NEL NOME DEI CICALA…

NEL NOME DEI CICALA…

Fabrizio De André scrisse una famosa canzone ispirandosi ad un personaggio della famiglia

CICALA

Cicala, originaria della Germania furono presenti a Genova dall’893. Divenne ben presto una famiglia patrizia, le cui prime memorie si fanno risalire all'anno 924, quando sarebbe passata da Lerici a Genova.



E' leggendaria tradizione che, avendo sorvolato il capo di tal Pompeo di questa stirpe uno sciame di cicale quand'egli era per attaccare coi suoi Genovesi i Pisani, conseguita la vittoria, volle celebrare il prodigio dipingendo quegli insetti sullo scudo e assumendone il nome.


Venne conservato lo stemma con le cicale fino al 1432 quando il re di Polonia concesse a Giobatta Cicala in premio per le sue vittorie contro i Tatari l'uso del proprio stemma rosso con aquila coronata d'argento. Nel 1528, a seguito della riforma voluta da Andrea Doria, formarono il 7° Albergo*.

*Albergo - Nome che nel Medioevo servì a designare consorterie di famiglie nobili, in particolare a Genova. Qui l'ordinamento aristocratico stabilito da Andrea Doria nel 1528 fissò a 28 il numero degli Alberghi. (che erano 74 nel 1414); fino al 1576, le famiglie nobili presero tutte cognome dall'Albergo.

Questa famiglia, una delle consolari di Genova, divenne importante per i vasti commerci, viaggi e navigazioni importanti, per le armi, per le lettere, per le cariche civili ed ecclesiastiche, non solamente a Genova, anche in moltissimi altri paesi d'Italia e all’estero: Lerici, Ventimiglia, Albenga, Piacenza, Roma, Napoli, Aquila, Lecce, Cosenza (1391) in Messina, in Lentini (nobile 1458), Palermo e poi in Turchia e in Persia.

Uno dei rami passati nel Regno di Napoli fu a Genova sin dal X secolo. Vincenzo fu avventuriero a bordo delle galee di Giacomo Grimaldi. I Cicala o Cigala, dal XII secolo, erano presenti nella politica cittadina della Repubblica di Genova. Guglielmo fu tra i primi consoli tra il 1155 ed il 1161.  Nel corso del secolo successivo la famiglia dette altri uomini di governo, tutti esponenti ghibellini.  Le case dell'Albergo erano situate tra la Cattedrale di San Lorenzo di Genova ed il mercato di San Pietro in Banchi.

Nei secoli XIV e XV, i Cicala si concentrarono nei commerci internazionali e sull'amministrazione dei domini orientali.

Figura di spicco fu Meliaduce Cicala, tesoriere di Papa Sisto IV, che destinò 5.000 lire al Banco di San Giorgio nel 1481, da impiegare per le doti delle fanciulle povere di Genova.

Inoltre, nominò erede universale la Camera Apostolica con l'obbligo di istituire l'Ospedale di San Giovanni Battista dei Genovesi, destinato all'assistenza dei connazionali che si trovavano nell'Urbe.

I Cicala entrarono a far parte delle famiglie nobili vicine al Cardinale Giovanni Battista Cibo, salito al Soglio Pontificio nel 1484 con il nome di Innocenzo VIII ricevendone benefici ed onori.

Come si è già visto, la famiglia si diramò in numerose città del Mezzogiorno d’Italia tra cui Lentini, Messina, Lecce e Napoli, ove fu aggregata ad uno dei Sedili di Napoli*, quello di Portanuova.

*I Sedili (o Seggi o Piazze) erano delle istituzioni amministrative della città di Napoli i cui rappresentanti, detti gli Eletti, dal XIII al XIX secolo, si riunivano nella Chiesa di San Lorenzo Maggiore per cercare di raggiungere il bene comune della Città. A cinque di essi avevano diritto di partecipare i nobili, mentre il resto dei cittadini era aggregato nel sesto seggio, quello del popolo.

Cronistoria


 

ZIGALA - GASSA - CAPITANO DEL MARE

 

Sulla rotta tra Genova e Istanbul si giocò, nel ‘500, il destino dei Cicala, del padre Vincenzo e del figlio Scipione, entrambi corsari ma su fronti contrapposti. Discendente da una nobile famiglia di origini germaniche, presente a Genova sin dal X secolo, Vincenzo fu avventuriero a bordo delle galee di Giacomo Grimaldi al soldo dell’ordine Gerosolimitano*, poi al servizio di Muley Hassan, bey di Tunisi, contro il feroce Barbarossa.

Conquistati i gradi di capitano e la fama di validissimo uomo di mare, nel 1538 Cicala partecipò alla presa di Castelnuovo, alle bocche di Cattaro, in Montenegro, spedizione dalla quale tornò a Genova con una prigioniera d’eccellenza, la figlia di un nobile musulmano che fece battezzare con il nome di Lucrezia e dalla quale ebbe il figlio naturale Scipione, destinato a calcare le sue orme. Messosi finalmente in proprio e diventato corsaro per conto dei genovesi e dei siciliani, Cicala interpretò la guerra sul mare con eccessiva disinvoltura: spesso si lasciava andare a episodi di pura pirateria, facendo schiavi a centinaia e attaccando, nell’Egeo, praticamente ogni natante che gli venisse a tiro senza curarsi della bandiera che issava.

Imbarcatosi con il figlio Scipione per raggiungere la Spagna, nel 1561 venne catturato dagli uomini di Uccialì presso le Egadi, condotto a Tripoli e poi a Istanbul alla corte del Sultano. Qui riuscì, pagando un salatissimo riscatto, ad acquistare la propria libertà ma non quella di Scipione, che durante la prigionia, forse convinto dalle lusinghe del Sultano che lo voleva tra i suoi favoriti, o perché pensava così di poter salvare la vita al padre, abiurò la fede cristiana e abbracciò l’Islam con il nome di Cigalazade Yusuf Sinan Pascià. Lo smacco fu insopportabile per il vecchio corsaro genovese, che disconobbe il figlio. Ma che sia stata una libera scelta o un’imposizione, l’abiura concesse a Scipione una carriera folgorante, tanto da essere nominato per ben 2 volte Grand’Ammiraglio della flotta musulmana e perfino Gran Visir, di fatto il primo ministro dell’impero. Nonostante avesse indossato il turbante, Scipione Cigala dimostrò di essere un corsaro degno del suo illustre e cristianissimo padre, ma un talento politico nettamente superiore.

*Ordini gerosolimitai: Gli ordini gerosolimitani, o gerosolomitani, sono quegli antichi ordini religiosi cavallereschi nati nel periodo delle crociate lanciate dalla Chiesa cattolica per liberare il Santo Sepolcro dal controllo dell'Islam, inizialmente nel regno di Gerusalemme.

Personalità - Sintesi

· Guglielmo, nel secolo XII, fu più volte console a Genova  e più precisamente negli anni 1152, 1155, 1157, 1161, 1165 ed Ambasciatore presso Federico Barbarossa  nel 1158.

· Lanfranco Cicala o Cicala (Genova, 1200 circa-1258) figlio di Gerolamo, prese parte alla vita politica della Repubblica di Genova)  in qualità di giudice prima di dedicarsi alla poetica. Fu tra i massimi poeti genovesi del XIII secolo in lingua provenzale antica.

· Giovanni Battista Cicala Zoagli (Genova 1486-Genova 1566) nel 1530 rientrò a Genova dopo numerose missioni in Mediterraneo per conto della Repubblica di Genova. Nel 1528, la sua famiglia, Zoagli, si era iscritta    nell’Albergo dei Nobili genovesi dei Cicala o Cigala, assumendone il nome. Nel 1537 fu nominato Governatore di Corsica per mandato del Banco di San Giorgio e successivamente Ambasciatore presso la corte papale di Papa Paolo III.  Nel 1561  fu elevato a Doge, sessantatreesimo nella carica.

· Vincenzo Cicala (Genova,1504-Istanbul,1564) o più propriamente Visconte Cicala condottiero e corsaro genovese. Al servizio di Andrea Doria, partecipò a numerose battaglie e conquiste in tutto il Mar Mediterraneo. In proprio, con la patente di corsaro riconosciutagli dai genovesi e dai siciliani, imperversò sul mar Egeo depredando navi che non fossero genovesi. Mercenario, poi, al soldo dei Gonzaga  e successivamente dei Cavalieri di Malta,  fu infine sconfitto e catturato dagli Ottomani.  Morì a Pera, Istanbul nel 1564.

· Suo figlio Scipione Cicala (Messina, 1552- Diyarbakir, 1605) nel 1561, in uno scontro alle isole Egadi (Marettimo) tra la flotta della Repubblica di Genova  e quella turca di Dragut, fu preso prigioniero con il padre e condotto ad Istambul.  Successivamente si convertì all’Islam e come giannizzero fece carriera nell'esercito ottomano, elevato alla carica di GRAN VISIR e Serraschiere del Sultano  con il nome di:

Sinan Capudan Pascia'

 

LINK - LIBRO D’ORO DELLA NOBILTA’ MEDITERRANEA

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Ed eccoci a Fabrizio De André

A ME ZENA



Nel 1984 esce l’album capolavoro in lingua genovese di Fabrizio De Andrè “Creuza de ma”.

Sette tracce che, fondendo in maniera irripetibile e magistrale suoni e parole, celebrano Genova, il mare e le culture del Mediterraneo.

Fra queste canzoni emerge da un lontano passato la storia del nostro nobile concittadino Scipione Cicala che, imprigionato dai turchi, ne divenne condottiero e corsaro fino ad ottenere il massimo degli onori possibili per un infedele, ovvero il titolo di Pascià.

“E questa a l’è a ma stöia, e t’ä veuggiu cuntâ”…

“Sinan Capudan Pascià” racconta appunto le vicende del genovese Cicala (“sinan”, dato che in turco ottomano antico Genova si dice “Sina”, significa genovese) che fu catturato nel 1560 a bordo della nave del padre Vincenzo dopo la disfatta della battaglia di Gerba.

Nei pressi dell’isola tunisina ebbe luogo infatti lo scontro che permise ai Turchi di riprendere il sopravvento nel Mediterraneo dopo che per quasi 50 anni Andrea D’Oria vi aveva imposto la propria legge.

In quell’occasione il corsaro Dragut aveva sconfitto la flotta cristiana da pochi anni ereditata, insieme al titolo di Admiral Mayor spagnolo, dal nipote Gian Andrea.

Secondo alcune interpretazioni a quasi 94 anni Andrea si spense nel suo palazzo, corroso dai dolori e soprattutto dalla delusione per la notizia della perdita delle sue invitte galee.

Non tutti gli storici però concordano su tale antefatto: per alcuni invece Sinan sarebbe stato catturato da Dragut non nei pressi dell’isola tunisina, ma al largo di Marettimo, alle Egadi, mentre con il padre Vincenzo veleggiava verso la Spagna. Era il 18 marzo del 1561 e Scipione aveva appena 17 anni.

Quale che sia la versione corretta di certo il giovane Scipione e il padre Vincenzo vennero catturati entrambi e tradotti prigionieri ad Instanbul.

Vincenzo pagò il proprio riscatto e venne liberato ma, per carenza di fondi, non quello del figlio. Fu così che Scipione per non finire ridotto in schiavitù, legato a qualche banco di voga a remare, abiurò la propria fede e si arruolò nel corpo scelto dei Giannizzeri.

Per via di questo suo opportunistico cambio di campo religioso, venne disprezzato e battezzato dai Cristiani “rénegôu”:

“E digghe a chi me ciamma rénegôu

che a tûtte ë ricchesse a l’argentu e l’öu

Sinán gh’a lasciòu de luxî au sü

giastemmandu Mumä au postu du Segnü”.

Ma Scipione bestemmiando Maometto al posto del Signore fece presto carriera dimostrando coraggio e abilità nautiche salvò la vita ad un importante e potente Bey (nobile ottomano).

Le sue vicende incrociarono con alterne fortune i sultanati di Solimano I il Magnifico, Selim II, Murad III e Maometto III.

Cicala si distinse in numerose scorribande piratesche lungo le coste del sud in generale e della Calabria in particolare fino ad ottenere il massimo dei riconoscimenti dal Sultano Maometto III: Sinán Capudán Pasciá, cioè “il genovese grande ammiraglio della flotta ottomana”.

Cağaloğlu Sinan Kapudan Paşa conosciuto anche per assonanze fonetiche come Sinan Bassà diventerà persino per breve tempo Gran Visir e Serraschiere del Sultano di Costantinopoli.

Teste fascië ‘nscià galéa

ë sciabbre se zeugan a lûn-a

a mæ a l’è restà duv’a a l’éa

pe nu remenalu ä furtûn-a

Teste fasciate sulla galea

le sciabole si giocano la luna

la mia è rimasta dov’era

per non stuzzicare la fortuna

intu mezu du mä

gh’è ‘n pesciu tundu

che quandu u vedde ë brûtte

u va ‘nsciù fundu

in mezzo al mare

c’è un pesce tondo

che quando vede le brutte

va sul fondo

intu mezu du mä

gh’è ‘n pesciu palla

che quandu u vedde ë belle

u vegne a galla

in mezzo al mare

c’è un pesce palla

che quando vede le belle

viene a galla

E au postu d’i anni ch’ean dedexenueve

se sun piggiaë ë gambe e a mæ brasse neuve

d’allua a cansún l’à cantà u tambûu

e u lou s’è gangiou in travaggiu dûu

E al posto degli anni che erano diciannove

si sono presi le gambe e le mie braccia

da allora la canzone l’ha cantata il tamburo

e il lavoro è diventato fatica

vuga t’è da vugâ prexuné

e spuncia spuncia u remu fin au pë

vuga t’è da vugâ turtaiéu

e tia tia u remmu fin a u cheu

voga devi vogare prigioniero

e spingi spingi il remo fino al piede

voga devi vogare imbuto mangione

e tira tira il remo fino al cuore

e questa a l’è a ma stöia

e t’ä veuggiu cuntâ

‘n po’ primma ch’à vegiàià

a me peste ‘ntu murtä

e questa è la mia storia

e te la voglio raccontare

un po’ prima che la vecchiaia

mi pesti nel mortaio

e questa a l’è a memöia

a memöia du Cigä

ma ‘nsci libbri de stöia

Sinán Capudán Pasciá

e questa è la memoria

la memoria del Cicala

ma sui libri di storia

Sinán Capudán Pasciá

E suttu u timun du gran cäru

c’u muru ‘nte ‘n broddu de fàru

‘na neutte ch’u freidu u te morde

u te giàscia u te spûa e u te remorde

e sotto il timone del gran carro

con la faccia in un brodo di farro

una notte che il freddo ti morde

ti mastica ti sputa e ti rimorde

e u Bey assettòu u pensa ä Mecca

e u vedde ë Urì ‘nsce ‘na secca

ghe giu u timùn a lebecciu

sarvàndughe a vitta e u sciabeccu

e il Bey seduto pensa alla Mecca

e vede le Uri su una secca

gli giro il timone a libeccio

salvandogli la vita e lo sciabecco

amü me bell’amü

a sfurtûn-a a l’è ‘n grifun

ch’u gia ‘ngiu ä testa du belinun

amü me bell’amü

amore mio bell’amore

la sfortuna è un avvoltoio

che gira intorno alla testa dell’imbecille

amore mio bell’amore

a sfurtûn-a a l’è ‘n belin

ch’ù xeua ‘ngiu au cû ciû vixín

e questa a l’è a ma stöia

e t’ä veuggiu cuntâ

la sfortuna è un cazzo

che vola intorno al sedere più vicino

e questa è la mia storia

e te la voglio raccontare

‘n po’ primma ch’à a vegiàià

a me peste ‘ntu murtä

e questa a l’è a memöia

a memöia du Cigä

ma ‘nsci libbri de stöia

Sinán Capudán Pasciá.

un po’ prima che la vecchiaia

mi pesti nel mortaio

e questa è la memoria

la memoria di Cicala

ma sui libri di storia

Sinán Capudán Pasciá

E digghe a chi me ciamma rénegôu

che a tûtte ë ricchesse a l’argentu e l’öu

Sinán gh’a lasciòu de luxî au sü

giastemmandu Mumä au postu du Segnü

E digli a chi mi chiama rinnegato

che a tutte le ricchezze all’argento e all’oro

Sinán ha concesso di luccicare al sole

bestemmiando Maometto al posto del Signore

intu mezu du mä gh’è ‘n pesciu tundu

che quandu u vedde ë brûtte u va ‘nsciù fundu

intu mezu du mä gh’è ‘n pesciu palla

che quandu u vedde ë belle u vegne a galla

in mezzo al mare c’e un pesce tondo

che quando vede le brutte va sul fondo

in mezzo al mare c’è un pesce palla

che quando vede le belle viene a galla.

A Istanbul il prestigio dei genovesi è testimoniato non solo dal quartiere Galata con relativa torre simbolo tuttora della città ma anche dalla contrada che ancora oggi, portandone il nome, celebra il nostro eroe:

Cağaloğlu (poiché oglu significa figlio, il figlio di Cigala).

Carlo GATTI

Rapallo, Agosto 2021



NAVE CIVETTA "OTTAVIA" - CESARE ROSASCO, UN EROE DA RICORDARE

NAVE CIVETTA “OTTAVIA”

 

di Ernani ANDREATTA

UN VELIERO DEI GOTUZZO IMPIEGATO COME

“NAVE CIVETTA”

DURANTE L’ULTIMA GUERRA MONDIALE


1921 – Varo dell’OTTAVIA

Sopra: il brigantino goletta OTTAVIA varato il 2 Aprile 1921. Da sinistra si riconoscono Colomba, Adele e Giuseppina (detta “Zia Pippa”) Gotuzzo, il Parroco di Bacezza Don Pace e, sulla destra ben visibile grazie al colletto bianco, Eugenio “Mario” Gotuzzo.


La folla sull’OTTAVIA poco prima del varo. L’armatore di Viareggio Luigi Guido Tomei l’aveva voluta con lo scafo foderato in metallo giallo. Nel 1936 fu installato un motore ausiliario, ed il 24 Giugno del ’40 venne requisito dalla Regia Marina che lo adibì alla vigilanza foranea con la sigla V4 e quindi alla caccia antisommergibile con la sigla AS91. Dalle 15 alle 16 del 5 Marzo ’42, uscito da Cefalonia, ingaggiò battaglia con un sommergibile nemico: ripetutamente colpito affondò ad 1 miglio da Ortholinthia.


L’OTTAVIA stazzava 259 tonn. Ed era stato ordinato dall’armatore G. Partiti. Qui è ritratto di prora, mentre alla sua destra sta nascendo un altro veliero: si tratta con tutta probabilità del FIDENTE.

L’Ottavia era in principio un veliero da carico, un brigantino goletta di 259 tsl, lungo 30,7 metri, largo 8,1 e pescante 3,99. Era stato costruito nel cantiere di Eugenio Gotuzzo di Chiavari nel 1921 (il varo era avvenuto il 2 Aprile di quell’anno, il completamento prima della fine di quel mese), ed apparteneva agli armatori viareggini Luigi Tomei e Duilio e Giuseppe Partiti, che lo avevano iscritto con matricola 535 al Compartimento Marittimo di Viareggio. In precedenza, fino al 1930, era appartenuto all’armatore S. Bentivoglio D’Aragona, anch’egli viareggino. Nel 1937 l’Ottavia era stato sottoposto a lavori di rimodernamento: era stato installato a bordo un motore Humboldt-Deutztmotoren a tre cilindri da 32 HP nominali, fabbricato a Colonia, facendone un motoveliero (in grado di raggiungere una, non grande, velocità di 5,7 nodi); lo scafo, in metallo sin dal varo, era inoltre stato allungato a 37,7 metri ed allargato a 8,3 metri, e la stazza lorda e netta erano diventate rispettivamente di 259 tsl e 204 tsn.

 

L’OTTAVIA è in acqua. Notare anche qui la grande folla accorsa per assistere all’affascinante avvenimento.

Il 24 giugno 1940, due settimane dopo che l’Italia era entrato in guerra, l’OttaviaV4 nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato, facendone una vedetta foranea. In seguito la sua classificazione venne mutata: divenne cacciasommergibili, con la sigla AS 91, e fu dotato di idrofoni ed armato con cannoni da 102 mm, mitragliere contraeree da 13,2 mm e tramogge per bombe di profondità. Era un armamento ben superiore a quello, assai modesto, della maggior parte dei cacciasommergibili ausiliari della Regia Marina: l’Ottavia, infatti, non doveva essere solo un “semplice” cacciasommergibili, ma anche una «nave civetta», unità antisommergibili potentemente armata che si celava sotto l’apparente aspetto di un innocuo motoveliero. I sommergibili nemici, non volendo sprecare un siluro per un bersaglio così piccolo, ed aspettandosi una reazione scarsa od inesistenti, sarebbero emersi per attaccarlo col cannone; ed a questo punto si sarebbero trovati sotto il tiro delle armi di bordo. Cannoni e mitragliere dell’Ottavia, infatti, erano adeguatamente camuffati.

Il servizio come nave civetta ebbe inizio nel settembre 1941. Dapprima l’OttaviaCatello Amendola, stabiese. Questi scriveva orgogliosamente, in una lettera a casa: «Sono stato incaricato dal Ministero ad assumere il comando di una nave ausiliaria, e precisamente di un motoveliero da 560 tonnellate avente un equipaggio di 55 persone, e dei nuovi mezzi di caccia antisommergibile, che sono per la prima volta impiegati in tutte le Marine del mondo [in questo, bisogna dirlo, Amendola stava piuttosto esagerando, forse per impressionare i parenti]. È una specie di mezzo di ascolto con molte probabilità di successo e nessuna di salvezza. Sono contentissimo sotto tutti i punti di vista, prima perché non dipendo da nessun fesso, e poi anche per la soddisfazione personale. Le mie missioni oscillano da un minimo di 15 giorni ad un massimo di 30. La base è sempre La Spezia». Nel suo giovanile entusiasmo, Amendola aggiungeva con una certa ingenuità: «Non so ancora per il momento quando comincerò a battere il mare, però tenetelo in conto che alla prima missione, darò prova della mia abilità e quando sentirete dal bollettino che una nostra unità ha affondato un sommergibile inglese, questa unità è la mia».

Agli inizi del 1942, l’Ottavia fu trasferito in Mar Ionio. Il comandante Amendola si era improvvisamente ammalato, pertanto lo sostituì il guardiamarina milanese Giovanni Fioretti.

Alla fine, lo stratagemma della nave civetta funzionò, ma solo per la prima parte. Alle 9.15 del 5 marzo 1942, infatti, il sommergibile britannico Thorn (capitano di corvetta Robert Galliano Norfolk), che si trovava a 2,5 miglia per 205° da Capo Gherogambo, avvistò l’Ottavia che procedeva a soli tre nodi su rotta 260°, a cinque miglia per 70° dal sommergibile. La nave italiana era partita poco prima da Argostoli, sull’isola di Cefalonia, per una missione di ricerca e caccia antisommergibili: come previsto, Norfolk decise di seguirla per attaccarla in superficie col cannone, una volta che fosse stata abbastanza lontana da Argostoli (così che l’attacco non venisse notato dalla costa, giacché questo avrebbe potuto portare all’invio di rinforzi). Alle 11.15 il Thorn sentì dei suoni prodotti da un ecogoniometro su rilevamento 080°, ed alle 10.30 avvistò un cacciatorpediniere a due fumaioli che identificò come della “classe Confienza”, in posizione 38°06’ N e 20°22’ E; a mezzogiorno il nuovo arrivato virò per 120°, e poco dopo scomparve all’orizzonte. Frattanto Norfolk aveva studiato il suo bersaglio: sembrava un brigantino goletta di circa 200 tonnellate, armato con un cannone da 76 mm a prua. Procedeva verso nord.

Alle 14.54, il Thorn emerse per attaccare con il cannone in posizione 38°16’ N e 20°20’ E, da una distanza di 460 metri. Nel breve scontro a fuoco che ne seguì, però, fu il sommergibile ad avere la meglio: alle 15.05 l’Ottavia era fortemente appoppato, il suo scafo era crivellato di colpi ed aveva una grossa falla sotto la linea di galleggiamento, le vele erano tutte cadute, a poppa divampava un violento incendio che si sarebbe presto esteso al resto della nave. In tutto, il Thorn aveva sparato 65 colpi di cannone, ad alzo zero, nello spazio di undici minuti. Secondo Norfolk, il cannone “da 76 mm” a prua dell’Ottavia non fu mai utilizzato durante il combattimento, mentre una mitragliera a poppa rispose al fuoco, ma fu ridotta al silenzio dopo il terzo colpo di cannone. Il Thorn non aveva riportato alcun danno e, a quel punto, s’immerse e si allontanò per evitare il prevedibile ritorno del cacciatorpediniere avvistato in precedenza. Alle 15.35, l’Ottavia esplose ed affondò a 1,37 km per 270° da Capo Ortholiti (per altra fonte, ad un miglio da Ortholitia) ed a due miglia da Capo Athera.

Dei ventidue uomini che componevano il suo equipaggio, solo cinque furono recuperati vivi; erano tutti feriti. Venne recuperato anche un cadavere. Il comandante Fioretti fu tra i caduti; alla sua memoria venne conferita la Medaglia d’Argento al Valor Militare con motivazione «Comandante di unità, destinata a particolare impiego, offertosi volontariamente, pur conscio dei gravi rischi ai quali sarebbe andato incontro, dedicava la sua attività operosa e costante al raggiungimento della massima efficienza del personale e del mezzo affidatogli. Scontratosi con unità nemica, accettava con cuore impavido l’arduo ed impari combattimento, opponendo all’avversario una pronta reazione di fuoco, e scompariva in mare con la sua nave incendiata. Esempio di sereno, coraggioso comportamento di fronte al pericolo e di elevate virtù militari. Mare Ionio, 5 marzo 1942.».

È il caso di notare che le altre tre navi civetta della Regia Marina, cioè AS 92 ElenaAS 93 Ninetta ed AS 94 Ariella, tutti motovelieri trasformati come l’Ottavia, cessarono il servizio come navi civetta nell’aprile 1942, proprio il mese successivo all’affondamento dell’Ottavia: fu probabilmente la triste fine di questa nave, distrutta da un sommergibile proprio nelle circostanze in cui, in teoria, avrebbe dovuto essere lei ad affondare l’unità nemica, ad indurre a ripensare l’utilizzo di queste unità.

Interessante, a questo proposito, un documento redatto proprio da Marina Argostoli, datato 15 aprile 1942: si diceva tra l’altro che «Le unità in argomento hanno dimostrato in pratica, come del resto era prevedibile, di possedere requisiti del tutto negativi per l’impiego come navi civetta».


IL sommergibile HMS THORN che affondò l’OTTAVIA IN UNO SCONTRO A FUOCO il 5 marzo 1942.

 

BIBLIOGRAFIA

Le navi civetta italiane, su Betasom

Catello Amendola

L’HMS Thorn su Uboat.net

Discussione sulle navi civetta italiane sul Forum Regia Marina Italiana

L’Ottavia su Lemairesoft

Pagina di Wikipedia sull’Ottavia

FINE

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CESARE ROSASCO

UN EROE DA RICORDARE

di Carlo GATTI

Ricordo personale:

Il 1° giugno 1975, il comandante Cesare Rosasco presenziò come 'ospite d’onore' alla cerimonia della mia nomina a Pilota del Porto di Genova.

Ci trovavamo nel Covo più celebre della marineria genovese: lo Yacht Club Italiano nel Porticciolo Duca degli Abruzzi. Di lui mi é rimasta impressa nella memoria la sua imponente stazza, ma soprattutto le sue parole: “Si ricordi che il pilota é il guardiano e il testimone di tutto ciò che succede in porto. Conservi questo sentimento fino all’ultimo giorno di servizio!”

QUADRO STORICO

Marina Mercantile

di Achille Rastelli

Le principali cause di affondamento delle navi rimaste fuori del Mediterraneo. Le Nuove Motonavi Prede di guerra. Navi catturate dai tedeschi.

II 10 giugno 1940 l'Italia entrò in guerra, e i marinai delle navi mercantili rimaste fuori del Mediterraneo furono fra i primi italiani a subirne le conseguenze. Per quanto riguarda la Marina da traffico, avvenne poi un altro fatto importante: la quasi totalità delle navi, pur restando formalmente di proprietà degli armatori, venne gestita dallo Stato, o con requisizioni per scopi di guerra veri e propri (navi scorta, vedette, dragamine, ecc.), o con noleggi per convogli e rifornimenti di guerra. Del resto, nella storia della nostra Nazione non ci fu mai alcuna operazione navale che non abbia avuto necessità delle navi mercantili: esigenza sempre risolta in varie forme, quali il noleggio a tempo, il noleggio a viaggio, il trasporto obbligatorio, la requisizione o la requisizione con acquisto.

La guerra navale dell'ultimo conflitto fu, per l'Italia, essenzialmente una guerra di convogli, necessari per rifornire le truppe combattenti in Africa e nei Balcani, per mantenere i collegamenti con le isole e per assicurare il traffico costiero. Anche le operazioni maggiori della Squadra da Battaglia furono eseguite per proteggere convogli nostri o per attaccare quelli del nemico per Malta, continua spina nel fianco per tutta la durata della guerra.

La conseguenza di questo tipo di guerra fu che, insieme alle navi da guerra, un enorme sacrificio fu pagato dalla Marina mercantile italiana, sia in vite umane sia in materiali; e le cifre sono eloquenti.

Al giugno 1940, la flotta mercantile italiana era composta di 786 navi superiori alle 500 tsl, per un totale di 3. 318. 129 tsl, e di circa 200 navi fra le 100 e le 500 tsl. Ben 212 navi, per 1. 216. 637 tsl, rimasero fuori dal Mediterraneo all'inizio del conflitto, e vennero, di conseguenza, quasi tutte catturate o affondate dal nemico. Fra il 10 giugno 1940 e 1'8 settembre 1943 entrarono in servizio, fra nuove costruzioni e catturate, 204 navi, per 818.619 tsl; ma 460 navi, per 1. 700.096 tsl, andarono perdute.

All'8 settembre, erano in servizio 324 navi, per 1. 247. 092 tsl, che, in seguito ai fatti armistiziali, vennero per la maggior parte catturate dai tedeschi (e poi affondate), oppure autoaffondate per sfuggire alla cattura. Alla fine, nel maggio 1945, le navi mercantili italiane superiori alle 500 tsl erano solo 95, per 336.810 tsl, il 10% di quelle esistenti all'inizio del conflitto.

Andò perduto un patrimonio immenso, non solo per quantità, ma anche per qualità: parecchie navi erano nuove e ottime unità, migliaia di bravi marinai scomparvero in mare: 3.100 marittimi caddero su navi mercantili iscritte nel naviglio ausiliario, 3.257 perirono tra gli equipaggi di navi requisite e non requisite, 537 morirono in prigionia; in totale, 7.164 caduti su circa 25.000 naviganti inscritti nei ruoli. I porti italiani vennero distrutti, e ci vollero anni per sgombrarli dai relitti e ricostruirli; anche la navigazione di cabotaggio, assai fiorente, dovette ripartire da zero.

Nonostante ciò, è giusto ricordare che le navi mercantili in guerra svolsero il loro compito in maniera esemplare, portando a destinazione quasi tutti i carichi bellici imbarcati: di 4.199.375 t di merci imbarcate, solo 449.225 t non giunsero a destinazione e cioè il 10,5%. I soldati imbarcati furono 1.266.172, e di questi ne scomparvero in mare 23.443, cioè il 2%: tanti, però numericamente pochi rispetto allo sforzo compiuto. Alla luce di queste cifre, si può dire che fu ben meritata la Medaglia d'Oro al Valore Militare assegnata alla bandiera della Marina mercantile, concessa l'11 aprile 1951 con decreto del Presidente della Repubblica, Luigi Einaudi.

La Medaglia venne consegnata il 16 settembre 1951 a Genova dallo stesso Luigi Einaudi: in porto si trovavano, per rendere omaggio, le motonavi Saturnia, Conte Grande e Italia, l'incrociatore Giuseppe Garibaldi e le corvette Ibis e Chimera. La bandiera, portata dalla Medaglia d'Oro, capitano di lungo corso Cesare Rosasco, venne decorata dal Presidente della Repubblica, quale solenne atto di riconoscimento della Nazione al valore e al sacrificio dei marinai delle navi mercantili.

Ministero della Difesa

Marina Militare Italiana

CESARE ROSASCO


Capitano di Lungo Corso

Cesare ROSASCO

Medaglia d'oro al Valor Militare

Comandante di un piccolo piroscafo, attaccato da sommergibile immerso, evitati con la manovra due siluri, con pronta ed accorta decisione immediatamente predisponeva per il combattimento la propria nave, armata con un cannone di piccolissimo calibro, cosicché, appena il sommergibile molto più potentemente armato emergeva, il piroscafo apriva il fuoco a breve distanza. Colpita la sua nave da numerose cannonate, sotto incessanti raffiche di mitragliera, caduti ai suoi piedi il timoniere e la vedetta, rimasto solo sul ponte di comando, non potendo governare dalla plancia, per sopravvenuta avaria alla trasmissione, benché gravemente ferito ad una gamba, scendeva nel locale sottostante e manovrava direttamente la macchina del timone. Saldo nel proposito di salvare, oltre l'equipaggio, anche la nave, rinunciava a portarla in costa. Con alta e ferma parola e con il proprio eroico contegno, incitava l'equipaggio militare e civile a continuare a distanza serrata l'impari combattimento fino a quando il sommergibile, a causa di ripetuti colpi ricevuti, non desistette dalla lotta. Stremate di forze, ma sorretto da ferrea volontà, portava in salvamento la sua nave crivellata dai colpi, con i suoi morti, con i suoi feriti, fulgido esempio delle più elette virtù marinare e guerriere. Mediterraneo Occidentale, aprile 1943

Cesare Rosasco nacque a Genova il 22 gennaio 1892. Conseguito il diploma di Capitano Marittimo nel 1910 iniziò la sua lunga carriera sul mare imbarcando, come mozzo, su un mercantile e percorrendo poi tutti i gradi della sua brillante carriera, che lo vide comandante di unità passeggeri di grande tonnellaggio. Assolse l'obbligo di leva nella Regia Marina, dall'ottobre 1912 all'ottobre dell'anno successivo, e venne posto in congedo nel grado di Sottocapo Timoniere. Partecipo al primo conflitto mondiale stando imbarcato su unità mercantili requisite ed armate, meritandosi una Croce di Guerra al V.M.: al termine dei conflitto prestò continuativamente servizio su unità mercantile della Societa Nazionale di Navigazione, prima nell'incarico di 1° Ufficiale e poi di Comandante. Nel secondo conflitto mondiale, nuovamente al comando di unità mercantili requisite ed armate, si distinse particolarmente a Tobruk quando, al comando del piroscafo Ezilda Crocecarico di munizioni, riuscì a spegnere un grosso incendio provocato da spezzoni incendiari lanciati dal nemico e a porre in salvo l'unità con il suo prezioso carico. Nel giugno 1942, al comando ora del piroscafo armato Mauro Croce, di 600 tsl, in navigazione da Genova e diretto ad un porto spagnolo, venne fatto oggetto da un attacco da parte di sommergibile inglese che danneggiò gravemente l'unità. Benché ferito si portò personalmente al pezzo a riuscì ad avere ragione dell'avversario, che si allontanò con avarie a bordo. Riusciva poi a porre in salvo la sua nave, dirigendo sul porto spagnolo di Sagunto. Dal 1945 al 1957 ebbe la carica di Capo Pilota del Porto di Genova. Nel 1947 assunse la Presidenza della Federazione Italiana dei Piloti dei Porti. Fu anche Presidente della Società di Navigazione Cristoforo Colombo.

Il Comandante Cesare Rosasco è morto a Roma il 19 febbraio 1977.

Altre decorazioni:

Croce di Guerra al Valore Militare(Mediterraneo occidentale, 1917).


Autore: Walter Molino Argomento: II° Guerra

Mondiale Soggetto: Marina Luoghi: Mediterraneo

Didascalia: Eroici marinai d'Italia. - Cesare Rosasco, genovese, comandante di una piccola nave mercantile attaccata da un sommergibile, evita due siluri. Colpito il timoniere, lo sostituisce e, col cannoncino di bordo, lotta contro il nemico più armato e riesce a metterlo in fuga. E' stato decorato con medaglia d'oro.

Capitani Coraggiosi di Franco Maria Puddu

Diversa è invece la vicenda del capitano Cesare Rosasco. Un po’ misteriosa perché in guerra è buona norma non parlare troppo (il nemico ascolta), e anche dopo la fine del conflitto è sempre meglio essere parchi di parole, specialmente se si sono verificati episodi poco gratificanti come alcuni di quelli dell’8 settembre.

Forse per questo ancora oggi la motivazione della Medaglia d’Oro concessa a Cesare Rosasco parla genericamente della sua eroica resistenza all’attacco di un sommergibile nemico, senza spiegare che lui era stato una delle preziose pedine della catena logistica che aveva consentito agli operatori subacquei della X MAS di violare la base britannica di Gibilterra. Vediamo come.

Sin dall’inizio del conflitto la Marina aveva predisposto che l’Olterra, un mercantile incagliatosi nella baia di Algesiras per non cadere in mano inglese, in territorio spagnolo ma ad un tiro di schioppo da Gibilterra, divenisse una piccola base segreta dove gli incursori della X MAS approntavano i Siluri a Lenta Corsa, i “maiali”, all’interno dello scafo, per poi uscirne nottetempo e attacca- re le navi nemiche ormeggiate in rada.

Questa strana base era stata realizzata con cautela e rifornita di uomini e mezzi tramite alcuni mercantili. Uno di questi era il Mauro Croce, un piro-scafetto da 600 tonnellate armato di un asmatico cannoncino da 55 mm, comandato da Cesare Rosasco, un ligure sulla cinquantina che spesso, venendo dall’Italia, era costretto a sostare nei porti spagnoli per denunciare alle locali autorità la scomparsa di qualche marinaio: la guerra è brutta, la Spagna era un Paese compiacente e i marittimi dell’equipaggio, tutti civili militarizzati, quando potevano, disertavano.

Questi finti disertori, in realtà, erano incursori di Marina che, entrati clandestinamente nella neutrale Spagna, proseguivano poi verso Algesiras, dove il Mauro Croce avrebbe sbarcato, giorni dopo, là o in porti vicini, carichi “di ferramenta e carpenteria” che alcuni emissari avrebbero provveduto ad inoltrare all’Olterra: erano i componenti per realizzare maiali, mignatte e bauletti esplosivi.

Il 23 aprile del 1942, nelle acque di Valencia, il sommergibile inglese Olympus attacca il Croce lanciandogli contro due siluri; Rosasco li schiva e il battello emerge per attaccare in superficie. Il piroscafo si difende con il suo cannoncino, ma le artiglierie del battello lo soverchiano, colpendolo ripetutamente.

Il ponte di comando è un mattatoio, ma il comandante, gravemente ferito, si fa portare al timone a mano per governare la nave; a questo punto viene colpito anche l’Olympus, dove le munizioni del cannone esplodono ferendo 20 marinai e permettendo così a Rosasco di portare la sua malconcia nave, con il prezioso carico, nel porto di Sagunto, dove sarà soccorsa.


Nel riquadro il Capitano di L. C. Cesare Rosasco, decorato di Medaglia d'Oro al V. M., per aver affondato a colpi di cannone un sommergibile inglese che aveva attaccato in superficie la sua unità mercantile navigante senza scorta.

Il Corpo Piloti di Genova

Testo del Comandante Sergio Nesi

Il Corpo Piloti del porto di Genova è stato istituito duecentodue anni or sono con un decreto di Napoleone Buonaparte con il compito di assistenza a tutto quanto riguarda la vita di un grande porto, dall'assistenza a tutte le navi in partenza e all'attracco alle banchine, all'assistenza al naviglio in difficoltà entro e fuori dal bacino per incendi o per grandi mareggiate ecc.

Questo comporta una grande preparazione tecnica da parte dei piloti, che in due secoli hanno dovuto modificare i metodi di intervento, con il passaggio dalla vela al motore, con l'adozione di nuove pilotine sempre aggiornate ai tempi. Pur essendo un Corpo civile, anche in tempo di guerra i piloti del porto di Genova hanno operato come protagonisti di eventi bellici, ottenendo, oltre a prestigiosi riconoscimenti al Valor di Marina, anche due Medaglie d'Oro (Com.te. Cesare Rosasco – Com.te Emilio Legnani) e una Medaglia di Bronzo (Com.te Alberto Bencini) al Valor Militare. Non posso non ricordare su questo foglio della X Flottiglia MAS la prestigiosa figura del Capitano L.c.  Cesare Rosasco, che, pure ignorato dalla Storia ufficiale dei Mezzi d'Assalto, ne fa parte a pieno titolo, in quanto, posto al comando del piroscafo armato Mauro Croce per trasportare ad Algeçiras i pezzi costituenti i 'maiali' che dall'Olterra avrebbero attaccato Gibilterra. Il 23 aprile 1942, navigando nelle acque di Valençia, Il Mauro Croce fu attaccato da un sommergibile inglese che gli lanciò contro due siluri. Rosasco riuscì a schivarli. Il sommergibile allora emerse per attaccare il piroscafo con il cannone, riuscendo a colpirlo anche con le mitragliere uccidendo tre membri dell'equipaggio e ferendone undici, tra cui il comandante che subì una grave lesione ad una gamba. Ma a quel fuoco nemico Rosasco fece rispondere con l'unico cannoncino da 55 mm. in dotazione, colpendo a sua volta la torretta del sommergibile e la riservetta delle munizioni, che esplose causando gravi danni e venti feriti, come confermato da un bollettino inglese.

Il comandate Rosasco riuscì a fare raggiungere il porto di Sagunto alla nave con tutto il suo prezioso carico, dove fu ricoverato per trentadue giorni. La sua Medaglia d'oro dovrebbe uscire quindi dal suo anonimato ed entrare a far parte della Storia della X Flottiglia MAS e il Comandante Rosasco è il perfetto Trait d'Union tra i Piloti del Porto di Genova e i Mezzi d'Assalto.

Carlo GATTI

Rapallo, 26 Novembre 2012

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=250;rosasco&catid=36;storia&Itemid=163

§§§§

Definizione di NAVE CIVETTA (TRECCANI): Questo nome comprende tutto il naviglio subacqueo militare e mercantile, cioè: sottomarini, pescherecci d'alto mare (trawler) e il rimorchiatore d'alto mare (drifter), adattati allo scopo; la civetta, nave da commercio camuffata e armata.

Un esempio di arma insidiosa

 


Anche la Royal Navy usò moltissimi Armed Trawlers (motopeschereccio armato) durante la II GM, la gran parte requisiti per fini bellici e riadattati ad uso antisom. E’ inutile domandarsi se il tipo "non classificato" (come il Lord Nuffield che causò la perdita del nostro smg Angelo Emo il 10 novembre 1942, potesse montare oltre il cannone Bofors da 40mm, un paio di mitragliere da 20 mm, i lancia bombe di profondità e pure l'ASDIC – SONAR, termine che nasce come acronimo dell'espressione inglese sound navigation and ranging, è una tecnica  che utilizza la propagazione del suonosonar attivisonar passivi sott'acqua per la navigazione, comunicazione o per rilevare la presenza e la posizione di navi o sottomarini. Si distinguono, ancora oggi, le unità navali militari in servizio sono riassumibili in tre categorie:

  • unità di superficie: portaerei, incrociatori, cacciatorpediniere, fregate, fregate, corvette, pattugliatori, pattugliatori, cacciamine,  navi anfibi.
  • unità subacquee: SSBN, SSGN,SSN,SSK.

. unità ausiliarie e di supporto: navi per rifornimento, navi logistiche, navi idrografiche e oceanografiche, rimorchiatori, navi spia, navi-civetta, navi scuola, navi ospedale, ect..

La nave spia è una nave per la raccolta d'informazioni e, dalla seconda metà del XX secolo, la sorveglianza elettronica. Quelle dedicate specificatamente alla sorveglianza elettronica sono anche note con la sigla AGIAuxiliary Gathering Intelligence. Tra esse troviamo navi di piccole dimensioni, di norma pescherecci, le cui funzionalità sono più o meno nascoste, anche se spesso sono dotate di antenne ESM ed ELINT di dimensioni inoccultabili, o navi di grosso tonnellaggio con parabole visibili o poste sotto cupole protettive di diversi metri di diametro.

 

Seguono i LINK di ALCUNI APPROFONDIMENTI sull’argomento

Sprecare un siluro per un veliero

di Bruno MALATESTA

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=411;sardo&catid=36;storia&Itemid=163

 

NAVI – CIVETTE

http://www.betasom.it/forum/index.php?/topic/47468-navi-civette/

LOTTA ANTISOMMERGIBILE

https://it.wikipedia.org/wiki/Lotta_antisommergibile

 

Rapallo, 18 maggio 2021


RICORDO DI ANTONIO PIGAFETTA

RICORDO DI ANTONIO PIGAFETTA

 

Va subito detto che del navigatore-scrittore vicentino non si sa molto e quel poco va inquadrato nel suo tempo e soprattutto nella testimonianza di assoluto valore che ci ha lasciato:

RELAZIONE DEL PRIMO VIAGGIO INTORNO AL MONDO

Notizie del Mondo nuovo con le figure dei paesi scoperti
descritti da ANTONIO PIGAFETTA, vicentino, cavaliere di Rodi

ANTONIO PIGAFETTA PATRIZIO VICENTINO E CAVALIER DE RODI A L'ILLUSTRISSIMO ED ECCELLENTISSIMO SIGNOR FILIPPO DE VILLERS LISLEADAM, INCLITO GRAN MAISTRO DI RODI, SIGNOR SUO OSSERVANDISSIMO

Il DIARIO è scritto in uno strano linguaggio italo-veneto frammisto a parole tecniche spagnole, per cui si ritiene che si tratti del documento più importante fra tutti quelli che ci sono giunti della storica impresa dalla partenza al ritorno. Tuttavia, il suo interesse è dato soprattutto dalle ampie e precise descrizioni dei luoghi – soprattutto di quelli, come la Patagonia e le Filippine, dove Pigafetta sostò a lungo, ma per poi giungere alla leggendaria isola delle spezie: Le Molucche era necessario attraversare El Paso, STRETTO inesistente nella cartografia dell'epoca, ma forse sognato o avuto in visione da Magellano.

Antonio Pigafetta si dimostra un acuto osservatore della flora e della fauna. Degli abitanti invece offre descrizioni complete: soffermandosi sui caratteri fisici, sui loro costumi, e sulle loro credenze religiose; per quelli del Brasile, della Patagonia, delle isole malesi, dà anche un elenco dei vocaboli d'uso comune.

Pigafetta, non essendo un marinaio, non fu altrettanto accurato nel riferire i particolari tecnici della navigazione, ben poco, ad esempio, si può trarre dalla sua relazione per essere informati sulle varie fasi della traversata del Pacifico, dell’Oceano Indiano e dell’Atlantico, e più precisamente sullo scopo del viaggio e sulle vicende che influirono su di esso.


Ricostruzione della Victoria nel Museo Nao VICTORIA a Punta Arenas-Cile

UN PO’ DI STORIA

L’IMPRESA DI FERDINANDO MAGELLANO

Nato a Ponte de Barca 1480 – morto a Mactan (Filippine) iL 27 aprile 1521.

In latino: Ferdinandus Magellanus;

In portoghese: Fernão de Magalhães;

In spagnolo: Fernando de Magallanes;

Magellano, dopo aver trovato una mappa che indicava una possibile tratta nell’Oceano Pacifico nei pressi del Rio de la Plata (che permetteva di raggiungere l’Asia senza girare intorno all’Africa), decise di cimentarsi in questa impresa. Dopo che il Re portoghese rifiutò il finanziamento della spedizione, Magellano andò in Spagna e si rivolse a Carlo V che accettò di finanziare l’impresa, con la speranza che questa scoperta potesse recare danno ai portoghesi, dal momento che per raggiungere le Isole delle Spezie in Indonesia, gli spagnoli erano costretti a transitare in porti portoghesi.

(vedi link: IL TRATTATO DI TORDESLLAS - in fondo all’articolo).

 

 

Era il 20 settembre 1519 quando Magellano salpò da Sanlucar de Barrameda-(Andalusia) in Spagna, con una flotta di 5 navi e 237 uomini.

Dopo aver costeggiato le coste africane, la flotta proseguì verso l’oceano Atlantico, fino a raggiungere Rio de Janeiro (Santa Lucia Bay) e poi Rio de la Plata. Da qui, la flotta continuò verso sud: a marzo raggiunse Puerto San Julian e a ottobre Cabo Virgenes, in Argentina.

Nel novembre del 1520, con tre delle cinque navi rimaste, penetrò nel mare cileno e attraversò lo Stretto, battezzato inizialmente con il nome di All Saints Strait, e solo successivamente Stretto di Magellano.

Da qui, si avventurarono in un mare nuovo: le acque erano talmente calme che Magellano gli diede il nome di Oceano Pacifico. Nel gennaio del 1521 la flotta raggiunse le Shark’s Islands (Puka-Puka), un mese dopo San Pablo Island e a marzo le isole Marianne e poi le Filippine.

La flotta di Magellano compì un’impresa davvero estrema: 3 anni di navigazione in acque allora sconosciute e territori inesplorati.

Magellano non riuscì a tornare in Spagna: a seguito di una rivolta, morì nelle Filippine, ucciso dagli indigeni. Solo 18 membri dell’equipaggio tornarono a Siviglia, terminando la circumnavigazione del globo il 6 settembre 1522. Tornarono con una sola nave, la VICTORIA.

Il viaggio si concluse con gravi perdite. Ritornarono in solitario solo tre navi delle cinque che facevano parte della spedizione:

la San Antonio abbandonò il convoglio prima di raggiungere l’Oceano Pacifico e rientrò nel 1520;

la VICTORIA fu l’unica a completare la circumnavigazione, nel 1522;

la Trinidad seguì una rotta diversa senza riuscire a circumnavigare il globo. Rientrò soltanto nel 1525.

Dei 234 tra soldati e marinai che formavano l'equipaggio iniziale soltanto 35 completarono la circumnavigazione: 18 sulla Victoria ed altri 17 che arrivarono in Europa su navi portoghesi, 12 originariamente imbarcati sulla Vittoria ma catturati durante una sosta nelle Isole Capo Verde, e 5 superstiti della Trinidad. La storia del viaggio è nota grazie agli appunti dell'uomo di fiducia (criado) di Magellano, il vicentino:

 

ANTONIO PIGAFETTA

Biografia

 


Imbarcatosi sulla nave ammiraglia TRINIDAD, si disse che inizialmente non fu bene accetto dal navigatore portoghese Ferdinando Magellano, ma che seppe tuttavia conquistarne gradualmente la stima, tanto da diventare il suo “criado” (attendente), ovvero il marinaio addetto al servizio del comandante, aiutandolo nello svolgimento delle sue funzioni all'interno della nave.

Come abbiamo accennato, si conosce molto poco della vita di Antonio Pigafetta. Di lui si sa che nacque a Vicenza intorno al 1485 e che morì a Malta nel 1536, combattendo contro i turchi.

Di nobile famiglia che si fregiava di uno stemma gentilizio con tre rose ed il motto scolpito in antico francese: "Il n'est rose sans espine", Antonio Pigafetta, dopo un duro tirocinio sulle navi dei Cavalieri di Rodi, nel 1519 si trovò a Barcellona al seguito di un'ambasceria pontificia con Chiericati per le cui raccomandazioni ottenne da Carlo V il permesso di prendere parte al viaggio di circumnavigazione che Magellano stava preparando e che salpò il 20 settembre 1519.

Durante l'esplorazione delle Filippine, il 27 aprile 1521, Magellano venne ucciso dagli indigeni dell'isola di Cebu. Negli scontri anche Pigafetta rimase ferito, ma ebbe più fortuna del suo Comandante e, alla sua morte, assunse ruoli di maggiore responsabilità nell'equipaggio, in particolare gestendo le relazioni con le popolazioni nelle quali si imbatterono. Tornato in patria, con gli altri diciassette superstiti della spedizione, dopo tre anni di navigazione, scrisse la:

"Relazione del primo viaggio intorno al mondo"

L'opera, oggi considerata uno dei più preziosi documenti sulle grandi scoperte geografiche del XVI secolo, incontrò molte difficoltà prima di essere pubblicata.

 


 

Nel suo diario Antonio Pigafetta dà il nome a numerose specie di piante, tra cui la palma "Pigafetta" (vedi foto) che ancora oggi ha il suo nome. Nel 1524 il navigatore entrò a far parte dei Cavalieri Ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme, prendendo i voti e, nel 1530, si recò a Malta, per allontanarsi dalla fama che il suo diario, terminato nel 1525 e diventato famoso per l'accuratezza dei dati riportati, gli aveva dato presso le corti di tutta l'Europa. Sembra che Antonio Pigafetta sia morto a Malta nel 1534 combattendo contro i Turchi.

LINK

http://www.isisalighieri.go.it/duca/biblioteca/pigafetta_viaggio.pdf

Un breve quanto utile “quadro storico”

Nel XVI secolo Venezia rappresentava il principale centro europeo per la raccolta e la diffusione a stampa delle notizie riguardanti la navigazione e i nuovi territori che si stavano scoprendo. Il Nuovo Mondo entrava nella coscienza degli europei e specialmente dei veneziani.

Tra questi si distinse il gruppo formato da Pietro Bembo, Gasparo Contarini,Gian Battista Ramusio, Nicolò Zen, Girolamo

Fracastoro e Giacomo Gastaldi. La Serenissima Repubblica di Venezia ha avuto nei secoli numerosi esploratori e navigatori, alcuni dei quali fecero scoperte fondamentali nella storia della geografia.

Gli esploratori e i navigatori veneti arrivarono in tutto il mondo, anche in Cile. Il più famoso, come abbiamo già visto, fu il nobile vicentino Antonio Pigafetta a giungervi per primo, al seguito di Ferdinando Magellano nel viaggio di circumnavigazione del globo terrestre (20 settembre 1519 – 6 settembre 1522).

In che modo Antonio Pigafetta trovò l’imbarco che lo rese celebre?

Nel 1519 Pigafetta era a Barcellona al seguito di Monsignor Chiericati, nominato ambasciatore della Santa Sede alla corte di Carlo I (futuro Imperatore del Sacro Romano Impero con il nome di Carlo V). Nella città spagnola chiese ed ottenne il permesso di partecipare alla spedizione di Magellano come membro dell’equipaggio.

Due carte giocarono a suo favore: la raccomandazione di Monsignor Chiericati – di cui Pigafetta seppe conquistare la fiducia divenendo il suo “criado sobre saliente”, uomo di fiducia, appunto, e il beneplacito del Re.

L’incontro fisico tra il Cile e la spedizione del portoghese Magellano, così come l’incontro intellettuale tra il Cile e Antonio Pigafetta, avvenne nel mese di novembre del 1520.

“Credo non sia al mondo el più bello e miglior stretto come è questo. In questo mar Oceano se vede una molto dilettevole caccia de pesci. Questo stretto è longo cento e dieci leghe, che sono 440 miglia, e largo più o manco de mezza lega, che va a riferire in un altro mare, chiamato Mar Pacifico, circondato da montagne altissime caricate de neve”.

ALBUN FOTOGRAFICO


 

Mappa antica dello stretto di Magellano - Artemare Club

 

Questo passaggio di mare ha permesso per la prima volta di circumnavigare la terra, evento importantissimo non solo per il mondo della navigazione ma anche per la storia dell’umanità e che segna per alcuni studiosi il vero inizio della globalizzazione. Lo stretto, è all'estremità dell'America Meridionale e divide questa dalla Terra del Fuoco e dalle isole Dawson, Clarence, Santa Inés e Desolación. Lungo circa 500 km. è assai tortuoso, probabilmente l'ultimo residuo di più numerosi ed estesi bracci di mare che in epoche geologiche passate congiungevano i due oceani.

Dello stretto taluno ha sostenuto, ma con poco fondamento, che si conoscesse l'esistenza anche prima del viaggio di Magellano che lo percorse dal 21 ottobre al 27 novembre 1520, si hanno solo documentazioni di un'altra quindicina di traversate nel sec. XVI, celebre quella di Francis Drake e qualche secolo dopo quella di Charles Darwin. Sulle coste, pochissimo abitate gli approdi sono scarsi, il maggiore è Punta Arenas e sulla costa sudamericana e quasi dirimpetto sulla Terra del Fuoco è Porvenir. Lo Stretto, su entrambe le coste, appartiene al Cile. Oggi la navigazione vi ha importanza solo per il traffico col Cile; ma per esso passa appena il 3% del tonnellaggio che fa capo ai porti cileni.

Lo stretto di Magellano continua ad alimentare lo spirito di avventura dei viaggiatori ed evoca un’epopea in uno dei luoghi più inesplorati dall’uomo e dalla scienza, ancora oggi, infatti, non si conosce molto della flora e della fauna sottomarina di questo territorio.


CASA PIGAFETTA – Vicenza

Questo splendido palazzo in stile gotico fiorito è famoso per essere stata la casa del vicentino Antonio Pigafetta (1492-1531), navigatore che accompagnò Ferdinando Magellano nel famoso viaggio in cui si compì per la prima volta la circumnavigazione della Terra.

Il palazzo fu costruito da Stefano da Ravenna attorno al 1440; alla fine del secolo, Matteo Pigafetta fece aggiungere il portale ligneo rinascimentale.


La bellezza dell'edificio è data dalla ricca decorazione a torciglioni e ad arabeschi attorno alle finestre trilobate; buona parte delle decorazioni sono realizzate in pietra di Nanto (o pietra di Vicenza). Sulla parte inferiore della facciata è scolpito il motto
"il n’est rose sans espine", cioè "non c’è rosa senza spine".

 


Foto di Simonetta Pettazzi

 

Antonio Pigafetta

magnifico cavaliere del mare

intrepido compagno di Magellano

nel viaggio

di circumnavigazione del mondo

con gli scritti tramandava

alle remote età

memoria della più ardita impresa

che vela avesse fatto

fino al MDXXII

_______________

nel IV centenario

della meravigliosa audacia

comune e provincia

incidono questo ricordo


Statua di Antonio Pigafetta a Vicenza


 

Ricostruzione della Caracca VICTORIA

COS’ERA LA CARACCA?

La caracca (o nao, o nave) era un grande veliero con tre o quattro alberi verticali e albero di bompresso inclinato che venne sviluppato nel Mediterraneo durante il XV secolo. Molto probabilmente la caracca è stata ideata e progettata nei suoi tratti essenziali dai genovesi, che avevano sempre preferito usare, per i loro commerci, delle grosse navi a vela d'alto mare, a differenza dei veneziani che prediligevano le galee. Nei documenti genovesi la caracca è indicata col termine "nave" ("navis" in latino), mai col termine caracca. Il termine caracca deriva dall'italianizzazione dell'inglese "carrack" che era il termine con cui questi "giganti del mare" erano chiamati in nord Europa (le navi genovesi frequentavano infatti abitualmente i porti fiamminghi e dell'Inghilterra meridionale, destando - come sottolinea Heers in "Genova nel '400" - meraviglia per le loro grandi dimensioni).

Avevano perciò sempre usato imbarcazioni quali la navis romana prima, e poi la cocca o la nave tonda. A rafforzare questa teoria sta il secondo nome della caracca stessa, "nao", che in genovese significa, propriamente, "nave". La nao aveva una poppa alta e rotonda con castello di poppa (o cassero), castello di prua e bompresso a prora. Era fornita di un albero di trinchetto e di un albero di maestra a vele quadre e di un albero di mezzana a vele latine (dette anche triangolari) e talvolta un quarto albero detto di bonaventura, ma soprattutto mostrava una innovazione che anticipa (anche se molto lentamente e non dappertutto) la forma e la struttura del futuro galeone: la poppa piana e non rotonda cosa che invece caratterizza la cocca che era sempre tale anche quando armata con quattro alberi.

Le caracche furono le prime navi adatte alla navigazione oceanica in Europa, larghe a sufficienza per affrontare il mare grosso e abbastanza spaziose per portare provvigioni per lunghi viaggi. Erano le navi con le quali gli spagnoli e i portoghesi durante il XV secolo e XVI secolo esploravano il mondo. Questo tipo di veliero in spagnolo era chiamato carraca, mentre in portoghese nau (entrambi i termini significavano semplicemente "nave"). Nelle caracche da guerra il castello a prora era molto alto per sovrastare il ponte di coperta nemico e colpire o arrembare.

IL MUSEO NAO VICTORIA

 

Il Museo Nao Victoria si trova lungo le rive dello Stretto di Magellano, ed è una riproduzione a grandezza naturale della Victoria, una delle 5 navi della flotta di Magellano e la prima che circumnavigò il globo. La replica, ripropone la struttura originaria di una delle navi più famose della storia.

Si torna indietro nel tempo: è possibile salire sulla nave e provare ad immaginare le difficili condizioni in cui dovevano vivere i marinai. Dal ponte, si vede lo Stretto e si ha la sensazione di navigarlo. Si sente il vento forte, si vedono le nuvole cariche di temporali all’orizzonte e si percepisce il senso di desolazione che 500 anni fa provarono Magellano e i suoi uomini.


Museo della Patagonia – Riproduzione della nao (nave) VICTORIA

La nao Victoria, con le sue 85 tonnellate di stazza (85 toneladas spagnole da 1340 kg, cioè circa 113-115tonnellate metriche) era la quarta per dimensione della flotta di cinque partita da Sanlucar il 10 agosto 1519. Era comandata da Juan Sebastian de Elcano ed aveva 42 uomini di equipaggio. Le altre quattro navi erano la caravella Trinidad e le caracche San Antonio, la Concepción e la Santiago.

Riassumendo, la flottiglia era così composta:

· Trinidad, 130 tonnellate, 55 uomini, comandante: Ferdinando Magellano

· San Antonio, 130 tonnellate, 60 uomini, comandante: Juan de Cartagena

· Concepción, 90 tonnellate, 45 uomini, comandante: Gaspar de Quesada

· VICTORIA, 90 tonnellate, 42 uomini, comandante: Luis de Mendoza

· Santiago, 60 tonnellate, 32 uomini, comandante: Giovanni Serrano

Tra i 234 uomini della spedizione figurarono 170 spagnoli, 40 portoghesi, 20 italiani e quattro interpreti africani ed asiatici. Le provviste erano formate da 7240 kg di pane biscottato, 194 kg di carne essiccata, 163 kg di olio, 381 kg di formaggio, 200 barili di sarde salate e 2.856 pesci essiccati.

19/01/2021

 

Il busto di Antonio Pigafetta esposto alla scuola navale di Valparaiso in Cile


Il busto di Antonio Pigafetta, donato al Cile dal Comune di Vicenza e dall'associazione Pigafetta 500, con la collaborazione del Consolato onorario del Cile e dell'associazione Veneti nel mondo, è esposto da qualche giorno alla scuola navale Arturo Prat di Valparaiso. L'arrivo del busto nella prestigiosa sede è stata l'occasione per una breve cerimonia nel corso della quale sono stati sottolineati il fondamentale ruolo del navigatore vicentino nella spedizione di Magellano e il legame stretto con Vicenza grazie alle celebrazioni per i 500 anni dalla storica impresa. Il busto resterà a Valparaiso fino a quando l'evoluzione della pandemia non consentirà di collocarlo nella sua destinazione definitiva: la piazza di Punta Arenas che già ospita la statua di Magellano. Fedele riproduzione di quello in bronzo inserito nel monumento di Campo Marzo, il busto era partito da Vicenza alla volta di Roma il 22 settembre scorso, a bordo di una FIAT 500 brandizzata, offerta dal concessionario De Bona Motors. L'aveva accompagnato una delegazione vicentina composta dal consigliere comunale delegato alle celebrazioni Valter Casarotto, dal console del Cile a Vicenza, Aldo Rozzi Marin, e dal presidente dell'associazione Pigafetta 500, Stefano Soprana. Dopo la cerimonia all'Ambasciata del Cile a Roma, il busto era stato trasferito in Cile da dove, in occasione di una videoconferenza con il sindaco Francesco Rucco, il sindaco di Punta Arenas Claudio Radonich, l'ambasciatore del Cile in Italia Sergio Romero, il contrammiraglio della Marina militare del Cile Victor Zanelli, avevano ringraziato la città iberica per il dono ricevuto che resterà a memoria dello storico anniversario. In occasione della cerimonia per la collocazione del busto alla scuola navale "Arturo Prat" di Valparaiso, è stato letto un messaggio di amicizia del presidente dell'associazione Pigafetta 500, Stefano Soprana. L'importanza del navigatore e scrittore vicentino per il Cile è stata quindi ricordata dal comandante in capo della Marina militare cilena, ammiraglio Julio Leiva, e dal contrammiraglio Victor Zanelli, alla presenza dell'ambasciatore d'Italia in Cile, Mauro Batocchi, del presidente della Corporazione marittima cilena, ammiraglio Rodolfo Codina, del capo di stato maggiore della Marina militare, vice ammiraglio Juan Andrés De la Maza, e del segretario generale della Marina militare, contrammiraglio Raúl Zamorano.

Fonte: articoli giornali, Com.te Erani Andreatta


Nel secondo Articolo (Fabio Pozzo) - Nella 5a e 6a colonna sono riportati tutti i nomi dei nostri connazionali: 28 distribuiti sulle 5 navi della Spedizione.

FONTI DELL'AUTORE:

IL TRATTATO DI TORDESILLAS di Carlo GATTI

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=397;tordesillas&catid=36;storia&Itemid=163

 

STRETTO DI MAGELLANO di Carlo GATTI

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=403;mag&catid=36;storia&Itemid=163

COCCA, CARAVELLA E CARACCA di Carlo GATTI

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=669;crisco&catid=36;storia&Itemid=163

 

Carlo GATTI

Rapallo, 12 Maggio 2021

 


L’ANTICA E LA NUOVA VIA DELLA SETA

 

L’ANTICA E LA NUOVA VIA DELLA SETA

Lungo la Via della seta si scambiavano non solo merci, ma anche culture, religioni, forme artistiche, conoscenze tecniche.


I precedenti storici

L’antica Via della Seta, illustrata dalla mappa qui sopra, era la rotta commerciale che partendo dalla Cina univa Asia, Africa ed Europa. Essa risale al periodo dell’espansione verso Ovest della dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.), che costruì reti commerciali attraverso gli attuali Paesi dell’Asia Centrale (Kyr-gyzstan, Tajikistan, Kazakhstan, Uzbekistan, Turkmenistan e Afghanistan), come pure, in direzione sud, attraverso gli attuali Stati di Pakistan e India.

Su queste piste terrestri per carovane tra un caravanserraglio e l'altro dell’Asia centrale, si fecero  i primi esperimenti di globalizzazione creando occasioni d’incontro: mercati, ricchezza, sincretismi religiosi e culturali. L’importanza massima di questi traffici si ebbe nel primo millennio dopo Cristo, ai tempi degli imperi romano, poi bizantino e della dinastia Tang in Cina (618-907).

Con le scoperte geografiche la Via della seta si arricchì anche di percorsi marittimi e fluviali che dalle pianure della Cina settentrionale, costeggiando il deserto del Gobi e, attraversando l'Asia centrale, conducevano all'altopiano iranico e alla Mesopotamia, e da qui ai porti del Mediterraneo.

L’itinerario, lungo circa 8.000 chilometri, costituiva il principale asse di comunicazione tra il Mediterraneo e l’Asia, tra l’Impero Romano e l’Impero Cinese. Questi percorsi variarono nel tempo adattandosi alle circostanze politiche ed economiche delle aree attraversate.

Tra le merci scambiate c’era la seta, ricercatissima dai ricchi romani e disposti a pagarla a peso d’oro. Essi credevano che i fili di seta pendessero da alberi rari che si trovavano in Cina, un paese altrettanto sconosciuto ai confini del mondo. D’altra parte, il segreto della fabbricazione della seta era custodito gelosamente dell’imperatore cinese, che ne deteneva il monopolio.

L’importanza della Via della seta è enorme perché nel I secolo a.C. mise per la prima volta in contatto due mondi che si ignoravano a vicenda: la civiltà romana e la civiltà cinese e,  con la discesa in campo dell'Islamismo nel 620, mise in contatto la civiltà cinese con la civiltà araba e infine con la nuova civiltà europea.

Le Crociate e l’avanzata dei mongoli lungo le steppe dell’Asia centrale spostarono più incisivamente l’asse commerciale sulle rotte marittime, più rapide e a buon mercato.

RIMANIAMO ANCORA NELLA STORIA CON UN PERSONAGGIO CHE CI RIGUARDA DA VICINO

«Quivi si fa molta seta». Con queste parole Marco Polo descrisse ne il Milione l'economia della provincia cinese del Catai caratterizzata dalla produzione della seta, tessuto che in Europa, come abbiamo appena visto, arrivava attraverso un percorso preciso che univa ORIENTE E OCCIDENTE:

La VIA DELLA SETA


La via della seta, aveva anche le sue diramazioni che si estendevano a est sino alla Corea e al Giappone e a Sud fino all’India. Nella porzione occidentale del tragitto, una volta superati i passi montani del Pamir, la via della seta proseguiva in vari percorsi che da una parte conducevano all’India, dall’altra verso l’Iran e i fiumi Tigri ed Eufrate in Medio Oriente.

Marco Polo (Venezia 15. Settembre 1254 - 8 gennaio 1324) cadde

prigioniero dei genovesi dal 1296 al 1299 e, proprio in quel perido, dettò le memorie dei suoi viaggi a Rustichello a Pisa, forse suo compagno di cella, che le scrisse in lingua franco-veneta con il titolo "Divisiment dou monde".

Seppur non sia stato il primo europeo a raggiungere la Cina, Marco fu il primo a redigere un dettagliato resoconto del viaggio, Il Milione, che fu ispirazione e guida per generazioni di viaggiatori europei, non ultimo Cristoforo Colombo, che ebbe accesso a materiali sulla cartografia occidentale, in primis al Mappamondo di Fra Mauro.

Da quanto riportato poi nel suo resoconto di viaggio, Il Milione, i tre Polo seguirono le varie tappe di quella che solo alcuni secoli dopo sarà chiamata la VIA DELLA SETA che tutti noi oggi conosciamo nei suoi vari aspetti geografici e non solo.

Secondo una diffusa leggenda, il 5 settembre 1298 Marco Polo si trovava su una delle 90 navi veneziane sconfitte dai genovesi nella battaglia di Curzola. Di sicuro fu catturato dai genovesi, anche se non nei pressi di Curzola, ma più probabilmente a Laiazzo in Cilicia, dopo uno scontro navale nel Golfo di Alessandretta.

 


Palazzo San Giorgio – Genova

Ala antica del Palazzo San Giorgio

Palazzo San Giorgio è uno degli edifici storici più importanti di Genova. Costruito nel 1260, si compone di una parte più antica, in stile medioevale, e di quella rinascimentale che è rivolta verso il mare. Lo splendido Palazzo del Mare, che ha ospitato il Comune, le Dogane, una Banca e ora è la sede dell'Autorità Portuale genovese, è stata anche la prigione di Marco Polo. Tra le sue mura, il navigatore fu imprigionato dai genovesi. Da questa triste circostanza, nacque il resoconto dei suoi viaggi che poi diventò uno dei più celebri libri al mondo: Il Milione.

Marco Polo fu finalmente rilasciato dalla prigionia nell'agosto 1299 e ritornò nuovamente a Venezia, dove, nel frattempo, il padre e lo zio avevano acquistato un grande palazzo in Contrada San Giovanni Crisostomo (sestiere Cannaregio) nota come "Corte del Milion".

Ecco una domanda importante.

Perché si riparla tanto di VIA DELLA SETA?

Il mastodontico progetto della 'Nuova Via della seta', proposta da Pechino sin dal 2013, mira a ridefinire il sistema di rapporti economici e politici a livello globale. La Belt & Road Initiative prevede, sin dall'inizio, la creazione di due corridoi - uno marittimo e uno terrestre - con l'obiettivo di trasformare la Cina nel perno di una rete di collegamenti estesa tra Europa, Africa Orientale e Estremo Oriente.

La risposta appare semplice: perché ancora oggi ci riporta all’idea di un interscambio commerciale pacifico. Lo dimostra il passo tratto da un opuscolo del governo cinese del 2014:

“Come una sorta di miracolo nella storia umana, l’antica Via della Seta potenziò il commercio e gli interscambi culturali nella regione eurasiatica. In epoche antiche, differenti nazionalità, differenti culture e differenti religioni a poco a poco entrarono in comunicazione tra loro e si diffusero lungo la Via della Seta al tintinnio dei campanacci dei cammelli.

A quell’epoca, le regioni attraverso cui si snodava la Via della Seta erano relativamente pacifiche, e non conoscevano i problemi di ‘geopolitica’, ‘geo-economia’, ‘minacce militari’, né il problema del terrorismo che oggi attanaglia l’Asia centrale, l’Afghanistan e altri Paesi, per non parlare poi del ‘terrorismo internazionale’”.

LA NUOVA VIA DELLA SETA

 


 

Con la nuova via della seta, da un punto di vista diplomatico, la Cina si prefigge cinque obiettivi fondamentali: il coordinamento politico, l'incremento della connettività e dei flussi commerciali fra i paesi, l'integrazione finanziaria e culturale tra i diversi paesi.

Il progetto ONE BELT ONE ROAD (OBOR) prevede il rilancio in chiave contemporanea della STORICA VIA DELLA SETA.

Percorso della nuova via della seta

 

Percorso terrestre

Comprensivo di tre diverse rotte atte a connettere la Cina con Europa, Medio Oriente e Sud-est asiatico.

Percorso marittimo

Diviso in due rotte – una che dalla Cina si snoda attraverso l’Oceano Indiano, il Mar Rosso e infine si collega all’Europa, l’altra che connette Pechino con le isole del Pacifico attraverso il mare di Cina.

L’idea di costruire una via che potesse potenziare i flussi commerciali fu proposta dal presidente cinese XI JINPING nel settembre 2013 durante un discorso tenuto alla Nazarbayev University in Kazakistan, e successivamente durante una visita al parlamento indonesiano. In tali occasioni “XI” auspicava la creazione di una tratta commerciale che potesse permettere di stringere profondi legami economici e di rinsaldare la cooperazione fra i paesi beneficiari al fine di facilitare lo sviluppo della zona eurasiatica.

- ONE BELT, ONE ROAD -


Cosa prevede la nuova via della seta?

L’iniziativa One Belt One Road (OBOR) è supervisionata dalla Commissione nazionale di sviluppo e riforma, dal ministro degli affari esteri e dal ministro del commercio. L’OBOR ricopre un ruolo primario nei piani del governo di Pechino in quanto fattore coadiuvante agli obiettivi di lungo periodo di raddoppiamento del PIL e di creazione di nuovi legami internazionali, già enunciati a marzo 2016 con la pubblicazione del 13° piano quinquennale.

Le Rotte Commerciali

Il progetto prevede la creazione di nuove tratte commerciali e il potenziamento di quelle già esistenti. Le rotte terrestri di riferimento sono tre:

1.una delle vie terrestri parte da Xi’an (la prima delle quattro antiche capitali Cinesi), città situata nel centro del paese, e si snoda attraverso il centro dell’Asia, ossia attraverso Kazakhistan, Russia (Mosca) e dirigendosi infine nel Mar Baltico;

2.Da Xi’an inizia un secondo percorso terrestre che attraversa il Medio Oriente, nello specifico Islamabad (Pakistan), Teheran (Iran), Istanbul (Turchia);

3.Infine una terzia via parte da Kunming a attraversa il sudest asiatico, attraverso paesi quali Tailandia e Myanmar, finendo la sua corsa a Delhi in India.

Le principali rotte marittime sono due: una inizia dal porto di Fuzhou e attraversa l’oceano Indiano toccando Malesia, Sri Lanka e il mar Rosso, collegando l’Europa a Rotterdam; la seconda parte sempre da Fuzhou e arriva alle isole Pacifiche attraverso il Mar di Cina.

Il progetto in totale coinvolgerà circa 4,4 miliardi di persone, ossia circa il 63% della popolazione mondiale, e il 29% del PIL mondiale, corrispondente a 21 miliardi di dollari.

Nello specifico, riguardo la via terrestre, la Cina sta pianificando una ferrovia ad alta velocità che parta da Kunming e si espanda verso il Laos, Cambogia, Malesia, Myanmar, Singapore, Tailandia e Vietnam. Inoltre viene prevista la creazione di un ulteriore network di strade, ferrovie e condotti che inizi da Xi’an e si snodi ad Ovest verso il Belgio.

Pechino ha già iniziato la costruzione di una ferrovia per il trasporto merci di 8 mila miglia che connetta Yiwu a Madrid e una linea che inizi Kashgar e si diriga verso il Pakistan e successivamente verso il mare Arabico. La Cina non ha bisogno di costruire molte delle tratte richieste, ma solo di collegarle fra loro in modo efficiente.

 

L’Italia e la nuova Via della Seta

Un polo portuale e varco per l’Europa

I porti italiani sono ritenuti importanti snodi commerciale e strategici per il progetto One Belt-One Road. Il mediterraneo è il punto di arrivo della tratta marittima che da Fuzhou si dirige in direzione Sud-Est verso Malesia, Thailandia, Indonesia, India, passando per l’Oceano Indiano prima e il Mar Rosso dopo, e dirigendosi infine nel Mediterraneo dove, dopo Atene, raggiungerà l’Italia.

Già nel 2016 il porto di Venezia (vedi mappa sopra) aveva assunto particolare rilevanza per il progetto cinese, in quanto la rotta Marittima facente approdo a Venezia si figura come la più efficiente, per via della possibilità di ridurre al minimo i tempi e i costi relativi alla movimentazione delle merci. Il porto permetterebbe il collegamento più rapido tra l’Europa la Cina: la tratta Nord Adriatico – Shanghai, lunga 8.630 miglia, è di 2.000 miglia più vicina rispetto alla tratta Amburgo-Shanghai, della lunghezza di 11 mila miglia, comportando un risparmio di tempo di navigazione di 8 giorni.

Recentemente, in occasione della visita ufficiale di Xi Jinping a fine Marzo 2019, l’Italia ha assunto un ruolo ancora maggiore in quanto i porti di Palermo, Genova e Trieste potrebbero diventare importanti snodi nel mediterraneo. In particolare, quest’ultimo avrebbe attirato l’attenzione cinese poiché per la Cina, avere uno scalo in uno dei porti storici dell’Europa porterebbe condizioni doganali favorevoli, una rotta commerciale più veloce nel cuore del continente e un accesso diretto alle ferrovie per lo spostamento delle sue merci nell’Unione europea. Una soluzione già offerta da Venezia, ma che la Cina preferisce per via della più facile realizzazione.

L’apertura dei porti italiani alla Nuova Via della Seta e i conseguenti ingenti investimenti nelle infrastrutture condurranno non solo l’Italia ma l’intera Europa a essere collegate in maniera più efficiente con la Cina e tutti i paesi interessati dal progetto.

IN SINTESI:

Si chiama 'One Belt, One Road', abbreviato nell'acronimo 'Obor' o 'Bri' il progetto cinese di una Via della Seta in chiave contemporanea destinata a collegare l'Asia all'Europa e all'Africa, ma soprattutto a mettere la CINA MODERNA al centro dei traffici e a ridisegnare di conseguenza gli equilibri economici e geopolitici mondiali. E' una rete di collegamenti infrastrutturali, marittimi e terrestri basata su due direttrici principali: una continentale, dalla parte occidentale della Cina all'Europa del Nord attraverso l'Asia Centrale e il Medio Oriente, ed un'altra marittima tra le coste del Dragone ed il Mediterraneo, passando anche per l'Oceano Indiano.

La sua realizzazione avrebbe un costo di almeno 900 miliardi di dollari, una cifra enorme che neanche il colosso cinese può gestire da solo. esteri.

La rete commerciale descritta aprirebbe poi la strada a gasdotti e oleodotti. L'intera mappa dei flussi economici mondiali potrebbe uscirne ridisegnata, seppure nell'arco di decenni.

Nel marzo 2019, l’Italia ha aderito alla Nuova Via della Seta – Conosciuta internazionalmente come:

Belt and Road Initiative (BRI)

Sono stati espressi molti giudizi, sia positivi che negativi, a riguardo del progetto. Tuttavia, a più di un anno dalla firma del MEMORANDUM D’INTESA, i rischi e le opportunità derivanti dall’adesione sono ancora poco chiari. E’ opportuno quindi far luce sulla questione, e di analizzare le conseguenze della partecipazione italiana alla Via della Seta.

L’adesione italiana

L’accordo sancisce l’adesione ufficiale dell’Italia al progetto, senza però stabilire impegni giuridici. Per inaugurare la collaborazione, insieme al Memorandum sono stati firmati 29 accordi istituzionali e commerciali per un valore totale di 2,5 miliardi di euro.

I vantaggi

A sette anni dal lancio dell’iniziativa, la Via della Seta è ancora nella fase iniziale del suo sviluppo – la conclusione è prevista per il 2049, nel centenario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese.

Una maggiore connettività

Gli investimenti infrastrutturali correlati alla Via della Seta hanno indubbiamente migliorato i rapporti tra Asia ed Europa. I progetti della Via della Seta, dunque, potrebbero espandere il commercio di queste zone riducendone i costi, e aumentare gli investimenti esteri e la connettività.

Un canale preferenziale

L’Italia è la più grande economia europea e unico Paese appartenente al G7 ad aver aderito all’iniziativa di Xi Jinping. Per Pechino, i porti italiani offrono condizioni commerciali favorevoli e un accesso più rapido ai mercati dell’Unione Europea. Soprattutto, però, l’adesione italiana ha rappresentato un successo simbolico per la Cina poiché è stata vista come il primo e vero endorsement occidentale. Pechino potrebbe aver considerato la partecipazione di Roma come un’opportunità per spianare la strada ad accordi con altri Paesi dell’Unione Europea, ed esercitare pressioni politiche per allentare i meccanismi di controllo dell’Unione Europea verso gli investimenti cinesi. L’Italia, grazie a questa condizione di unicità, potrebbe essere vista come un canale preferenziale da parte della Cina: nella speranza di mostrare all’Occidente la bontà della Via della Seta, Pechino potrebbe avere un occhio di riguardo per l’Italia.

La partita dei porti


Nave portacontainer della Cosco, gigante cinese della logistica

 

È opportuno, infine, soffermarci sui potenziali vantaggi che il partenariato strategico con la Cina ha per i porti italiani, dal momento che l’Italia sarà il punto di arrivo della componente marittima della Via della Seta. Pechino è particolarmente interessata agli scali mercantili italiani. Compagnie cinesi hanno partecipato allo sviluppo del porto commerciale di Vado Ligure, mentre altre sono interessate alla nuova piattaforma logistica del porto di Trieste. Entrambi i porti hanno fondali molto profondi – caratteristica rara nei porti mediterranei –, capaci di accogliere anche le più grandi navi portacontainer di ultima generazione, e offrono collegamenti ferroviari diretti con il resto d’Europa. Il porto di Trieste, inoltre, detiene un’esenzione unica dai dazi doganali.

Secondo uno studio congiunto dell’Università di Ferrara e la Peking University, il Mediterraneo si appresta ad assumere una dimensione centrale nei commerci Euroasiatici. Secondo l’OCSE, le merci spostate lungo la componente marittima della Via della Seta saranno almeno dalle 10 alle 20 volte superiori rispetto a quelle mosse lungo la tratta terrestre. I porti italiani, dunque, hanno ampie potenzialità di sviluppo nel contesto BRI. Basti pensare che il Pireo, il porto di Atene, ha incrementato il suo traffico del 50% da quando la Cosco, una famosa compagnia cinese, ne ha assunto la gestione nel 2016.

Tra rischi e opportunità

L’adesione italiana alla Nuova Via della Seta offre quindi molte potenzialità e prospettive. Ma quali sono i rischi?

Innanzitutto, il gioiello di Xi Jinping è ancora molto nebuloso, nonostante ci siano chiari elementi positivi, molti sono ancora oscuri.

La Via della Seta è stata più volte considerata una debt trap, ossia uno strumento diplomatico volto a estendere il controllo politico ed economico cinese all’estero. A Roma è stato criticato il fatto che è possibile fare affari con Pechino senza doversi impegnare in un “ambiguo programma geopolitico”. Molti Paesi europei sono rimasti interdetti dall’adesione italiana perché preoccupati delle implicazioni per la sicurezza nazionale degli investimenti cinesi in settori strategici come porti, energia, tecnologia e telecomunicazioni.

Inoltre, sebbene le opportunità sulla carta siano molte, la realtà potrebbe non essere all’altezza delle aspettative. È vero, l’Italia potrebbe usare a proprio vantaggio il fatto di essere la più grande economia europea e unica potenza del G7 a partecipare alla Via della Seta; tuttavia, è impensabile che giochi una partita alla pari con il gigante cinese. Rompendo ulteriormente la compattezza dell’Unione Europea, Roma ne ha messo in discussione il ruolo nella scena internazionale. L’Unione Europea può agire efficacemente e esercitare influenza nel teatro geopolitico globale soltanto a condizione che i suoi membri agiscano all’unisono.

Il punto di non ritorno

La questione delle responsabilità per disastri sanitari, e delle regole comuni nella lotta ai mutamenti climatici, impongono come obiettivo urgente la creazione di un luogo in cui giudicare le pratiche internazionali, almeno per costringere i Paesi a muoversi responsabilmente nelle sfide che ci attendono per la sopravvivenza dell’intero pianeta. Nel frattempo il prezzo che la Cina pagherà per la crisi da Covid-19 sarà politico ed economico, se le multinazionali ridurranno la loro attività nel Paese. Sono questi i costi che Xi Jinping maggiormente teme. Non è più solo Washington a prendere le distanze da Pechino: anche il summit tra Xi e i vertici della Ue di poche settimane fa, che originariamente doveva essere il sigillo di una relazione profonda, ha visto gli europei sempre più convinti nel considerare la Cina un «rivale strategico» con interessi, obiettivi e metodi divergenti da quelli della Ue.

La pandemia ha segnato un punto di non ritorno: l’Europa, gli Stati Uniti e il resto del mondo sono di fronte alla necessità di fare un serio reset delle relazioni con la Cina.

Difficilissimo. Ma inevitabile.

 

Nel sottotitolo di questa modesta ricerca, abbiamo scritto:

Lungo la Via della seta si scambiavano non solo merci, ma anche culture, religioni, forme artistiche e conoscenze tecniche.

Abbiamo solo il tempo e lo spazio per fare qualche esempio:

Palazzo Marino in Musica con l’edizione Sentieri d’Oriente ha raccontato in musica il lungo percorso di avvicinamento tra Europa e Asia indagando i differenti linguaggi nati, nel corso del tempo, dalle contaminazioni e dalle influenze reciproche. La stagione 2018 ha presentato repertori particolarmente rari e ricercati e ha chiamato a esibirsi per la prima volta in Sala Alessi interpreti internazionali.

Con sei concerti, Palazzo Marino in Musica ha proposto un affascinante viaggio musicale, dal Seicento a oggi, che ha percorso simbolicamente quelle Vie della Seta che fin dall’antichità misero in contatto culture e popolazioni differenti, dal Mediterraneo alla Cina e al Giappone. Sono state eseguite le composizioni dei primi sacerdoti missionari e musicisti come Teodorico Pedrini e Joseph Marie Amiot che introdussero le sonorità dell’Occidente alla corte degli Imperatori cinesi nel primo Settecento e portarono in Europa la loro testimonianza delle civiltà dall’Estremo Oriente. Si è passati attraverso l’esotismo musicale che caratterizza fortemente la scrittura musicale di Debussy e Ravel e i temi di opere di grande successo come Turandot di Puccini, per arrivare poi verso i confini orientali con il greco Kalomiris e i russi Skrjabin e Stravinkij. I concerti hanno proposto le sonorità dell’armeno Komitas, che traduce il folklore della sua terra in chiave occidentale, e del giapponese Hosokawa, in un intreccio tra Oriente e Occidente sempre più sofisticato. La stagione è giunta nel nuovo mondo con il compositore Bright Sheng di Shangai, al quale la Casa Bianca ha commissionato un brano eseguito in onore del primo ministro cinese Zhou Rongji nel 1999, e con uno dei più influenti musicisti del mondo, Philip Glass, che trova nel buddismo tibetano un rifugio spirituale e del quale è stato eseguito il Quartetto d’archi, colonna sonora del film dedicato allo scrittore giapponese Youko Mishima.

Ad aprire Sentieri d’Oriente è stato il Mediterranean Ambassadors, ensemble fondato da Irina Solinas sulle tracce di Yo-Yo Ma e del suo Silk Road Ensemble del quale ha ospitato per questo speciale concerto uno dei membri fondatori: l’artista indiano del tabla Sandeep Das. Il concerto è stato il debutto mondiale del nuovo ensemble.

AGGIUNGO un mio ”amore” giovanile:

NELLE STEPPE DELL'ASIA CENTRALE

Poema sinfonico

di Aleksander Porfir’evic BORODIN

composto nel 1880


Il poema sinfonico rappresenta una carovana di Asiatici della zona del Caucaso, mentre attraversa una steppa desertica scortata da un plotone di soldati russi. Il tema d'apertura, che inizia dopo l'ingresso dei violini rappresenta i Russi, e si presenta in due tonalità: la maggiore (clarinetto) e do maggiore  (corno); segue un tema di carattere più orientaleggiante eseguita dal corno inglese,  che rappresenta gli Asiatici. Queste due melodie sono in seguito sovrapposte. A fare da collegamento tra i due temi etnici vi è un "tema del viaggio", eseguito dagli archi che rappresenta il rumore degli zoccoli dei cavalli e dei cammelli. Alla fine si sente solo il tema russo eseguito dal flauto in pianissimo, che conclude il brano.

L’Asia centrale è una regione del mondo che in pochi conoscono davvero, nonostante in passato sia stata un’importante via di passaggio tra Oriente e Occidente: per esempio la celebre Via della Seta – il reticolo di circa 8mila chilometri che si sviluppava tra l’impero cinese e quello romano – passava anche da lì, e una delle città sulle vie carovaniere era Samarcanda, il cui nome conosciamo anche in Italia per la famosa canzone di Roberto Vecchioni. I paesi che fanno parte dell’Asia centrale vengono spesso indicati con l’espressione “stan”, perché così finisce il loro nome: Kazakistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kirghizistan e Tagikistan (anche Afghanistan e Pakistan finiscono per stan, ma non sono considerati paesi dell’Asia centrale). Gli “stan” hanno diverse cose in comune: per esempio fino alla fine del 1991 facevano parte dell’Unione Sovietica, che è il motivo per cui ancora oggi l’influenza russa da quelle parti rimane molto forte. E poi sono governati da regimi autoritari e sono paesi a maggioranza islamica. Ma non significa che negli ultimi 25 anni gli stan siano riusciti a sviluppare una grande cooperazione reciproca. Un ex ministro del Kirghizistan ha detto: “C’è zero armonizzazione tra noi”.

Carlo GATTI

Rapallo, 27 Aprile 2021

 


1346-LA PESTE IN VIAGGIO CON I GENOVESI DA CAFFA ALL’ITALIA

1346-LA PESTE A BORDO CON I GENOVESI IN VIAGGIO DA CAFFA (CRIMEA) ALL’ITALIA

 

La Peste Nera che colpì l’Europa fra il 1347 e il 1351 fu la più grande pandemia che la storia ricordi. Si calcola che, nel volgere degli anni, il terribile morbo uccise tra i 20 e i 25 milioni di persone, che corrispondevano a circa un terzo della popolazione europea del tempo.

«Tanti sum li Zenoeixi, e per lo mondo si desteixi, che dund eli van e stan un'aotra Zena ghe fan»

«Tanti sono i genovesi, per il mondo così dispersi, che dove vanno e stanno un'altra Genova fanno»

Genova, che nell'anno mille aveva solo 4000 anime ed era povera economicamente, cominciò a rendersi autonoma dal Sacro Romano Impero intorno al 1096, come Libero Comune, partecipando poi alle Crociate. Inizialmente chiamata “Compagna Communis”, la Repubblica di Genova si distinse nella Terrasanta, arricchendosi enormemente.

Durante la Prima Crociata (1097-1099) i crociati genovesi, guidati da Guglielmo Embriaco diedero un decisivo contributo nella conquista di varie città. Per il loro importante contributo vennero ricompensati dai Crociati con la terza parte di Gibelletto e la terza parte delle entrate fiscali della città e del contado (fino ad una lega di distanza) di Acri. Inoltre i mercanti genovesi costruirono fondaci o ebbero una strada tutta per loro in varie città del Levante: a Cesarea, a Tolemaide, a Giaffa, a Gerusalemme, a Famagosta, ad Antiochia, a Laiazzo, a Tortosa (oggi in Siria) a Tripoli del Libano ed a Beirut.

In seguito, a partire dalla seconda metà del XIII, ha inizio una colonizzazione genovese di diversa natura e dimensioni. piccole comunità si stabiliscono tutt'attorno al Mar Nero, città come Caffa, Pera e Chio conoscono uno sviluppo eccezionale, si dotano di successive cinte di mura e animano la vita economica regionale, resistono agli assalti dei Greci e dei Mongoli, e soltanto due secoli più tardi cadranno per lo strapotere degli Ottomani, superiori in numero, navi e potenza di fuoco. Queste esperienze di colonizzazione hanno una larga portata: esse costituiscono gli antecedenti medievali della colonizzazione moderna.

 


Secondo lo storico Heyd, nel 1266 é Mengu Temur discendente di Gengis Khan a vendere ai mercanti genovesi le terre e gli agglomerati urbani su cui si svilupperà la città di Caffa, accordando loro la licenza di potervi edificare case e magazzini per le merci. I Genovesi scelgono, non lontano dal sito dell'antica Teodosia, il villaggio di Kafà, insediamento di pescatori ottimo per posizione costiera.

 

Colonie genovesi in Crimea

· Caffa (l'odierna Feodosia) - 1266–1475 era il capoluogo delle colonie genovesi in Crimea

· Cherson (l'odierna Sebastopoli) - 1250–1320/1427

· Cembalo (l'odierna Balaklava) dal 1357

· Alupka

· Caulita (l'odierna Jalta)

· Lusta (l'odierna Alušta) - 1365–1434

· Soldaia (l'odierna Sudak) - 1266/87-1322, 1358/65–1475 nel periodo intermedio fu veneziana

· Solgat, o Solhat, Surcati (l'odierna Staryj Krym o Kirim)

· Sarsona

· Chimmero

· Vosporo (l'odierna Kerč) dal 13

Le norme per favorire il potenziamento di Caffa erano dettate dagli "Octo Sapientes super factis navigandi et maris majoris" costituiti nel 1314 e diventati nel 1341 l'"Officium Gazariae" che da Genova controllava e dirigeva tutta l'attività della colonia delegando ogni anno un console. I genovesi a Caffa batterono moneta tartara: aspri e follari di vari tipi, in un periodo di tempo limitato (1390-1453). Il 31 maggio 1475 una flotta turca, forte di 40000 uomini, si presentò davanti a Caffa: la resistenza fu brevissima (neppure una settimana) e i genovesi abbandonarono definitivamente la colonia.

"Dal punto di vista amministrativo Caffa dipendeva da Pera ed era governata da un console genovese facente le funzioni prima dei consoli, podestà e capitani del popolo della madrepatria, poi, nella sostanza, quelle dogali. Si può affermare senza timori che, tipologicamente, non vi fosse merce che non transitasse per il suo porto, non in ultimo gli schiavi (di cui Caffa divenne uno dei principali mercati). In quanto a investimento di capitali fu uno degli empori commerciali piú ricchi e vivaci del tardo medioevo europeo, con un declino che inizierà solo con la frammentazione politica dell'Asia Centrale e la conseguente crisi della sicurezza dei trasporti fra il Mar Nero e la Cina. In età genovese, come poi in seguito in quella turca ottomana, Caffa fu anche sede di zecca (fra crasellame)".


Le rovine di una Vecchia Fortezza Genovese in Crimea

 

IL CASTELLO DI TEODOSIA

IL VIAGGIO DELLA PESTE NERA - L’ASSEDIO DI KAFFA



Balestrieri genovesi

Si disse che alla foce del fiume Don era scoppiato un incidente tra gli stessi mongoli e i mercanti genovesi che avevano acquistato la città di Kaffa dal Gran Kahn nel 1266 per farne il centro amministrativo delle loro basi commerciali in tutta l’area. Le conseguenze di quell’incidente furono tragiche. Orde di guerrieri mongoli si portarono sotto le mura di Caffa (oggi Feodosiya in Ucraina) e diedero inizio.

Nel 1346, durante l’assedio di Caffa, avamposto commerciale genovese sulla via della Seta, i mongoli cominciarono però a morire a centinaia, ma non per la strenua difesa degli assediati, morivano a causa di un terribile morbo sconosciuto, del quale si diceva che fosse originato nella lontana Cina e che, percorrendo le piste carovaniere che solcavano il cuore dell’Asia – come la Via della seta – avesse sparso morte e desolazione nelle immense steppe orientali.

La malattia misteriosa era dunque giunta fino alle sponde del Mar Nero. I mongoli, devastati dall’epidemia e ormai incapaci di protrarre l’assedio, si decisero a levare le tende. Non prima però di un’ultima offesa: caricarono i cadaveri dei propri compagni sulle catapulte e li lanciarono dentro le mura di Kaffa, in quello che oggi è considerato il primo atto di guerra batteriologica della storia umana. Che fossero consapevoli o meno di trasmettere il contagio dentro Kaffa, così accadde.

Mesi dopo, le navi genovesi che tornano nei porti italiani sono piene di cadaveri o di malati. L’Europa, ignara di che cosa significhi “contagio” e di come proteggersi da un’epidemia, viene colpita da una delle più gravi pestilenze che la storia ricordi.

Nel 1347 colpì la nostra penisola dalla Sicilia fino al nord, risparmiando parzialmente Milano. Un anno dopo si allargò in Francia, Spagna, Inghilterra, Scozia e Irlanda. Nel 1353, dopo aver infettato tutta l’Europa, i focolai della malattia si ridussero fino a scomparire. Secondo studi moderni uccise almeno un terzo della popolazione del continente, provocando verosimilmente quasi 20 milioni di vittime. Alla fonte di tutto non c’era un virus (organismo non vivente che necessita di un ospite per propagarsi) ma bensì un batterio (organismo vivente in grado di autoriprodursi) che fu isolato solamente nel 1894. Il “Yersinia Pestis” si trasmetteva generalmente dai ratti agli uomini per mezzo delle pulci. La malattia, se non trattata adeguatamente, e nel 1347 non era di certo conosciuto alcun modo per farlo, era letale per quasi la totalità dei casi a seconda della forma con cui si era manifestata: bubbonica, setticemica o polmonare. La peste nera si diffuse nel Mediterraneo e in Europa, oltre che in Cina, con le carovane che percorrevano i diversi tratti della via della seta, a quel tempo straordinariamente attiva. La grande peste fu dunque un sottoprodotto non desiderato del grande sviluppo del commercio eurasiatico al principio del XIV secolo.

In occasione delle epidemie, in mancanza di conoscenze mediche e con una Medicina non ancora così evoluta da dare spiegazioni chiare e certe, si cercava di scampare a sofferenze e morte votandosi ai santi, con l’aiuto della fede e della preghiera. E quando il pericolo si allontanava, spesso si rispondeva alla grazia ottenuta della vita con un segno tangibile dell’intercessione divina.
A seconda della possibilità economica, si costruiva una cappella, una chiesa oppure una santella, ai margini delle campagne, del proprio luogo di lavoro e di residenza. Era il modo per testimoniare ai contemporanei ed ai posteri che il Divino aveva guardato benevolo ai propri figli, ed era la garanzia che, se in futuro fosse stato ancora necessario, si poteva continuare a chiedere l’intercessione.

Ma come iniziò tutto? Nella penisola di Crimea, Caffa ed altre cittadine vicine in mano alla Repubblica di Genova furono il punto di contatto tra il mondo mongolo-tartaro e quello dell'Europa occidentale. Per oltre due secoli e fino alla totale conquista ottomana dell'impero bizantino, le colonie genovesi del Mar Nero prosperarono ed arricchirono Genova. Nel corso dei quasi due secoli della sua vita, la colonia genovese di Caffa, vide complicarsi le sorti. Caffa fu assediata nel 1343 e nuovamente nel 1346-47. Fu in questo periodo che la peste si diffuse nei territori dell’Orda d’oro, finendo per raggiungere e decimare i tatari che stavano cercando di espugnare Caffa.

Il cronista piacentino Gabriele de Mussis racconta che nella primavera del 1347 gli assedianti si convinsero di non avere più forze sufficienti per conquistare la città. Ricorsero allora a una sorta di guerra batteriologica: «legarono i cadaveri su catapulte e li lanciarono all’interno della città, perché tutti morissero di quella peste insopportabile. I cadaveri lanciati si spargevano ovunque e i cristiani non avevano modo né di liberarsene né fuggire». L’epidemia si introdusse così anche fra i genovesi.
Il khan tataro Jani-Beg non fu comunque in grado di mantenere l’assedio e una flotta genovese riuscì a lasciare Caffa, ricominciando a portare i carichi di seta e spezie verso occidente e facendo scalo prima di tutto a Costantinopoli. Lo svolgimento dei fatti non può essere ricostruito in tutti i dettagli, ma fu voce allora corrente, raccolta anche dal cronista fiorentino Matteo Villani, che quell’unica flotta, nella quale si trovavano topi e marinai già contagiati, sia stata responsabile dell’introduzione della peste nel Mediterraneo e in Occidente.

Nel settembre del 1347 la peste comparve nella capitale bizantina, da dove si diffuse in Turchia e in Grecia. Poco dopo venne segnalata ad Alessandria e da qui si diffuse in Egitto, a Cipro e, nella primavera del 1348, in Siria. Uno dei primi giorni di ottobre del 1347, riferisce la cronaca del francescano Michele da Piazza, una flotta genovese composta di dodici navi raggiunse il porto di Messina. Erano sicuramente le stesse che avevano già portato la peste a Costantinopoli e che stavano proseguendo nel loro itinerario. Nelle due o tre settimane del viaggio verso la Sicilia l’epidemia era esplosa in tutta la sua virulenza. Bastarono pochi contatti fra gli equipaggi già decimati e i messinesi perché la Sicilia e la Calabria si aprissero al dilagare dell’epidemia. Dopo qualche giorno le navi furono scacciate da Messina e quel che restava della flotta proseguì verso Genova, ma si vide rifiutare l’ingresso nel porto. Dirottò allora su Marsiglia, che fu raggiunta il 1° novembre e immediatamente infettata, divenendo una nuova porta d’ingresso europea per l’epidemia.
Anche se non pienamente documentata, questa dovette essere la conclusione del fatale viaggio della flotta di Caffa: pochi giorni dopo nelle acque di Marsiglia, si narra: «le navi fantasma, cui nessuno osava avvicinarsi benché fossero piene di sete e derrate preziose, venivano sballottate dal vento con i loro equipaggi di cadaveri».
(J. Rouffié, J.C. Sournia, Les épidémies dans l’histoire de l’homme, Flammarion, Paris 1984, p. 94). Secondo alcune fonti dell’epoca, gli abitanti di Caffa avrebbero immediatamente gettato in mare i corpi malati lanciati all’interno delle mura dagli assedianti, ma la peste riuscì comunque a entrare in città in questo modo oppure, secondo altre fonti, per via dei ratti che passavano dalle schiere dei mongoli agli abitanti della città.


La prima foto, è una mappa dell’Italia del 1285 secondo le strategie dei Doria e degli Spinola, realizzata dal team di scenografi “Cri Eco” per il film “Mondi Paralleli, prigionieri del Tempo” in uscita in autunno 2020 nelle sale. L’ultima foto è un dipinto del porto di Genova nel Medioevo esposto al Museo Galata di Genova.

La Peste Nera che colpì l’Europa fra il 1347 e il 1351 fu la più grande pandemia che la storia ricordi. Si calcola che, nel volgere degli anni, il terribile morbo uccise tra i 20 e i 25 milioni di persone, che corrispondevano a circa un terzo della popolazione europea del tempo. Ben più lontano, tuttavia, si era originato il morbo virulento che avrebbe seminato morte e distruzione in due continenti. Nel 1331 infatti la peste comparve nell’Impero Cinese, a cavallo fra le regioni del Pamir e dell’Altaj, quando la penuria di cibo e la moria dei topi neri portarono le pulci ad attaccare l’uomo. Dalla Cina iniziò dunque il suo cammino verso l’Europa. Il cammino della peste nera.

CARLO GATTI

Rapallo, 16 Aprile 2021

 


LE SCOPERTE GEOGRAFICHE 1488-1522

LE SCOPERTE GEOGRAFICHE

1488 - 1522

autori

Prof. Stefano Facchini

Prof.ssa. Eva Riccò

a.c. Carlo GATTI

Rapallo, 15 Marzo 2021


I PALOMBARI - COSTA CONCORDIA

I PALOMBARI

Manuela Maria Campanelli, biologa e giornalista per diverse testate tra cui il Corriere della sera, si occupa di divulgazione scientifica dal 1992.

PALOMBARI: I silenziosi protagonisti del recupero dei superstiti Caso Concordia

Vestono una tuta di gomma, calzano scarponi di piombo e portano pesi e un caratteristico elmo di rame che ha affibbiato loro il bonario nomignolo di “teste di rame”. Sono i Palombari delle Forze Specialistiche Subacque della Marina Militare. Sono loro che continuano con perseveranza ad aprire con microcariche varchi di dimensioni prestabilite nella struttura sommersa al fine di trovare superstiti e tracciare vie di fuga per il personale stesso che entra nella nave. <<Siamo giunti sul posto in 12, divisi in due squadre, il giorno dopo l’incidente con l’elicottero. Successivamente ci ha fatto d’appoggio la nave Pedretti che, imbarcando una camera iperbarica mobile e un infermiere specializzato in fisiopatologia subacquea, ha fornito a noi e agli altri soccorritori la copertura sanitaria contro i barotraumi>>, ci aggiorna il primo maresciallo palombaro Fabio Masuzzo, da oltre 15 anni nel Gruppo Operativo Subacquei (G.O.S.). Lui e i suoi compagni hanno effettuato immersioni sino alla profondità di 36 metri ad aria di profondità per eseguire ispezioni sotto lo scafo  e valutare i danni e la stabilità dell’imbarcazione. I loro orecchi, sempre tesi a cogliere il minimo rumore proveniente dal relitto, e i loro occhi sono i più affidabili testimoni di un disastro che a detta loro, che sul posto ci sono stati, si può definire “impressionante” sia per la mole della nave e sia per il numero di passeggeri coinvolti che non ha uguali nella nostra storia civile.

In soccorso ai sommergibili

E’ infatti la prima volta che il G.O.S. è stato impegnato con un’unità passeggeri di simile portata. <<Venti anni fa è stato attivato per soccorrere il personale intrappolato nell’Espresso Trapani, il traghetto che nel 1990 affondò tra l’isola di Levanzo e lo scoglio dei Porcellini a poche miglia di distanza dal porto della città siciliana. Allora persero la vita 13 persone>>, ricorda Riccardo Fantini, capitano di Corvetta della Marina Militare Italiana. Di solito questi intrepidi subacquei si occupano di altro, in particolare del soccorso ai sommergibili sinistrati. <<Per i nostri sei sommergibili, tra cui si annoverano il Todaro e lo Scirea noti per la loro innovativa tecnica di propulsione, non c’è stato fortunatamente mai bisogno del loro intervento>>, spiega Riccardo Fantini. <<Si sono però proposti per soccorrere il sommergibile Kursk in cui morirono oltre cento uomini della Marina russa: l’Unione Sovietica all’epoca non accolse il loro intervento, come del resto quello degli altri paesi NATO>>. Con questo compito il G.O.S. fa parte di ISMERLO (International Submarine Escape and Rescue Liaison Office), un servizio internazionale che coordina tutte le marine che vi partecipano sulle stesse coordinate di fuga e di salvataggio dai sommergibili.

I mezzi speciali

Il palombari del G.O.S, elite della nostra Marina, hanno aperto sette varchi per raggiungere    parti sommerse dello scafo della Costa Concordia.

 

Giusto l’anno scorso il G.O.S. ha partecipato all’esercitazione Bold Monarch, tenutasi a Cartagena in Spagna, volta a migliorare la cooperazione per il recupero di vite umane dai sommergibili danneggiati. Per svolgere questa attività utilizza il mini sommergibile SRV 300, un veicolo subacqueo capace di raggiungere una profondità di 300 m e di trasferire sul sommergibile sinistrato 12 operatori a ogni viaggio, e la campana McCann, collegata con la superficie e in grado di arrivare a 120 m di profondità e di trasferire 6 persone per ogni viaggio. Molto utile nei soccorsi si è dimostrato l’A.D.S. (Atmospheric Diving Suit), una tuta in metallo collegata alla superficie da un cavo ombelicale che crea al suo interno una pressione ambientale e permette quindi agli operatori di immergersi fino a 300 m di profondità senza dover eseguire pressurizzazioni e depressurizzazioni. Grazie a essa i subacquei possono svolgere interventi in tempo reale e rimanere sottacqua il tempo che vogliono in base alla loro resistenza fisica.

Le bonifiche di ordigni

I palombari del G.O.S. sono inoltre chiamati a disinnescare piccoli e grandi ordigni esplosivi, appartenenti al II conflitto mondiale e rinvenuti a tutt’oggi nei mari, nei fiumi o nei litorali: un’attività che li impegna con più di 4.400 interventi all’anno. Chi sono dunque questi arditi operatori? <<Sono persone altamente addestrate, già in servizio presso la Marina, che hanno superato un’accurata selezione>>, spiega Riccardo Fantini. <<Prima di essere ammessi al corso che dura 10 mesi e prevede 300 immersioni tra diurne e notturne, si sottopongono a prove di idoneità fisica che valutano per esempio la capacità respiratoria, cardiaca e cerebrale. Una volta superate possono accedere alla selezione in vasca per testare la loro acquaticità>>. Il loro brevetto è davvero sudato ed ha un rateo di successo del 15 per cento circa: su 20 candidati solo 5 o 6 lo ottengono.

 

 

Manuela Campanelli

Rapallo, 28 luglio 2018

 


LA GARA PSEUDO SPORTIVA CHE CAMBIO' LA STORIA NAVALE

LA GARA PSEUDO SPORTIVA … CHE CAMBIO' LA STORIA NAVALE

 

 

I migliori bookmakers europei sono inglesi. Le prime scommesse e le prime agenzie sono nate nel Regno Unito. La popolazione anglosassone ha una cultura per il gioco nettamente differente dalla nostra.

Gli inglesi vivono la scommessa come un divertimento quotidiano e come un piacevole passatempo. Scommettono in tutti gli aspetti finanziari, economici, politici, NAVALI, sociali, musicali e sportivi. E’ possibile giocare con l’exchange online, puntare sul colore del cappellino della Regina o scommettere sulla vittoria del Liverpool nella Premier League.

Tempo fa scrissi:

I CLIPPERS LE FERRARI DELL’800 - LA GRANDE CORSA DEL TE’ del 1866

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=141;i-clippers-le-qferrariq-dell800

Di cui riprendo un passo:

Nella “Londra Vittoriana”, con il consumo del tè, ci fu un vero cambiamento di costume nazionale, in pratica s’instaurò una moda che ebbe molte ripercussioni persino nei trasporti marittimi. L’annuale arrivo del primo carico di tè primaverile cinese, considerato il migliore (una pianta dava tre raccolti), veniva pagato 10 scellini ogni 50 piedi cubici, e 100 sterline di premio erano destinate al Capitano del clipper che arrivava per primo sui mercati. Questo tangibile riconoscimento diede il via ad una vera e propria “corsa del tè” che coinvolse navi e capitani famosi, in primo luogo il “Cutty Sark” che, ironia della sorte, non riusciva ad imporsi sul diretto concorrente “Thermopylae”, malgrado la sua meritatissima fama. Molte furono le coppie rivali di clippers che divisero l’opinione pubblica mondiale in vere e proprie tifoserie di scommettitori e appassionati che investivano somme ingenti sulle vittorie di questi “levrieri d’altura”. Qui si aprirebbe un capitolo lunghissimo e affascinante, purtroppo, per ragioni di spazio, non possiamo che fare riferimento soltanto a quella che fu la gara più spettacolare che sublimò le grandi corse dei clippers.

Dopo questa premessa che fa da sfondo “all’atmosfera inglese” di metà ‘800, vi racconto oggi un’altra “leggendaria sfida”, con contorno di scommesse a livelli stratosferici, che pose fine ad un’accanita discussione tecnica che aveva diviso l’opinione pubblica (marittima) inglese in due fazioni: quella rivoluzionaria a favore dell’elica come propulsore navale, e quella favorevole al sistema a pale che aveva, da par suo, molti sostenitori nel settore dei trasporti fluviali e lacustri.

Entrando nello specifico della questione, dobbiamo anche aggiungere che nel corso della prima metà del 1800 vi furono i più radicali cambiamenti nelle costruzioni navali, dal legno al metallo, dalle vele al vapore e, ultima e non meno importante, dalla ruota a pale all'elica.

In questo clima “rivoluzionario” che toccò l’Inghilterra dei Trasporti Marittimi, dobbiamo ricordare che nella “Perfida Albione” * che possedeva la più grande flotta, sia mercantile che militare, si svilupparono accese discussioni e lotte accanite, negli ambienti marittimi, tra i sostenitori dell'una e dell'altra soluzione, ed ognuna esaltava i pregi e i difetti dei due sistemi.

Per superare il problema e mettere la parola fine a tutte le teorie esistenti, gli Inglesi si affidarono, con molto senso pratico, ai risultati di due gare dal sapore molto sportivo: una di velocità ed una di potenza tra due navi identiche ma con le propulsioni in voga in quel momento.

Ora capite che il riferimento alle gare tra i CLIPPERS e al rituale delle scommesse non era casuale…

Ogni discussione su questo tema ebbe fine nel marzo del 1845, in stile tipico anglosassone, quando due fregate da 880 tonnellate, praticamente identiche, la Rattler e l'Alecto, accettarono di sfidarsi in mare aperto.

Le due navi furono entrambe dotate di una macchina da 220 hp, con la differenza che quella della Rattler azionava un'elica mentre quella dell'Alecto una coppia di ruote a pale.


Arrivò il giorno della sentenza PRATICA con le due navi che si sfidarono davanti al mondo!

Il confronto consisteva in due prove: di velocità la prima, e di potenza la seconda.

-      Per la gara di velocità, su un percorso di 100 miglia, la Rattler vinse con un distacco di diverse miglia.

-      Per la gara di potenza, fu deciso di prendere in prestito dalle famose Università britanniche il termine sportivo: TIRO ALLA FUNE.

Le due navi furono unite poppa a poppa con un grosso cavo e furono spinte in direzioni opposte con le macchine a tutta forza, in una sorta di tiro alla fune…;

dopo alcuni minuti la Rattler trascinava la Alecto fino a raggiungere la velocità di 2,7 nodi.

Fu la dimostrazione “pratica” e definitiva della superiorità dell'elica sulla ruota a pale.

Naturalmente in quell’ultima occasione si registrarono impennate altissime nel BETTING (scommesse) su tutti i territori della Gran Bretagna comprese le colonie di quel tempo.

Un po’ di Storia

La propulsione a vite (elica) aveva alcuni evidenti vantaggi potenziali per le navi da guerra rispetto alla propulsione a pale. In primo luogo, le ruote a pale erano esposte al fuoco nemico in combattimento, mentre un'elica e i suoi macchinari erano nascosti in sicurezza ben al di sotto del ponte. In secondo luogo, lo spazio occupato dalle ruote a pale limitava il numero di armi che una nave da guerra poteva portare, riducendo così la sua bordata. Questi potenziali vantaggi erano ben compresi dall’ammiragliato britannico, ma non era convinto che l'elica fosse un sistema di propulsione efficace. Fu solo nel 1840, quando la prima nave a vapore a propulsione ad elica al mondo, la SS Archimedes, completò con successo una serie di prove contro le più veloci imbarcazioni con ruote a pale, che la Marina decise di condurre ulteriori prove della tecnologia. Per questo scopo, la Marina costruì la HMS Rattler.

 


ALECTO - la sconfitta


L'HMS Rattler, (nella foto) La vincitrice del confronto

Era uno sloop in legno della Royal Navy dotato di 9 cannoni, fu la prima nave da guerra britannica ad adottare un’elica a vite azionata da un motore a vapore.

 

L'HMS Rattler fu varata il 13 aprile 1843 al Sheerness Dockyard  e trainato nel cantiere di Maudslay  per l'installazione dei suoi macchinari. Ricevette un motore a vapore verticale a quattro cilindri ad espansione singola con doppio cilindro, della potenza di 200 nhp e sviluppa 326 chilowatt (437 ihp). Un gran numero di eliche furono testate durante questo periodo su HMS Rattler per trovare il progetto di elica più efficace.

Fu ramata al Woolwich Dockyard e vennero fatta diverse prove nel corso dei due anni successivi, il suo primo giorno in mare fu il 30 ottobre 1843.  L'HMS Rattler fu impegnato contro diverse imbarcazioni dotate di ruote a pale dal 1843 al 1845. Queste prove estese dimostrarono in modo conclusivo che l'elica a vite era superiore alla ruota a pale come sistema di propulsione

Il suo armamento consisteva in un singolo cannone da 20 cm e otto cannoni da 32 lb posti sulle fiancate. Fu commissionata a Woolwich il 30 gennaio 1845 e fu comandata per la prima volta dal comandante Henry Smith.

* Nota

La perfida Albione - Non fu Mussolini a inventare l’espressione “Perfida Albione” per definire spregiativamente l’Inghilterra. Le ricostruzioni storiche hanno trovato associazioni tra l’aggettivo e il nome usato dai greci per definire la Gran Bretagna già nel tredicesimo secolo. Ma la sua canonizzazione viene attribuita al Marchese Agostino di Ximenes, un francese di origine spagnola, autore alla fine del Settecento di un verso che diceva

“Attacchiamo la perfida Albione nelle sue acque”.

Da quei tempi rivoluzionari mal giudicati in Inghilterra, i francesi presero a usare l’espressione spesso in ogni occasione di tensione tra i due paesi. Ma quando – nel XX secolo – i rapporti tra i paesi migliorarono con le alleanze militari nelle due guerre, il disprezzo per l’Inghilterra fu raccolto dai regimi fascisti e in special modo in Italia da Mussolini il quale parlò di “Perfida Albione” attaccando l’adesione britannica alle sanzioni anti-italiane dopo l’invasione dell’Abissinia. E proseguì a usare l’espressione successivamente.

Dopo la fine del fascismo, le due parole sono rimaste in uso di solito ironico o hanno trovato altre vite soprattutto in campo calcistico (ma anche in Argentina per la guerra delle Falkland): Dick Cheney le usò per esprimere il disappunto degli Stati Uniti nei confronti di un incontro tra il ministro britannico David Miliband e il presidente siriano Assad.

Il disprezzo per la Gran Bretagna è rimasto però parte di un vecchio pezzo della cultura reazionaria italiana, e del comune sentire di una piccola parte ignorante degli italiani (nuove destre hanno invece sviluppato attrazioni e interessi per quel paese). È diverso dal disprezzo per la Francia, spesso condiviso dalle stesse teste microscioviniste: non è frutto di una competizione spesso perdente, ma di un complesso di inferiorità (Mussolini stesso si riferiva alle pretese inglesi di mantenere il proprio impero negandolo all’Italia).

Gli ex marittimi, ma anche i cultori della storia navale moderna, conoscono le tipologie di propulsori in uso nella nostra marina; tutto o quasi tutto sull’ELICA, ma c’è il glorioso settore dei Modellisti Navali che sul sistema di propulsione a pale ne conosce sia l’applicazione tecnica che la sua storia. Ecco cosa scrivono gli Amici dei MITI DEL MARE

 

Breve storia della ruota a pale

Sembra che già gli antichi romani, e successivamente i cinesi, abbiamo fatto dei tentativi con delle ruote a pale mosse da schiavi, ma alla fine convennero sulla migliore efficacia del remo. Lo stesso Leonardo Da Vinci ipotizzò un battello con ruote a pedali (Fig. 1). Fu solo verso la fine del XVIII Secolo, quando si rese disponibile un sistema di propulsione a vapore abbastanza efficiente, che furono compiuti i primi tentativi di propulsione navale con l’impiego di ruote a pale. Il primo risultato soddisfacente fu ottenuto dal battello di 17 metri Charlotte Dundas che, con una macchina a vapore da 12 HP e una sola ruota a poppa, riuscì a rimorchiare delle chiatte lungo un canale americano.
I primi successi commerciali furono conseguiti dai battelli di Fulton, il Clermont ed il Phoenix, mossi entrambi da due ruote laterali, che effettuarono anch’essi servizio negli Stati Uniti.

Anche in Europa cominciò a diffondersi questo sistema di propulsione ma i battelli erano sempre di dimensioni ridotte e destinati a navigazioni fluviali o costiere. Solo nel 1819 la nave americana Savannah, comunque dotata di un’attrezzatura velica completa, attraversò l’Atlantico usando la macchina a vapore solo per alcune ore. Negli anni successivi furono costruite navi più grandi e veloci in grado di effettuare lunghi viaggi. Ma le ruote a pale erano pesanti, ingombranti e vulnerabili. Furono quindi soppiantate dall’elica, anche se la cosa non fu priva di contrasti.

 

Qualche nota tecnica


Le prime ruote erano a pale fisse. Successivamente, per migliorarne il rendimento, furono costruite ruote a pale oscillanti in grado di orientarsi grazie ad un sistema eccentrico. Ma queste erano più pesanti e costose e quindi non sempre preferite. Le ruote venivano raramente sistemate a poppa dove risentivano del beccheggio. Quelle sistemate ai lati della nave erano disturbate dal rollio e, sulle navi da carico, risentivano delle variazioni di immersione. Comunque le ruote laterali furono sempre preferite per le navi d’altura. La figura 2 mostra una ruota a pale con cerchio di protezione esterno.

ALCUNI LINK PRODOTTI DAI NOSTRI SOCI

LA PROPULSIONE AZIPOD - di Giuseppe SORIO

=53:maritthttps://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=437:azipod&catidimo&Itemid=160

QUANTO E’ SLEGATA L’ANCORA DALL’ELICA E DAL TIMONE - di John GATTI

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=784;giuan&catid=53;marittimo&Itemid=160

 

L'ABC DELLE MANOVRE PARTE DALLE ELICHE di John GATTI

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=743;john&catid=53;marittimo&Itemid=160

UNA MANOVRA  CON L’USO DELL’ANCORAdi John GATTI

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=693;john&catid=53;marittimo&Itemid=160

Carlo GATTI

 

Rapallo, 6 Gennaio 2021


FORTE CASTELLACCIO - GENOVA-Parte Seconda

I FORTI DI GENOVA

PARTE SECONDA

IL FORTE CASTELLACCIO


La caserma sulla Val Bisagno, vista dall’esterno delle mura

E’ stato la sede di due ENTI molto importanti per il

MONDO DELLE NAVI E DEI MARITTIMI fino agli ANNI ’50-’60

La torre vista da Nord

 

GENOVA RADIO E L’ISTITUO IDROGRAFICO DELLA MARINA

GENOVA RADIO

Genova-Radio (Icb), nel cuore del quartiere di Quarto, proprio davanti alla storica Via Romana della Castagna, è una ex stazione radiofonica fondata nel 1952 e all’epoca usata per comunicazioni in ambito marittimo.

Composta da due diverse stazioni: quella ricevente nel quartiere levantino, l’altra dislocata a pochi chilometri, sul Monte Righi – i suoi trasmettitori si trovano oggi all’interno dell’antico forte denominato “Il Castelaccio” (sembrerebbe che lo stesso Guglielmo Marconi abbia definito questo luogo “una delle migliori postazioni d’Italia per le radiotrasmissioni”). Entrambe le stazioni, ricevente e trasmittente, erano impiegate per adempiere a diverse funzioni: trasmissione di messaggi in codice Morse tra nave e radio; invio di telegrammi, ad esempio ai parenti, durante la permanenza in mare lontano da casa; uso del sistema telex per la trasmissione di dati commerciali; invio di chiamate di soccorso 24 ore su 24, 365 giorni l’anno.

due tralicci di oltre 60 metri che ancora svettano nel bel mezzo dell’antico abitato di Quarto e la passione di alcuni “agguerriti” amatori, tengono in vita la memoria di questa eccellenza genovese e di un mestiere, quello del radiotelegrafista, ormai scomparso.

La radiotelegrafia a GENOVA

Forte Castellaccio e Torre Specola

Il complesso visto dal parco del Peralto


Mentre le prime operazioni erano svolte grazie allo sfruttamento di onde corte, a varie frequenze, la chiamata di soccorso sfruttava le onde medie a 500 kHz: usata per circa 90 anni nell’ambito del Servizio Radio Mobile Marittimo per la sicurezza in mare, tutte le stazioni radio che utilizzavano la radiotelegrafia in onda media avevano l’obbligo di assicurare l’ascolto continuo su questa frequenza, con un operatore preposto o tramite un ricevitore, in modo da ricevere in ogni momento SOS e messaggi di “urgenza”, per  salvaguardare la sicurezza della vita umana in mare. Solo nel 1999, la 500 kHz è stata rimpiazzata da sistemi digitali satellitari. Era possibile anche sfruttare queste tecnologie per permettere a chi si trovava in mare di utilizzare un sistema radiotelefonico e fare telefonate a casa anche se, molto dispendiose in termini di consumi di corrente e di tempi di organizzazione, questo tipo di chiamate non potevano svolgersi troppo di frequente.

Gli operatori, radiotelegrafisti capaci e ben preparati, derivavano la loro conoscenza da precedenti impieghi a bordo di navi e imbarcazioni: perlopiù facevano parte di una categoria di Ufficiali della Marina Mercantile, esistente all’epoca in cui ancora le comunicazioni avvenivano per via telegrafica, ed erano chiamati “marconisti”, nome coniato in memoria dello stesso Guglielmo Marconi, padre delle radiocomunicazioni. Tutti quelli che aspiravano ad un impiego nelle radiocomunicazioni su navi mercantili o aeromobili civili dovevano conseguire un apposito brevetto, un certificato per radiotelegrafisti rilasciato dal Ministero delle Poste. Un mestiere affascinante e motivato da grande passione personale, che oggi è scomparso, dovendo soccombere ai progressi della tecnologia. Le apparecchiature utilizzate da Genova-Radio erano degne di nota e tutte di qualità: dapprima, i trasmettitori Collins BC-312 e BC-3124, poi gli italiani Allocchio-Bacchini OC-11.

Oggi Genova-Radio ha quindi perso la maggior parte delle funzioni di un tempo e, costretta a soccombere di fronte alle nuove tecnologie, resta perlopiù inutilizzata. Visto l’interesse riscontrato, l’ipotesi di creare un museo delle radiocomunicazioni in questi luoghi, con le apparecchiature di una volta, non sembra fuori luogo: un’opportunità di rilancio e promozione di un mestiere scomparso? Perché no…

ISTITUTO IDROGRAFICO DELLA MARINA


IIM - Istituto Idrografico della Marina - Italia
Passo dell'Osservatorio 4, 16134 Genova ITALY
Tel : +39 010 24431 (centralino) - Fax : +39 010 261400


 

Sede dell’Istituto Idrografico della Marina

Storia. L'istituto fu fondato con regio decreto il 26 dicembre 1872 e alla sua guida fu chiamato il capitano di fregata, matematico e idrografo Giovan Battista Magnaghi, con il compito di eseguire il rilievo idrografico dei mari italiani e di produrre la documentazione nautica nazionale.

FORTE CASTELLACCIO

Il Forte Castellaccio al Righi, sulle prime alture di Genova, come si presentava nei primi anni del '900.

A sinistra si nota ancora la costruzione che ospitava il Corpo di Guardia della Porta Chiappe, mentre la restante porzione ospitava un piccolo ristorante.

Venne successivamente demolita per allargare la strada di accesso.

La casamatta di sinistra alloggiava il cannone di mezzogiorno che, sino all'inizio della seconda guerra mondiale sparava un colpo ogni mezzogiorno in punto che serviva come segnale orario per la sincronizzazione dei cronometri di bordo delle navi.


Facciata della Torre Specola ottocentesca compresa all'interno del forte Castellaccio, caratteristica per l'uso del mattone rosso come materiale da costruzione. Fino alla vigilia della seconda guerra mondiale, ogni giorno dalla torre veniva sparato un colpo di cannone alle 12 in punto. Oggi è sede dell'osservatorio meteorologico dell'Istituto idrografico della Marina militare.

Dietro vi è la Torre Specola, costruita a pianta ottagonale in mattoni rossi dal 1817 al 1825 dall'architetto militare Giulio D'Andreis.

Venne edificata sulla sommità di una roccia adiacente al Forte chiamata Quadrato delle forche in quanto era il luogo, ben visibile da tutta la città, dove dal Cinquecento fino a tutto il Settecento i criminali condannati a morte venivano impiccati.

Costruita inizialmente come opera autonoma con proprie mura, venne chiamata Forte Specola. Disponeva di otto piazzole armate di cannone, una per lato, dotata di apposita finestra di ventilazione e scappamento dei fumi di sparo.

Pochi anni dopo, tra il 1830 ed il 1836, furono costruite le nuove caserme del Forte Castellaccio e le due fortificazioni vennero circondate da un unico bastione, accessibile con un ponte levatoio.

Per la sua posizione panoramica, la località è meta di genovesi e turisti.

 

IL CANNONE DI MEZZOGIORNO

Lo storico genovese Mauro Salucci ricorda così quel rito cittadino:

Ci parla della Vecchia Genova l'usanza di fare sparare il cannone dalle alture del Righi, tutti i giorni a mezzogiorno. Quel botto univa dall'alto tutta la città, dai camalli del porto che cessavano il lavoro alle mogli che attendevano a casa e capivano che era l'ora di buttare la pasta nella pentola con l'acqua che bolliva. Chi poteva tornava a casa, chi era troppo lontano si rifugiava in una delle tante e mitiche trattorie del porto o dell'angiporto, come quella stranota de "Il Toro" della Coscia di Sampierdarena, dove ogni tanto capitava anche D'Annunzio a pranzo. A Pasqua il botto accompagnava le campane slegate che suonavano per la città, il mattino del Sabato Santo, quando al conclamare di campane e botto di cannone ci si lavavano gli occhi alle fontane, all'acqua benedetta chi poteva. Oggi, nella vastità del territorio della "Grande Genova" e del suo rumore forse un botto simile non verrebbe neppure percepito.

UN PO’ DI STORIA

Stato:……………….. Regno di Sardegna, Ducato di Genova

Tipo: …………………… Forte

Costruzione:……....... 1818-1836

Materiale:…………….. Il forte in pietra, la Torre Specola in mattoni

Condizione attuale… Parzialmente utilizzato da enti pubblici e da privati

Utilizzatore………….. Regno di Sardegna

Funzione strategica. Caposaldo integrato nel sistema difensivo

Termine funzione…. Post Seconda guerra mondiale

Forte Castellaccio è un'opera fortificata compresa nelle “MURA NUOVE” a difesa della città, costruita lungo il ramo della cinta difensiva che dal FORTE SPERONE scendeva lungo il crinale della Val Bisagno.

Il complesso del Forte Castellaccio comprende in un unico recinto bastionato due caserme e la Torre Specola. Fa parte del complesso anche la cosiddetta "Tagliata Nord", un ulteriore sistema difensivo del forte, costruito nel 1840 in direzione del Forte Sperone. Questa struttura era collegata al forte con una breve galleria, oggi murata; nei locali dell'annesso corpo di guardia è oggi ospitato un piccolo ristorante.

Il complesso verso la fine dell’Ottocento ospitava una guarnigione di 600 soldati, ai quali se ne potevano aggiungere altri 1000, alloggiati “paglia a terra”, in caso di necessità. L'imponente a dotazione d’artiglieria comprendeva 22 cannoni di varie dimensioni, cinque mortai e numerosi pezzi di dimensioni minori.

Le quattro facce sul lato esposto verso la città presentano ognuna due feritoie laterali e sono coronate da caditoie. L'interno è su due piani fuori terra, più un sotterraneo con cisterna.

La torre poteva ospitare una guarnigione di 60 soldati, ai quali se ne potevano aggiungere altri 120, alloggiati “paglia a terra”, in caso di necessità.

Sul tetto è presente un locale sopraelevato, costruito intorno al 1911 dall’Istituto Idrografico della Marina, che fino agli anni sessanta del Novecento ospitò un Osservatori Meteorologico. Utilizzata come deposito ed archivio dallo stesso Istituto Idrografico.

Oggi la Torre è abbandonata. Fra il 1875 e il 1940, da una casamatta collocata sulle mura esterne, a mezzogiorno esatto veniva sparato un colpo di cannone, con funzione di segnale orario per la sincronizzazione dei cronometri di bordo delle navi; questo sparo era comunemente chiamato “il cannone di mezzogiorno. Sospesa allo scoppio della seconda guerra mondiale, questa tradizione non fu più ripresa.

Si hanno le prime notizie certe di strutture di difesa in questo sito dal 1319, quando vi fu costruito dai Guelfi un castello con “mura e fossi”, raffigurato in illustrazioni quattrocentesche come un recinto di mura che racchiude due torri quadrate. Fu ricostruito una prima volta nel 1530, questa volta come un unico massiccio torrione, che con la costruzione della Mura Nuove, nel 1633, fu integrato nelle stesse ed utilizzato come caserma e deposito di polveri da sparo. Una nuova ricostruzione avvenne nel secolo successivo: nelle illustrazioni dell'epoca appare come formato da due caserme parallele allineate lungo il recinto di una grossa polveriera. All'interno della fortezza a quell'epoca esistevano ancora pochi ruderi dell'antico castello, completamente scomparsi nel rifacimento ottocentesco.

Verso la fine del Settecento numerosi rapporti conservati negli archivi della Repubblica di Genova evidenziano la necessità di onerosi lavori di manutenzione, tra i quali il rifacimento del tetto della caserma, ormai fatiscente.

La caserma principale vista dal cortile interno

Dopo l'annessione della ex Repubblica Ligure napoleonica al Regno di Sardegna, il forte subì una radicale trasformazione tanto da rendere la zona su cui sorgeva una sorta di cittadella fortificata, idonea sia per una difesa delle mura da attacchi esterni sia per controbattere a possibili insurrezioni da parte della popolazione locale.

Le vecchie strutture furono completamente demolite nel 1818 e il forte fu ricostruito in accordo ai nuovi criteri dell'arte militare. A lavori in corso, il progetto fu modificato intorno al 1827: le murature già realizzate e non più previste dal nuovo progetto non furono tuttavia abbattute, ma riutilizzate come terrapieno a difesa della nuova caserma, e sono tuttora visibili. La nuova caserma, costruita intorno al 1830, è divisa in due sezioni: un lungo edificio a due piani che si affaccia sulla via Peralto, dove erano collocati anche magazzini e locali di servizio, tra i quali due grandi forni, ed un altro affacciato sulla Val Bisagno, adibito esclusivamente a camerate. Quest'ultima aveva il tetto a falde, del quale restano solo i pilastri di sostegno.

La caserma sulla Val Bisagno, vista dall'esterno delle mura

Così intorno alla metà dell'Ottocento descrive il Castellaccio lo storico Giuseppe Banchero:

«Questo era dapprima un gran torrione edificatovi dal genovese governo per difesa della città e delle valli, essendo situato sulla cresta dei monti che dividono questa vallata del Bisagno al lato orientale della città. Ne fu ampliata la fabbrica circa il 1818; in seguito fu arricchito di altre opere che lo rendono assai più importante, tanto più per la dominazione che ha sulla città e perché protegge la superior parte della vallata detta del Lagazzo, dove sono situate le fabbriche di polveri ed i magazzini di deposito delle medesime.»

Durante i moti del 1849, i rivoltosi riuscirono a impossessarsi del forte, da dove spararono colpi di cannone contro i soldati regi. Al volgere degli avvenimenti in favore di questi, che nel frattempo avevano rioccupato la città, gli insorti abbandonarono il forte, che il 10 aprile fu ripreso in consegna dalle autorità militari.

Storia recente

Verso la fine dell'Ottocento il duplice scopo di difesa della città da attacchi esterni o di sedare possibili rivolte popolari era venuto meno. Durante la Prima guerra mondiale nel forte furono reclusi dei prigionieri di guerra austriaci.

Nel 1924 nel forte esisteva già una prima stazione radio, chiamata ITALO RADIO (nominativo morse ICB), che nel 1929 fu assorbita dal ministero delle Poste e Telecomunicazioni con il nome GENOVA RADIO, nominativo tuttora esistente. Già nel 1924 il personale civile addetto alla radio era alloggiato nei locali del forte.

Durante la Seconda guerra mondiale, il 1º febbraio 1945, nel fossato della cosiddetta "Tagliata sud", le Brigate Nere fucilarono sei partigiani; i condannati, già da tempo rinchiusi nel carcere di Marassi, furono prelevati all'alba e condotti al Forte Castellaccio dove ebbe luogo l'esecuzione; la località fu scelta perché all'epoca interdetta ai civili. Il fatto è ricordato da una targa commemorativa nel luogo dell'eccidio. Un'altra targa ricorda altri due partigiani fucilati dai nazifascisti all'interno del forte, sempre nei primi mesi del 1945.

Alcuni locali del forte sono oggi utilizzati come magazzino dall'Istituto Idrografico e altri, da qualche anno, sono affittati ad alcuni privati. La caserma affacciata sulla Val Bisagno versa in stato di completo abbandono, come abbandonata è anche torre Specola.

Il complesso non è liberamente accessibile.

Come arrivare

Il forte è raggiungibile in auto dal centro di Genova seguendo le indicazioni per il Righi e poi, superata la stazione a monte della funicolare proseguendo su via del Peralto, l'antica strada militare, oggi asfaltata; dalla strada una breve diramazione, oggi in cattive condizioni, porta all'ingresso principale del complesso, superato il quale una rampa conduce direttamente alla Torre Specola e quindi, con una conversione a "U", al cortile interno dov'è l'ingresso della caserma, distante circa 250 m dalla torre.

In alternativa è possibile raggiungere il Righi con la funicolare che parte da Largo Zecca, risalendo poi a piedi lungo le mura per qualche centinaio di metri.

Carlo GATTI

Rapallo, 17 dicembre 2020

 


CENNI STORICI SUI FORTI GENOVESI

FORTI GENOVESI

CENNI STORICI

PARTE PRIMA

La Genova turistica é tutta da scoprire perché i genovesi amano tenere i loro SEGRETI nell’anonimato. Questa peculiarità tutta ligure, ci porta spesso a fare tappa lungo i suoi itinerari nascosti, poco reclamizzati e quindi sconosciuti, uno dei quali ci porta oggi a visitare i 16 FORTI che le fanno da cornice.

GENOVA è stata, da sempre, epicentro della vita politica e culturale del Mediterraneo per la sua posizione strategica. Per difendere questa posizione Genova si è lungamente dotata di mura, torri e castelli. Della cerchia più interna (e più antica) rimangono pochi tratti di mura, alcune porte e alcune torri medievali. Delle "nuova mura" costruite tra il 1700 e il 1800, invece, rimangono notevolissime testimonianze cancellate dall'espansione della città solo nella parte a mare (in particolare con l'abbattimento del promontorio tra la città e Sampierdarena). In questo percorso, che lambisce e protegge la città, si trovano forti, mura, torri, polveriere ancora in buone condizioni e in un contesto naturale bellissimo e quasi incontaminato per una città così stretta tra il mare ed i monti come è Genova.

 

ELENCO DEI FORTI: Forte Begato; Forte Belvedere; Forte Castellaccio; Forte Crocetta; Forte Diamante; Forte Fratello Minore; Forte Puin; Forte Quezzi; Forte Ratti; Forte Richelieu; Forte San Giuliano; Forte San Martino; Forte Santa Tecla; Forte Sperone; Forte Tenaglia.

QUADRO STORICO DI RIFERIMENTO AGLI AVVENIMENTI STORICI TRATTATI

 

L’assedio di Genova (1747) è un episodio della Guerra di Successione austriaca ed ebbe luogo quando l’esercito austriaco, al comando del conte di Schulenberg, provò a conquistare, senza successo, la capitale della Repubblica di Genova. Gli austriaci avevano preso e successivamente perso Genova l’anno precedente, e fecero della conquista della città ligure il loro principale obiettivo militare durante il 1747 prima di prendere in considerazione altre campagne militari contro il regno di Napoli e l’invasione della Francia.

Le forze di Schulenberg raggiunsero la periferia della città in aprile, ma rendendosi conto di non avere forze a sufficienza per lanciare un’offensiva, dovettero attendere fino a giugno l’arrivo di dodici battaglioni di fanteria dei loro alleati del Regno di Sardegna. Questo ritardo permise agli spagnoli e ai francesi di mandare altre truppe in città al comando del duca di Boufflers per rafforzare la guarnigione.
L’avvicinarsi delle forze franco-spagnole al comando del maresciallo Belle-Isle indusse i sardi a ritirarsi, e Schulenberg abbandonò l’assedio accusando gli alleati.

Il fallimento dell’assedio portò a reciproche recriminazioni tra austriaci e piemontesi, ed entrambi andarono a lamentarsi con i loro alleati britannici per il presunto tradimento l’uno dell’altro.

L’Assedio di Genova (1800) svoltosi fra il 6 aprile e il 4 giugno 1800, ha visto contrapporsi la Prima e la Seconda Repubblica Francese contro la Seconda Coalizione per la difesa della città ligure.

La seconda coalizione antifrancese (1799-1802) fu l’alleanza tra numerose potenze europee costituita per strappare alla Francia rivoluzionaria le sue conquiste sul continente e schiacciare la Rivoluzione restaurando l’antico regime.

In Italia, dopo la lunga serie di sconfitte subita dai francesi nell’estate del 1799, gli Austriaci ripararono dietro l’Appenino ligure e il Piemonte. Il Primo Console Napoleone Bonaparte affidò il comando delle forze (circa 40.000 soldati) al generale Massena.

Il 5 aprile Melas attaccò i francesi, questi ultimi respinsero gli austriaci senza troppe difficoltà, ma il secondo attacco rivelò che il primo si era trattato solo di un diversivo, poiché questa volta attaccarono 60.000 uomini divisi in 4 colonne verso Savona per frammentare il già debole fronte francese, mentre l’ala sinistra austriaca occupò Recco e respinse il settore destro fino a Nervi, a Nord Federico di Hohenzollern conquistò il Passo di Cadibona.  In 3 giorni la manovra venne completata spezzando in due l’armata d’Italia.

Massena, rendendosi conto di essere stato tagliato fuori e circondato dal nemico, il 10 aprile si asserragliò con i suoi uomini dentro Genova e attese; siccome per mare era impossibile ritirarsi, poiché la Gran Bretagna con una squadra navale bloccò il porto già diverso tempo prima, impedendo quindi ogni tipo di approvvigionamento alla città;
In particolare fu proprio la difficoltà di reperire cibo a mettere in ginocchio il capoluogo ligure.

La città, come già detto, soffriva da diverso tempo a causa dello scarso approvvigionamento di cibo, attenuato in parte dai pochi velieri che riuscirono a entrare in porto prima del blocco navale britannico, dimostrandosi così provvidenziali.
Tuttavia la fame nella città era dilagante, siccome oltre agli 85 mila genovesi si aggiunsero altri 35 mila profughi delle zone vicine, da sommare ai 15 mila soldati di Massena, e gli scarsi approvvigionamenti portati dalle imbarcazioni che fortunosamente riuscirono a entrare nel porto prima del blocco navale.
Si ricorda che numerosi Leudi rivieraschi e da Rapallo in particolare, portarono nottetempo provviste alimentari ai genovesi affamati letteralmente sfidando il blocco navale inglese.

Già prima dell’asserragliamento di Massena in città (10 aprile), la squadra navale inglese, guidata dall’ammiraglio Keith, bombardò con i vascelli Cormoran e Camaleon Genova.
La città venne accerchiata anche da terra dalle forze austriache, che per oltre due mesi non fecero passare nessun tipo di approvvigionamento o di informazione in città, fattore che influenzò fortemente le decisioni di Massena.
A questo punto al generale nizzardo non rimase altra scelta che resistere il più possibile nella speranza che l’Armata di Riserva possa giungere in suo soccorso.
A minare il suo tentativo, però, oltre al nemico si aggiunsero anche la carestia e una violenta epidemia.
Organizzò delle cucine all’aperto per chi non aveva mezzi per cucinare dedite alla distribuzione di zuppe vegetali e con dei “buoni” assegnava nominalmente i più bisognosi alle famiglie benestanti affinché gli fornissero l’aiuto necessario per sopravvivere.

Le trattative e la resa

Il 2 giugno, termine di scadenza dato da Napoleone a Massena per l’arrivo delle sue truppe in supporto, quest’ultimo non vedendo cambiamenti si decise a trattare i termini della resa, non sapendo che però Bonaparte aveva già minacciato gli austriaci al punto da far ordinare al generale Ott di sollevare l’assedio, che tuttavia proseguì in seguito alle richieste di quest’ultimo di prolungare la data di ritirata.
Pose però come condizione di non far apparire in nessun punto del trattato la parola capitolazione, minacciando di concludere immediatamente i negoziati in caso contrario.
Inaspettatamente però i nemici si dimostrarono incredibilmente accondiscendenti e disposti ad accettare i termini posti dallo sconfitto, anche perché si era resa necessaria una celere conclusione delle trattative pervia dell’avvicinamento delle truppe del Primo Console.
Il 5 giugno subito dopo l’uscita delle truppe francesi dalla città gli imperiali austriaci vi entrarono sfilando per le vie genovesi.

MAPPE DEI FORTI GENOVESI

LE SENTINELLE DELLA SUPERBA

I forti ottocenteschi sono uno dei simboli della città di Genova. Eppure le loro massicce moli di pietra, alla sommità dei colli erbosi dell’entroterra, sembrano “un altro mondo” rispetto a quello mediterraneo della vicina riviera, che si abbraccia con un unico colpo d’occhio, o a quello metropolitano delle strade e delle case, che ribolle fino alle pendici delle alture…

Questo itinerario inizia e termina nel centro città, fra treni, traffico e musei, ma per gran parte del suo percorso attraversa un ambiente naturale e culturale che è altrettanto genovese del centro storico, delle Strade Nuove Patrimonio dell’Umanità UNESCO e dei grattacieli in vetro e cemento, ma è profondamente diverso nell’aspetto e nella sostanza, talmente diverso che chi non lo conosce fatica a immaginare che possa esistere a così breve distanza – meglio: in così intima unione – con una città di quasi 600.000 abitanti, storicamente ed economicamente legata al mare.

 

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FORTE SPERONE



Rappresenta il punto chiave delle fortificazioni genovesi ottocentesche ed è situato proprio al vertice delle "Mura Nuove" del 1630. Questa costruzione fu probabilmente inglobata nelle Mura Nuove all'epoca della loro costruzione (1629-1633).

Forte Sperone ha una struttura complessa, su tre distinti livelli ad altitudini diverse. Il primo livello, quello in cui si apre l'ingresso principale, ospita magazzini, locali di servizio e cisterne; al secondo livello vi erano gli uffici e le camere per ufficiali e graduati, al terzo gli alloggiamenti per i soldati. La struttura ospitava una guarnigione di circa 300 soldati, che potevano arrivare a 900 in caso di necessità. L'importanza del forte era testimoniata dalla consistenza dei suoi pezzi d'artiglieria: 18 cannoni di varie dimensioni, nove obici e numerosi pezzi di dimensioni minori.

In epoca napoleonica fu progettata una cortina muraria di "chiusura" verso la città, per la difesa del forte da eventuali sommosse popolari. Questa cortina, nella quale fu inserito il monumentale portale d'ingresso, fu costruita dal Genio Militare Sardo dopo il 1815.
Il portale d'ingresso, sovrastato da uno stemma sabaudo in marmo, è dotato di
ponte levatoio, ancora presente con il suo meccanismo di sollevamento.

Durante i moti del 1849 fu occupato per breve tempo dai rivoltosi, i quali tuttavia lo abbandonarono alla spicciolata vedendo gli eventi volgere in favore dell'esercito regio.

Storia recente

Dopo la dismissione delle fortificazioni genovesi, decisa nel 1914 durante la Prima guerra mondiale, nel forte furono ospitati prigionieri di guerra croati e serbi. Dal 1958 al 1981 fu utilizzato come caserma della Guardia di Finanza, e successivamente preso in consegna dal Comune di Genova, che vi ha organizzato manifestazioni culturali nel periodo estivo.

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FORTE CASTELLACCIO

La cinta del forte comprende anche l’ottocentesca Torre della Specola (1817/20) - caratterizzata dalla forma poligonale e dal ricorso all’uso...

 

Ci occuperemo di questo FORTE nella SECONDA PARTE di questa ricerca che sarà dedicata al rapporto tra il CASTELLACCIO ed alcuni importanti Enti Marittimi.

 

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FORTE BEGATO


Forte Begato è un'opera fortificata compresa nelle “MURA NUOVE” a difesa della città di Genova, costruita su un vasto pianoro lungo il ramo della cinta difensiva che dal Forte Sperone scendeva lungo il crinale della Val Polcevera.

Il possente complesso del forte, munito di bastioni angolari e cortile centrale é sostenuto da un ampio terrapieno.

Nel 1818 il governo sabaudo su questo sito fece costruire la caserma, i cui lavori di costruzione si protrassero fino al 1830. Tra il 1832 e il 1836 fu completato il recinto bastionato che si affaccia sull'attuale strada, isolando il complesso dalla città.

Durante i moti del 1849 il forte fu occupato dai rivoltosi, che da lì potevano controllare la Val Polcevera attraversata dalla strada di accesso a Genova dei soldati regi. Dal forte i rivoltosi bombardarono i soldati regi che avevano rioccupato la collina di San Benigno e il Forte Tenaglia.

Nei giorni successivi, vedendo gli eventi volgere in favore dell'esercito regio, i rivoltosi abbandonarono il forte, che le autorità militari, prendendolo in consegna dopo la resa del 10 aprile, trovarono vuoto.

 

Storia recente

Durante la Prima guerra mondiale nel forte furono rinchiusi i prigionieri di guerra austriaci impiegati nelle opere di rimboschimento del monte Peralto.

Durante la Seconda guerra mondiale vi furono approntate delle postazioni contraeree. Nel 1941 un bombardamento aereo inglese distrusse completamente uno dei quattro bastioni. Dopo l’8 settembre 1943 il forte fu occupato dalle truppe tedesche, che lo tennero fino alla fine del conflitto.

Il forte è chiuso al pubblico, e nonostante il suo interesse storico e architettonico, e la costosa opera di restauro, il forte é lasciato a sé stesso. Il giorno 8 ottobre 2015, il Forte è ufficialmente passato di proprietà, dal Demanio Pubblico al Comune di Genova.

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FORTE TENAGLIA (forse Tenaglie)


Forte Tenaglia (208 s.l.m.)  è un'opera fortificata risalente al 1633, originariamente inserita nell'andamento delle “Mura Nuove” a difesa della città, sulle alture i Sampierdarena in un crinale dominante sulla Val Polcevera. Deve il suo nome alla particolare conformazione architettonica che assomiglia ad una tenaglia, opera che in architettura militare viene detta “opera a corno”.

Il possente complesso del forte, munito di bastioni angolari e cortile centrale, sostenuto da un ampio terrapieno, fu edificato tra il 1818 e il 1831.

Nel 1747 durante l'assedio austriaco, la linea occidentale delle mura fu rinforzata secondo i dettami dell'ingegnere spagnolo J. Sicre, per poi essere quasi abbandonato fino al 1797 anno di una rivolta antifrancese, in cui nel forte si asserragliarono l'11 luglio, alcuni insorti, sconfitti dalle truppe del generale Dupont. Nel 1914 l'intero sistema difensivo genovese, ritenuto ormai inadeguato, venne abbandonato, passando dal Demanio Pubblico Militare al Demanio Patrimoniale dello Stato. Nel 1917 vi vennero rinchiusi prigionieri di guerra dell'esercito austro-ungarico. Tuttavia all'inizio del Secondo conflitto mondiale l'esercito modificò le vecchie postazioni sull'opera, edificando quattro piazzole per pezzi di contraerea da 88/56, oggi ancora visibili, nei pressi delle quali furono realizzati piccole strutture per il servizio della guarnigione. Dopo l'armistizio dell’8 settembre 1943, il forte passò nelle mani della Wehrmacht, e fu danneggiato da un bombardamento alleato, effettuato per indurre la guarnigione alla resa, che diroccò in parte sulla cortina meridionale.

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TORRE SAN BERNARDINO


Torre San Bernardino (205 m. s.l.m.) situata sulle alture di Staglieno, è una delle torri ottocentesche costruite a difesa del nucleo della città di Genova, la sua costruzione risale intorno al 1832; terminata cinque anni dopo, fu prevalentemente utilizzata come postazione avanzata della vicina porta San Bernardino. Costruita tra il 1820 e il 1825, questa torre in laterizio presenta notevoli affinità con le altre torri di Genova, quali Torre Quezzi e Torre Monteratti, contraddistinta però da una struttura più snella. A metà Ottocento, la torre era utilizzata come "Caserma, Corpo di Guardia e deposito polveri" fino al 1914, quando viene utilizzata tra vari passaggi e concessioni, per diversi scopi, tra cui abitazione civile.
Nel 1934 Torre San Bernardino passa di proprietà del Comune, e attualmente risulta in stato di abbandono.

La torre è strutturata su tre piani, di cui uno interrato adibito a magazzino con una cisterna per l'acqua. Al piano terra sono presenti 3 cannoniere e numerose feritoie, come al primo piano, dove inoltre la cannoniera presenta ancora l'originale inferriata in ferro ancora funzionante.
All'interno della torre sono ancora presenti gli anelli per l'imbrigliamento dei cannoni, la comunicazione ai vari livelli è assicurata da una ripida scala che porta fino al terrazzo del tetto, in cui si nota la lieve pendenza per il reflusso delle acque che incanalate in un canale portava l'acqua nella cisterna sotterranea. Le artiglierie presenti nella torre comprendeva un cannone da 9 pollici BR (Ret), oltre alle varie armi da fuoco portatili.

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PUIN


È uno dei forti meglio conservati tra tutti quelli che componevano il sistema difensivo ottocentesco della città di Genova.
Il Forte Puìn è il primo dei forti fuori le Mura che si incontrano dirigendosi verso nord, dopo essersi lasciati alle spalle Forte Sperone, che in passato rappresentava il limite nord della cinta muraria a protezione della città di Genova. A nord del monte Peralto, proseguendo lungo la dorsale che divide la val Bisagno e la val Polcevera sono presenti alcune fortificazioni isolate che traggono origine dalle fortificazioni campali allestite nel 1747, per fronteggiare le truppe austriache durante la Guerra di successione austriaca, nei punti in cui erano posizionate delle ridotte.

La realizzazione di Forte Puin fu ideata nel 1815 dagli ingegneri del Corpo Reale del Genio Sardo, con lo scopo di riempire il vuoto nel crinale tra lo Sperone e il Forte Diamante. I lavori iniziarono nel 1815, con la costruzione della torre centrale, mentre tre anni dopo fu iniziata la cinta di protezione attorno completata nel 1828. I lavori terminarono nel 1830, ed intorno a metà Ottocento l'opera disponeva di due cannoni campali da 8 cm, due obici lunghi, due petrieri e quattro cannoncini. La torre, a pianta rettangolare, poteva ospitare una guarnigione fissa di 28 soldati, a cui in caso di necessità se ne potevano aggiungere 45 da sistemare "paglia a terra".

Il forte venne poi abbandonato nell'ultimo decennio dell'Ottocento, e "radiato" dalle liste militari del 1908.

Oggi il forte dopo gli interventi degli anni '60 e dopo piccoli interventi da parte del Comune di Genova, è in buone condizioni, ma al momento non è visitabile.

 

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FRATELLO MINORE


Forte Fratello Minore è un'opera fortificata che si trova sulle alture di Bolzaneto, in Val Polcevera. Il forte sorge sulla vetta del Monte Spino (622 m s.l.m), una delle due collinette che formano la cima del monte popolarmente chiamato “Due Fratelli”, in posizione dominante.

Il Forte Fratello Minore è costituito da una torre quadrata inserita all'interno di un recinto bastionato, originariamente accessibile mediante un ponte levatoio, oggi non più esistente.

La struttura ospitava una guarnigione di 12 soldati, che potevano arrivare a 40 in caso di necessità.

La dotazione d’artiglieria comprendeva tre cannoni da 12 GRC Ret puntati verso la Val Polcevera (dei quali sono ancora visibili i resti delle piazzole), ed un altro più piccolo rivolto verso il Fratello Maggiore. Il magazzino a polvere poteva contenere 1.200 kg di esplosivo.

I rilievi noti come “Due Fratelli” rivestirono un importante ruolo strategico già durante l'assedio del 1747, Queste postazioni erano protette da una linea trincerata, dalla quale si diramavano altre trincee di sbarramento (delle quali restano ancora oggi tracce visibili), per contrastare eventuali sortite delle truppe austriache.

Durante l'assedio del 1800 la zona fu nuovamente teatro di violenti combattimenti tra Francesi e Austriaci, culminati con la battaglia del 30 aprile, quando le truppe francesi del generale Nicolas Soult conquistarono definitivamente queste postazioni; in questi combattimenti rimase ferito Ugo Foscolo, che si era arruolato nella Guardia Nazionale Francese. Il forte Fratello Minore fu costruito a partire dal 1816 e inizialmente, come il Fratello Maggiore e il Puin, era costituito da una semplice torre quadrata. Solo nel 1830 fu decisa l'aggiunta del recinto bastionato.

Alla fine dell’800 il forte, ritenuto non più strategico dalle autorità militari, fu abbandonato, per essere poi utilizzato, durante la Seconda guerra mondiale come alloggio del responsabile della postazione contraerea posizionata sui ruderi del Fratello Maggiore.

Attualmente abbandonato, è liberamente accessibile ma in condizioni di degrado.

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FORTE DIAMANTE


Forte Diamante (667 mt. s.l.m.), posizionato sulle alture tra la Val Polcevera e la Val Bisagno, prende il nome dal monte su cui è stato eretto tra il 1756 ed il 1758 a presidio della posizione dominante terminale della dorsale che si sviluppa a nord dello Sperone. La sua funzione era, insieme ai forti Fratello Maggiore, Fratello Minore e Puin, quella di proteggere lo Sperone (una dei tre settori vulnerabili delle Mura Nuove) come parte di un sistema di difesa avanzata a catena, secondo la logica del campo trincerato

Nella primavera del 1800 il forte, difeso dai francesi della 41ª Demi-Brigade del comandante di Compagnia Bertrand, fu al centro di un violento combattimento quando gli austriaci, guidati dal conte di Hohenzollern, vi avevano posto un feroce assedio; il 30 aprile gli austriaci, con un attacco fulmineo, conquistarono le allora semplici "ridotte" dei "Due Fratelli" e il conte di Hohenzollern intimò la resa al Bertrand con le seguenti parole:

«Vi intimo, Comandante, di rendere all'istante il vostro Forte, altrimenti tutto è pronto ed io vi prendo d'assalto e vi passo a fil di spada. Potete ancora ottenere una capitolazione onorevole. Davanti a Diamante alle 4 di sera. Conte di Hohenzollern.»

La risposta determinata di Bertrand non si fece attendere:

«Signor Generale, l'onore, che è il pregio più caro per i veri soldati, proibisce imperiosamente alla brava guarnigione che io comando, di rendere il Forte di cui mi è stato affidato il comando, perché possa acconsentire alla resa per una semplice intimidazione, e mi sta troppo a cuore Signor generale, di meritare la Vostra stima per dichiararvi cha la sola forma e l'impossibilità di difendermi più a lungo, potranno determinarmi a capitolare. Bertrand. »

Il presidio francese del Diamante (circa 250 soldati) non si arrese e grazie all'intervento del generale Nicolas Jean de Dieu Soult, secondo del generale in capo la piazza di Genova (il futuro maresciallo André Massena) partito dal forte Sperone con due colonne di fanteria di linea, gli austriaci furono ricacciati alle posizioni di partenza.

L'ultimo fatto di rilevanza si ebbe nel 1857, quando un gruppo di rivoltosi mazziniani tentò di occupare il forte dopo aver assassinato un sergente, ma l'azione non durò a lungo e il fallimento dei moti che contemporaneamente dovevano aver luogo in città, portò alla fine dell'azione sul Diamante.

La fortificazione fu abbandonata definitivamente dal demanio militare nel 1914 e mai più utilizzata. All'interno del forte, si trovano la caserma a tre piani, utilizzati come cappella, magazzino e camerate per la guarnigione che poteva variare da 40 a 100 uomini. Cinque grandi obici posizionati verso nord, e due cannoncini a difesa dell'ingresso.


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FORTE CROCETTA

Costruito nel periodo napoleonico su di un’area a 157 metri di altitudine, che aveva in precedenza ospitato anche un monastero.

Il forte si trova poco a monte di Belvedere, sulle alture di Sampiedarena. È situato presso il borgo della Crocetta, sull'area già occupata dal seicentesco convento degli Agostiniani e dall'annessa chiesa del Santissimo Crocifisso.

Impulso alla fortificazione del sito, si ebbe nel 1747 durante l'assedio austriaco di Genova. Solo dopo la caduta dell’Impero Napoleonico, gli inglesi che per un breve periodo occuparono la città, piazzarono sull'altura dei pezzi d’artiglieria rivolte verso la foce del torrente Polcevera. Nel 1849 durante i moti popolari, la fortificazione fu adibita a carcere per i rivoltosi catturati dai soldati del generale La Marmora, in seguito liberati, ma non prima di aver subito il terrore dell'estrema condanna.

Dismesso dal demanio militare nel 1914 e sgombrato dei pezzi d'artiglieria inviati al fronte, a varie riprese fu abitato fino al 1961, e fu anche usato come rifugio per sfollati durante il Secondo conflitto mondiale.

 

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FORTE BELVEDERE

114 metri di altitudine, in una zona già precedentemente fortificata presso il Santuario del Belvedere. Importanza strategica, questo sito, la dimostrò anche nell'assedio del 1747, dove la sistemazione di due ridotte con pezzi d'artiglieria, bastarono a resistere all'urto dell'attacco austriaco. Attacco che l'ingegner de Sicre contrastò con uno sbarramento d'artiglieria fuoco contro fuoco con quello della batteria di Coronata, piazzata sul versante opposto della val Polcevera, tenuta dagli austro-piemontesi.

La posizione fortificata del Belvedere dimostrò la sua utilità il 22 aprile 1800, quando due battaglioni francesi mossero per attaccare la colonna austriaca del Reggimento "Nadascki", le cui avanguardie si erano spinte fino a raggiungere il ponte levatorio della Lanterna.

Nel 1815 dopo la caduta dell’Impero Napoleonico, e l'annessione della Liguria al Regno Sabaudo, iniziarono i lavori per la sua realizzazione. L'opera è stata completata intorno al 1827.

Nel 1914, in seguito alla dichiarazione di Genova "città aperta", le strutture militari furono dismesse e i pezzi d'artiglieria inviati al fronte. Durante il Ventennio Fascista, i locali della Batteria Belvedere Superiore furono utilizzati come "camere di punizione", come testimoniano le scritte e i disegni dei prigionieri. Durante la Seconda guerra mondiale, il forte fu armato nuovamente, con quattro cannoni contraerei da 76/,45 poi nel 1943 il complesso fu occupato dai tedeschi che lo tennero fino alla conclusione del conflitto.

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FORTE RICHELIEU

Il Forte, che sorge sul colle dei Camaldoli a 415 metri di altitudine.

Nel 1747 è affidato all'ingegnere dell'esercito di Spagna J.Sicre. Il 16 novembre dello stesso anno i lavori iniziarono, e per decreto il ridotto fu al Maresciallo Armand du Plessis de Richelieu e assunse il nome di "Forte Richelieu". Il sito, che rivelò la sua importanza strategica durante l'assedio austriaco del 1747, fu quindi dotato di una fortificazione bastionata a pianta rettangolare in cui collocare delle artiglierie.

Nel 1809, in pieno dominio francese, il complesso subì l'ampliamento del perimetro in larghezza, con la ricostruzione delle cortine laterali, il rialzo di tutta la cinta bastionata e l'ampliamento del bastione di ponente con la ricostruzione della cortina di collegamento con l'altro bastione.

A metà Ottocento il forte fu armato con sette cannoni da 16 centimetri, un cannone "campale" da 8, cinque obici lunghi ed otto cannoncini, e poteva ospitare circa ottanta soldati.

Nel 1849 durante i fervori dei moti rivoluzionari, il forte era occupato da 16 militi della Guardia Nazionale che presidiarono da soli la fortezza;

Storia recente

Nei primi del Novecento l'opera fu presidiata da un distaccamento di fanteria, e durante la Grande Guerra utilizzata, analogamente ai forti vicini, come carcere per i prigionieri di guerra austriaci.

Dal 1959 l'accesso è precluso al pubblico in quanto fu installato al suo interno un ripetitore RAI -tutt'oggi ancora presente ed operativo.

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FORTE SANTA TECLA

I forti si trovano alle spalle dell’ospedale di San Martino

 

Costruito nel XVIII secolo a 180 metri sul livello del mare, nel luogo dove sorgeva l’oratorio di Santa Tecla, da cui prende il nome.

Nello spiano dove oggi sorge il Forte, esisteva una chiesetta omonima risalente all'XI secolo e nell'anno 1339 appartenente al Doge di Genova Simon Boccanegra. La costruzione del Forte vero e proprio fu pianificata nell'ambito della più vasta opera di fortificazione della città in opposizione agli assedi austriaci. Così nel 1747 il De Sicre riferiva:

«"L'opera che si propone è un quadrato di trenta "toises" di poligono interno, difeso da due fronti di opera a corno che sarà dalla parte verso i Camaldoli [...]; quest'opera secondo i miei calcoli che ho già presentato alla Ec. Giunta, potrà costare cento quattordicimila lire in moneta di Genova, con poca differenza"

Durante il 1800, il Forte era uno dei contrafforti a difesa del settore orientale della città, perché utile alla difesa del perimetro di Albaro, del quartiere di San Martino, della Madonna del Monte e perché ben collegato al Forte Richelieu.

Nel 1849 durante i moti popolari il Forte fu occupato, come il vicino Forte Richelieu, da insorti e senza colpo ferire fu riconquistata dalle Regie truppe in pochi giorni, come tra l'altro avvenne per Forte Richelieu.

La fortificazione fu poi utilizzata occasionalmente da reparti militari fino alla prima metà del Novecento, durante la Grande Guerra, i locali del Forte furono adibiti a carceri per prigionieri austriaci.

 

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FORTE QUEZZI


Edificato nel XVIII secolo, a 289 metri sul livello del mare, restaurato nel XIX secolo, danneggiato durante la seconda guerra mondiale, è abbandonato.

Forte Quezzi (285 m.s.l.m.) è un forte che domina parte della val Bisagno e quella di Quezzi. È prossimo ad un altro forte Monteratti.

L'ideazione di un forte sulle alture orientali del Bisagno avvenne intorno al 1747, quando la città di Genova l'anno prima fu minacciata dall'avanzata dell'esercito austro-piemontese arrivato ad assediare le alture del vicino monte Ratti, sopra l'abitato di Quezzi.

Dopo l'annessione di Genova al Regno di Sardegna nel 1814, l'obiettivo era quello di impedire al nemico di inoltrarsi nella valle del Bisagno, per questo scopo.

Una relazione militare del 1830 analizzò la condizione del Forte, che venne considerato di scarsa importanza, in quanto in "cattivo stato", e in quanto "la sua posizione non pare essere di grande utilità nella difesa; converrà lasciarlo cadere, e perciò non si faranno più riparazioni."

Storia recente

Durante la Seconda guerra mondiale il primo piano fu demolito per far posto ad alcune postazioni di artiglieria contraerea, armate con sei cannoni da 76/45; che insieme ad altre postazioni lungo il crinale sul versante dell'abitato di Quezzi erano parte della difesa contraerea della città.

Al termine del conflitto il forte fu completamente abbandonato, e depredato di ogni cosa, oggi è un cumulo di rovine lasciate a sé stesso, con mura crollate, rimaste riconoscibili solo quelle perimetrali, e fa da ricovero per greggi.

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FORTE RATTI o MONTERATTI


Il Forte Monteratti o Forte Ratti (560 metri sul livello del mare) è una caserma militare di Genova edificata tra il 1831 ed il 1842 dal Governo Sabaudo per difendere, per l'appunto, il rilievo "Monte Ratti", posto alle spalle dei quartieri genovesi di Marassi e Bavari, da eventuali assedi del nemico che avrebbe potuto, da lì, dirigersi indisturbato verso gli allora piccoli borghi di Sturla, Albaro, e San Martino (oggi quartieri di Genova), da cui puntare verso il capoluogo.

Nel giugno del 1747 Genova fu assediata dagli austriaci, che conquistarono e occuparono il Monte Ratti nonostante la rapida costruzione di ridotte e accampamenti a difesa del rilievo. Riconquistata la posizione dai genovesi il mese successivo, per sollecitazioni del Duca di Bissj e poi del Duca di Richelieu, fu approvata la delibera per la costruzione di opere campali sul monte Ratti, affidata all'impresario De Ferrari.

Monte Ratti fu al centro di un altro assedio nel 1800, sempre da parte dell'esercito austriaco, che conquistò facilmente la ridotta, poi riconquistata il 30 aprile dello stesso anno dai francesi (che allora estendevano il loro dominio anche sulla città di Genova), che costrinsero alla resa un battaglione di 450 austriaci.

Nel 1819, dopo l'annessione della Liguria al Regno Sabaudo, fu decisa, per la difesa del monte, la costruzione di due torri difensive a pianta circolare; entrambe non furono terminate, anche se i loro resti sono ancora ben visibili.

Tra il 1831 e il 1842 vennero gettate le basi per la costruzione di una snella caserma che si estendesse per quasi tutti i 250 m di lunghezza dello spiano sovrastante l'abitato di Quezzi. Fu realizzato quindi il Forte Monteratti, che nella sua costruzione inglobò la preesistente torre, divenuta parte integrante della struttura difensiva. La facciata del forte è diretta verso la città mentre sul retro erano collocate le artiglierie puntate verso la val Bisagno.

Storia recente

Durante la Grande Guerra il Forte fu usato come prigione per i coatti austriaci. Durante il Secondo conflitto mondiale questa postazione contraerea fu utilizzata prima dal Regio Esercito e, dopo l’8 settembre 1943 da reparti della Wehrmacht.

FONTI:

I FORTI DI GENOVA - Aldo Carmine - Sagep Editrice

I QUARTIERI DI GENOVA ANTICA - Giulio Miscosi - Tolozzi Editore

STORIA DLLA REPUBBLICA LIGURE - Antonino Ronco - Sagep Editrice

STORIA D'ITALIA DAL RISORGIMENTO AI NOSTRI GIORNI - Sergio Romano -Longanesi

Ricerca a cura di:

Carlo GATTI

Rapallo, 10 Dicembre 2020