiamate non potevano svolgersi troppo di frequente.
Gli operatori, radiotelegrafisti capaci e ben preparati, derivavano la loro conoscenza da precedenti impieghi a bordo di navi e imbarcazioni: perlopiù facevano parte di una categoria di Ufficiali della Marina Mercantile, esistente all’epoca in cui ancora le comunicazioni avvenivano per via telegrafica, ed erano chiamati “marconisti”, nome coniato in memoria dello stesso Guglielmo Marconi, padre delle radiocomunicazioni. Tutti quelli che aspiravano ad un impiego nelle radiocomunicazioni su navi mercantili o aeromobili civili dovevano conseguire un apposito brevetto, un certificato per radiotelegrafisti rilasciato dal Ministero delle Poste. Un mestiere affascinante e motivato da grande passione personale, che oggi è scomparso, dovendo soccombere ai progressi della tecnologia. Le apparecchiature utilizzate da Genova-Radio erano degne di nota e tutte di qualità: dapprima, i trasmettitori Collins BC-312 e BC-3124, poi gli italiani Allocchio-Bacchini OC-11.
Oggi Genova-Radio ha quindi perso la maggior parte delle funzioni di un tempo e, costretta a soccombere di fronte alle nuove tecnologie, resta perlopiù inutilizzata. Visto l’interesse riscontrato, l’ipotesi di creare un museo delle radiocomunicazioni in questi luoghi, con le apparecchiature di una volta, non sembra fuori luogo: un’opportunità di rilancio e promozione di un mestiere scomparso? Perché no…
ISTITUTO IDROGRAFICO DELLA MARINA
IIM - Istituto Idrografico della Marina - Italia
Passo dell'Osservatorio 4, 16134 Genova ITALY
Tel : +39 010 24431 (centralino) - Fax : +39 010 261400
Sede dell’Istituto Idrografico della Marina
Storia. L'istituto fu fondato con regio decreto il 26 dicembre 1872 e alla sua guida fu chiamato il capitano di fregata, matematico e idrografo Giovan Battista Magnaghi, con il compito di eseguire il rilievo idrografico dei mari italiani e di produrre la documentazione nautica nazionale.
FORTE CASTELLACCIO
Il Forte Castellaccio al Righi, sulle prime alture di Genova, come si presentava nei primi anni del '900.
A sinistra si nota ancora la costruzione che ospitava il Corpo di Guardia della Porta Chiappe, mentre la restante porzione ospitava un piccolo ristorante.
Venne successivamente demolita per allargare la strada di accesso.
La casamatta di sinistra alloggiava il cannone di mezzogiorno che, sino all'inizio della seconda guerra mondiale sparava un colpo ogni mezzogiorno in punto che serviva come segnale orario per la sincronizzazione dei cronometri di bordo delle navi.
Facciata della Torre Specola ottocentesca compresa all'interno del forte Castellaccio, caratteristica per l'uso del mattone rosso come materiale da costruzione. Fino alla vigilia della seconda guerra mondiale, ogni giorno dalla torre veniva sparato un colpo di cannone alle 12 in punto. Oggi è sede dell'osservatorio meteorologico dell'Istituto idrografico della Marina militare.
Dietro vi è la Torre Specola, costruita a pianta ottagonale in mattoni rossi dal 1817 al 1825 dall'architetto militare Giulio D'Andreis.
Venne edificata sulla sommità di una roccia adiacente al Forte chiamata Quadrato delle forche in quanto era il luogo, ben visibile da tutta la città, dove dal Cinquecento fino a tutto il Settecento i criminali condannati a morte venivano impiccati.
Costruita inizialmente come opera autonoma con proprie mura, venne chiamata Forte Specola. Disponeva di otto piazzole armate di cannone, una per lato, dotata di apposita finestra di ventilazione e scappamento dei fumi di sparo.
Pochi anni dopo, tra il 1830 ed il 1836, furono costruite le nuove caserme del Forte Castellaccio e le due fortificazioni vennero circondate da un unico bastione, accessibile con un ponte levatoio.
Per la sua posizione panoramica, la località è meta di genovesi e turisti.
IL CANNONE DI MEZZOGIORNO
Lo storico genovese Mauro Salucci ricorda così quel rito cittadino:
Ci parla della Vecchia Genova l'usanza di fare sparare il cannone dalle alture del Righi, tutti i giorni a mezzogiorno. Quel botto univa dall'alto tutta la città, dai camalli del porto che cessavano il lavoro alle mogli che attendevano a casa e capivano che era l'ora di buttare la pasta nella pentola con l'acqua che bolliva. Chi poteva tornava a casa, chi era troppo lontano si rifugiava in una delle tante e mitiche trattorie del porto o dell'angiporto, come quella stranota de "Il Toro" della Coscia di Sampierdarena, dove ogni tanto capitava anche D'Annunzio a pranzo. A Pasqua il botto accompagnava le campane slegate che suonavano per la città, il mattino del Sabato Santo, quando al conclamare di campane e botto di cannone ci si lavavano gli occhi alle fontane, all'acqua benedetta chi poteva. Oggi, nella vastità del territorio della "Grande Genova" e del suo rumore forse un botto simile non verrebbe neppure percepito.
UN PO’ DI STORIA
Stato:……………….. Regno di Sardegna, Ducato di Genova
Tipo: …………………… Forte
Costruzione:……....... 1818-1836
Materiale:…………….. Il forte in pietra, la Torre Specola in mattoni
Condizione attuale… Parzialmente utilizzato da enti pubblici e da privati
Utilizzatore………….. Regno di Sardegna
Funzione strategica. Caposaldo integrato nel sistema difensivo
Termine funzione…. Post Seconda guerra mondiale
Forte Castellaccio è un'opera fortificata compresa nelle “MURA NUOVE” a difesa della città, costruita lungo il ramo della cinta difensiva che dal FORTE SPERONE scendeva lungo il crinale della Val Bisagno.
Il complesso del Forte Castellaccio comprende in un unico recinto bastionato due caserme e la Torre Specola. Fa parte del complesso anche la cosiddetta "Tagliata Nord", un ulteriore sistema difensivo del forte, costruito nel 1840 in direzione del Forte Sperone. Questa struttura era collegata al forte con una breve galleria, oggi murata; nei locali dell'annesso corpo di guardia è oggi ospitato un piccolo ristorante.
Il complesso verso la fine dell’Ottocento ospitava una guarnigione di 600 soldati, ai quali se ne potevano aggiungere altri 1000, alloggiati “paglia a terra”, in caso di necessità. L'imponente a dotazione d’artiglieria comprendeva 22 cannoni di varie dimensioni, cinque mortai e numerosi pezzi di dimensioni minori.
Le quattro facce sul lato esposto verso la città presentano ognuna due feritoie laterali e sono coronate da caditoie. L'interno è su due piani fuori terra, più un sotterraneo con cisterna.
La torre poteva ospitare una guarnigione di 60 soldati, ai quali se ne potevano aggiungere altri 120, alloggiati “paglia a terra”, in caso di necessità.
Sul tetto è presente un locale sopraelevato, costruito intorno al 1911 dall’Istituto Idrografico della Marina, che fino agli anni sessanta del Novecento ospitò un Osservatori Meteorologico. Utilizzata come deposito ed archivio dallo stesso Istituto Idrografico.
Oggi la Torre è abbandonata. Fra il 1875 e il 1940, da una casamatta collocata sulle mura esterne, a mezzogiorno esatto veniva sparato un colpo di cannone, con funzione di segnale orario per la sincronizzazione dei cronometri di bordo delle navi; questo sparo era comunemente chiamato “il cannone di mezzogiorno”. Sospesa allo scoppio della seconda guerra mondiale, questa tradizione non fu più ripresa.
Si hanno le prime notizie certe di strutture di difesa in questo sito dal 1319, quando vi fu costruito dai Guelfi un castello con “mura e fossi”, raffigurato in illustrazioni quattrocentesche come un recinto di mura che racchiude due torri quadrate. Fu ricostruito una prima volta nel 1530, questa volta come un unico massiccio torrione, che con la costruzione della Mura Nuove, nel 1633, fu integrato nelle stesse ed utilizzato come caserma e deposito di polveri da sparo. Una nuova ricostruzione avvenne nel secolo successivo: nelle illustrazioni dell'epoca appare come formato da due caserme parallele allineate lungo il recinto di una grossa polveriera. All'interno della fortezza a quell'epoca esistevano ancora pochi ruderi dell'antico castello, completamente scomparsi nel rifacimento ottocentesco.
Verso la fine del Settecento numerosi rapporti conservati negli archivi della Repubblica di Genova evidenziano la necessità di onerosi lavori di manutenzione, tra i quali il rifacimento del tetto della caserma, ormai fatiscente.
La caserma principale vista dal cortile interno
Dopo l'annessione della ex Repubblica Ligure napoleonica al Regno di Sardegna, il forte subì una radicale trasformazione tanto da rendere la zona su cui sorgeva una sorta di cittadella fortificata, idonea sia per una difesa delle mura da attacchi esterni sia per controbattere a possibili insurrezioni da parte della popolazione locale.
Le vecchie strutture furono completamente demolite nel 1818 e il forte fu ricostruito in accordo ai nuovi criteri dell'arte militare. A lavori in corso, il progetto fu modificato intorno al 1827: le murature già realizzate e non più previste dal nuovo progetto non furono tuttavia abbattute, ma riutilizzate come terrapieno a difesa della nuova caserma, e sono tuttora visibili. La nuova caserma, costruita intorno al 1830, è divisa in due sezioni: un lungo edificio a due piani che si affaccia sulla via Peralto, dove erano collocati anche magazzini e locali di servizio, tra i quali due grandi forni, ed un altro affacciato sulla Val Bisagno, adibito esclusivamente a camerate. Quest'ultima aveva il tetto a falde, del quale restano solo i pilastri di sostegno.
La caserma sulla Val Bisagno, vista dall'esterno delle mura
Così intorno alla metà dell'Ottocento descrive il Castellaccio lo storico Giuseppe Banchero:
«Questo era dapprima un gran torrione edificatovi dal genovese governo per difesa della città e delle valli, essendo situato sulla cresta dei monti che dividono questa vallata del Bisagno al lato orientale della città. Ne fu ampliata la fabbrica circa il 1818; in seguito fu arricchito di altre opere che lo rendono assai più importante, tanto più per la dominazione che ha sulla città e perché protegge la superior parte della vallata detta del Lagazzo, dove sono situate le fabbriche di polveri ed i magazzini di deposito delle medesime.» |
Durante i moti del 1849, i rivoltosi riuscirono a impossessarsi del forte, da dove spararono colpi di cannone contro i soldati regi. Al volgere degli avvenimenti in favore di questi, che nel frattempo avevano rioccupato la città, gli insorti abbandonarono il forte, che il 10 aprile fu ripreso in consegna dalle autorità militari.
Storia recente
Verso la fine dell'Ottocento il duplice scopo di difesa della città da attacchi esterni o di sedare possibili rivolte popolari era venuto meno. Durante la Prima guerra mondiale nel forte furono reclusi dei prigionieri di guerra austriaci.
Nel 1924 nel forte esisteva già una prima stazione radio, chiamata ITALO RADIO (nominativo morse ICB), che nel 1929 fu assorbita dal ministero delle Poste e Telecomunicazioni con il nome GENOVA RADIO, nominativo tuttora esistente. Già nel 1924 il personale civile addetto alla radio era alloggiato nei locali del forte.
Durante la Seconda guerra mondiale, il 1º febbraio 1945, nel fossato della cosiddetta "Tagliata sud", le Brigate Nere fucilarono sei partigiani; i condannati, già da tempo rinchiusi nel carcere di Marassi, furono prelevati all'alba e condotti al Forte Castellaccio dove ebbe luogo l'esecuzione; la località fu scelta perché all'epoca interdetta ai civili. Il fatto è ricordato da una targa commemorativa nel luogo dell'eccidio. Un'altra targa ricorda altri due partigiani fucilati dai nazifascisti all'interno del forte, sempre nei primi mesi del 1945.
Alcuni locali del forte sono oggi utilizzati come magazzino dall'Istituto Idrografico e altri, da qualche anno, sono affittati ad alcuni privati. La caserma affacciata sulla Val Bisagno versa in stato di completo abbandono, come abbandonata è anche torre Specola.
Il complesso non è liberamente accessibile.
Come arrivare
Il forte è raggiungibile in auto dal centro di Genova seguendo le indicazioni per il Righi e poi, superata la stazione a monte della funicolare proseguendo su via del Peralto, l'antica strada militare, oggi asfaltata; dalla strada una breve diramazione, oggi in cattive condizioni, porta all'ingresso principale del complesso, superato il quale una rampa conduce direttamente alla Torre Specola e quindi, con una conversione a "U", al cortile interno dov'è l'ingresso della caserma, distante circa 250 m dalla torre.
In alternativa è possibile raggiungere il Righi con la funicolare che parte da Largo Zecca, risalendo poi a piedi lungo le mura per qualche centinaio di metri.
Carlo GATTI
Rapallo, 17 dicembre 2020
UNA NOTTE DI TREGENDA
UNA NOTTE DI TREGENDA
M/N VULCANIA
Era la mia quarta traversata atlantica sulla M/n VULCANIA
La mia breve carriera era cominciata sulla piccola cisterna DIENAI quando ero ancora studente al Nautico di Camogli. Era usanza allora “staccare il libretto di navigazione” col grado di “mozzo” durante il periodo estivo; purtroppo finì male perché sbarcai a Bari con l’ASIATICA che nessuno ancora conosceva. Quella pandemia di origine aviaria era stata isolata in Cina nel 1954 e fece due milioni di morti.
Persi 17 kg e se sono ancora qui è per mera fortuna: in quello stesso anno fu preparato un vaccino che riuscì a contenere la malattia.
Persi un anno di scuola, ma non certo l’entusiasmo per la vita che avevo scelto. Mi diplomai e proseguii i miei imbarchi sulla petroliera NAESS COMPANION, sulla M/n SATURNIA sulla M/n MARCO POLO ed infine sulla M/n VULCANIA.
Il REX a New York (dipinto di Marco Locci)
Il MAURETANIA a New York (dipinto di Marco Locci)
L’HOMERIC a New York (dipinto di Marco Locci)
Ero felice perché l’itinerario del transatlantico VUCANIA prevedeva la sosta di 24 ore a New York il giorno di Natale! Ero l’Allievo Ufficiale più invidiato del mondo! Chi é stato nella CITY durante le feste natalizie, sa che alludo ad una atmosfera speciale … Inoltre si trattava del mio penultimo viaggio da Allievo Ufficiale prima di passare 3° Ufficiale dopo il superamento dell’esame di Patentino. Il mio futuro era delineato…
Ma l’argomento di oggi é di ben altra natura, trattandosi più propriamente di quell’atmosfera che ogni tanto trasforma le mie notti in incubi…
Com’è noto ai marinai di tutto il mondo, i cicloni tropicali (uragani) si sviluppano al largo della costa africana vicino a Capo Verde e si muovono verso ovest nel mare Caraibico. Gli uragani possono formarsi da maggio a dicembre, ma sono più frequenti tra agosto e novembre. Le tempeste sono comuni nell'Atlantico del Nord durante l'inverno, rendendo pericolosa la traversata.
Le aree interessate a queste tempeste minacciano zone che hanno un raggio di circa 2.000 km e, per chi fa rotta dall’Europa al Canada, non ha modo di evitarle: se le becca tutte sul fianco sinistro!
Le anziane motonavi SATURNIA e VULCANIA erano molto collaudate per quelle rotte che raramente concedevano agli equipaggi traversate tranquille, nel senso che anche in assenza di depressioni, riservavano lunghe giornate e nottate di navigazione con nebbia, qualche volta in presenza di banchise o iceberg segnalati, e quasi sempre di pescatori che si avventuravano su grandi gozzi al largo di Terranova.
A volte capitava di passargli molto vicino e purtroppo anche d’investirli nonostante le emissioni di segnali previsti dai regolamenti internazionali. Erano quegli stessi pescatori portoghesi che le due navi citate della Italian Line imbarcavano prima della traversata atlantica: una parte a Lisbona e l’altra a Ponta Delgada (Isole Azzorre).
Una storia antica é legata alla pesca del merluzzo sui banchi di Terranova quando entrava in gioco la rivalità tra i pescatori di merluzzo di Gloucester (USA) e Lunenburg (Canada) in gare molto "accese" per arrivare primi sui Grandi Banchi di Terranova onde accaparrarsi i posti migliori. Esiste un film del 1937 (diretto da Victor Fleming con l’attore Spencer Tracy, che vinse l’Oscar per la sua interpretazione) quale trasposizione cinematografica del romanzo “Captains courageous” dello scrittore Rudyard Kipling, che riprende una di queste gare tra due autentiche golette d’epoca, genialmente ripresa dal regista, visione che costituisce oggi un prezioso e irripetibile e originale documento storico. Si racconta che la sequenza abbia strappato ad un vecchio pescatore che sedeva tra gli spettatori il grido: “Ma butè a l’orsa! No vedè che spachè duto!!”
Ancora nei primi anni ’60, quei “grandi marinai” pescavano al bolentino proprio sulle rotte dei transatlantici e quando i loro gozzi erano colmi di merluzzi, ritornavano a terra, trasbordavano il pescato su un brigantino alla fonda dietro un’isola, facevano rifornimenti di viveri e poi ripartivano per il mare aperto.
Ci trovammo nel mese di giugno sul Rio Tejo a Lisbona, quando veniva celebrata la festa dei pescatori. Una processione sul fiume tra canti e bandiere, tra colori e la memoria di tanti pescatori che non fecero più ritorno in Lusitania. Il cardinale della città, in quella suggestiva cerimonia, benediceva il brigantino che partiva per Halifax (Canada) per dare inizio alla Campagna del merluzzo.
Le motonavi VULCANIA a sinistra nella foto, e SATURNIA a destra mentre sono ormeggiate a Ponte dei Mille – Genova
I due transatlantici avevano uno scafo molto speciale; disponevano di alette anti rollio fisse di tipo antiquato, ma gli ingegneri navali degli anni ’20 del secolo scorso, avevano trovato una magica formula per cui non rollavano quasi mai, neppure con un forte mare al traverso, i loro movimenti conoscevano soltanto il beccheggio sull’asse trasversale. Ho avuto modo di conoscere passeggeri americani, anche famosi, che sceglievano queste due unità per compiere una serie di viaggi senza sbarcare, e raccontavano di privilegiare quelle navi per tre motivi: la cordialità degli equipaggi, l’amabilità di una nave che non faceva soffrire e per le godibilissime opere d’arte esistenti a bordo. L’itinerario di quegli anni era il seguente:
Venezia, Trieste, Palermo (o Messina), Napoli, Barcellona, Palma de Majorca, Gibilterra, Lisbona, Ponta Delgada (Azzorre), Halifax (Canada), Boston, New York. Il viaggio di ritorno comprendeva scali negli stessi porti del viaggio d'andata ed anche Patrasso (Grecia) e Dubrovnik (Jugoslavia).
Alette antirollio fisse
Stabilizzatori antirollio per grandi navi moderne
Retractable fin stabilizer on cruise ship MS Rotterdam
Cappella di bordo, é in corso la celebrazione della Messa domenicale. Da sinistra in prima fila: Allievo Ufficiale (A) Carlo Gatti, il 1° Ufficiale Claudio Cosulich, il Commissario Governativo, il Comandante Giovanni Peranovich e il Direttore di macchina.
A bordo del VULCANIA eravamo 4 Allievi ufficiali di coperta, due assegnati alla navigazione e al carico, gli altri due alla segreteria e alla posta diplomatica. Ogni viaggio ci scambiavamo i ruoli anche nelle manovre portuali. Le nostre cuccette, con due letti a castello, si trovavano dietro il ponte di comando sui due lati della nave e disposte nel senso trasversale.
E’ quasi mezzanotte. Il mio compagno di cabina (lato dritto della nave) é appena montato di guardia sul ponte di comando con l’incerata e il sudovest. Sono sveglio, ci salutiamo e già penso alla mia guardia, la “diana” (dalle 4 alle 08) con quel tempaccio in corso insieme al 1° Ufficiale che ad ogni difficoltà mi diceva: "Tegni duo a l'è l'arte ca intra!"
La nave sbatte, vibra e soffre sotto i colpi di mare che arrivano come mazzate sul fianco sinistro. Non riesco ad assopirmi, non per il rollio, ma piuttosto per un movimento della nave che inizia da un breve movimento di rollio sulla dritta, poi sale, si avvita e poi precipita verso il basso per impennarsi con la prora verso l’alto e ricadere velocemente con una panciata fragorosa. Si tratta di un balletto sinuoso e piuttosto ripetitivo che occorre controllare tenendosi ancorati alla difesa della branda per non cadere dalla cuccetta superiore e farsi male…
Avevo letto l’ultimo bollettino meteo e sapevo che la depressione che ci contrastava era vasta e potente, ma non avevo dubbi sulla tenuta della nave: la vecchia signora sapeva il fatto suo… la fama non la regala nessuno…lei se l'era meritata tutta e poi, ce l’aveva sempre fatta nonostante le inevitabili magagne dell'età …
M/N VULCANIA – TEMPESTA IN CORSO NEL NORD ATLANTICO INVERNO 1962
DUE NAVI IN DIFFICOLTA’ FOTOGRAFATE DALLA M/N VULCANIA
Ma ciò che non ci aspettavamo accadde!
Improvvisamente la nave viene colpita da un’onda che sembra sparata dal più potente cannone navale esistente, un’onda mostruosa, urlante e sibilante proprio come una cannonata… O forse abbiamo colpito una mina vagante nell’oceano? oppure siamo entrati in collisione con una altra nave? Penso alla collisione tra l’ANDREA DORIA e la STOCKHOLM di qualche anno prima e mi vengono in mente le immagini dell’affondamento della “signora dei mari”. Sono attimi lunghissimi. Questi pensieri mi martellano in testa nel tentativo di capirne la causa e sono più veloci delle parole che non riesco a pronunciare. Tiro un grosso respiro, cerco di rilassarmi e razionalmente penso ai possibili danni subiti dalla nave sul lato di sopravvento.
Il VULCANIA ha ancora un sussulto, si abbatte sulla dritta ed io mi ritrovo ammucchiato a paratia, con i piedi in testa … Poi, dopo alcuni movimenti inconsulti si raddrizza e si stabilizza. L’ufficiale di guardia ha accostato e si é messo alla cappa con la prua al mare. Anche i giri dei motori sono stati calati al minimo. Suonano le sirene ed i campanelli di bordo… Mi precipito sul ponte di comando e ricevo l’ordine di portarmi insieme al mio Capo Guardia nella Classe Turistica da cui giungono le prime richieste d’aiuto.
Scendiamo di corsa lungo i ponti della nave, indugiamo soltanto qualche minuto… per valutare gli allagamenti sul lato sinistro nei locali più alti a causa di vetrate andate in frantumi e altri danni materiali di poca entità.
Giungiamo infine nella zona della Classe turistica e immediatamente ci rendiamo conto di trovarci nella trincea di una battaglia in corso. Il caruggio centrale lungo circa 70-80 metri é invaso dall’acqua di mare, ma é rosso di sangue. I passeggeri che si reggono in piedi si spostano come automi sotto schock. Le cabine sono aperte e allagate.
Si sentono lamenti, urli e pianti. Il direttore sanitario, il 1° medico di bordo e i cinque infermieri di bordo sono già al lavoro. Il Comandante della nave lancia via interfonico ripetuti appelli ai passeggeri di mantenere la calma rassicurandoli: “é tutto sotto controllo”. Infine invita, in tre lingue differenti, eventuali medici e personale paramedico presenti tra i passeggeri a prestare soccorso in Classe turistica.
Il Comandante in 2° fa sgombrare i passeggeri delle cabine di dritta per far posto ai feriti che sono circa una settantina. Per fortuna, dopo un controllo di tutte le cabine ormai evacuate, non si riscontrano decessi.
Tuttavia i feriti presentano ferite anche gravi alla testa, sul corpo e sugli arti. I tagli sono larghi e profondi.
I più gravi vengono portati nell’ospedale di bordo per tamponare le emorragie, suturare le ferite più gravi e ricomporre le numerose fratture.
In breve tempo, i medici di bordo sotto la regia del Comandante in 2° riescono ad organizzare un piano molto intelligente per isolare i feriti dal resto dei passeggeri e ripristinare la tranquillità e la ripresa della navigazione che, purtroppo, non è immediata in quanto tutte le cabine devono essere riparate per poter sostenere gli urti e le intemperanze di quella depressione atlantica che ci accompagnerà ancora per 3-4 giorni fino all’arrivo ad Halifax (Canada).
MA COS’E’ SUCCESSO?
Quell’onda apocalittica aveva sfondato non solo i vetri robustissimi degli oblò, ma anche le corazza (corazzetta) dello spessore di circa 15 mm. A mezzanotte i passeggeri erano tutti in cabina, molti soffrivano il mal di mare e la cuccetta per loro era il miglior rimedio, mentre invece si é dimostrata una trappola infernale. L’urto di quell’onda altissima non solo frantumò gli oblò e le sue difese, ma mitragliò quelle schegge metalliche e di vetro concentrandole in quei pochi metri quadrati delle cabine martoriando di ferite quei poveri emigranti e pescatori portoghesi.
Per meglio comprendere la causa del disastro, propongo al lettore alcune foto che più di tante parole danno l’idea della forza esplosiva di quella ONDA ANOMALA che all’epoca nessuno chiamava in questo modo…
OBLO’ NAVALE E SUA CORAZZA dello spessore di 15 mm.
OBLO’ APERTO
A destra OBLO’ chiuso con i suoi galletti. A sinistra la sua corazza
OBLO’ chiuso e sigillato con la corazza
La foto sotto (che va opportunamente allargata) é relativa al transatlantico SATURNIA gemello del VULCANIA, in cui sono indicati i ponti della nave sul lato dritto, che corrispondo no perfettamente anche sul lato sinistro, esposto ai colpi di mare di quel viaggio dove si sono verificati i danni maggiori. Il Ponte contrassegnato con la lettera C nel cerchietto rosso, (il secondo dal basso) indica la fila di oblò della Classe Turistica della nave che sono i più vicini alla linea di galleggiamento.
SATURNIA/VULCANIA
Committente: Cosulich Line, Trieste.
Cantiere: Cantiere Navale Triestino (Cantieri Riuniti dell’Adriatico) di Monfalcone, Co. 160
Impostato: 30 maggio 1925.
Varato: 29 dicembre 1925.
Viaggio inaugurale: 21 settembre 1927.
Data fine: 7 ottobre 1965.
Dati tecnici.
Lunghezza: 192,50 mt.
Larghezza: 24,31 mt.
Immersione: 8,53 mt.
Stazza lorda: 23.940 tsl.
Stazza netta: 16.710 tsl.
Propulsione: Due diesel Burmeister & Wain 8 cilindri (840x1500 mm); 24.000 hp; due eliche.
Velocità di servizio: 19,25 nodi.
Velocità massima alle prove: 21,10 nodi.
Capacità d’imbarco nel 1927: 2.197 passeggeri in quattro classi.
Prima classe: 279 passeggeri.
Seconda classe: 257 passeggeri.
Classe Turistica: 309 passeggeri.
Terza classe: 1.352 passeggeri.
Equipaggio: 510 persone.
CONCLUSIONE
Il “ricordo giovanile” che oggi vi ho proposto, non l’ho mai dimenticato, non potevo dimenticare tutto quel sangue versato in quel caruggio e neppure IL GRANDE CUORE di quei medici e infermieri che per quattro giorni, sbattuti dalle onde, non chiusero occhio per rimanere vicino ai loro passeggeri infortunati per portarli vivi a destinazione. Ricordo ancora i loro sguardi stanchi ma luminosi e fieri che sono del tutto simili a quelli che oggi sono in trincea a combattere contro l’ONDA ANOMALA che ha investito il mondo intero ed é ancora più insidiosa perché invisibile e sconosciuta.
Diciamo grazie a medici e infermieri di ogni tempo, a quelli in prima linea e a quelli che lavorano nelle retroguardie. Diciamo grazie alle loro famiglie, che li seguono a distanza e li hanno quasi ceduti in prestito a ospedali e comunità. A breve, si spera, dovremo celebrare quei 200 medici che sono morti per salvare vite umane. Di loro non conosciamo neppure i nomi. Verso di loro abbiamo un debito di riconoscenza infinito! Non dimentichiamoli MAI!
Carlo GATTI
Rapallo, 17 Aprile 2020
CENNI STORICI SUI FORTI GENOVESI
FORTI GENOVESI
CENNI STORICI
PARTE PRIMA
La Genova turistica é tutta da scoprire perché i genovesi amano tenere i loro SEGRETI nell’anonimato. Questa peculiarità tutta ligure, ci porta spesso a fare tappa lungo i suoi itinerari nascosti, poco reclamizzati e quindi sconosciuti, uno dei quali ci porta oggi a visitare i 16 FORTI che le fanno da cornice.
GENOVA è stata, da sempre, epicentro della vita politica e culturale del Mediterraneo per la sua posizione strategica. Per difendere questa posizione Genova si è lungamente dotata di mura, torri e castelli. Della cerchia più interna (e più antica) rimangono pochi tratti di mura, alcune porte e alcune torri medievali. Delle "nuova mura" costruite tra il 1700 e il 1800, invece, rimangono notevolissime testimonianze cancellate dall'espansione della città solo nella parte a mare (in particolare con l'abbattimento del promontorio tra la città e Sampierdarena). In questo percorso, che lambisce e protegge la città, si trovano forti, mura, torri, polveriere ancora in buone condizioni e in un contesto naturale bellissimo e quasi incontaminato per una città così stretta tra il mare ed i monti come è Genova.
ELENCO DEI FORTI: Forte Begato; Forte Belvedere; Forte Castellaccio; Forte Crocetta; Forte Diamante; Forte Fratello Minore; Forte Puin; Forte Quezzi; Forte Ratti; Forte Richelieu; Forte San Giuliano; Forte San Martino; Forte Santa Tecla; Forte Sperone; Forte Tenaglia.
QUADRO STORICO DI RIFERIMENTO AGLI AVVENIMENTI STORICI TRATTATI
L’assedio di Genova (1747) è un episodio della Guerra di Successione austriaca ed ebbe luogo quando l’esercito austriaco, al comando del conte di Schulenberg, provò a conquistare, senza successo, la capitale della Repubblica di Genova. Gli austriaci avevano preso e successivamente perso Genova l’anno precedente, e fecero della conquista della città ligure il loro principale obiettivo militare durante il 1747 prima di prendere in considerazione altre campagne militari contro il regno di Napoli e l’invasione della Francia.
Le forze di Schulenberg raggiunsero la periferia della città in aprile, ma rendendosi conto di non avere forze a sufficienza per lanciare un’offensiva, dovettero attendere fino a giugno l’arrivo di dodici battaglioni di fanteria dei loro alleati del Regno di Sardegna. Questo ritardo permise agli spagnoli e ai francesi di mandare altre truppe in città al comando del duca di Boufflers per rafforzare la guarnigione.
L’avvicinarsi delle forze franco-spagnole al comando del maresciallo Belle-Isle indusse i sardi a ritirarsi, e Schulenberg abbandonò l’assedio accusando gli alleati.
Il fallimento dell’assedio portò a reciproche recriminazioni tra austriaci e piemontesi, ed entrambi andarono a lamentarsi con i loro alleati britannici per il presunto tradimento l’uno dell’altro.
L’Assedio di Genova (1800) svoltosi fra il 6 aprile e il 4 giugno 1800, ha visto contrapporsi la Prima e la Seconda Repubblica Francese contro la Seconda Coalizione per la difesa della città ligure.
La seconda coalizione antifrancese (1799-1802) fu l’alleanza tra numerose potenze europee costituita per strappare alla Francia rivoluzionaria le sue conquiste sul continente e schiacciare la Rivoluzione restaurando l’antico regime.
In Italia, dopo la lunga serie di sconfitte subita dai francesi nell’estate del 1799, gli Austriaci ripararono dietro l’Appenino ligure e il Piemonte. Il Primo Console Napoleone Bonaparte affidò il comando delle forze (circa 40.000 soldati) al generale Massena.
Il 5 aprile Melas attaccò i francesi, questi ultimi respinsero gli austriaci senza troppe difficoltà, ma il secondo attacco rivelò che il primo si era trattato solo di un diversivo, poiché questa volta attaccarono 60.000 uomini divisi in 4 colonne verso Savona per frammentare il già debole fronte francese, mentre l’ala sinistra austriaca occupò Recco e respinse il settore destro fino a Nervi, a Nord Federico di Hohenzollern conquistò il Passo di Cadibona. In 3 giorni la manovra venne completata spezzando in due l’armata d’Italia.
Massena, rendendosi conto di essere stato tagliato fuori e circondato dal nemico, il 10 aprile si asserragliò con i suoi uomini dentro Genova e attese; siccome per mare era impossibile ritirarsi, poiché la Gran Bretagna con una squadra navale bloccò il porto già diverso tempo prima, impedendo quindi ogni tipo di approvvigionamento alla città;
In particolare fu proprio la difficoltà di reperire cibo a mettere in ginocchio il capoluogo ligure.
La città, come già detto, soffriva da diverso tempo a causa dello scarso approvvigionamento di cibo, attenuato in parte dai pochi velieri che riuscirono a entrare in porto prima del blocco navale britannico, dimostrandosi così provvidenziali.
Tuttavia la fame nella città era dilagante, siccome oltre agli 85 mila genovesi si aggiunsero altri 35 mila profughi delle zone vicine, da sommare ai 15 mila soldati di Massena, e gli scarsi approvvigionamenti portati dalle imbarcazioni che fortunosamente riuscirono a entrare nel porto prima del blocco navale. Si ricorda che numerosi Leudi rivieraschi e da Rapallo in particolare, portarono nottetempo provviste alimentari ai genovesi affamati letteralmente sfidando il blocco navale inglese.
Già prima dell’asserragliamento di Massena in città (10 aprile), la squadra navale inglese, guidata dall’ammiraglio Keith, bombardò con i vascelli Cormoran e Camaleon Genova.
La città venne accerchiata anche da terra dalle forze austriache, che per oltre due mesi non fecero passare nessun tipo di approvvigionamento o di informazione in città, fattore che influenzò fortemente le decisioni di Massena.
A questo punto al generale nizzardo non rimase altra scelta che resistere il più possibile nella speranza che l’Armata di Riserva possa giungere in suo soccorso.
A minare il suo tentativo, però, oltre al nemico si aggiunsero anche la carestia e una violenta epidemia.
Organizzò delle cucine all’aperto per chi non aveva mezzi per cucinare dedite alla distribuzione di zuppe vegetali e con dei “buoni” assegnava nominalmente i più bisognosi alle famiglie benestanti affinché gli fornissero l’aiuto necessario per sopravvivere.
Le trattative e la resa
Il 2 giugno, termine di scadenza dato da Napoleone a Massena per l’arrivo delle sue truppe in supporto, quest’ultimo non vedendo cambiamenti si decise a trattare i termini della resa, non sapendo che però Bonaparte aveva già minacciato gli austriaci al punto da far ordinare al generale Ott di sollevare l’assedio, che tuttavia proseguì in seguito alle richieste di quest’ultimo di prolungare la data di ritirata.
Pose però come condizione di non far apparire in nessun punto del trattato la parola capitolazione, minacciando di concludere immediatamente i negoziati in caso contrario.
Inaspettatamente però i nemici si dimostrarono incredibilmente accondiscendenti e disposti ad accettare i termini posti dallo sconfitto, anche perché si era resa necessaria una celere conclusione delle trattative pervia dell’avvicinamento delle truppe del Primo Console.
Il 5 giugno subito dopo l’uscita delle truppe francesi dalla città gli imperiali austriaci vi entrarono sfilando per le vie genovesi.
MAPPE DEI FORTI GENOVESI
LE SENTINELLE DELLA SUPERBA
I forti ottocenteschi sono uno dei simboli della città di Genova. Eppure le loro massicce moli di pietra, alla sommità dei colli erbosi dell’entroterra, sembrano “un altro mondo” rispetto a quello mediterraneo della vicina riviera, che si abbraccia con un unico colpo d’occhio, o a quello metropolitano delle strade e delle case, che ribolle fino alle pendici delle alture…
Questo itinerario inizia e termina nel centro città, fra treni, traffico e musei, ma per gran parte del suo percorso attraversa un ambiente naturale e culturale che è altrettanto genovese del centro storico, delle Strade Nuove Patrimonio dell’Umanità UNESCO e dei grattacieli in vetro e cemento, ma è profondamente diverso nell’aspetto e nella sostanza, talmente diverso che chi non lo conosce fatica a immaginare che possa esistere a così breve distanza – meglio: in così intima unione – con una città di quasi 600.000 abitanti, storicamente ed economicamente legata al mare.
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FORTE SPERONE
Rappresenta il punto chiave delle fortificazioni genovesi ottocentesche ed è situato proprio al vertice delle "Mura Nuove" del 1630. Questa costruzione fu probabilmente inglobata nelle Mura Nuove all'epoca della loro costruzione (1629-1633).
Forte Sperone ha una struttura complessa, su tre distinti livelli ad altitudini diverse. Il primo livello, quello in cui si apre l'ingresso principale, ospita magazzini, locali di servizio e cisterne; al secondo livello vi erano gli uffici e le camere per ufficiali e graduati, al terzo gli alloggiamenti per i soldati. La struttura ospitava una guarnigione di circa 300 soldati, che potevano arrivare a 900 in caso di necessità. L'importanza del forte era testimoniata dalla consistenza dei suoi pezzi d'artiglieria: 18 cannoni di varie dimensioni, nove obici e numerosi pezzi di dimensioni minori.
In epoca napoleonica fu progettata una cortina muraria di "chiusura" verso la città, per la difesa del forte da eventuali sommosse popolari. Questa cortina, nella quale fu inserito il monumentale portale d'ingresso, fu costruita dal Genio Militare Sardo dopo il 1815.
Il portale d'ingresso, sovrastato da uno stemma sabaudo in marmo, è dotato di ponte levatoio, ancora presente con il suo meccanismo di sollevamento.
Durante i moti del 1849 fu occupato per breve tempo dai rivoltosi, i quali tuttavia lo abbandonarono alla spicciolata vedendo gli eventi volgere in favore dell'esercito regio.
Storia recente
Dopo la dismissione delle fortificazioni genovesi, decisa nel 1914 durante la Prima guerra mondiale, nel forte furono ospitati prigionieri di guerra croati e serbi. Dal 1958 al 1981 fu utilizzato come caserma della Guardia di Finanza, e successivamente preso in consegna dal Comune di Genova, che vi ha organizzato manifestazioni culturali nel periodo estivo.
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FORTE CASTELLACCIO
La cinta del forte comprende anche l’ottocentesca Torre della Specola (1817/20) - caratterizzata dalla forma poligonale e dal ricorso all’uso...
Ci occuperemo di questo FORTE nella SECONDA PARTE di questa ricerca che sarà dedicata al rapporto tra il CASTELLACCIO ed alcuni importanti Enti Marittimi.
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FORTE BEGATO
Forte Begato è un'opera fortificata compresa nelle “MURA NUOVE” a difesa della città di Genova, costruita su un vasto pianoro lungo il ramo della cinta difensiva che dal Forte Sperone scendeva lungo il crinale della Val Polcevera.
Il possente complesso del forte, munito di bastioni angolari e cortile centrale é sostenuto da un ampio terrapieno.
Nel 1818 il governo sabaudo su questo sito fece costruire la caserma, i cui lavori di costruzione si protrassero fino al 1830. Tra il 1832 e il 1836 fu completato il recinto bastionato che si affaccia sull'attuale strada, isolando il complesso dalla città.
Durante i moti del 1849 il forte fu occupato dai rivoltosi, che da lì potevano controllare la Val Polcevera attraversata dalla strada di accesso a Genova dei soldati regi. Dal forte i rivoltosi bombardarono i soldati regi che avevano rioccupato la collina di San Benigno e il Forte Tenaglia.
Nei giorni successivi, vedendo gli eventi volgere in favore dell'esercito regio, i rivoltosi abbandonarono il forte, che le autorità militari, prendendolo in consegna dopo la resa del 10 aprile, trovarono vuoto.
Storia recente
Durante la Prima guerra mondiale nel forte furono rinchiusi i prigionieri di guerra austriaci impiegati nelle opere di rimboschimento del monte Peralto.
Durante la Seconda guerra mondiale vi furono approntate delle postazioni contraeree. Nel 1941 un bombardamento aereo inglese distrusse completamente uno dei quattro bastioni. Dopo l’8 settembre 1943 il forte fu occupato dalle truppe tedesche, che lo tennero fino alla fine del conflitto.
Il forte è chiuso al pubblico, e nonostante il suo interesse storico e architettonico, e la costosa opera di restauro, il forte é lasciato a sé stesso. Il giorno 8 ottobre 2015, il Forte è ufficialmente passato di proprietà, dal Demanio Pubblico al Comune di Genova.
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FORTE TENAGLIA (forse Tenaglie)
Forte Tenaglia (208 s.l.m.) è un'opera fortificata risalente al 1633, originariamente inserita nell'andamento delle “Mura Nuove” a difesa della città, sulle alture i Sampierdarena in un crinale dominante sulla Val Polcevera. Deve il suo nome alla particolare conformazione architettonica che assomiglia ad una tenaglia, opera che in architettura militare viene detta “opera a corno”.
Il possente complesso del forte, munito di bastioni angolari e cortile centrale, sostenuto da un ampio terrapieno, fu edificato tra il 1818 e il 1831.
Nel 1747 durante l'assedio austriaco, la linea occidentale delle mura fu rinforzata secondo i dettami dell'ingegnere spagnolo J. Sicre, per poi essere quasi abbandonato fino al 1797 anno di una rivolta antifrancese, in cui nel forte si asserragliarono l'11 luglio, alcuni insorti, sconfitti dalle truppe del generale Dupont. Nel 1914 l'intero sistema difensivo genovese, ritenuto ormai inadeguato, venne abbandonato, passando dal Demanio Pubblico Militare al Demanio Patrimoniale dello Stato. Nel 1917 vi vennero rinchiusi prigionieri di guerra dell'esercito austro-ungarico. Tuttavia all'inizio del Secondo conflitto mondiale l'esercito modificò le vecchie postazioni sull'opera, edificando quattro piazzole per pezzi di contraerea da 88/56, oggi ancora visibili, nei pressi delle quali furono realizzati piccole strutture per il servizio della guarnigione. Dopo l'armistizio dell’8 settembre 1943, il forte passò nelle mani della Wehrmacht, e fu danneggiato da un bombardamento alleato, effettuato per indurre la guarnigione alla resa, che diroccò in parte sulla cortina meridionale.
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TORRE SAN BERNARDINO
Torre San Bernardino (205 m. s.l.m.) situata sulle alture di Staglieno, è una delle torri ottocentesche costruite a difesa del nucleo della città di Genova, la sua costruzione risale intorno al 1832; terminata cinque anni dopo, fu prevalentemente utilizzata come postazione avanzata della vicina porta San Bernardino. Costruita tra il 1820 e il 1825, questa torre in laterizio presenta notevoli affinità con le altre torri di Genova, quali Torre Quezzi e Torre Monteratti, contraddistinta però da una struttura più snella. A metà Ottocento, la torre era utilizzata come "Caserma, Corpo di Guardia e deposito polveri" fino al 1914, quando viene utilizzata tra vari passaggi e concessioni, per diversi scopi, tra cui abitazione civile.
Nel 1934 Torre San Bernardino passa di proprietà del Comune, e attualmente risulta in stato di abbandono.
La torre è strutturata su tre piani, di cui uno interrato adibito a magazzino con una cisterna per l'acqua. Al piano terra sono presenti 3 cannoniere e numerose feritoie, come al primo piano, dove inoltre la cannoniera presenta ancora l'originale inferriata in ferro ancora funzionante.
All'interno della torre sono ancora presenti gli anelli per l'imbrigliamento dei cannoni, la comunicazione ai vari livelli è assicurata da una ripida scala che porta fino al terrazzo del tetto, in cui si nota la lieve pendenza per il reflusso delle acque che incanalate in un canale portava l'acqua nella cisterna sotterranea. Le artiglierie presenti nella torre comprendeva un cannone da 9 pollici BR (Ret), oltre alle varie armi da fuoco portatili.
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PUIN
È uno dei forti meglio conservati tra tutti quelli che componevano il sistema difensivo ottocentesco della città di Genova.
Il Forte Puìn è il primo dei forti fuori le Mura che si incontrano dirigendosi verso nord, dopo essersi lasciati alle spalle Forte Sperone, che in passato rappresentava il limite nord della cinta muraria a protezione della città di Genova. A nord del monte Peralto, proseguendo lungo la dorsale che divide la val Bisagno e la val Polcevera sono presenti alcune fortificazioni isolate che traggono origine dalle fortificazioni campali allestite nel 1747, per fronteggiare le truppe austriache durante la Guerra di successione austriaca, nei punti in cui erano posizionate delle ridotte.
La realizzazione di Forte Puin fu ideata nel 1815 dagli ingegneri del Corpo Reale del Genio Sardo, con lo scopo di riempire il vuoto nel crinale tra lo Sperone e il Forte Diamante. I lavori iniziarono nel 1815, con la costruzione della torre centrale, mentre tre anni dopo fu iniziata la cinta di protezione attorno completata nel 1828. I lavori terminarono nel 1830, ed intorno a metà Ottocento l'opera disponeva di due cannoni campali da 8 cm, due obici lunghi, due petrieri e quattro cannoncini. La torre, a pianta rettangolare, poteva ospitare una guarnigione fissa di 28 soldati, a cui in caso di necessità se ne potevano aggiungere 45 da sistemare "paglia a terra".
Il forte venne poi abbandonato nell'ultimo decennio dell'Ottocento, e "radiato" dalle liste militari del 1908.
Oggi il forte dopo gli interventi degli anni '60 e dopo piccoli interventi da parte del Comune di Genova, è in buone condizioni, ma al momento non è visitabile.
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FRATELLO MINORE
Forte Fratello Minore è un'opera fortificata che si trova sulle alture di Bolzaneto, in Val Polcevera. Il forte sorge sulla vetta del Monte Spino (622 m s.l.m), una delle due collinette che formano la cima del monte popolarmente chiamato “Due Fratelli”, in posizione dominante.
Il Forte Fratello Minore è costituito da una torre quadrata inserita all'interno di un recinto bastionato, originariamente accessibile mediante un ponte levatoio, oggi non più esistente.
La struttura ospitava una guarnigione di 12 soldati, che potevano arrivare a 40 in caso di necessità.
La dotazione d’artiglieria comprendeva tre cannoni da 12 GRC Ret puntati verso la Val Polcevera (dei quali sono ancora visibili i resti delle piazzole), ed un altro più piccolo rivolto verso il Fratello Maggiore. Il magazzino a polvere poteva contenere 1.200 kg di esplosivo.
I rilievi noti come “Due Fratelli” rivestirono un importante ruolo strategico già durante l'assedio del 1747, Queste postazioni erano protette da una linea trincerata, dalla quale si diramavano altre trincee di sbarramento (delle quali restano ancora oggi tracce visibili), per contrastare eventuali sortite delle truppe austriache.
Durante l'assedio del 1800 la zona fu nuovamente teatro di violenti combattimenti tra Francesi e Austriaci, culminati con la battaglia del 30 aprile, quando le truppe francesi del generale Nicolas Soult conquistarono definitivamente queste postazioni; in questi combattimenti rimase ferito Ugo Foscolo, che si era arruolato nella Guardia Nazionale Francese. Il forte Fratello Minore fu costruito a partire dal 1816 e inizialmente, come il Fratello Maggiore e il Puin, era costituito da una semplice torre quadrata. Solo nel 1830 fu decisa l'aggiunta del recinto bastionato.
Alla fine dell’800 il forte, ritenuto non più strategico dalle autorità militari, fu abbandonato, per essere poi utilizzato, durante la Seconda guerra mondiale come alloggio del responsabile della postazione contraerea posizionata sui ruderi del Fratello Maggiore.
Attualmente abbandonato, è liberamente accessibile ma in condizioni di degrado.
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FORTE DIAMANTE
Forte Diamante (667 mt. s.l.m.), posizionato sulle alture tra la Val Polcevera e la Val Bisagno, prende il nome dal monte su cui è stato eretto tra il 1756 ed il 1758 a presidio della posizione dominante terminale della dorsale che si sviluppa a nord dello Sperone. La sua funzione era, insieme ai forti Fratello Maggiore, Fratello Minore e Puin, quella di proteggere lo Sperone (una dei tre settori vulnerabili delle Mura Nuove) come parte di un sistema di difesa avanzata a catena, secondo la logica del campo trincerato
Nella primavera del 1800 il forte, difeso dai francesi della 41ª Demi-Brigade del comandante di Compagnia Bertrand, fu al centro di un violento combattimento quando gli austriaci, guidati dal conte di Hohenzollern, vi avevano posto un feroce assedio; il 30 aprile gli austriaci, con un attacco fulmineo, conquistarono le allora semplici "ridotte" dei "Due Fratelli" e il conte di Hohenzollern intimò la resa al Bertrand con le seguenti parole:
«Vi intimo, Comandante, di rendere all'istante il vostro Forte, altrimenti tutto è pronto ed io vi prendo d'assalto e vi passo a fil di spada. Potete ancora ottenere una capitolazione onorevole. Davanti a Diamante alle 4 di sera. Conte di Hohenzollern.» |
La risposta determinata di Bertrand non si fece attendere:
«Signor Generale, l'onore, che è il pregio più caro per i veri soldati, proibisce imperiosamente alla brava guarnigione che io comando, di rendere il Forte di cui mi è stato affidato il comando, perché possa acconsentire alla resa per una semplice intimidazione, e mi sta troppo a cuore Signor generale, di meritare la Vostra stima per dichiararvi cha la sola forma e l'impossibilità di difendermi più a lungo, potranno determinarmi a capitolare. Bertrand. » |
Il presidio francese del Diamante (circa 250 soldati) non si arrese e grazie all'intervento del generale Nicolas Jean de Dieu Soult, secondo del generale in capo la piazza di Genova (il futuro maresciallo André Massena) partito dal forte Sperone con due colonne di fanteria di linea, gli austriaci furono ricacciati alle posizioni di partenza.
L'ultimo fatto di rilevanza si ebbe nel 1857, quando un gruppo di rivoltosi mazziniani tentò di occupare il forte dopo aver assassinato un sergente, ma l'azione non durò a lungo e il fallimento dei moti che contemporaneamente dovevano aver luogo in città, portò alla fine dell'azione sul Diamante.
La fortificazione fu abbandonata definitivamente dal demanio militare nel 1914 e mai più utilizzata. All'interno del forte, si trovano la caserma a tre piani, utilizzati come cappella, magazzino e camerate per la guarnigione che poteva variare da 40 a 100 uomini. Cinque grandi obici posizionati verso nord, e due cannoncini a difesa dell'ingresso.
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FORTE CROCETTA
Costruito nel periodo napoleonico su di un’area a 157 metri di altitudine, che aveva in precedenza ospitato anche un monastero.
Il forte si trova poco a monte di Belvedere, sulle alture di Sampiedarena. È situato presso il borgo della Crocetta, sull'area già occupata dal seicentesco convento degli Agostiniani e dall'annessa chiesa del Santissimo Crocifisso.
Impulso alla fortificazione del sito, si ebbe nel 1747 durante l'assedio austriaco di Genova. Solo dopo la caduta dell’Impero Napoleonico, gli inglesi che per un breve periodo occuparono la città, piazzarono sull'altura dei pezzi d’artiglieria rivolte verso la foce del torrente Polcevera. Nel 1849 durante i moti popolari, la fortificazione fu adibita a carcere per i rivoltosi catturati dai soldati del generale La Marmora, in seguito liberati, ma non prima di aver subito il terrore dell'estrema condanna.
Dismesso dal demanio militare nel 1914 e sgombrato dei pezzi d'artiglieria inviati al fronte, a varie riprese fu abitato fino al 1961, e fu anche usato come rifugio per sfollati durante il Secondo conflitto mondiale.
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FORTE BELVEDERE
114 metri di altitudine, in una zona già precedentemente fortificata presso il Santuario del Belvedere. Importanza strategica, questo sito, la dimostrò anche nell'assedio del 1747, dove la sistemazione di due ridotte con pezzi d'artiglieria, bastarono a resistere all'urto dell'attacco austriaco. Attacco che l'ingegner de Sicre contrastò con uno sbarramento d'artiglieria fuoco contro fuoco con quello della batteria di Coronata, piazzata sul versante opposto della val Polcevera, tenuta dagli austro-piemontesi.
La posizione fortificata del Belvedere dimostrò la sua utilità il 22 aprile 1800, quando due battaglioni francesi mossero per attaccare la colonna austriaca del Reggimento "Nadascki", le cui avanguardie si erano spinte fino a raggiungere il ponte levatorio della Lanterna.
Nel 1815 dopo la caduta dell’Impero Napoleonico, e l'annessione della Liguria al Regno Sabaudo, iniziarono i lavori per la sua realizzazione. L'opera è stata completata intorno al 1827.
Nel 1914, in seguito alla dichiarazione di Genova "città aperta", le strutture militari furono dismesse e i pezzi d'artiglieria inviati al fronte. Durante il Ventennio Fascista, i locali della Batteria Belvedere Superiore furono utilizzati come "camere di punizione", come testimoniano le scritte e i disegni dei prigionieri. Durante la Seconda guerra mondiale, il forte fu armato nuovamente, con quattro cannoni contraerei da 76/,45 poi nel 1943 il complesso fu occupato dai tedeschi che lo tennero fino alla conclusione del conflitto.
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FORTE RICHELIEU
Il Forte, che sorge sul colle dei Camaldoli a 415 metri di altitudine.
Nel 1747 è affidato all'ingegnere dell'esercito di Spagna J.Sicre. Il 16 novembre dello stesso anno i lavori iniziarono, e per decreto il ridotto fu al Maresciallo Armand du Plessis de Richelieu e assunse il nome di "Forte Richelieu". Il sito, che rivelò la sua importanza strategica durante l'assedio austriaco del 1747, fu quindi dotato di una fortificazione bastionata a pianta rettangolare in cui collocare delle artiglierie.
Nel 1809, in pieno dominio francese, il complesso subì l'ampliamento del perimetro in larghezza, con la ricostruzione delle cortine laterali, il rialzo di tutta la cinta bastionata e l'ampliamento del bastione di ponente con la ricostruzione della cortina di collegamento con l'altro bastione.
A metà Ottocento il forte fu armato con sette cannoni da 16 centimetri, un cannone "campale" da 8, cinque obici lunghi ed otto cannoncini, e poteva ospitare circa ottanta soldati.
Nel 1849 durante i fervori dei moti rivoluzionari, il forte era occupato da 16 militi della Guardia Nazionale che presidiarono da soli la fortezza;
Storia recente
Nei primi del Novecento l'opera fu presidiata da un distaccamento di fanteria, e durante la Grande Guerra utilizzata, analogamente ai forti vicini, come carcere per i prigionieri di guerra austriaci.
Dal 1959 l'accesso è precluso al pubblico in quanto fu installato al suo interno un ripetitore RAI -tutt'oggi ancora presente ed operativo.
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FORTE SANTA TECLA
I forti si trovano alle spalle dell’ospedale di San Martino
Costruito nel XVIII secolo a 180 metri sul livello del mare, nel luogo dove sorgeva l’oratorio di Santa Tecla, da cui prende il nome.
Nello spiano dove oggi sorge il Forte, esisteva una chiesetta omonima risalente all'XI secolo e nell'anno 1339 appartenente al Doge di Genova Simon Boccanegra. La costruzione del Forte vero e proprio fu pianificata nell'ambito della più vasta opera di fortificazione della città in opposizione agli assedi austriaci. Così nel 1747 il De Sicre riferiva:
«"L'opera che si propone è un quadrato di trenta "toises" di poligono interno, difeso da due fronti di opera a corno che sarà dalla parte verso i Camaldoli [...]; quest'opera secondo i miei calcoli che ho già presentato alla Ec. Giunta, potrà costare cento quattordicimila lire in moneta di Genova, con poca differenza".» |
Durante il 1800, il Forte era uno dei contrafforti a difesa del settore orientale della città, perché utile alla difesa del perimetro di Albaro, del quartiere di San Martino, della Madonna del Monte e perché ben collegato al Forte Richelieu.
Nel 1849 durante i moti popolari il Forte fu occupato, come il vicino Forte Richelieu, da insorti e senza colpo ferire fu riconquistata dalle Regie truppe in pochi giorni, come tra l'altro avvenne per Forte Richelieu.
La fortificazione fu poi utilizzata occasionalmente da reparti militari fino alla prima metà del Novecento, durante la Grande Guerra, i locali del Forte furono adibiti a carceri per prigionieri austriaci.
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FORTE QUEZZI
Edificato nel XVIII secolo, a 289 metri sul livello del mare, restaurato nel XIX secolo, danneggiato durante la seconda guerra mondiale, è abbandonato.
Forte Quezzi (285 m.s.l.m.) è un forte che domina parte della val Bisagno e quella di Quezzi. È prossimo ad un altro forte Monteratti.
L'ideazione di un forte sulle alture orientali del Bisagno avvenne intorno al 1747, quando la città di Genova l'anno prima fu minacciata dall'avanzata dell'esercito austro-piemontese arrivato ad assediare le alture del vicino monte Ratti, sopra l'abitato di Quezzi.
Dopo l'annessione di Genova al Regno di Sardegna nel 1814, l'obiettivo era quello di impedire al nemico di inoltrarsi nella valle del Bisagno, per questo scopo.
Una relazione militare del 1830 analizzò la condizione del Forte, che venne considerato di scarsa importanza, in quanto in "cattivo stato", e in quanto "la sua posizione non pare essere di grande utilità nella difesa; converrà lasciarlo cadere, e perciò non si faranno più riparazioni."
Storia recente
Durante la Seconda guerra mondiale il primo piano fu demolito per far posto ad alcune postazioni di artiglieria contraerea, armate con sei cannoni da 76/45; che insieme ad altre postazioni lungo il crinale sul versante dell'abitato di Quezzi erano parte della difesa contraerea della città.
Al termine del conflitto il forte fu completamente abbandonato, e depredato di ogni cosa, oggi è un cumulo di rovine lasciate a sé stesso, con mura crollate, rimaste riconoscibili solo quelle perimetrali, e fa da ricovero per greggi.
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FORTE RATTI o MONTERATTI
Il Forte Monteratti o Forte Ratti (560 metri sul livello del mare) è una caserma militare di Genova edificata tra il 1831 ed il 1842 dal Governo Sabaudo per difendere, per l'appunto, il rilievo "Monte Ratti", posto alle spalle dei quartieri genovesi di Marassi e Bavari, da eventuali assedi del nemico che avrebbe potuto, da lì, dirigersi indisturbato verso gli allora piccoli borghi di Sturla, Albaro, e San Martino (oggi quartieri di Genova), da cui puntare verso il capoluogo.
Nel giugno del 1747 Genova fu assediata dagli austriaci, che conquistarono e occuparono il Monte Ratti nonostante la rapida costruzione di ridotte e accampamenti a difesa del rilievo. Riconquistata la posizione dai genovesi il mese successivo, per sollecitazioni del Duca di Bissj e poi del Duca di Richelieu, fu approvata la delibera per la costruzione di opere campali sul monte Ratti, affidata all'impresario De Ferrari.
Monte Ratti fu al centro di un altro assedio nel 1800, sempre da parte dell'esercito austriaco, che conquistò facilmente la ridotta, poi riconquistata il 30 aprile dello stesso anno dai francesi (che allora estendevano il loro dominio anche sulla città di Genova), che costrinsero alla resa un battaglione di 450 austriaci.
Nel 1819, dopo l'annessione della Liguria al Regno Sabaudo, fu decisa, per la difesa del monte, la costruzione di due torri difensive a pianta circolare; entrambe non furono terminate, anche se i loro resti sono ancora ben visibili.
Tra il 1831 e il 1842 vennero gettate le basi per la costruzione di una snella caserma che si estendesse per quasi tutti i 250 m di lunghezza dello spiano sovrastante l'abitato di Quezzi. Fu realizzato quindi il Forte Monteratti, che nella sua costruzione inglobò la preesistente torre, divenuta parte integrante della struttura difensiva. La facciata del forte è diretta verso la città mentre sul retro erano collocate le artiglierie puntate verso la val Bisagno.
Storia recente
Durante la Grande Guerra il Forte fu usato come prigione per i coatti austriaci. Durante il Secondo conflitto mondiale questa postazione contraerea fu utilizzata prima dal Regio Esercito e, dopo l’8 settembre 1943 da reparti della Wehrmacht.
FONTI:
I FORTI DI GENOVA - Aldo Carmine - Sagep Editrice
I QUARTIERI DI GENOVA ANTICA - Giulio Miscosi - Tolozzi Editore
STORIA DLLA REPUBBLICA LIGURE - Antonino Ronco - Sagep Editrice
STORIA D'ITALIA DAL RISORGIMENTO AI NOSTRI GIORNI - Sergio Romano -Longanesi
Ricerca a cura di:
Carlo GATTI
Rapallo, 10 Dicembre 2020