SPEZIA - “LA PORTA DI SION” UNA STORIA CHE NON TUTTI CONOSCONO

 

OGNI ANNO SPEZIA RICORDA

“LA PORTA DI SION”

UNA STORIA CHE NON TUTTI CONOSCONO


Pagina dimenticata quella dell'Operazione Exodus che ci fornisce l’idea di una città che ha fatto dell'accoglienza e della solidarietà la propria carta di identità. Spezia, infatti, è conosciuta come "porta di Sion".

Alla fine della seconda guerra mondiale il golfo spezzino divenne la base di partenza degli scampati ai lager nazisti, che ora guardavano al mare con la speranza di lasciarsi alle spalle le guerre e gli orrori nazisti dei lager.

Nel porto di Spezia erano pronte a partire due imbarcazioni, la FEDE di Savona e il motoveliero FENICE, che avrebbero condotto 1014 profughi ebrei nella loro "terra promessa": Israele. Tutto era pronto, ma alcune navi inglesi bloccarono l'uscita dal porto alle due imbarcazioni venendo a creare così una situazione di crisi internazionale. I profughi a bordo della nave dichiararono lo sciopero della fame e riuscirono così ad attirare l'attenzione delle maggiori autorità inglesi (autorizzate a controllare l'afflusso in Palestina) che cedettero alle volontà dei profughi.


SPEZIA

Monumento commemorativo

Dalla Porta di Sion alla Terra Promessa

Un cuore spezzato e le onde del mare che lo raccolgono

 

Il 17 giugno 2019, su questo Molo Pagliari, nel punto in cui all’epoca c’era la “Porta di Sion”, é stato inaugurato il monumento alla memoria:

SULLE ALI DELLA LIBERTA’

alla presenza di una delegazione di Israele e dalla vice ambasciatrice in Italia, a ricordo delle vicende del 1946.


Presenti il rabbino capo di Genova Giuseppe Momigliano e i discendenti dei protagonisti di quell'evento, i nipoti di Yehuda Arazi e Ada Sereni, alla cui memoria è stata dedicata la piazza all'inizio del molo. All’inizio dell’anno in corso 2020, il percorso della memoria é visitabile da tutti. Un messaggio che il Comune di Spezia lancia alle generazioni future.

Il monumento commemorativo, insieme a un percorso espositivo su molo Pagliari, in forma di simbolo rappresenta quella che probabilmente è la vicenda storica più importante della città di Spezia e che nel 2006 le è valsa la medaglia d’oro al valore civile.


Perché Spezia - Porta di Sion?

- Perché da qui, dopo la Seconda guerra mondiale, partirono navi cariche di ebrei che cercavano una vita migliore nel futuro Stato d’Israele.

- Per la grande solidarietà che gli abitanti di una Spezia devastata dalle bombe seppero dimostrare nei confronti di migliaia e migliaia di ebrei sopravvissuti all'Olocausto.


LO STORICO MOLO PAGLIARI

Nel 1946, da questo molo salparono la Fede e la Fenice e, nel 1947, salpò la storica nave Exodus.


La FENICE ribattezzata ELIAHU GOLOMB


La FEDE

I loro corpi avevano conosciuto la persecuzione nazista, lo sterminio, la Shoá, l’inferno dei lager, ma ora, come ci mostra la foto, questi reduci guardano al mare con la speranza di lasciarsi alle spalle l’Europa degli orrori e di raggiungere la “Terra promessa”.


La nave EXODUS 1947

IL PREMIO EXODUS 2019


“L'importanza che la città della Spezia riserva ogni anno al premio Exodus
– dichiara Marina Piperno – rivela la sensibilità e la volontà di tenere viva la storia e la memoria degli eventi che hanno fatto della città e dei suoi cittadini un importante luogo di riferimento per tutto Il mondo ebraico e per coloro che hanno a cuore la storia del nostro Paese”.

Lia Levi scrittrice e giornalista, è stata insignita del “Premio Exodus 2019” con la seguente motivazione: “In riconoscimento del profuso impegno nell’attività di testimonianza della Shoah e nella promozione della conoscenza della cultura e religione ebraica in Italia e in Europa”.


Marina Piperno è stata insignita della “menzione speciale Exodus 2019” con la seguente motivazione:
“In riconoscimento della sua attività di ricerca attraverso l’arte cinematografica e documentaria delle diaspore delle famiglie ebraiche italiane nel Novecento”.

Levi ha accolto con gioia la notizia del riconoscimento: “A volte capita che ti passi per la testa

l’idea che bisognerebbe inventare delle nuove parole per esprimere nella loro complessità certe specifiche sensazioni e pensieri che ti si stanno muovendo da dentro. Ecco, ci troviamo oggi proprio davanti a uno di questi casi – dichiara Lia Levi - La notizia che il Comitato Scientifico di una città come la gloriosa La Spezia (medaglia d’oro al merito per la tangibile solidarietà offerta agli ebrei sopravvissuti allo Sterminio) mi ha scelta come destinataria del premio Exodus mi è stata fonte di profonda emozione. Quelle “nuove parole” che mi piacerebbe usare per esprimerla al meglio, si sa, non esistono. Vi prego perciò di accettare quelle che accompagnano tutti i giorni mettendoci voi, attraverso le misteriose vie dello spirito, quella carica di reminiscenze, entusiasmo e commozione che spero di essere riuscita a trasmettere. Un grande rabbino ha detto che l’ebraismo, con la sua scontentezza sacra non pretende certo di cambiare il mondo ma solo di “aggiustarlo”. E questa mi sembra essere anche la forza portante della gente della Spezia e di tanti altri che riescono ad operare per render migliore il nostro pianeta”.


Pagliari e Fossamastra al centro di un percorso del ricordo degli eventi del 1946 che legano per sempre Spezia e Israele

UN PO’ DI STORIA

Il Mediterraneo, negli del primo dopoguerra, é attraversato da un popolo in fuga, reduce dalla sua più grande tragedia e disposto a tutto pur di ritornare alla terra lasciata 2000 anni prima. Dalle nostre coste salparono in massa per raggiungere clandestinamente la Palestina, o come preferivano chiamarla, Eretz Israel, la terra di Israele.

Il nostro Paese, pur devastato dalla guerra, offrì loro rifugio e li aiutò a partire dai suoi porti, sicuramenti gli italiani di allora sentivano il peso di scelte sbagliate: come l’infamia delle leggi razziali di pochi anni prima, e sentivano il dovere di farsi perdonare.

IL PROBLEMA: la Gran Bretagna, potenza occupante, sia in Italia che in Palestina, si oppose con tutte le forze a questo esodo di massa per non contrariare gli arabi in rivolta che temevano di diventare minoranza in quel paese.

Il Mossad le Aliyah Bet (organizzazione segreta, progenitore del famoso servizio di intelligence israeliano) fu incaricato da Ben Gurion di portare in Eretz Israel il maggior numero di ebrei della diaspora e spingere la comunità internazionale ad approvare la nascita dello stato di Israele.

Due capi di grande intelligenza e audacia entrarono in scena: Yehuda Arazi e Ada Sereni. Lui, soprannominato “il re degli stratagemmi”, ricercato dagli inglesi che avevano messo una taglia sulla sua testa per aver rubato armi in quantità dai depositi britannici per conto dell’Haganà.

Lei, alto borghese romana d’origine, espatriata negli anni 20 in Palestina, dove aveva fondato insieme al marito Enzo, un eroe del sionismo, il kibbutz Givaat Brenner, e ora pronta ad usare tutte le sue conoscenze italiane per aiutare la causa. Abbiamo incontrato, esperti e testimoni diretti e indiretti, come i discendenti di Yheuda Arazi, e Ada Sereni; e ripercorso i luoghi di questa vicenda, un giallo politico intricato e appassionante, ma anche una toccante storia umana di cui ora vi proponiamo uno stralcio.

Il Comandante Yehuda Arazi, conosciuto con diversi pseudonimi e costretto a celarsi sotto false spoglie, racconta la nipote, guidava l’Istituto per l’emigrazione illegale sorto nel 1938. Il caso internazionale del maggio 1946, il cui epicentro fu proprio il porto della Spezia, vide le imbarcazioni Fede e Fenice preparate a trasportare 1.014 profughi.

La Gran Bretagna, forza occupatrice, regolamentava l’afflusso controllato dei sopravvissuti in Palestina, indicato in 75.000 ebrei da rimpatriare in cinque anni. Ma tale numero si rivelò decisamente insufficiente: l’Europa rifiutava gli ebrei di ritorno dai campi di sterminio, già vittime di un forte senso di straniamento, e ciò aumentò il desiderio della comunità internazionale di ritornare verso la propria terra promessa. Arazi radunò così il flusso migratorio verso i porti italiani, in particolare in quello spezzino, presso il quale la comunità ebraica, ferma sulle banchine per settimane, ricevette, dopo un primo sospettoso approccio, forte solidarietà dagli spezzini.

Il governo britannico continuava a fermare la missione clandestina di Arazi, e le imbarcazioni non potevano partire. Gli spezzini, intanto, continuavano a portare cibo e conforto alla gente ammassata sulla banchina, piena di speranza e al contempo esasperata.
Fu proprio il sostegno della gente locale, la resistenza dei profughi marcata con un lungo sciopero della fame, l’attenzione dei media internazionali e la visita di Harold Lasky, presidente dell’esecutivo del Partito Laburista britannico, che portarono in ultimo le autorità londinesi a decidere di far salpare le due imbarcazioni dal Molo Pirelli, a Pagliari, alle ore 10 dell’8 maggio 1946.
In particolare fu con Harold Lasky, che sollevò la necessità di non affamare uomini, donne e bambini che già avevano patito sofferenze indicibili, che Arazi intavolò un’appassionata trattativa per raggiungere l’obiettivo.

La prima nave di profughi, il Dallin (già Sirius) partì da Monopoli il 21 agosto 1945 con soli 35 immigrati a bordo.


La questione dell’immigrazione ebraica scoppiò come caso internazionale nel maggio 1946: l’epicentro della crisi divenne il porto della Spezia dove erano in allestimento due imbarcazione, la Fede di Savona e il motoveliero Fenice, pronte a trasbordare 1.014 profughi. Come in parte abbiamo già visto, oltre a Yehuda Arazi, detto dottor Paz, l’operazione La Spezia fu preparata da Ada Sereni e Raffaele Cantoni, responsabile della comunità ebraica italiana.

Così nella notte tra il 7 e l’8 maggio 1947 la nave Trade Winds/Tikva, allestita in Portogallo, imbarcò 1.414 profughi a Porto Venere. Nelle stesse ore era giunta nelle acque Golfo della Spezia, proveniente da Marsiglia, la nave President Warfield, un goffo e pesante battello. La nave venne ristrutturata nel cantiere dell’Olivo a Porto Venere per la più grande impresa biblica dell’emigrazione ebraica: trasportare 4.515 profughi stivati su quattro piani di cuccette dall’altra parte del Mediterraneo.

Ma soprattutto quell’operazione godette dell’aiuto di tutta la città della Spezia, già stremata dalla guerra e distrutta dai bombardamenti. Proprio il sostegno della gente, la resistenza dei profughi, l’intervento dei giornalisti di tutto il mondo e la visita a bordo di Harold Lasky, presidente dell’esecutivo del Partito laburista britannico, costrinsero le autorità londinesi – le cui navi bloccavano l’uscita dal porto della Spezia - a togliere il blocco alle due imbarcazioni che salparono dal Molo Pirelli a Pagliari alle ore 10 dell’8 maggio 1946.

 


LA NAVE EXODUS

A narrarci le peripezie dei profughi dello sterminio ebreo ci ha pensato nel 1958 Leon Uris con il celebre romanzo EXODUS, tema ripreso nel libro Il comandante dell’Exodus di Yoram Kaniuk, incentrato sulla figura di Yossi Harel, classe 1919, il marittimo che cercò di portare a Haifa ottomila occhi che avevano visto l’inconcepibile… tanti bambini e orfani, volti dal sorriso indecifrabile.

A EXODUS fu dedicato anche un bellissimo film del 1960 di Otto Preminger interpretato da Paul Newman, Peter Lawford e Eva Marie Saint.

Paul Newman nel film di Otto Preminger "Exodus" del 1960

 

La Exodus mosse da Porto Venere ai primi di luglio del ’47, sostò a Port-de-Bouc….

Purtroppo in quel celebre film s’ignora totalmente il vergognoso cambiamento di rotta della nave EXODUS dopo la sosta nel porto francese Port-de-Bouc, nel Golfo del Leone, in cui i profughi rifiutarono lo sbarco e gli inglesi li riportarono in Germania ad Amburgo; li fecero sbarcare con la forza e l’inviarono nel campo di Poppendorf, un ex lager trasformato in campo di prigionia per gli ebrei!

Il nome Exodus da allora significò il desiderio di giustizia per l’immigrazione ebraica. Ma solo con la fine del mandato britannico i profughi sarebbero potuti tornare in Palestina.

L’imbarcazione divenne un simbolo, prese il nome di Exodus, raggiunse le coste della Palestina, venne attaccata dagli Inglesi e avviò la nascita dello stato di Israele con tutte le conseguenze che sappiamo.


I passeggeri sulla nave nell'attesa della partenza

 

La Fede, la Fenice e la Exodus si mossero tutte dal Golfo di Spezia, una dicitura che non compare nelle carte geografiche israeliana. La Spezia in Israele è infatti indicata col nome di:

«Schàar Zion», Porta di Sion.

Nel nome di Exodus la città di Spezia porta nel Mediterraneo l’idea della pace, della convivenza per il dialogo tra i popoli, e opera tramite il Comitato Euro Mediterraneo Cultura dei Mari, presieduto dal Sindaco della Spezia, Ogni anno La Spezia ospita in Premio Exodus dedicato all’interculturalità.

La nave EXODUS impiegata nelle scene del film era ben diversa da quella reale rappresentata qui sotto.

La nave dei superstiti della Shoah che sfidò gli inglesi

Il nome della nave lo conoscono tutti, grazie al kolossal hollywoodiano, tratto dal romanzo di Leon Uris, diretto nel 1960 da Otto Preminger, con Paul Newman e Eve-Marie Saint: Exodus.

Il film, come il romanzo non si riferiva solo alla vicenda reale della nave piena di profughi ebrei abbordata nel 1947 dalla marina inglese, ma all’intera nascita dello Stato d’Israele. Pur se molto romanzata, la storia della nave piena di sopravvissuti dei campi di sterminio e diretta in Palestina si basava comunque su un episodio reale, che destò immenso scalpore ovunque nel ‘47 ed ebbe certamente un peso nella decisione di far nascere Israele.

Milioni di ebrei scampati alla Shoah vivevano nei campi profughi allestiti in Germania e Austria. L’Inghilterra, che manteneva dal 1919 il Mandato sulla Palestina, aveva limitato il numero di profughi ebrei accettabile a 75mila in cinque anni. La maggior parte degli ebrei che dai campi profughi arrivavano in Palestina dovevano quindi passare per i canali dell’immigrazione clandestina. Più precisamente dovevano passare per Shàar Zion, ‘la porta di Sion’ che era e tuttora è chiamata La Spezia. Le navi clandestine partivano da qui. O almeno ci provavano. Nel maggio 1946 due imbarcazioni stracariche di profughi, la  Fede di Savona e il motoveliero Fenice furono bloccate nel porto dalle navi inglesi. I 1014 passeggeri stipati si trovarono in condizioni terribili mentre il braccio di ferro proseguiva. A sbloccare la situazione fu soprattutto la solidarietà dell’intera popolazione, seguita dall’arrivo di nugoli di giornalisti da tutto il mondo e infine del presidente dell’Esecutivo dei Laburisti Harold Lasky, che si recò di persona a portare la solidarietà del partito ai profughi. Gli inglesi alla fine cedettero e le due navi salparono l’8 maggio del 1946.

Esattamente un anno dopo salpò da Portovenere un’altra nave, la Trade Winds, ribattezzata Tikva, con 1414 profughi a bordo. Poco prima nel Golfo un’altra nave, destinata a una sorte molto più drammatica e ancora più clamorosa di quella delle navi bloccate l’anno precedente

La President Warfield era una grossa nave costruita nel 1927 nel Delaware. Per anni aveva scorrazzato turisti su e giù per il fiume Potomac, poi, nel 1942 era passata all’esercito, che la aveva usata per lo sbarco in Normandia, il 6 giugno del 1944. Due anni dopo fu comprata dall’Haganah, l’organizzazione ebraica che in quel momento si occupava di trasferire illegalmente ebrei, molti dei quali sopravvissuti ai lager, in Palestina.

Anche la President Warfield, dopo essere stata fornita di mezzi adeguati a respingere un eventuale arrembaggio inglese, inclusi tubi in grado di spargere vapore e olio bollente, partì da Baltimora diretta a Portovenere il 25 febbraio del 1947. Nel frattempo era stata ribattezzata EXODUS 1947.

SEGUE UN APPROFONDIMENTO

ECCO LA VERA STORIA DELLA NAVE EXODUS:

Nei cantieri Olivo di Portovenere l’Exodus subì un refitting in modo da poter ospitare un numero enorme di profughi, quasi 5 mila, molti più di quanti non avessero viaggiato con i carichi precedenti, per lo più partiti a loro volta da Portovenere. Dal porto ligure la nave si diresse verso Sète, sulla costa meridionale della Francia, dove il 10 luglio 1947, 170 camion trasportarono 4500 profughi ebrei, nella grande maggioranza sopravvissuti ai campi di concentramento, tra cui 950 bambini. Nella notte tra il 10 e l’11 luglio la nave, con bandiera dell’Honduras, lasciò la costa francese, ufficialmente diretta in Colombia, ma la mèta era in realtà il porto di Haifa.

E’ improbabile che l’Haganah sperasse davvero di sfuggire al controllo degli inglesi con una nave di quelle dimensioni e con un carico così folto. Molto più probabilmente l’intenzione era sin dall’inizio quella di creare un caso clamoroso. La marina inglese, in effetti, seguì con un cacciatorpediniere e alcune navi da guerra l’Exodus sin dall’uscita del porto di Sète. Le navi britanniche affiancarono quella dei profughi fino al limite delle acque internazionali, mentre di fronte al porto di Haifa veniva schierata una vera flotta: 45 navi da guerra. Il 18 luglio, arrivati a 40 km dalla costa, le navi inglesi speronarono l’Exodus poi, dopo aver sparato una quantità esorbitante di lacrimogeni, la abbordarono. Negli scontri con i passeggeri ci furono tre morti e decine di feriti.

L’Exodus fu scortata sino ad Haifa. Di qui i profughi furono imbarcati su tre navi che dovevano riportarli in Francia, a Port-de-Bouc, 40 km da Marsiglia. Ci arrivarono il 2 agosto, ma i profughi rifiutarono di scendere dalle navi. La Francia scelse di non intervenire per sbarcarli con la forza.

Lo stallo si prolungò per tre settimane, con le tre navi ferme di fronte al porto francese. Il Comitato speciale dell’Onu per la Palestina si riunì d’urgenza. L’attenzione di tutto il mondo concentrata sulle migliaia di sopravvissuti che rifiutavano di lasciare le navi. Il danno d’immagine per l’Inghilterra fu immenso anche perché l’odissea dei profughi dellExodus ricordava sin troppo da vicino quel che era successo una decina d’anni prima, quando il mondo intero aveva chiuso le frontiere agli ebrei che cercavano di lasciare un’Europa già minacciata dall’ombra nazista.

La sola alternativa, per il Regno Unito, era deviare la nave verso la parte della Germania occupata dall’esercito inglese ma era comprensibilmente una scelta che il governo di sua maestà esitava a fare. Riportare i sopravvissuti dei lager in quella stessa Germania che ce li aveva rinchiusi, ridotti pelle e ossa dal lungo assedio prima sulla Exodus e poi sulle navi che li avevano riportati in Europa significava rendere ancora più micidiale il colpo inflitto all’immagine dell’Inghilterra.

Alla fine tuttavia gli inglesi si rassegnarono. Le navi furono indirizzate nel porto di Amburgo, i passeggeri furono fatti scendere con la forza e smistati in due campi di internamento. Moltissimi scapparono di nuovo. Alcuni raggiunsero la Palestina. Molti però furono catturati di nuovo e rinchiusi nel campo di Famagosta, a Cipro, fino al voto dell’Onu che decretò l’esistenza dello Stato d’Israele.

Il viaggio dell’Exodus è rimasto un capitolo essenziale nella storia della nascita di Israele. Ma quella nave abbordata, sballottata da una costa all’altra, da un porto all’altro, carica di bambini, donne e uomini che venivano dalla più mostruosa persecuzione della storia, ma a cui lo stesso non veniva permesso di trovare riparo, diventò il simbolo dei profughi di tutto il mondo.

Nella RICERCA dello storico Achille Rastelli dedicata all’esodo degli Ebrei dall’Italia, pubblicato  sul sito di Mare Nostrum, vengono menzionati (in grassetto) due navi: AVVENIRE e CICCILLO che furono costruite nel CANTIERE NAVALE GOTTUZZO di Chiavari. Il nostro socio Comandante Ernani Andreatta, discendente del ramo Gottuzzo, mi ha fatto pervenire la foto del prezioso dipinto del bravo pittore Amedeo Devoto il quale riassume, amplia e storicizza la vita di queste due imbarcazioni che parteciparono al trasferiento, non privo di pericoli, di tanti profughi dai lager nazisti alla Terra Promessa.

Con un semplice clic su Vista-Ingrandisci potete gustare i passaggi cronologici di queste navi divenute, loro malgrado, famose.

 


Carlo GATTI

Rapallo, 8 Novembre 2020


ESODO EBREI-IL CONTRIBUTO ITAIANO alle navi dell'Aliyah Beth 1945-1948

ESODO EBREI

Il Contributo italiano alle navi dell'Aliyah Beth 1945-1948

di Achille Rastelli

 

· Gennaio 4, 2015

Presentato al Convegno AIDMEN tenuto a Roma il 17 novembre 2007 presso la Confraternita di San Giovanni Battista de’ Genovesi.

Dallo stesso convegno vedere anche La Scuola nautica del Bethar di Enrico Ciancarini.

Sostenuti dal sogno del Movimento sionista del focolare ebraico e spinti dalle paure degli anni Trenta diventate poi la realtà della Shoah, circa 125.000 ebrei affrontarono il pericoloso viaggio per mare nel periodo 1934-1948 nonostante i numerosi ostacoli posti dalla dura opposizione del Governo britannico.

All’inizio gruppi sionisti organizzarono e addestrarono dei giovani nei paesi europei e iniziarono a farli arrivare in Palestina, fra questi gruppi c’era già il Mossad e il Bethar. Il mandato inglese su quel territorio era stato assegnato in seguito alla Grande Guerra a cui era seguita la dichiarazione Balfour che aveva promesso una casa nazionale agli ebrei. La popolazione ebrea era dell’11% nel 1922 ed era salita al 30% nel 1937. Iniziarono le ostilità da parte degli arabi e che portarono a migliaia di morti. Per tentare di calmare la situazione gli inglesi introdussero delle limitazioni all'immigrazione ebraica mettendo nel 1939 il tetto di 75.000 immigrati per i successivi cinque anni.


L’EMANUEL con la bandiera ufficiosa ebraica

Lo scoppio della guerra e l’espansione sempre più grande della Germania nazista spinsero alla creazione di una massa di gente sempre più grande che cercava di scappare ad una morte quasi certa, ma erano pochi i paesi che volevano, o potevano accogliere un numero sempre maggiore di fuggiaschi perseguitati.

L’Agenzia ebraica per la Palestina nell’immediato dopoguerra diede vita ad un movimento per portare la gente in quel territorio; si alleò quindi al Mossad e diede vita all’operazione chiamata Aliyah Bet. Ci furono numerosi problemi, come la difficoltà di trovare le navi che erano a rischio confisca, le assurde leggi messe in atto in alcuni paesi per impedirne il viaggio, i rischi della navigazione, armatori disonesti e i tentativi inglesi di bloccare il traffico.

Fra tutti questi problemi c’è da rilevare la grande presenza di navi d’origine italiana coinvolte in questo traffico che ebbe un andamento alterno.

La prima fase, come detto, avvenne fra il 1934 e la primavera 1945, quando si sviluppò sempre di più l’antisemitismo nazista che invase quasi subito l’Austria e una parte della Cecoslovacchia provocando un’ondata di profughi e continuò per tutta la guerra con tentativi più o meno riusciti con la partenza da nazioni alleate della Germania, ma che consentivano un’emigrazione forzata dalle circostanze. Dalla fine degli anni Trenta e per gli anni di guerra il traffico si svolse con navi che partivano dai porti della Jugoslavia, della Romania e della Bulgaria fra difficoltà d’ogni genere fra cui anche il rinvio ai porti di partenza da parte degli inglesi.

Già nel 1934 una nave l’Emanuel, uno schooner a tre alberi, aveva innalzato una bandiera che faceva riferimento all’ebraismo con il sigillo di Salomone (o stella di Davide) al centro.


Il piroscafo STRUMA a Istanbul

Avvennero anche delle tragedie come quella dello Struma: partito da Costanza l’11 dicembre 1942 con 767 passeggeri, fu bloccato a Istanbul per due mesi dietro pressioni degli inglesi con la scusa che non era adatto alla navigazione.

Dopo lunghe discussioni la nave fu rimorchiata in Mar Nero per farla tornare a Costanza fra le urla di disperazione dei passeggeri, ma fu silurata dal sommergibile sovietico SC 213 comandato dal tenente di vascello Denezhko e si salvò solo una persona. Per inciso, su questa nave fu fatta da parte di un gruppo di sommozzatori inglesi una immersione commemorativa nel 2000.

Subito dopo la fine della guerra la pressione degli ebrei sopravvissuti alla Shoah era diventata molto forte, alimentata anche dal fatto che in Polonia, come a Kielce, avvenivano ancora dei pogrom con numerose vittime e nessuno voleva tornare in territori dove aveva subito tremende sofferenze.

Le prime partenze clandestine avvennero dall’Italia, un po’ per la sua posizione geografica, ma anche perché la principale centrale per l’immigrazione clandestina era il nostro Paese, grazie all’attivismo del capo del Mossad in Italia, Yehuda Arazi, e di Ada Sereni.

Alcune navi erano già partite dall’Italia: la Dalin era partita da Bari il 21 agosto 1945 con 35 persone a bordo, ma non si conosce l’origine di questa unità. Italiano erano invece il Nettuno (poi Natan) che effettuò due viaggi da Bari, in agosto 1945 con 73 persone e in settembre con 79.

Pure italiani erano il Gabriella, partito nel settembre 1945 dal Pireo con 40 persone e il Pietro, con due viaggi da Taranto nel settembre e nell’ottobre 1945

con 168 e 174 persone.

L’AMORTA come HANNA SHENESH

La prima unità di una certa importanza fu l’Amorta (poi Hannah Shenesh) partita da Vado il 14 dicembre 1945 con 252 passeggeri. La nave finì incagliata a Naharyia e tutti raggiunsero terra mediante delle corde.

L’HANNAH SHENESH in servizio nella Marina Israeliana

Fu poi la volta del motopeschereccio Rondine, ribattezzato Enzo Sereni: nel gennaio 1946 partì da Vado con 908 emigranti a bordo e arrivò il 17 di quel mese ad Haifa, catturato però da una nave inglese.

La successiva unità italiana fu il piroscafo Fede, ribattezzato Dov Hos, che doveva partire nell’aprile 1946 da La Spezia con 1014 passeggeri, ma fu bloccato dalle autorità italiane sollecitate dal governo inglese. Arazi approfittò dell’occasione per organizzare uno sciopero della fame che fu sospeso quando il segretario del partito laburista inglese Harold Laski salì a bordo per avviare un negoziato. Nel frattempo gli italiani accordarono la partenza purché una parte dei passeggeri passasse su un’altra nave, il motopeschereccio Fenice che adesso si chiamava Eliahu Golomb. Entrambe le unità poterono arrivare legalmente a Haifa.


Il RONDINE come ENZO SERENI

Il 30 luglio 1946 partì da un posto imprecisato dell’Italia il piropeschereccio Maria Serra (poi Katriel Yaffe) con 604 persone e il 3 agosto partiva sempre dall’Italia il Giuseppe Bertolli (poi Twenty Three) con 790 emigranti. Il primo fu catturato dagli inglesi e il secondo dovette accettare la cattura dopo una dura resistenza.

Nel frattempo erano partite dall’Italia altre 5 navi (una da Vado), ma non di bandiera italiana.

Il 23 agosto 1946 effettuava un secondo viaggio il Fede, questa volta con il nome di Arba Hacheruyot con 1.024 passeggeri. La nave fu catturata dopo una dura resistenza nel corso della quale alcuni immigrati annegarono.


Il FENICE come ELIAHU GOLOMB

L’11 settembre 1946 partiva dall’Italia l’Ariella, ribattezzato Palmach con 611 persone e il 9 ottobre 1946 partiva con 611 imbarcati per un secondo viaggio il Fenice, questa volta con il nome di Bracha Fuld con 806 persone. Entrambe le unità furono catturate e sul Palmach ci fu anche un morto.

Fino al marzo 1947 non partirono altre navi di origine italiana mentre altre navi di origine diversa partirono da Taranto e Metaponto. Il 18 gennaio 1947 partiva da Sète l’italiano Merica (ora Lanegev) con 647 passeggeri. Fu catturato dopo una dura resistenza che provocò morti e feriti.


Il GALATA come SHEAR YISHUV

Il 4 marzo 1947 da Metaponto si dirigeva verso la Terra Promessa il Susanna (poi Shabtai Lozinsky) con 823 passeggeri e il 7 aprile 1947 partiva dall’Italia il Galata (Shear Yashuv) con altri 768. Il primo arrivò inosservato sulla costa presso Gaza, il secondo fu catturato dagli inglesi mentre era molto sbandato. Il 15 maggio 1947 partiva da Bari il motoveliero Orietta (poi Mordei Hagetaoth) con ben 1.457 persone, ma fu catturato dagli inglesi. Il luglio 1947 vide l’avventura del President Warfield, più noto come Exodus 1947 con 4.554 passeggeri, ma nello stesso mese partivano le navi italiane Bruna (Haleli Gesher Aziv) con 685 persone e il Luciano (Shivat Zion) con 411 persone, entrambi catturati senza resistenza.


L’EXODUS 1947

Per quanto riguarda l’Exodus 1947 c’è da ricordare un avvenimento drammatico: tutti gli emigranti catturati furono deportati su tre navi dagli inglesi ad Amburgo, creando uno scandalo internazionale. Era inconcepibile che chi era sfuggito alla Shoah venisse portato nel paese che ne era stato responsabile. Gli ebrei furono poi portati in campi situati nella zona statunitense dove ebbero un documento di priorità per l’emigrazione.

In novembre 1947 partivano lo Albertina ora Alyah (forse era già il Pietro) con 182 persone e il Raffaelluccio poi Kadima con altre 794. Il primo fu trovato dagli inglesi abbandonato sulla spiaggia di Naharyia, il secondo fu catturato.

Nel dicembre 1947 partiva da Civitavecchia il Maria Cristina, ora Lo Tafchidinu, e dalla Corsica il Giovanni Maria ora 29 November con 680, entrambe catturate senza resistenza.

L’inizio dell’anno vide un altro grande avvenimento: due grandi navi, Pan YorkPan Crescent, stavano arrivando da Burgas in Bulgaria con più di 15.000 emigranti, ma il Mossad accettò di dirottarle direttamente a Cipro dove i passeggeri furono internati.

Nel 1948 arrivarono quasi soltanto navi italiane partite da porti italiani: Archimede poi Ha’umot Ham’uchadim arriva il 1° gennaio 1948 con 537 emigranti.

Silvia Starita poi Giborei Etzion arriva il 31 gennaio 1948 con 280 emigranti.

Ciccillo poi Yerusheliam Hanetzura arriva il 12 febbraio 1948 con 670 emigranti.

Sette Fratelli poi Lekomemyut arriva il 20 febbraio 1948 con 699 emigranti.

Esmeralda poi Yechiam arriva il 28 marzo 1948 con 769 emigranti.

Vivara poi Tirat Zvi arriva il 12 aprile 1948 con 798 emigranti.

Michela poi Mishmar Haemek arriva il 24 aprile 1948 con 782 emigranti.

Borba poi Lanitzachon arriva il 16 maggio 1948 con 189 emigranti.

Cristina Tuglia poi Medinat Yisroel arriva il 17 maggio 1948 con 243 emigranti.

L’ultima unità italiana è il Fabio (Krav Emek Ayalon) arrivato il 29 maggio 1948 con 706 emigranti.

Quasi tutte queste unità furono catturate meno le ultime tre che arrivarono dopo la nascita dello Stato d’Israele, avvenuta il 14 maggio 1948.

In conclusione su 69 partenze 37 avvennero dall’Italia, 18 dalla Francia, 3 dalla Grecia, 3 dalla Jugoslavia, 4 dalla Bulgaria, altre sconosciute. Ada Sereni ne conta 40, forse perché considera partite dall’Italia anche Exodus 1947 e le due Pan CrescentPan York che furono modificate in Italia.

Su 69 viaggi, poi, 33 avvennero su navi di origine italiana.

Per quanto riguarda il numero dei trasportati, furono 72.845 gli ebrei che viaggiarono nel programma aliyah Bet, 33.302 quelli partiti dall’Italia e 23.246 quelli partiti su navi italiane.

Una storia particolare è quella del Ben Hecht (ex PY 31 Uss Cythera) che nel 1957 fu comprato dai Fratelli Capano per la Navigazione Libera del Golfo e viaggiò per 40 anni fino al 1998 nel golfo di Napoli con il nome di Santa Maria del Mare.

Un’altra storia particolare è quella del piroscafo greco Haghia Zoni che fu utilizzato nell’aprile 1939 dal questore di Fiume Giovanni Palatucci per far fuggire 800 ebrei: si trattava dell’ex Taranto, costruito nel 1899 dal Cantiere Orlando di Livorno.

Per tornare alla predominanza dell’Italia, questa è dovuta, secondo me, a un fattore oggettivo e uno soggettivo: il primo è dovuto al fatto che l’Italia era “il ponte di lancio” migliore per il Medio Oriente: la Grecia era afflitta da una dura guerra civile, la Jugoslavia era una dittatura con molti problemi interni ed era difficile muovere nel suo territorio grandi masse di profughi.

Bisogna tenere presente che il problema logistico era notevole, considerando che siamo nel primo dopoguerra: bisognava muovere senza dare nell’occhio gruppi di 600/800 persone, provvedere agli alloggi, ai viaggi, ai rifornimenti e all’assistenza igienico-sanitaria. L’unica alternativa valida era la Francia, ma il viaggio dalla Provenza era molto più lungo. Il fattore soggettivo era la maggiore facilità di muoversi in Italia dove, pur con le difficoltà del dopoguerra, si poteva contare su assistenze continue e su appoggi più o meno taciti delle popolazioni locali; c’è da considerare anche l’attivismo delle comunità ebraiche italiane che agevolarono i viaggi.

Anche per quanto riguarda l’acquisto di navi, anche questo doveva esser facile, così come trovare i cantieri dove effettuare le necessarie modifiche alle strutture per ospitare i passeggeri: si trattava quasi sempre di piccole navi da carico o motopescherecci, tutti non attrezzati per trasportare persone.

Per quanto riguarda i cantieri di provenienza delle unità, si nota una prevalenza dei canteri liguri o toscani: per i primi si ricordano l’Albertina che era del cantiere Sangermani di Riva Trigoso, il Rondine di Galleani e Osterle di Arenzano, il Fede di Serra Cervo di San Bartolomeo, il Merica di Briasco di Sestri Ponente, lAvvenire e il Ciccillo di Gotuzzo di Chiavari, il Luciano di Calamaro di Savona. Per i cantieri toscani si notano il Silvia Starita della Cooperativa mastri d’ascia e calafati di Viareggio, il Bruna e il Susanna di Benetti di Viareggio, il Sette Fratelli di Gamba di Viareggio, il Giuseppe Bertolli di Picchiotti di Viareggio. Ricordiamo ancora il Raffaelluccia del Cantiere Navale Peloritano di Messina, il Maria Cristina di Tortorella di Salerno, il San Michele di Starita di Piana di Sorrento, il Vivara di Mazzella di Torre del Greco, l’Orietta dei CNR di Ancona e infine l’Esmeralda di Schiavon di San Pietro in Volta. E’ ovvio che il Mossad non li comprava dai cantieri ma dagli armatori, in ogni modo le unità italiane davano una garanzia di qualità pur essendo economiche. Nessuna naufragò, grazie anche all’abilità degli equipaggi, italiani volenterosi ed ebrei che avevano frequentato scuole nautiche come quella di Civitavecchia o erano dei reduci di guerra delle marine alleate.

Per quanto riguarda gli armatori che hanno venduto le navi, per alcune di esse non sono riuscito a risalire ai proprietari perché si trattava di unità costruite durante la guerra e nel primo dopoguerra, una ricerca ancora da completare. Per altre ho trovato armatori di tutta l’Italia: Liburnum di Livorno (Fenice), Mario Bianchi di Genova (Giovanni Maria), Mario Starita di Napoli (RaffaelluccioSilvia Starita), Tito Neri di Livorno (Luciano), Ernesto Leva di Riva Trigoso (Merica), Onofrio Giacomino di Torre del Greco (Orietta), Tomei di Viareggio (Giuseppe Bertolli), Adragna di Trapani (Ariella) e altri ancora.


Il LINO affondato a Bari

Una breve osservazione riguarda il contributo italiano alla nascita della Marina israeliana. Subito dopo la proclamazione della nascita dello Stato d’Israele le nazioni arabe che lo circondavano gli mossero guerra e i soldati di questa nuova nazione si trovarono nella necessità di costruirsi anche una marina, con mezzi molto spesso improvvisati. Fra le armi di risulta che riuscirono a procurarsi cannoni italiani di vecchio tipo da 76 mm, 102 mm e 120 mm. Soprattutto però riuscirono ad ottenere dei barchini esplosivi del tipo MTM con i quali ottennero i primi successi navali. Ora sia i cannoni sia i barchini, anche se fuori servizio, erano gestiti dalla Marina Militare italiana per cui è molto probabile che sia stata una fornitura riservata alla nuova nazione.


La corvetta MISGAV con cannoni di origine italiana

Dall’Italia partivano però anche forniture di armi per i paesi arabi e Bari era un po’ il centro principale di questo traffico che venne contrastato dal Mossad. Dapprima affondarono nel porto pugliese il trasporto Lino che aveva a bordo 8.000 fucili e 10 milioni di colpi, provenienti dalla Cecoslovacchia e diretti all’Egitto. Le armi furono recuperate e imbarcate sul trasporto Argiro che però fu catturato dagli israeliani con tutto il carico il 24 aprile 1948.

Un'ultima considerazione: questa che ho narrata è una storia di navi, ma non basta: manca la storia degli uomini, sapere come viaggiavano, chi li ha aiutati, sotto quale bandiera navigavano, questa è una storia ancora tutta da scrivere: io non la conosco, se qualcuno la conosce la narri, è un contributo per la storia.

In conclusione questo lavoro, sulla quale ha lavorato molto lo storico navale statunitense Paul Silverstone e dalla quale sono partito per evidenziare il contributo italiano, racconta di una delle numerose migrazioni che sono avvenute nel corso dei secoli nel Mediterraneo e che hanno contribuito, pur fra guerre, massacri e odi di tutti i tipi, a creare una cultura comune di questo mare, grazie anche all’Italia, ponte fra tutte le terre.

 

Rapallo, 1 Novembre 2020

A cura di Mare Nostrum Rapallo

 

 


I CANTIERI NAVALI DI RECCO

CANTIERI NAVALI

RECCO


PRIMA PARTE

 

La recente pubblicazione del libro: RECCO UN PAESE NEL CUORE di Vittorio Massone, ha aperto uno squarcio di luce sulla storia di questa cittadina che pare abbia dimenticato il suo passato ottocentesco come, purtroppo, é accaduto a molte altre cittadine del comprensorio rivierasco che si sono convertite al turismo all’inizio del ‘900.

Ma chi, meglio del Comandante chiavarese Ernani Andreatta, può introdurci in questo capitolo di storia locale, ma anche nazionale, visto il gran numero di velieri costruiti sul bagnasciuga di questo superbo quanto incantevole pezzo di terra?

Porgiamo quindi la parola all’autorevole “Nanni” pubblicando una sua lettera da cui emerge persino la parentela “cantieristica navale” tra Chiavari e Recco!

 

Chiavari 12 Ottobre 2020

 

OGGETTO: Volume su “RECCO UN PAESE NEL CUORE” di Vittorio Massone

 

Egr. Sig. Vittorio Massone Autore del Volume “RECCO UN PAESE NEL CUORE”

Spett.le Ass. Culturale L’ARDICIOCCA

Spett.le Sig. Sindaco di Recco GIAN LUCA BUCCILLI

 

Gent.mi Signori

Ho avuto in omaggio dalla Gentile Signora Carla BOZZO il libro in oggetto. Ne ho molto apprezzato il contenuto e anche le inedite foto del “passato” compresa l’ultima sul tragico scenario della distruzione totale di Recco.

 

Personalmente sono molto affezionato a Recco dato che sono strettamente imparentato con i Gotuzzo, (mia madre Adele) il cui mio bisnonno Francesco detto “Mastro Checco” era appunto nato a Recco nel 1808.

 

Oltre che aver fondato il Museo Marinaro di Chiavari tutt’ora esposto alla Scuola Telecomunicazione Forze Armate di Chiavari (zona Militare) mi sono anche dedicato nel passato alla “grande” storia marinara dei paesi limitrofi tra cui anche Recco. Non solo, i vari costruttori navali di Chiavari e cioè GOTUZZO, TAPPANI e BERALDO erano tutti imparentati tra di loro ma erano tutti originari di Recco. Ho conosciuto personalmente il Sindaco MATTEO BERALDO (per noi Mattelin”) che per molto tempo abitò anche a Chiavari ed era, insieme ai Tappani, mio cugino da parte di Madre.

 

Negli anni intorno al 1990 feci scrupolose e dettagliate ricerche sui libri RINA (Registro Navale Italiano) di allora per trovare eventuali “bastimenti” cioè grandi velieri da due a tre alberi costruiti e varati appunto a Recco. Ne trovai circa sessanta come potete constatare a pag. 12 di questo allegato. Ma sono certo che furono molti di più o, come afferma il “Gio Bono Ferrari almeno 200”! Purtroppo i libri RINA iniziano dal 1860 in poi e per gli altri prima del 1860 bisognerebbe ricercare negli archivi delle Capitanerie, cosa che non ho mai fatto.

 

Ogni volta che si parla di Recco, giustamente riconvertita, dopo la ricostruzione, alla più moderna “focaccia” che gli ha dato negli ultimi decenni “fama e ricchezza” per modo di dire, siamo tutti d’accordo, ma qualche anziano “storico” come me non può fare a meno di ricordare qualcosa di diverso nel suo passato. Ben lungi da ogni benché minima polemica.

Ho cercato di sintetizzarlo al massimo e spero avrete la pazienza di leggerne qualche riga.

Tutto ciò per far capire quanto fosse importante Recco sia prima dei tragici bombardamenti che della gustosissima e ineguagliabile “focaccia al formaggio”.

 

Con i miei migliori saluti

 

Ernani Andreatta

Email: andreattaernani@libero.it cell. 335 392 601

Allegati Pag. 11 – I Cantieri Navali di Recco ed il suo indotto.

LINK

MUSEO MARINARO TOMMASINO-ANDREATTA - CHIAVARI

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=459;nanni&catid=53;marittimo&Itemid=160

SECONDA PARTE

I CANTIERI NAVALI DI RECCO ED
IL SUO INDOTTO

di Ernani Andreatta

Dal libro di Gio Bono Ferrari
Capitani di Mare e Bastimenti di Liguria del Secolo XIX
Edito nel 1939

Gio Bono Ferrari, dedica ben 50 pagine alla storia marinara di Recco. Sono pagine fitte di nomi di navi, di armatori, di costruttori navali, di capitani e marinai, di viaggi, di naufragi ecc. Questo dà un’idea di quanto importante e quanta storia di mare e di fatica c’è in questa cittadina rivierasca che senza fare classifiche di merito o di numero di velieri occupa un posto importante nella storia accanto a Camogli o a Chiavari e a tutte le altre cittadine liguri che per secoli avevano nel mare e nei commerci l’unica risorsa che era una delle poche vie di uscita dalla grama e povera vita del tempo. Non solo, tutti conoscono Camogli che giustamente ha un posto veramente grande nella storia legata al mare ma, se pensiamo che Camogli, per questioni di spiaggia non aveva cantieri navali, mentre Chiavari e Recco hanno costruito navi per secoli. E non erano da meno in armamenti in generale, questo deve farci riflettere e dare a tutte le nostre cittadine il posto che meritano senza campanilismi o piccole gelosie.  Ora Recco, è diventato il paese della “focaccia” per autonomasia, ma un tempo la sua struttura commerciale e sociale era ben diversa.

 

IL CANTIERE NAVALE DI RECCO NEL 1857
La spiaggia prima del mare è  pochissima.
Sulla sinistra si nota il ponte della ferrovia in costruzione.
Il primo treno vi passò nel 1860. Nel cantiere navale è in costruzione il “RE GALANTUOMO” un Brigantino a palo di proprietà dei Gotuzzo, uno degli ultimi che Luigi Gotuzzo costruì prima del passaggio del Cantiere a Paolo Rolla nel 1863.


Il CANTIERE NAVALE DI RECCO nel 1865
notare le due navi in costruzione sulla sinistra e la pochissima spiaggia a disposizione prima del mare.


Già nel 1600 e 1700, a Recco,  esistevano  una miriade di attività navali. Non possiamo andare troppo indietro e dobbiamo riferire la nostra conversazione solo ai tempi più recenti.
Un esempio, dal 1840 sino al 1876, a Recco vi costruirono velieri i Gotuzzo, i Rolla e i Saccomanno tanto per citarne alcuni.

Secondo i registri RINA consultati,  Luigi Gotuzzo (parente dell’omonimo che costruì a Chiavari) vi costruì 16 velieri dal 1840 al 1863. Il Rolla ne costruì 25 dal 1863 al 1875. Il Rolla assieme al Saccomanno ne costruì 3 e altri anonimi circa una dozzina. Ma siamo consapevoli delle nostre manchevolezze nel riportare quanti altri costruttori prima di questi tre nominati si cimentarono nell’arte della costruzione navale a Recco. Ed infatti Gio Bono Frrari nel suo irripetibile volume riporta: Se si facesse il calcolo dei grandi bastimenti costruiti a Recco si sorpasserebbero di certo i 200.

A RECCO, AL TEMPO DELLA VELA, ESISTEVA ANCHE UN INDOTTO IMPORTANTISSIMO.

Oltre ad essere rinomata per le sue campane e i suoi orologi da torre, oltre che avere tra i suoi figli un Nicolosio da Recco, scopritore delle Isole Canarie e un “ferreo” ammiraglio come Biagio Assereto che aveva saputo vincere ben due re alla battaglia di Ponza, Recco era famosa per i suoi “bozzellai”. La grande fabbrica di questo prodotto del quale tutte le navi che si varavano in riviera avevano bisogno, era nei capaci fondaci del convento di San Nicolò. I “canapini” così chiamati, erano i portatori della canapa per fare i cordami. La buona canapa arrivava anche dall’Emilia e veniva portata con una lunga teoria di muli, una vera e propria carovana che faceva l’antica strada di Brignole, Priosa, Favale di Malvaro, Tribogna, la Spinaiola, Testana e Recco. Un grande fabbro, il “Gillio”, “capace di fare dalle “teste di morto” ai grossi Paranchi “ arrivò ad avere  ben 22 operai ai suoi ordini. Poi c’erano i “Ciavairi” o chiodatori, i forgiatori dei perni di rame che in genere provenivano tutti da Masone, lavoro delicatissimo. E non ultimi i Mastri Scultori perché Recco aveva anche la specialità delle belle polene, vere statue, artisticamente scolpite che si mettevano sotto il bompresso. Fino al 1865 c’era l’usanza che quando un barco era pronto sotto il nome del barco si incideva un rudimentale castello. Era una bella affermazione di campanile. Poi l’usanza sparì.

CURIOSITA’

Al tempo dell’epoca eroica della vela (1700-1800) un buon Maestro d’Ascia guadagnava Lire 6 al giorno, cifra favolosa, se si pensa che gli uomini che lavoravano a incatramare o “impeciare” i cavi guadagnavano soltanto due “mutte” al giorno, ossia 80 centesimi.

Ogni barco voleva la sua  campana  di bordo bella e ornata. Così a Recco nacquero anche le fonderie dei  Picasso. Gli armatori vi si recavano personalmente per ordinare le campane. Se erano “Michelini” facevano incidere sulla campana l’effige di San Michele che trafigge Lucifero. Se “Madonnini” il bassorilievo della Madonna del Suffragio. Se erano di Camogli usavano il medaglione della Madonna del Boschetto, San Prospero o San Fortunato come effige. Un Capitano di Camogli che aveva la moglie di nome Maria vi fece incidere “Aspettami Marinin”, un altro “Salvami dai pirati o divo Prospero”.

Oltre 250 velieri varati a Chiavari

Una piccola premessa era necessaria
ma rivolgiamoci ora al vero tema della nostra conversazione:
oltre 250 velieri oceanici varati a Chiavari tra il 1830 e il 1930 i cui costruttori, tutti nati a Recco, emigrarono a Chiavari per costruire le loro navi. Cerchiamo di capirne
i motivi dopo aver conosciuto i personaggi.
I Gotusso comunque , poi registrati come Gotuzzo, nascono come armatori di barchi a Portofino e poi, si spostano a Recco con Luigi e a Chiavari con Francesco (detto Mastro Checco) per diventare costruttori navali  nei primi anni del 1800.


Francesco Gotuzzo detto Mastro Checco nato a Recco nel 1808.
Svolse tutta la sua attività di costruttore navale a Chiavari dove vi morì nel 1865
.

Quando morì aveva ben 9 velieri in costruzione tra “Ciassa di Barchi” (Piazza Gagliardo) e il Cantiere Navale degli Scogli attualmente denominato:

“LUNGOMARE DEI GOTUZZO COSTRUTTORI NAVALI”

Il suo testamento,  che era anche un accordo commerciale, venne firmato dalla vedova, Vittoria Gagliardo (1820-1888), dal figlio Luigi Gotuzzo, da Matteo Tappani, e dagli armatori Erasmo, Sebastiano e Francesco Raffo. Alla sua morte,  nel 1865 come detto,  erano in costruzione nel cantiere degli Scogli ben 9 velieri: BP VENEZIA  (già ultimato e varato), BP PETRONILLA, BP FENICE, NG VIRGINIA, BP ERASMO, BP APENNINO, BP SOLLECITO, BP ANTONIETTA COSTA, BP GIABATTISTA D’ASTE. Tutti grandi velieri a tre alberi come Brigantini a palo e un Nave Goletta il VIRGINIA.

Lasciò scritto che i due quinti dei costi e ricavi sarebbero andati a Matteo Tappani per la sua opera prestata nella costruzione, che aveva anche sposato la figlia di Francesco, Giulia Gotuzzo, mentre i tre quinti andavano al figlio Luigi Gotuzzo con la raccomandazione di “andare d’accordo almeno per 6 anni”.

In pratica Matteo Tappani imparò l’arte di costruttore dal suocero, Francesco Gotuzzo,  detto “Mastro Checco”.


Matteo Tappani, “U sciu Mattè”, nato a Recco nel 1833.
Svolse tutta la sua attività di costruttore navale a Chiavari dove vi morì nel 1924.  Assieme al figlio Francesco fu uno dei fondatori del Cantiere Navale di Riva Trigoso.

I Fratelli Beraldo, tutti Capitani di mare, erano tre:
Giuseppe, 1853-1939, Enrico, 1858-1925 ed
Erasmo, 1863-1946, tutti originari di Recco, per un certo periodo abbastanza lungo operarono e abitarono a Chiavari.  Non siamo in possesso di loro fotografie.

Ma possiamo constatarne la loro importanza dai Capitoli 6 e 7 del Volume “CHIAVARI MARINARA DALL’EPOCA EOICA DELLA VELA . STORIA DEL RIONE SCOGLI” Seconda Edizione del 1997.


Nella foto il B.G. Maddalena Beraldo costruito a Chiavari e varato nel 1920

Era stato costruito proprio nella zona denominata ora Via dei Velieri nella quale furono costruiti e varati molti velieri di vari costruttori come i Briasco, i Brigneti, i Piceni Gessaga, i Copello e gli stessi Beraldo.

I costruttori navali GOTUZZO, TAPPANI e BERALDO erano tutti imparentati, vediamo come:

FRANCESCO GOTUZZO detto Mastro Checco, (1808-1865) coniugato con Vittoria Gagliardo ebbe 9 figli: 5 maschi e 4 femmine.

La terza figlia, GIULIA GOTUZZO (nata 1844) sposò MATTEO TAPPANI (1833-1924) ed ebbero 4  figli: FRANCESCO, costruttore navale divenne poi Podestà di Chiavari dal 1932 al 1942.

La seconda figlia  di Matteo Tappani, TERESA sposò appunto ENRICO BERALDO (1858-1925).

Il quarto maschio di Francesco Gotuzzo, LUIGI (1846-1919) continuò a condurre il cantiere navale di Chiavari lasciando poi, alla sua morte, la direzione al figlio EUGENIO detto Mario.

Nota: Il Luigi Gotuzzo nato nel 1786, che costruì a Recco prima del Rolla, era figlio di Francesco (nato 1759) e Pellegrina Massone mentre Francesco Gotuzzo detto “Mastro Checco” nato nel 1808 era figlio di Francesco e della seconda moglie, Maria Geronima Avegno, quindi fratellastro di Luigi.

ATTIVITA’ COSTRUTTORI NAVALI

SVOLTA A CHIAVARI DA OGNUNO:

Gotuzzo Francesco e figlio Luigi e figlio Eugenio

Oltre 105 velieri costruiti

Tappani Matteo e figlio Francesco

Oltre 55 Velieri

Beraldo e altri (Briasco, Brigneti, Piceni Gessaga,

Copello)  oltre 30 velieri

DOMANDA?

PERCHE’ I GOTUZZO, I TAPPANI E I BERALDO E ALTRI, DI CHIARA ORIGINE “RECCHELINA”, VENNERO TUTTI A COSTRUIRE LE LORO NAVI A CHIAVARI?

Come abbiamo visto nelle precedenti panoramiche di Recco dovevano trovare una alternativa alla concessione demaniale data l’esposizione evidente alle mareggiate quando lo scafo era in costruzione. Pur tuttavia, a Recco nonostante gli spazi limitati, in certi anni come nel 1865 si ebbero 4 vari e addirittura nel 1875, (un anno prima della chiusura del cantiere) 6 vari nello stesso anno. Crediamo che il record spetti a Francesco Gotuzzo.

Quando morì a Chiavari nel 1865, aveva ben 9 scafi in costruzione come dedotto dal suo testamento e dalle divisioni che poi vennero fatte tra Matteo Tappani (che aveva dato assistenza nelle costruzioni) e Luigi Gotuzzo figlio di Francesco. Solo con questi dati possiamo farci un’idea di quanto fosse attiva la cantieristica nelle nostre riviere dato che Chiavari o Recco non erano certamente casi isolati.

Il veliero, a Chiavari, quando i Tappani e i Gotuzzo vi si recarono, poteva essere costruito tranquillamente al riparo delle mareggiate e tutti sappiamo quanto fosse agevole dato la grande quantità di legno da tagliare o lavorato che giaceva sotto la nave.

3)  La spiaggia di Chiavari, specialmente ai primi anni del 1800 era lunga e ininterrotta, con una dolce pendenza verso il mare che consentiva allo scafo, nel momento del varo, di scivolare lentamente senza accelerare la corsa, verso l’acqua.

4) Non appena il veliero toccava l’acqua, inoltre, poteva contare su di una notevole profondità che le assicurava un immediato galleggiamento senza insabbiarsi.

Chiavari - Casa Gotuzzo - Piazza Gagliardo

 

MUSEO MARINARO TOMMASINO-ANDREATTA CHIAVARI

 

GLI ATTREZZI DEL MAESTRO D'ASCIA

Ogni attrezzo corrisponde ad un antenato, che qui continua idealmente a vivere ... queste asce sono intrise del suo sudore, del suo sangue, del suo pensiero ... Ecco spiegata la sacralità del luogo! Gli odori forti della resina, della stoppa e della pece stanno ai vecchi cantieri come l'odore d’incenso sta alle chiese, come il mosto sta alle cantine.

Nel lavoro del maestro d’ascia tutto é cadenzato da segreti e gelosia di mestiere! Dal fabbricare i propri utensili per entrare in qualsiasi “recanto” della barca in costruzione, alla scelta dei manici di legno (pero, melo, limone), alle misure (peso, lunghezza, larghezza) che devono essere armoniche con la sua stazza e con lunghezza del suo braccio. Ogni colpo d’ascia emana una nota musicale che racconta la storia di quel legno (vecchiaia, stagionatura, duttilità, qualità, prontezza d’impiego). L’ascia é affilata come il rasoio da barba. Nel tempo diventa l’estensione dell’arto del suo maestro di cui assume la stessa personalità. E’ solo paragonabile allo scalpello dello scultore, al pennello di un pittore. Se l’occhio ti tradisce e sbagli il “tocco”, devi ripartire daccapo.

 


 

GLI ATTREZZI DEL CALAFATO

La MARMOTTA DEL CALAFATO



VEDUTA DI CHIAVARI NEL 1888


VEDUTA DI CHIAVARI NEL 1912






 

TERZA PARTE

 

RICERCHE E STUDI DELLA PROF.SSA

LUCIANA GATTI

Prof.ssa Luciana Gatti e Prof. Carlo Maccagni – Università di Genova- In attesa di intervenire con la loro relazione.

Il Comandante Ernani Andreatta é da tempo in contatto con la Prof.ssa Luciana Gatti dalla quale ha ottenuto la ricerca (PDF) così intitolata:

ATTI DELLA SOCIETA’ LIGURE DI STORIA PATRIA – Nuova Serie – Vol. XLVIII (CXXII) FSC. II

Cliccando sul titolo sopra si aprie una finestra sulla quale si preme “Salva” per scaricare il pdf di cui al titolo.

LUCIANA GATTI

(é solo un caso di omonimia…)

Un raggio di convenienza”

Navi mercantili, costruttori e proprietari in Liguria nella prima metà dell’Ottocento

Si tratta di un corposo STUDIO di 495 pagine del quale segnalo agli appassionati le pagine relative ai “bastimenti” costruiti a Recco, essendo questo l’argomento di cui ci occupiamo oggi.

La ricerca, come vedrete, riguarda tutta la cantieristica ligure di quel periodo che inizia al Capitolo: 2. Cantieri e costruttori

Pag. 93-94-95-106

A pag.123-124 Appendice 1 – Le navi costruite (1826-30 e 1838-52)

Gli elenchi seguenti segnalano, per gli anni e le direzioni documentate, le singole costruzioni raggruppate per tipi, con l’indicazione di nome, portata, costruttore, proprietario e cantiere.

Ripeto: segnalo soltanto le pagine dove compaiono i Cantieri di Recco.

Pag. 123-124-125-126-127-128-129-131-132-133-135-136-140-141-142-147-150-152-154-155-157-161-162-163-164-166-168-170-173-174-

A pag. 365 Appendice 3 – Repertorio di Costruttori

A pag. 427-438-439-440-450-452-453-454-455-456

Più di tante informazioni sulla carriera della Prof.ssa Luciana Gatti, studiosa e ricercatrice di Storia del Mondo Marittimo Ligure, preferiamo segnalare 10 tra i suoi più importanti lavori di ricerca a cui gli appassionati e followers della nostra Associazione MARE NOSTRUM RAPALLO possano attingere per migliorare la conoscenza delle proprie radici marinare.

Gatti, Luciana

Navi e cantieri della Repubblica di Genova, sec. 16.-18. / Luciana Gatti

Genova : Brigati, 1999]

Gatti, Luciana

Il baro del tempo / Luciana Gatti

Legnago : Edizioni Grafiche Stella, 1999

 

Gatti, Luciana

Sulle maestranze dei cantieri genovesi in età moderna / Luciana Gatti

Fa parte di: Navalia : archeologia e storia

 

Gatti, Luciana

I mestieri a Genova tra medioevo ed età moderna Luciana Gatti

Spoleto : Centro italiano di studi sull'alto medioevo, [s.d.]

 

Gatti, Luciana

L' arsenale e le galee : pratiche di costruzione e linguaggio tecnico a Genova tra Medioevo ed età moderna / Luciana Gatti

Genova : s.n!, 1990-...

 

Gatti, Luciana

Artigiani delle pelli e dei cuoi / Luciana Gatti

Genova : [s.n.], 1986

 

Gatti, Luciana

Le navi di Angelo M. Ratti, imprenditore genovese del 18. secolo / Luciana Gatti

Genova : s. n.!, 2001 (Genova : G. Brigati)

 

Gatti, Luciana

5 : Artigiani delle pelli e dei cuoi / Luciana Gatti

Genova : s. n.!, 1986 (Genova : Prima cooperativa grafica genovese, 1987)
Fa parte di: Maestri e garzoni nella societa genovese fra 15. e 16. secolo

 

Gatti, Luciana

L' arsenale e le galee : Pratiche di costruzione e linguaggio tecnico a Genova tra medioevo ed eta' moderna. Parte prima / [Di] Luciana Gatti

Genova : [s.n.], 1990

 

Gatti, Luciana

Le navi di Angelo M. Ratti, imprenditore genovese del 18. secolo / Luciana Gatti

Genova : [s.n.], 2001 (Genova : Brigati Glauco)

 

Ernani ANDREATTA

 

A cura di Carlo GATTI

Rapallo, 20 Ottobre 2020


 


LA REGGIA DI PORTICI - REAL ACCADEMIA DI MARINA

LA REGGIA DI PORTICI

L'Italia vanta un inestimabile patrimonio artistico, forse il più vasto d'Europa. Dal nord al sud, sono tante le dimore reali che raccontano la storia del nostro paese per cui vale la pena ricordare che da noi si conta il maggior numero di siti UNESCO al mondo: ben 54 censiti nel 2019 dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura. Si tratta di luoghi con un enorme valore storico, archeologico e culturale, un immenso patrimonio che attrae ogni anno milioni di visitatori da tutto il mondo.

Le regge in particolare ci fanno immaginare balli di corte, complotti militari, amori clandestini. Quanti segreti si nascondono tra i corridoi intricati come labirinti, tra le fronde dei giardini e nelle grandi stanze dai soffitti a volta? Nessuno può saperlo.

Oggi ci occupiamo della La Reggia di Portici e della

REAL ACCADEMIA DI MARINA

La stupenda Reggia Borbonica, come mostra la carta sotto, é vicinissima a Napoli. La sua costruzione diede vita al cosiddetto Miglio d’oro: una linea disegnata da stupende ville nobiliari lungo la costa da Portici ad Ercolano.


La Reggia di Portici, costruita a partire dal 1738 per volere del re di Napoli, Carlo III di Borbone e della regina, Amalia di Sassonia, é considerata tra gli esempi più significativi di residenza estiva della Casa reale borbonica e della sua corte.

Situata alle pendici del Vesuvio - tra il bosco superiore (dedicato alla caccia) e quello a valle (di natura ornamentale e prospicente il mare) – fa parte della tradizione dell’aristocrazia napoletana di costruire ville periferiche ai piedi del vulcano.

“Ci penserà Iddio, Maria Immacolata e San Gennaro!”

Con questa espressione il sovrano rispondeva a chiunque gli facesse osservare la pericolosità del luogo.

I lavori di costruzione iniziati da Giovanni Antonio Medrano, furono condotti dal 1741 secondo il progetto di Antonio Canevari e conclusi dai celebri Luigi Vanvitelli e Ferdinando Fuga.

Le preziose decorazioni degli interni furono affidate a Giuseppe Canart, Giuseppe Bonito e Vincenzo Re al quale vanno attribuite: le decorazioni architettoniche dello scalone a doppia rampa e le finiture delle sale delle Guardie e del Trono.

Attraversato l’atrio si accede alla parte inferiore del palazzo caratterizzata dalla grande facciata verso il mare e un’ampia terrazza da cui si dipartono due rampe a tenaglia che conducono al parco curato da Francesco Geri.


Tutta la zona, intensamente abitata in epoca storica e conservata dall’eruzione del 79 d.C., si dimostrò ricca di reperti eccezionali che furono valorizzati e sistemati, in fasi successive, nelle stanze della Reggia fin all’allestimento del
Herculanense Museum divenuto ben presto una delle mete preferite all’interno del Grand Tour; oggi il materiale è custodito presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

Segnaliamo ancora: gli affreschi di Crescenzo Gamba nelle volte (Allegoria della Verità e Aurora); il Gabinetto in stile Luigi XV; il Gabinetto cinese con pavimento musivo - proveniente da Ercolano - e la Sala Cinese, oggi Aula Magna. Attestazione greche e romane arricchiscono logge, viali, giardini, il Chiosco del Re Carlo, l’Orto fitopatologico e gli altri ambiti. Si fa menzione, inoltre, del “recinto del gioco del pallone” realizzato sotto Ferdinando IV.
Diventata, sul finire del XIX secolo (1872), sito per la Reale Scuola Superiore di Agricoltura e sede di un Orto Botanico nel “giardino soprano della Reggia”, dal 1935 ospita la Facoltà di Agraria della Università di Napoli Federico II.

Possiamo chiudere questo capitolo con un’anonima dichiarazione che ci sembra appropriata: “nel corso del tempo il complesso della Reggia di Portici divenne “luogo di memorie d’arte, di memorie storico-scientifiche e paesaggistiche ed è ancora oggi luogo di contrasti in cui vivono l’anima archeologica e l’anima scientifica”.



Carlo III di Borbone

Si dice che tre sia il numero perfetto, che Carlo III di Borbone fece suo ordinando di costruire, oltre al Palazzo di Capodimonte e la Reggia di Caserta, anche il Palazzo Reale di Portici.

Una delle tesi sulla storia del palazzo vuole che il sovrano abbia scelto la costiera vesuviana dopo essere stato invitato, dal principe di Elboeuf Emanuele Maurizio di Lorena, a trascorrere una giornata nel suo palazzo di Portici, da qui partì l’entusiastica idea di commissionare la costruzione di una Reggia nel 1738.

Un’altra tesi ci racconta che nel 1737 Re Carlo III di Borbone scoprì la zona grazie ad una tempesta che costrinse la sua nave a entrare in fretta nel porto del Granatello a Portici. Il posto piacque molto sia alla Regina Maria Amalia che al Re che decise di farvi costruire una delle sue residenze che divenne poi Reggia ufficiale.

I lavori iniziarono nel 1738, e il Re Carlo acquistò poco dopo anche vaste aree verdi circostanti per realizzare un grande parco ed inglobò nella nuova costruzione anche le ville preesistenti del conte di Palena e del principe di Santobuono espandendosi così verso il mare e acquistando boschi e terreni di altri nobili. I lavori terminarono nel 1742, ma la Reggia non fu sufficiente ad ospitare tutta la corte, e così molti nobili fecero costruire stupende ville nei dintorni, creando una zona bellissima che prese il nome “il miglio d’oro” che abbiamo già citato dando così vita alle Ville Vesuviane.

Palazzo Reale di Portici in un dipinto del XVIII secolo


La reggia presenta una ampia e maestosa facciata terrazzata e munita di balaustre. L'edificio ha una pianta quadrangolare e, l'atrio attraverso cui vi si accedeva da una cancellata in ferro prima e successivamente, grazie alla cosiddetta strada delle Calabrie (oggi via Università) che andava a tagliare in due il parco, è sostenuto da nove volte a pilastri.

Il cortile del palazzo, che in pratica è simile ad un vero e proprio piazzale, presenta sul lato sinistro la caserma delle Guardie Reali e la cappella Palatina (1749), mentre un maestoso scalone (1741) conduce dal vestibolo al primo piano, dove si trova l'appartamento di Carolina Bonaparte.

Le già accennate opere di scavo portarono alla luce numerose opere d’arte di valore, tra cui un tempio con 24 colonne di marmo, che furono sistemate temporaneamente nel Museo di Portici, annesso alla Accademia Ercolanese, dove vengono depositati i reperti provenienti dagli scavi archeologici di Ercolano.

 

Tra monarchia e rivoluzione: una storia tumultuosa

Durante la rivoluzione napoletana del 1799, combattuta dai rivoltosi per rovesciare la monarchia borbonica ed instaurare la Repubblica partenopea, la Reggia fu abbandonata e spogliata di numerose opere d’arte a causa della fuga a Palermo della corte reale, che portò con sé 60 casse piene di reperti. Nel 1806, quando divenne re di Napoli Giuseppe Bonaparte, le antichità rimaste a Portici furono trasferite al Museo di Napoli, dove furono sistemate, dopo il ritorno dei Borbone, anche le opere trasferite precedentemente nella capitale siciliana. Il Museo di Portici trovò così la sua fine, anche se il trasferimento degli affreschi venne concluso solo nel 1827.

Sotto Ferdinando II di Borbone, la reggia acquistò un collegamento diretto con Napoli, grazie alla più antica linea ferroviaria italiana (inaugurata nel 1839), ed ospitò anche il pontefice Pio IX, per divenire progressivamente un sito sempre meno frequentato.

 

Il bosco e i giardini all’inglese

Di particolare rilievo è il bosco, disegnato con ampi viali contornati di giardini all’inglese che fanno da sfondo ad opere d’arte tra cui vanno segnalate: la Fontana delle sirene, il Chiosco di re Carlo, la Fontana dei cigni e persino un anfiteatro.

All’interno del parco fu anche allestito uno zoo con specie di animali esotici che il sovrano Ferdinando IV volle acquistare all’estero.

Oggi la reggia ospita la sede della Facoltà di Agraria dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II” ed alcuni musei.

 



Pensato come dimora estiva del Corte, il Palazzo divenne col tempo residenza reale e sede del Museo Ercolanense, voluto da Re Carlo per raccogliere gli oggetti trovati nello stesso periodo ad Ercolano, Pompei e Stabia.


Lo scalone

Le collezioni archeologiche andarono poi a Napoli

Nei primi anni dell’Ottocento le collezioni archeologiche furono trasferite a Napoli e costituirono il nucleo dell’attuale Museo Archeologico Nazionale.

In seguito, durante il Decennio francese (1806–1815), la Reggia fu trasformata da Gioacchino Murat che fece cambiare tutto il mobilio secondo il gusto dell’Impero francese.

 


Con il ritorno dei Borbone la Reggia fu al centro dell’attenzione reale in particolare quando il 3 ottobre 1839 fu inaugurata la linea ferroviaria, la prima in Europa, che collegava Napoli alla Reggia.

 

La scala affrescata dell'ala a mare della Reggia di Portici


 

All’interno del Palazzo Reale si accede al primo piano con un magnifico scalone lungo il quale sono state sistemate le statue trovate ad Ercolano e che fu decorato nei soffitti dallo scenografo del San Carlo. Bellissime le Sale delle Guardie e quella del Trono, stupendo anche il parco, con un giardino all’inglese degradante verso il mare con lunghi viali.

 


Gli interni del Palazzo

Dal 1872 la Reggia ospitò una Scuola di Agraria che poi si è trasformata, negli anni 30 del ‘900, in facoltà di Scienze Agrarie dell’Università Federico II di Napoli.



Oggi la Reggia ospita anche l’Orto Botanico di Portici e L’Herculanense Museum che è l’anima archeologica del polo museale del Sito Reale di Portici e vari Musei delle Scienze Agrarie.

L’orto botanico di Portici

Della Reggia è parte integrante anche l’Orto botanico di Portici che occupa parte del parco della Reggia. Ancora oggi sono visibili le opere architettoniche realizzate nel Settecento: cassoni per le piante, muri di cinta, busti marmorei e fontane, aiuole specializzate, vasche con piante acquatiche e la Serra Pedicino.

 


Ripartita secondo un ordine sistematico, l’esposizione botanica è organizzata per distribuzione geografica e relative tipologie ambientali: vi si allevano conifere nordiche, flora del Mediterraneo, magnolie e piante provenienti dal Centro e Sud America, Australia, Sudafrica e di origine euroasiatica.

C’è anche un giardino storico e, all’ombra dei lecci, c’è il giardino delle felci che è uno degli angoli più suggestivi dell’Orto. Vi si coltivano oltre 400 specie provenienti dai deserti africani e americani. Al verde del giardino storico, si contrappone la natura quasi selvaggia del bosco circostante. L’Orto botanico e il bosco sono luoghi molto belli che meritano di essere visitatati.

ALTRE MERAVIGLIE DI PORTICI

I lavori, realizzati con fondi europei e diretti dall’architetto Ciro La Greca, proseguirono tra mille problemi, ma anche tante soddisfazioni, non solo per la meraviglia della capriata palladiana, ma come la scoperta sotto strati e strati d’intonaco – rimosso con un bisturi da restauro del graffito di un vascello inglese, forse un omaggio alla forte presenza dei figli d’Albione nel Regno, e del disegno di un pentagramma con alcune note – tracciato con la “sanguigna”, una matita rossa in uso fino al 1806 – che all’epoca suscitarono grande interesse tra gli esperti.


Riportiamo la consulenza sul vascello inglese che è stata gentilmente fornita dall’ingegnere navale Lucio Militano, autore, tra l’altro, di libri molto ben documentati sulla Marineria Borbonica: «Il disegno è molto schematico e fatto, probabilmente, non da uomo di mare per certi errori sulla struttura degli alberi e la forma dello scafo. Armata a “nave” con tre alberi a vele quadre, tre vele di prua (fiocchi) e vela di poppa. La vela di poppa (randa di mezzana) fa pensare ad un armamento velico tipico della seconda metà del XVIII secolo in poi; sullo scafo si vedono i portelli dei cannoni, ve ne sono 32 evidenti nei due ponti inferiori e dovrebbero essercene altri 5/6 sul ponte di coperta, per un totale (stimato) di 80 cannoni. In tal caso sarebbe un vascello di terzo rango secondo la terminologia in uso preso la Royal Navy (secoli XVIII, XIX). La nave potrebbe essere la rappresentazione di una della flotta di Nelson al tempo di Ferdinando IV (ma anche successivo). Era un tipo di nave molto diffuso nella Royal Navy, infatti nel 1805 su 175 navi, 147 erano di terzo rango. Per la cronaca il vascello Monarca della Marina Duosiciliana (costruito a Castellammare di Stabia) e trasformato in nave a propulsione meccanica ad elica nel 1854, apparteneva a questa classificazione (detta anche a due ponti). Potrebbe essere stata una nave di questo tipo.»

 


REAL ACCADEMIA DI MARINA

La Real accademia di marina di Napoli, fondata il 4 dicembre 1735 da Carlo III di Borbone sotto il nome di Academia de los Guardia Estendardes de las Galeras, è stato l'istituto di formazione degli ufficiali dell’Armata di mare del Regno di Napoli e quindi delle Due Sicilie.  Dal 1861 al 1878 formò gli allievi ufficiali della Regia Marina Italiana. È la più antica accademia navale d'Italia, nonché progenitrice, insieme alla sua omologa di Genova, dell’Accademia Navale di Livorno.

Al fine di aumentare il numero degli aspiranti, gli anni di corso furono ridotti da quattro a tre, ed il ventaglio d'età fu ampliato fino a comprendere allievi dagli 11 ai 16 anni.

Da un punto di vista dei programmi di insegnamento, l'istituto era egualmente provvisto di elementi teorici e pratici. Oltre alla storia, alla geografia, alla lingua inglese e francese, alla matematica, alla trigonometria piana e sferica, alla fisica sperimentale ed allo studio dei trattati pratici per la costruzione dei vascelli; gli allievi facevano pratica due volte a settimana di armi bianche e da fuoco, artiglierie comprese, e si esercitavano in mare a tenere l'ordine di battaglia.


Sir John Acton

Il sistema di addestramento sul modello spagnolo rimase in vigore fino all'avvento, in qualità di ministro, dell'ammiraglio inglese John Acton, il quale impresse un notevole impulso allo sviluppo della flotta militare.

Come detto in precedenza, l'intendimento originario era quello di allocare i cadetti in un apposito edificio alla Darsena di Napoli. Permanendo tuttavia ancora negli anni Settanta del XVIII secolo l'indisponibilità di tale edificio, fu deciso il trasferimento dell'Accademia a Portici.

Il trasferimento a Portici (1780-1793)

La scelta di trasferire a Portici l'Accademia non fu casuale, in quanto la cittadina vesuviana diventava, da marzo ad ottobre, il centro della vita di corte.

La scelta dell'edificio da destinare all'Accademia di Marina cadde sull'antico convento dei Gesuiti, il quale, alla cacciata dell'ordine dal Regno, avvenuta mediante la prammatica del 31 ottobre 1767, era stato acquisito ai beni della corona. L'antico monastero, similmente a quanto avvenuto per quello che avrebbe ospitato la Reale Accademia della Nunziatella di Napoli, era già stato destinato ad usi militari. Esso ospitava infatti i cadetti del Battaglione Real Ferdinando, corpo di Casa Reale del quale lo stesso re Ferdinando IV di Borbone aveva il grado di colonnello.

L'edificio aveva subìto, rispetto alle origini, numerosi miglioramenti tra cui quelli operati da Carlo Vanvitelli nel 1771, i quali avevano lo scopo di rendere confortevole l'alloggiamento dei cadetti, in quanto i Gesuiti avevano lasciato i luoghi in condizioni pietose. I lavori, iniziati nell'autunno di quello stesso anno, procedettero rapidamente, tanto da potersi considerare ultimati il 27 marzo 1777. Al completamento dei lavori, i cadetti del Battaglione Real Ferdinando vi ebbero accesso, seguendo durante l'anno la corte negli spostamenti tra Napoli e Portici.

All'inizio del giugno 1779, in funzione della determinazione di portare a Portici l'Accademia di Marina, vi fu inviato l'ingegnere delle opere idrauliche della Marina Giuseppe Bompiede, con l'incarico di studiare la situazione e disegnare i piani di un ampliamento. Il progetto risultante vide la realizzazione di un nuovo braccio dell'edificio. I lavori, affidati al Tenente di Vascello, ingegnere idraulico, Salvatore Carrabba, iniziarono alla fine dell'estate del 1779; e furono completati in una prima tranche entro il febbraio 1780. Il completamento della prima fase consentì il trasferimento a Portici di un Comandante, due subalterni, e venti guardiamarina, uno per stanza. Il proseguimento dei lavori consentì il trasferimento dell'intero corpo docente, degli ufficiali, del personale di servizio e di tutti i 40 guardiamarina nell'edificio entro l'estate del 1780.

Il trasferimento nella nuova sede, e la sua prossimità al porto del Granatello, consentiva l'agevole addestramento dei cadetti in mare, il quale veniva effettuato a bordo di una galeotta ivi ancorata. La pratica di artiglieria veniva invece effettuata presso il Fortino del Granatello, antica costruzione sorta intorno ad una precedente torre di avvistamento costruita ai tempi del viceré di Napoli Pedro Alvarez de Toledo y Zúñiga.

L'Accademia fu oggetto di frequenti visite da parte di Ferdinando IV, il quale fin da giovanissimo coltivò un forte interesse per i giochi di guerra. Nelle acque antistanti il Granatello, infatti, e nel bosco che circondava la locale Reggia, si svolgevano spesso simulazioni di combattimenti, cui il re partecipava di persona. All'Accademia passarono inoltre numerosi personaggi di rilievo del tempo, tra cui, il 17 febbraio 1784, il re di Svezia Gustavo III, che ne rimase molto favorevolmente impressionato.


Francesco Caracciolo

La sede di Portici dell'Accademia, che in questo periodo ospitò come allievo il futuro ammiraglio Francesco Caracciolo, fu abbandonata alla fine del 1793, quando l'istituto fu trasferito in un edificio della capitale.

l secondo periodo napoletano (1793-1805)

La sede di Pizzofalcone

Il periodo palermitano (1805-1816)

Il terzo periodo napoletano (1816-18619

Il monastero dei SS. Severino e Sossio (1816-1835)

La sede di Santa Lucia (1843-1878)

Nel regno d'Italia (1861-1878)

A seguito dell’Unità d’Italia e dell'istituzione nel 1861 della Regia Marina proseguì nella formazione degli allievi ufficiali di marina fino al 1868, quando la Reale Accademia di marina fu unificata con la "Regia scuola di marina" di Genova, già della Marina del Regno di Sardegna per creare un unico istituto, con decreto del 20 settembre 1868: la Regia scuola di marineria. L’allora Ministro della Marina, ammiraglio Augusto Riboty, unificò le due scuole in un unico Istituto, e le suddivise in due Comandi, detti Divisioni. Da quel momento gli allievi seguirono i primi due anni di corso presso la sede di Napoli e gli ultimi due a Genova.

Nel 1878, con la trasformazione della Scuola in Accademia Navale con legge presentata dall'allora ministro della Marina, l'ammiraglio Benedetto Brin, furono soppresse le sedi di Napoli e Genova, e fu indicata come sede unica Livorno.

CONCLUSIONE

Come abbiamo visto in questo panorama di valori storici ed artistici inestimabili, PORTICI fa parte di quella storia, arte, cultura, paesaggi, ma anche tradizione, folklore, miti, leggende che hanno fatto grande l’Italia nel mondo. Una miscela di risorse che devono essere conosciute da tutti e tradursi in ricchezza per l’umanità.

Ci ha provato in Parlamento il senatore Sergio Puglia che ha ottenuto l’approvazione dell’ordine del giorno votante la valorizzazione del Real Sito di Portici. Il Governo “opererà nelle opportune sedi al fine di ottenere, da parte dell’Unesco, il riconoscimento del valore universale e l’inserimento dello stesso nella lista dei patrimoni dell’Umanità”.

Carlo GATTI

Rapallo, 14 Settembre 2020


L'MPRESA SEMPRE ATTUALE DI UN CAPITANO CAMOGLIESE

L'IMPRESA SEMPRE ATTUALE DI UN CAPITANO CAMOGLIESE

Molto si dice sui brigantini e l'epoca eroica della vela. Qualcuno evidenzia negativamente la vetustà dell'argomento, cioè afferma che tale periodo appartiene ormai a storie desuete, fuori dai nostri tempi.

Eppure, il nostro Civico Museo Marinaro "G.B. Ferrari" conserva molte testimonianze di quell'epoca che non sono avvolte da antiquate ragnatele del passato, ma "au contraire" - come in ogni museo - si rigenerano, soprattutto per la fruizione delle generazioni future.

Un esempio remoto, e al tempo stesso attuale, è il dipinto raffigurante la nave a vela Trojan, che fu gestita dai fratelli Mortola, ramo "Liggia". Il veliero balzò alle vette della notorietà quando il suo capitano, Filippo Avegno di Camogli, la condusse come prima nave in assoluto nel porto di Gulfport, nello stato del Mississippi, Stati Uniti.
A quel tempo, la struttura portuale era stata appena inaugurata e gli americani erano perciò impazienti di iniziare il loro business del traffico di legname. Tale notizia è riferita dall'insigne custode della cultura marinara camogliese, Giò Bono Ferrari. Ferrari omette però il periodo storico di riferimento di quell'impresa ma, d'altro canto, spiega esaustivamente che il capitano Avegno non solo "inaugurò" il porto statunitense, ma anzi contribuì ad effettuare degli approfonditi sondaggi nei tortuosi fondali di quell'accesso. Fatto sta, che altre navi, dapprima riluttanti ad entrare in porto, si convinsero della sicurezza di quell'approdo: per Avegno fu perciò un tripudio di premi e riconoscimenti.
Bene, si dirà, abbiamo letto il testo di Ferrari; cosa c'è di nuovo?
Ecco, qui si richiama il concetto di rigenerazione e riferimento alle generazioni future.

Tempo fa, la Società Capitani e Macchinisti Navali di Camogli fu contattata dalla Società Storica di Gulfport. Come è noto, gli americani sono attentissimi al loro passato, per cui chiesero se avevamo disponibile un'immagine ben definita della nave Trojan, la quale costituisce ovviamente una pietra miliare nella storia di quel porto. I Capitani di Camogli inviarono immediatamente la foto del dipinto presente in Museo e, in Mississippi, di conseguenza, i nostri interlocutori furono euforici di quella trasmissione.


Il dipinto del Trojan presente al Museo Marinaro di Camogli

Quando la comunicazione con gli amici americani fu stabilita, iniziò un fitto scambio di informazioni sulla nave, dei suoi armatori, delle immagini. Anche noi fummo arricchiti di testimonianze: per esempio, le foto del 24 gennaio 1902 (data effettiva - finalmente nota -  dell'inaugurazione del porto di Gulfport), che mostrano la "nostra" nave ormeggiata e imbandierata!


Il Trojan ormeggiato a Gulfport: è il 24 gennaio 1902

Ma la collaborazione non termina qui: all’inaugurazione della nuova sede della Società Storica di Gulfport – prevista per il 2020 – verrà esposto un modello del veliero lungo un metro e mezzo, attualmente in costruzione presso il laboratorio di un professionista. E aggiungiamo la più grande soddisfazione: il logo della Società statunitense, che è un’immagine stilizzata del Trojan, farà per sempre una splendida pubblicità alla professionalità e intraprendenza camogliese.


La prossima sede della Società Storica di Gulfport. Il logo dell'ente raffigura il
veliero camogliese Trojan (vedi immagine sopra)

Come si vede, le gesta degli artefici della navigazione a vela camogliese sopravvivono nel tempo; anzi, c'è da aspettarsi che altri legami riaffiorino dagli anfratti più inaspettati e che - certamente - ci riempiono d'orgoglio.

BRUNO MALATESTA

10/2019


LE NAVI OSPEDALE ITALIANE

LE NAVI OSPEDALE ITALIANE

LE ORIGINI …

La Fondazione del “Comitato Milanese della Associazione Medica Italiana per il soccorso ai malati e ai feriti in guerra”

Al dott. Cesare Castiglioni si deve la costituzione del “Comitato Milanese della Associazione Medica Italiana per il soccorso ai malati e ai feriti in guerra” di cui ne divenne il Presidente il 15 giugno 1864.

Il suo intento fu quello di creare un'Associazione per fornire aiuti medici ai militari feriti (in accordo con le numerose associazioni sorte in Europa grazie all'opera di Henry Dunant).

Tale comitato, presupposto per l'istituzione della Croce Rossa Italiana, andò ad occupare il settimo posto in ordine di fondazione fra le società nazionali, quinto per adesione alla Convenzione di Ginevra.

Nell'agosto 1864 il dott. Castiglioni venne chiamato a Ginevra per esporre quanto fatto a Milano, partecipando quindi alla stessa conferenza dalla quale nacque la Convenzione di Ginevra del 1864, dove si proclamò:

“DOVERSI NON CONSIDERARE NEMICO IL NEMICO FERITO E BISOGNOSO DI ASSISTENZA” – Assumendo quindi il principio d’uguaglianza di alleati e nemici davanti alla necessità di assistenza.

D'intesa con il Comitato Internazionale della CROCE ROSSA di Ginevra fu poi stabilito che la bandiera della Croce Rossa potesse essere usata solo in caso di guerra. L'Associazione fu approvata dal Ministero dell’Interno e della guerra, e il 1º giugno 1866 il Ministero della guerra disciplinò l'organizzazione, ponendo regole militari ai componenti delle squadriglie; il personale superiore doveva perciò indossare una divisa formata da: un berretto di panno verde scuro con la legenda "soccorso ai feriti" ricamata in oro; una cravatta nera; una giacchetta alla cacciatora di panno verde scuro e pantaloni di panno grigio, come usava la Guardia Nazionale.

Il 22 giugno 1866 l'Italia dichiarò guerra all’Austria e dieci giorni dopo partirono le prime squadriglie di volontari, che soccorsero i combattenti in Trentino e i feriti dell'Armata di Mare. Il comitato milanese trovò inoltre appoggio e aiuto nella Francia e nella Svizzera per la sua opera di soccorso: per la prima volta le nazioni non belligeranti si adoperarono apertamente per soccorrere le avversità di Paesi limitrofi in guerra. L'Italia nel panorama internazionale fece inoltre da tramite ai soccorsi destinati ai feriti nella Guerra franco-prussiana del 1870-71.

IN MARE CI SI MOSSE DUE SECOLI PRIMA

Le prime navi ospedale, dette "pulmonare", vennero approntate nel XVII secolo utilizzando vecchie galee in disarmo, non più in grado di navigare. La pulmonara restava fissamente attraccata nel porti, funzionando come INFERMERIA per i marinai in attesa della pratica, ai quali era vietato lo sbarco sulla terraferma.

L'8 dicembre 1798, non ritenuta più idonea al servizio come nave da guerra, la britannica HMS VICTORY fu convertita in nave ospedale per curare prigionieri francesi e spagnoli feriti di guerra.

L'ispettore Luigi Verde fu il primo capo del Corpo sanitario della regia Marina a dare vita nel 1866 alla prima nave ospedale italiana: la WASHINGTON.

Luigi Verde morì poco dopo nell'affondamento del RE D’ITALIA durante la Battaglia di Lissa.

Il concetto moderno di nave ospedale protetta e denunciata presso apposite istituzioni internazionali doveva sorgere solo con la CONVENZIONE DELL’AJA DEL 1907.

CONVENZIONE DELL’AJA

Le navi ospedali vennero definite nel 1907 dalla Convenzione dell’Aia. In particolare l'articolo 4 definiva le limitazioni affinché una nave potesse essere considerata "nave ospedale".

La nave ospedale spagnola Esperanza del Mar, impiegata come supporto ai pescherecci al largo delle Canarie

· La nave deve avere segni di riconoscimento e illuminazione che la classifichino come tale.

· La nave dovrà fornire assistenza medica a feriti di tutte le nazionalità.

· La nave non dovrà essere impiegata per alcun scopo militare.

· La nave non dovrà interferire né ostacolare le navi militari.

· Le forze belligeranti, come designate dalla convenzione dell'Aia, potranno ispezionare le navi ospedale per verificare eventuale violazioni dei punti precedenti.

In caso di violazione di una delle precedenti limitazioni la nave dovrà essere considerata come unità combattente e potrà essere legittimamente colpita e affondata. Comunque, l'aprire deliberatamente il fuoco o affondare una nave ospedale in rispetto alla convenzione dell'Aia, è da considerarsi crimine di guerra.

Seconda guerra mondiale

Nel corso della Seconda guerra mondiale la Regia Marina armò decine di navi ospedale, spesso mercantili o piroscafi trasformati, ma anche navi soccorso e navi ambulanza, che facevano in maggioranza la spola tra l'Italia e il Nord Africa.

Molte furono affondate dagli alleati:

Giuseppe Orlando, San Giusto, Città di Trapani, Arno, Po e Virgilio.

Complessivamente delle 18 unità ne furono affondate 12. L'Italia denunciò inutilmente gli affondamenti alle autorità di Ginevra.

Navi bianche

Le navi ospedale, dal colore con cui vengono tinteggiate, prendono il nome di navi bianche. Per antonomasia vennero chiamate navi bianche quelle impiegate nel 1942 (sotto l'egida della Croce Rossa) per rimpatriare 50.000 civili italiani, rimasti in Etiopia dopo la conquista inglese.

Navi ospedale italiane:

· Washington (1854 - 1904)

· Albaro (1890)

· Brasile (1905)

· Clodia (1905)

· Menfi (1911)

· Cordova (1906 - 1918)

· Ferdinando Palasciano (1899 - 1923)

· Italia (1905 - 1943)

· Marechiaro (1911-1916)

· Re d'Italia (1907 - 1929)

· Regina d'Italia (1907 - 1928)

· R 1 (1911)

· Santa Lucia (1912)

· Gargano

· Aquileia (1914 - 1943)

· Arno (1912 - 1942)

· California (1920 - 1941)

· Città di Trapani (1929 - 1942)

· Gradisca (1913 - 1950)

· Po (1911 - 1941)

· Principessa Giovanna (1923 - 1953)

· Ramb IV (1937 - 1941)

· Sicilia (1924 - 1943)

· Tevere (1912 - 1941)

· Toscana (1923-1961)

· Virgilio (1928-1944)

Navi soccorso italiane:

· Capri (1930 - 1943)

· Epomeo (1930 - 1943)

· Laurana (1940 - 1944)

· Meta (1930 - 1944)

LE NAVI BIANCHE CON LA CROCE ROSSA

Non vi fu molto rispetto da parte del nemico per le "navi bianche italiane", come venivano chiamate le navi ospedale, nella seconda guerra mondiale.

- Nave Ospedale: WASHINGTON

https://it.wikipedia.org/wiki/Washington_(pirotrasporto)

 

 

- Nave Ospedale: ITALIA

https://it.wikipedia.org/wiki/Italia_(nave_ospedale)

- Nave Ospedale: FERDINANDO PALASCIANO

https://it.wikipedia.org/wiki/Ferdinando_Palasciano_(nave_ospedale)

 

- Nave Ospedale: REGINA D’ITALIA

http://www.agenziabozzo.it/vecchie_navi/B-Vapor/Navi_1850-1950_B212_piroscafo_REGINA_D%27ITALIA_Clark_1907_Lloyd_Sabaudo_SARDINIAN_PRINCE.htm

 

 

- Nave Ospedale: PO

- https://it.wikipedia.org/wiki/Po_(nave_ospedale)

- Nave Ospedale: CALIFORNIA

https://it.wikipedia.org/wiki/California_(nave_ospedale)

- Nave Ospedale: ARNO

https://it.wikipedia.org/wiki/Arno_(nave_ospedale)

 

 

- Nave Ospedale: SICILIA

 

 

 

- Nave Ospedale: CITTA’ DI TRAPANI

https://it.wikipedia.org/wiki/Città_di_Trapani_(nave)


"Tevere ", "Orlando", " San Giusto " ……perdute per bombe di aeroplani o per urto contro mine.

- Nave Ospedale: TEVERE

https://it.wikipedia.org/wiki/Tevere_(nave_ospedale)



Affondamento della nave TEVERE

- Nave Ospedale: ORLANDO

https://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Orlando_(nave_soccorso)

 


 

- Nave Ospedale: SAN GIUSTO

https://it.wikipedia.org/wiki/San_Giusto_(nave_soccorso)

 


 

" California ", "Arno", " Sicilia ", " Città di Trapani ", …….affondate per siluramento.

- Nave Ospedale: VIRGILIO (Mitragliata)

https://it.wikipedia.org/wiki/Virgilio_(nave_ospedale)


- Nave Ospedale: TOSCANA (Mitragliata)

https://it.wikipedia.org/wiki/Toscana_(transatlantico)#/media/File:Toscanapiroscafo.jpg

 

 


- Nave Ospedale: AQUILEIA (Mitragliata)

https://it.wikipedia.org/wiki/Aquileia_(nave_ospedale)

- Nave Ospedale (soccorso): CAPRI (Attaccata e mitragliata)

https://it.wikipedia.org/wiki/Capri_(nave_soccorso)

 

 

- Nave Ospedale: PRINCIPESSA GIOVANNA (Mitragliata)

https://it.wikipedia.org/wiki/Principessa_Giovanna_(nave_ospedale)

Violazione deliberata delle convenzioni internazionali? In parte, forse: ma gli inglesi rispondevano che spesso le nostre navi ospedale, invece dei feriti, caricavano truppe e munizioni per i fronti, per farli arrivare a destinazione sotto la copertura del la Croce Rossa. La verità è ancora da decifrare. Le navi ospedale erano mercantili requisiti e conservavano il proprio equipaggio, al quale si aggiungevano (dopo la trasformazione ospedaliera) i medici, gli infermieri e le crocerossine, agli ordini di un colonnello medico di Marina, il quale affiancava il comandante della unità. Molti piroscafi, divenuti nave ospedale al tempo della campagna d'Etiopia, erano stati successivamente riconvertiti al primitivo impiego.

Solo il "California" e l' "Aquileia", tra essi, erano stati conservati nei ruoli e tenuti in posizione di riserva fino al maggio 1940, quando erano stati rimessi entrambi in funzione. La prima missione del "California" era stata assai penosa. Aveva rimpatriato da Bengasi, oltre al previsto carico di ammalati e feriti, nel luglio 1940, anche i feriti dell'incrociatore "Giovanni dalle Bande Nere", superstite del combattimento di Capo Spada, che aveva visto l'affondamento dei gemello "Colleoni".

La "Po" fu una delle prime unità trasformate in nave ospedale allo scoppio della guerra. Era stato un piroscafo di 7.289 tonnellate, costruito nel 1911 e appartenente al Lloyd Triestino. Ebbe breve vita: entrato in servizio nel luglio 1940, il 14 marzo 1941 fu colato a picco da un attacco notturno di aerosiluranti, mentre si trovava nella rada di Valona per imbarcare feriti provenienti dal fronte greco. A bordo si trovava come crocerossina Edda Ciano, che si salvò.

L' "Aquileia" era stata costruita nel 1914. Si trattava di un vecchio trabiccolo, ancora dotato di caldaie con forni alimentati a carbone, per cui frequentemente era soggetta ad avarie di macchina, pertanto doveva procedere a velocità ridottissima, oppure era costretta a lunghi periodi di inattività in cantiere, per riparazioni. Con tutto ciò riusci a navigare fino all'armistizio. Il 15 settembre 1943, dopo essere stata catturata dai tedeschi, fu affondata a Marsiglia.

Per tornare alla "California", essa fu colpita a poppa da un siluro d'un aerosilurante inglese la notte del 10 agosto 1941, verso le 23, durante un attacco alla rada di Siracusa, dove la nave era all'ancora. A mezzogiorno dell'11, la "California", parzialmente affondata, giaceva su un fondale con l'acqua fin quasi alla coperta. Fu deciso che l'equipaggio e il personale medico l'abbandonassero, nella speranza di poterla recuperare in seguito. Essendosi ciò rivelato impossibile, venne demolita sul posto, dopo che il materiale di bordo era stato portato a terra. Non si può far colpa agli inglesi della sua perdita: infatti, forse per evitare il riconoscimento del porto da parte dei ricognitori nemici, il "California" aveva quella sera tutte le luci di bordo spente, mentre la convenzione di Ginevra faceva obbligo alle navi ospedale di mantenerle sempre accese. Non venne quindi individuata e questo fatto segnò il suo destino. Era stata una delle nostre "navi bianche" più efficienti, con una trentina di missioni al suo attivo, effettuate specialmente nel Mediterraneo orientale.

- Nave Ospedale: GRADISCA

https://it.wikipedia.org/wiki/Gradisca_(nave_ospedale)


Segnalata l'opera della "Gradisca", (un ex piroscafo fabbricato in Olanda), alla battaglia di Capo Matapan, conclusasi in modo funesto per la nostra flotta, con la più grave sconfitta navale subita dall'Italia nel corso dell'intera guerra. La battaglia avvenne, come é noto, nella notte del 29 marzo 1941. Furono colati a picco tre nostri incrociatori, il "Fiume", lo " Zara " e il " Pola ". Le perdite risultarono ingenti.

Furono gli stessi inglesi a segnalare a Supermarina il punto esatto dove era avvenuto lo scontro, perché si potessero soccorrere quei naufraghi che essi non erano in grado di fermarsi a raccogliere, trovandosi sotto la minaccia di bombardamento da parte di aerei tedeschi: come fu scritto, "un gesto cavalleresco che dimostrò una volta di più lo spirito di solidarietà che da sempre accomuna i marinai di tutte le nazionalità”.

Nonostante lo stato di profonda prostrazione in cui erano caduti i nostri comandi a causa della disfatta, e lo stato d'animo ben comprensibile che ne era seguito, vi fu una tempestività ammirevole nell'eseguire l'ordine di soccorso suggeritoci dagli stessi inglesi. La "Gradisca" venne dunque dirottata sul posto e recuperò quanti più naufraghi le riuscì di imbarcare, pochi, purtroppo, rispetto agli oltre tremila marinai che perirono in quella drammatica notte. Dopo l'otto settembre la "Gradisca" fu catturata dai tedeschi a Patrasso, in Grecia.

- Nave Ospedale: RAMB IV

https://it.wikipedia.org/wiki/Ramb_IV


Quanto alla "Ramb IV", (nella foto sopra), la bananiera trasformata in nave ospedale per l'AOI (Africa Orientale Italiana) di base a Massaua, essa fu catturata dagli inglesi nel 1940 quando presero la città. Successivamente venne affondata nel Mediterraneo.

Benemerita fu anche l'azione della "Toscana" sopravvissuta ai mitragliamenti di cui era stata fatta oggetto. Anch'essa era stata un piroscafo passeggeri del Lloyd Triestino, trasformata all'inizio del 1941 ed entrata in servizio sul finire dal 1942. Nonostante quindi questa sua data di ingresso in ruolo piuttosto tardiva, la "Toscana" fu una delle più attive unità ospedaliere italiane e  portò a termine ben 54 missioni, trasportando 4720 feriti e naufraghi, e 28.684 ammalati.

Complessivamente le 19 navi ospedale della nostra Marina effettuarono durante il secondo conflitto mondiale oltre 700 missioni per trasporto feriti e ammalati e soccorso naufraghi, con una percorrenza totale di oltre 310.000 miglia. Importanti furono in modo particolare le tre missioni con cui si ricondussero in patria altre trentamila civili italiani dall'ex impero, ossia dall'Africa orientale ormai caduta in mano degli inglesi. Esse si svolsero rispettivamente dal marzo al giugno 1942, dal settembre 1942 al gennaio 1943, dal maggio all'agosto 1943. Vi furono impiegati, sotto le insegne della Croce Rossa.

LE GRANDI NAVI BIANCHE DELL’ESODO D’AFRICA

- LA M/N VULCANIA, gemella della SATURNIA, in missione di rimpatrio dei Civili dalla AOI nel 1942

http://transatlanticera.blogspot.com/2013/03/i-transatlantici-saturnia-e-vulcania.html

Furono circa 28 mila i nostri connazionali che in tre viaggi diversi tra il 1942 e il 1943 lasciarono Etiopia, Eritrea e Somalia per rimpatriare. Le motonavi Saturnia e Vulcania e i transatlantici Caio Duilio e Giulio Cesare, definite per l’occasione «navi bianche» perché decorate con i colori della Croce Rossa e allestite come grandi dormitori — con ospedali per far fronte a serie emergenze sanitarie — furono il teatro di una delle missioni più interessanti di cui finora si è parlato molto poco.


La DUILIO, gemella della GIULIO CESARE, con la livrea di Nave ospedale

https://it.wikipedia.org/wiki/Giulio_Cesare_(transatlantico_1920)

 

I grandi piroscafi "Saturnia" e "Vulcania", seguiti ad otto giorni di distanza dal "Cesare" e dal "Duilio". La rotta era la seguente: Trieste, Genova, Gibilterra, Canarie, Isole dei Capo Verde, Capo di Buona Speranza, Port Elizabeth, Canale di Mozambico, Oceano Indiano, Berbera, Massaua. Ogni viaggio equivaleva, in miglia, al giro del mondo.

 

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Anche la nave passeggeri VIRGILIO (gemella dell’ORAZIO) operò come nave ospedale in Mediterraneo

https://it.wikipedia.org/wiki/Virgilio_(nave_ospedale)

CARLO GATTI

Rapallo, 24 Agosto 2020

 


U BOOT 455 - Il Sottomarinio della Leggenda

“IL SOTTOMARINO DELLA LEGGENDA: U BOOT 455. TRENTA IMMERSIONI FRA I RELITTI DELLA PROVINCIA DI GENOVA”

AUDITORIUM GALATA MUSEO DEL MARE

VENERDI’ 18 MARZO ORE 17.30

INGRESSO LIBERO FINO AD ESAURIMENTO POSTI

Venerdì 18 marzo al Galata Museo del Mare torna l’appuntamento con i grandi relitti storici: alle 17.30 in Auditorium verrà presentato il libro storico – documentale "Il sottomarino della Leggenda: U BOOT 455. Trenta immersioni fra i relitti della provincia di Genova". Durante la presentazione, curata degli autori Emilio Carta (giornalista e scrittore) e Lorenzo Del Veneziano (fotosub), verrà proiettato un film-documentario sulla recente scoperta del sommergibile U455 nelle acque genovesi. All’incontro prenderanno parte Erika Della Casa, inviata del Corriere della Sera e Maurizio Brescia, storico navale. A fare gli onori di casa Franca Acerenza, Resp. Collezioni Scientifiche del Mu.Ma e Nicola Costa Consigliere Costa Edutainment. Ingresso libero fino ad esaurimento posti

Il filmato, della durata di 16 minuti, riprende alcune fasi della guerra sui mari durante l’ultimo conflitto per poi passare alle eccezionali immagini del relitto di un sommergibile tedesco, l’U-Boot 455, videofilmate ad una profondità di 120 metri.

L’ultima novità del 2010 in fatto di ricerche documentali navali è il volume storico-fotografico “U-Boot 455, il sottomarino della leggenda: 30 immersioni sui relitti della provincia di Genova” i cui autori sono il giornalista e scrittore Emilio Carta e il noto fotosub Lorenzo Del Veneziano.

L’opera, (160 pagine con oltre 260 fotografie a colori –Agb Busco Editore) che è dedicata ad un’accurata rivisitazione dei trenta relitti ad oggi individuati nelle acque della provincia di Genova, ha preso forma dal desiderio di fissare nella memoria del lettore un passato semisconosciuto ed importante della storia marinara.

Il libro è suddiviso in trenta schede, tante quanti sono i relitti individuati e, ciascuna di esse, contiene la storia di ogni nave e illustra nei minimi dettagli l’immersione attorno e all’interno di ogni relitto nonché le relative coordinate geografiche.

Punto fondamentale di questo lavoro è stata l’individuazione del relitto dell’U-Boot 455 cui, dopo l’iniziale emozione per la scoperta a 120 mt di profondità da parte di Lorenzo Del Veneziano, è seguita una seconda fase di ricerca storica.

“Oggi, conclusa questa ricerca storico-documentale, commenta Emilio Carta, possiamo dire che del sottomarino tedesco misteriosamente scomparso e dato per disperso il 6 aprile 1944 sappiamo praticamente tutto: dalle missioni effettuate nel Mediterraneo al naviglio affondato fino ai nomi di coloro che si erano avvicendati al suo comando. Il tutto suffragato da immagini storiche, tratte dagli archivi tedeschi, sino a quelle più recenti, affascinanti e splendide, scattate a centoventi metri di profondità. Permane comunque il mistero sui motivi che hanno provocato l’affondamento dell’U 455 e, soprattutto, il perché si trovasse nella zona compresa fra Portofino e Camogli: nel libro abbiamo cercato di dare le risposte. ”

In “U-Boot 455, il sottomarino della leggenda: 30 immersioni sui relitti della provincia di Genova” vengono inoltre illustrati ulteriori ventinove relitti individuati ed esplorati lungo il tratto costiero della provincia ligure, da Moneglia a Cogoleto. Di ognuno viene descritta la storia e riportata l’esperienza relativa all’immersione. Riemergono così dagli abissi, lungo il magico filo della memoria, tragici eventi bellici e immagini emozionanti, particolari sigle identificative e numeriche come l’UJ 2208 a Genova, il KT a Sestri Levante e nomi di navi più o meno conosciute come Croesus a San Fruttuoso di Capodimonte, Mohawk Deer a Portofino, Washington a Camogli, senza contare le scoperte del liuto (leudo) medievale e della caracca al largo di Genova per finire alla Haven di Arenzano.

L'evento è organizzato da Azienda Grafica Busco Editrice, Rapallo Notizie Mare, Mare Nostrum, ANMI Genova, ANMI Savona, in collaborazione con Mu.MA, Costa Edutainment, Ass. Promotori Musei del Mare e Coop. Solidarietà e Lavoro.

Ufficio Stampa Costa Edutainment per Galata Museo del Mare

Eleonora Errico tel 0102345322

stampa@galatamuseodelmare.it

15.03.11


COSMA MANERA - LO SPIRITO DELL'ARMA

COSMA MANERA LO SPIRITO DELL’ARMA

QUEST’ANNO RICORRE IL CENTENARIO DI QUELL’INCREDIBILE SALVATAGGIO DI OLTRE 10.000 MILITARI ITALIANI

IL COLONNELLO DEI CARABINIERI COSMA MANERA IN ALTA UNIFORME

Tra il 1916 e il 1920 il maggiore dei carabinieri Cosma Manera riuscì a compiere una delle più appassionanti e rischiose missioni di recupero prigionieri dell’epoca moderna.
Prelevò dalla Russia oltre diecimila ex soldati italiani delle cosiddette terre irredente, arruolati nell’esercito austro-ungarico, e percorse in condizioni climatiche estreme, un lungo tragitto dalla Siberia fino alla Concessione italiana di Tientsin e poi, via mare, fino a rientrare in Italia.

MISSION IMPOSSIBLE si direbbe oggi, ma non é stata una fiction! Oggi parliamo di una Storia vera di CORAGGIO, Abnegazione, Intelligenza strategica e diplomatica, Resistenza fisica e morale, grande AMORE per la patria, per gli italiani e per la nostra Bandiera Nazionale. Caratteristiche che soltanto un CARABINIERE di rango speciale poteva possedere! Riportare a casa i soldati irredenti fu l’unico pensiero di ogni sua giornata e fu speso per questo obiettivo.

Solo, insieme a 10.000 soldati in un enorme Paese allo sbando, privo di appoggi e riferimenti specifici, Cosma Manera tentò di rimpatriarli via mare, ma le pessime condizioni meteorologiche fecero sfumare il progetto.

Così Cosma Manera e un primo blocco di prigionieri recuperati in vari campi di prigionia furono costretti a compiere una rischiosissima traversata, di oltre 6.000 chilometri, in condizioni proibitive, tentando di giungere in Cina. Dove il governo in un primo momento impedì l’accesso, ritenendo troppo rischioso far transitare oltre 2.000 uomini armati. Sbloccata la situazione, l’ufficiale tornò indietro per recuperare gli altri prigionieri.

Finché, nel febbraio 1920, Cosma Manera e i militari sopravvissuti alle durissime condizioni di vita si imbarcarono su tre navi mercantili americane e fecero ritorno in Italia. Arrivarono a Trieste il 10 aprile del 1920. Un’impresa epica, che però non venne celebrata come dovuto perché, nel frattempo, era esplosa la “questione fiumana” e il governo dell’epoca ritenne poco opportuno dare troppa enfasi al rientro dei militari.

PREMESSA STORICA

Le statistiche ci dicono che il 56% della popolazione italiana agli inizi del 1900 era totalmente analfabeta. Le città, in stragrande maggioranza, usavano ancora i lumi a petrolio. Le ferrovie avevano poco più di 40 anni e viaggiare da Napoli a Venezia era un’avventura di settimane. Si usava la legna per cucinare e scaldare le case, ed il cavallo era più affidabile dell’auto ancora ai primi albori… La società era divisa in tre classi sociali separate: aristocrazia, clero e popolo. L’Impero Austro Ungarico comprendeva: Trentino, Veneto, Venezia Giulia, Istria e Dalmazia, dove la popolazione di lingua italiana era parecchio distante dalla mentalità austriaca. Gli austriaci consideravano gli italiani delle nostre terre come esseri incivili: sbandati, rissosi, nullafacenti e incompetenti. Con questa premessa non possiamo meravigliarci se all’inizio della Grande Guerra li avessero scelti come carne da cannone da inviare sul fronte russo.

IL NOCCIOLO DELLA QUESTIONE…

Decine di miglia di italiani in uniforme austriaca partirono per combattere in nome dell’Imperatore d’Austria. L’Italia, intanto, durante la guerra diventò nemica dell’Austria Ungheria, e quando la guerra finì nel 1918 e l’Impero Austro ungarico si sciolse, Trentino, Alto Adige, Venezia Giulia, Istria e Zara furono annesse all’Italia. Per quei soldati rimasti in Russia improvvisamente non esisteva più un governo che li reclamasse e loro stessi non sapevano più chi fossero o per chi avessero combattuto. Erano uomini letteralmente perduti, dentro e fuori, alcuni relegati in campi di prigionia, altri mendicanti per le strade, nel freddo, fra miseria, sommosse rivoluzionari ed epidemie, in un mondo troppo vasto per pensare di riuscire a ritornare dalle proprie famiglie. In Italia li chiamano “irredenti”, perché potrebbero redimersi arruolandosi nell’esercito italiano e guadagnarsi la cittadinanza italiana, eppure per le ragioni dette prima non lo fanno. Per recuperarli il governo manda in Russia tre ufficiali dei Carabinieri: il maggiore Giovanni Squillero, il capitano Nemore Moda e il capitano Marco Cosma Manera.

CHI ERA MARCO COSMA MANERA?

MANERA, nato ad Asti il 15 giugno 1876, era uscito dal collegio militare con il grado di tenente, e dopo un’esperienza a Creta nel 2° battaglione della 93° fanteria, era entrato nei Carabinieri Reali nel 1901. Dotato di una naturale propensione per le ligue (francese, inglese, tedesco, greco, turco, bulgaro, serbo e russo), la sua prima missione da Carabiniere era stata in Macedonia, dove nel 1904 il governo ottomano si era rivolto ai Carabinieri italiani per organizzare una gendarmeria. In breve tempo Cosma Manera aveva organizzato 1400 reclute musulmane e ortodosse che, sotto il suo comando, convivevano senza problemi. Una tribù appartenente a una minoranza etnica lo aveva rapito e condannato a morte, ma quando il capotribù aveva scoperto che il tenente aveva il suo stesso nome – Cosma – per scaramanzia aveva deciso di risparmiarlo e rimandarlo in Italia. Da allora, il tenente Manera aveva deciso che avrebbe usato solo il suo secondo nome, dato che gli portava fortuna. Tornato in patria era ripartito subito per una campagna in Albania, poi durante la prima guerra mondiale era sopravvissuto all'inferno del Cadore tornando coi gradi di Capitano.

Doti organizzative, capacità linguistiche ed esperienza di azione in condizioni proibitive:

Cosma era quindi l’uomo ideale per tentare il recupero degli irredenti

Il capitano Cosma Manera doveva radunarli e riportarli in Italia.
Era una missione che anche al giorno d’oggi farebbe tremare i polsi a chiunque, vista la enorme vastità del campo in cui ci si doveva muovere
Cent’anni fa. Verso il termine della Grande guerra, quel compito doveva sembrare quasi disperato.

INIZIA LA MISSIONE CHE DURERA’ TRE ANNI

Insieme al maggiore Squillero e al capitano Moda, Manera s’imbarca così a Newcastle, attraversando Svezia e Finlandia per arrivare all’allora Pietrograd il primo d’agosto del 1916 con addosso solo i gradi e 94mila lire in oro nascoste nei calzini.

I tre ufficiali raggiungono l’avamposto della missione italiana nella situazione peggiore possibile: in Russia sta scippiando la guerra civile in Russia e devono rintracciare gli irredenti dispersi in 45 governatorati dell’Impero, pianificare dove raggrupparli ed evacuarli. Il tutto prima che arrivi l’inverno, quando il freddo bloccherà i trasporti e li costringerà ad aspettare sei mesi circondati da una popolazione drogata di propaganda bolscevica contro i soldati stranieri.

PRIMO CONTATTO, PRIMO RISULTATO - PRIMO RIENTRO


Il lavoro di intelligence, inizia a dare risultati: nel porto di Arkangel’sk sul mar Bianco, si trovano ancora ormeggiati dei piroscafi asburgici abbandonati, un po’ malconci ma utilizzabili. Nel frattempo Manera e i suoi ufficiali rintracciano un primo scaglione di irredenti, 33 ufficiali e 1600 uomini di truppa.

Li radunano Kirsanov (Dip.TAMBOV) e poi li trasportano al porto di Arcangelo il 24 settembre 1916; da qui un piroscafo li porta in Inghilterra. Sembra tutto risolto così Manera viene nominato Maggiore e gli altri due ufficiali tornano in Italia.


Uomini e bambini nel cimitero cittadino a Kirsanov (TAMBOV), vedi carta sotto segnato con una palla viola.

Acquartierato a Pietroburgo, sfrutta il campo di prigionia di Kirsanov come centro di raccolta, lavora bene con passaparola e propaganda trasformandolo in un centro di raccolta stabile, dove assemblare altri scaglioni che faranno lo stesso tragitto dei precedenti. Trova altri trentini nei campi di prigionia a Omsk, in Siberia, dove vivono  a -40° tra topi e colera. A luglio 1917, Manera ha radunato 57 ufficiali e 2600 uomini di truppa, si sta preparando un secondo viaggio quando scoppia la guerra civile.

LA RUSSIA SPROFONDA NELL’ANARCHIA – LA MISSIONE DI COSMA MANERA APPARE DISPERATA …


Porti, stazioni ed edifici vengono presi dalle guardie rosse mentre il neonato Comitato centrale di Lenin guida le rivolte delle campagne, i cui abitanti – dopo milioni di morti, carestie ed epidemie – preferiscono morire sotto i proiettili zaristi che di fame. Tutte le fonti di Manera scappano o cambiano schieramento, il porto di Arcangelo diventa irraggiungibile per il ghiaccio, e i piroscafi vengono affondati dagli U-boat. I rifornimenti di viveri si interrompono e tutte le comunicazioni saltano, mentre un centro dopo l’altro si trasforma in teatro di guerra. Scappare via mare è impossibile, e gli uomini per tornare in Italia dovrebbero attraversare zone in tumulto senza né viveri, né armi, né equipaggiamento, e per di più con uomini demotivati e spossati da anni di miseria. Un suicidio.

TUTTAVIA L’UFFICIALE ITALIANO SEMBRA L’UOMO GIUSTO PER LE IMPRESE IMPOSSIBILI – GLI ITALIANI IN CINA

Cosma Manera scopre però che la Transiberiana funziona ancoranon si sa ancora per quanto – solo che va in direzione opposta all’Italia. L’ufficiale organizza allora un luogo di ritrovo a Vladivostok e con vari stratagemmi nasconde piccoli gruppi di irredenti nei vagoni merci. Un convoglio dopo l’altro arrivano tutti a destinazione (Vladivostok). Cosma parte con l’ultimo gruppo, stipati tra paglia, bagagli e casse, è un viaggio di una difficoltà impensabile che dura settimane, ma funziona sia dal punto di vista logistico che psicologico.

Per gli uomini, vedere un ufficiale che patisce con loro il freddo, la fame e le pulci è un’immagine potentissima. Una volta arrivato, Manera viene celebrato dagli irredenti come UN PADRE SALVATORE. L’Italia, però, adesso è ancora più distante. Il ghiaccio impedisce le partenze via mare anche da Vladivostok, ma Manera sa che in Cina c’è una minuscola colonia italiana, detta Concessione di Tientsin, un porto della Manciuria con concessione commerciale conquistata da Roma per aver partecipato alla repressione della RIVOLTA DEI BOXER (1899-1901). La raggiungono a piedi, dividendosi in gruppi, e una volta lì aspettano.

COSMA MANERA SBALORDISCE LO STATO ITALIANO…

Lo Stato italiano è in attesa di notizie dalla Russia, quindi rimane molto stupito quando si vede recapitare un telegramma dalla Cina. Manera comunica che gli irredenti sono stati trasformati in esercito: un battaglione multiculturale di austriaci, croati, trentini, veneti e serbi chiamato Legione Redenta di Siberia, ufficialmente al servizio dell’Italia, ma in realtà disposto a dare la vita solo per quell’ufficiale che ormai chiamano "papà". L’Italia reagisce con scarso entusiasmo, anche perché ha appena finito di gestire l'occupazipone di Fiume da parte di D’Annunzio e non vede di buon occhio gli eserciti personali, ma Manera è pur sempre un ufficiale dei Carabinieri e non un intellettuale eccentrico.

UNA GIUSTA MOSSA DALL’ITALIA

COSMA viene quindi nominato Addetto Militare dell'Ambasciata d'Italia a Tokyo con residenza a Pechino, cosa che gli garantisce carta bianca e gli apre qualsiasi porta. Manera riorganizza gli uomini in tre battaglioni di quattro compagnie ciascuno, li addestra e in pochi mesi riesce a trasformare quel gruppo di sbandati senza terra né futuro, carcerati, mendicanti o disperati in un reparto d’elite, capace di ampliare la ricerca di altri irredenti con l’aiuto del Consolato italiano e di quello inglese. Il metodo di recupero improvvisato dal maggiore Manera diventa un sistema vero e proprio e il suo lavoro si guadagna l’ammirazione di truppe, ufficiali e politici.

UN’ALTRA “TROVATA” INCREDIBILE…

Il recupero degli irredenti procede spedito quando le truppe bolsceviche attaccano la Transiberiana per strapparla dal controllo zarista. La Russia ormai è nel caos, ci sono epidemie e i viveri scarseggiano per civili e militari; le armate zariste non sono in grado di difendere il treno, così Manera decide di sfruttare il suo esercito ed entrare in battaglia. Due giorni prima, però, a Tientsin si presentano trecento uomini con uniformi militari italiane raffazzonate, guidati da un Capitano che mette a disposizione la sua “brigata Savoia”, che non risulta in nessun archivio dell’Arma o dell’esercito.

Nemmeno il suo Capitano appare nei registri, e non ne fa mistero: è un ragioniere di Benevento di nome Andrea Compatangelo che si è inventato tutto.

Andrea Compatangelo

Agli inizi della guerra mondiale era emigrato a Samara, un piccolo paese sul Volga dove c’era la sede del Komuch, governo vagamente democratico. Conservatore fino al midollo e innamorato di un’aristocratica russa, Compatangelo viveva di esportazioni e nel tempo libero faceva il corrispondente per l’Avanti! diretto da Mussolini. Con la rivoluzione d’ottobre la cittadina sprofonda nel panico, già anni prima c’era stata un’occupazione dei soviet drammatica, soprattutto per gli emigrati italiani.

Venuto a sapere che c’erano degli irredenti nelle prigioni attorno a Samara, si era nominato Capitano “di una grande potenza occidentale” per poi presentarsi per trattare la consegna dei prigionieri con le autorità, mentendo in maniera abbastanza convincente da liberarne a centinaia. Una volta fuori, fece cucire delle uniformi per loro e inquadrandoli in un proprio esercito che chiamò appunto Brigata Savoia, "per dargli autorità".

CAMPATANGELO - UN PERSONAGGIO DALLE RISORSE STRAORDINARIE

Legione redenta in Siberia

La brigata SAVOIA



La TRANSIBERIANA: San Pietroburgo-Vladivostock

Nel luglio 1918 questa scalcagnata brigata ruba un treno militare e parte sulla Transiberiana verso Vladivostok, il porto da cui partiranno per ritornare in Italia.

FATTO INCREDIBILE:

Compatangelo e i suoi uomini si fermano a ogni stazione per combattere assieme a zaristi e cecoslovacchi in cambio di armi, munizioni e viveri. La pratica dopotutto val più della teoria, e in poche settimane la brigata Savoia inizia a far parlare di sé. Abbandonano la vecchia locomotiva rubandone un'altra blindata dotata di mitragliatrice, caricano a bordo due infermiere russe che si occupano dei feriti – una, sostengono molti, erede della famiglia reale – e avanzano diretti verso Vladivostok, preceduti dalla loro fama. Ad ogni battaglia, la brigata si fa più numerosa e si ferma di volta in volta a riparare i binari danneggiati dai banditi, in un viaggio allucinante di sei mesi durante i quali non sanno nemmeno se la guerra c’è ancora o no. A Krasnojarsk, dove prima gli zar e poi Stalin, mandano la gente nei gulag trovano una città più o meno nell’anarchia: gli zaristi sono fuggiti mentre contadini, operai e militari hanno preso il comando pur senza averne competenze né esperienza.

CAMPATANGELO FIALMENTE INCONTRA COSMA MANERA

Coi suoi uomini Compatangelo occupa il municipio, instaura una dittatura militare riuscendo a far convivere in qualche modo bolscevichi e socialisti, che lo riconoscono come leader. Da Krasnojarsk, il ragioniere sfrutta il telegrafo per avere notizie e gli capita all’orecchio la storia della legione Redenta e di una figura avvolta dal mito, un ufficiale dei Carabinieri che vaga per la Russia a salvare compatrioti e a trasformarli in soldati d’elité.

Dopo un mese e mezzo in città, Compatangelo riparte con i suoi uomini. Attraversano la Manciuria sul loro treno blindato, i cinesi tentano di sequestrarlo ma lui se la cava sempre con le sue doti da affabulatore… millantando e minacciando drammatici incidenti diplomatici internazionali fino ad arrivare a mettersi sull’attenti davanti a Cosma Manera in persona, sei mesi dopo, per consegnargli la sua brigata Savoia che viene integrata alla Legione di Siberia. Poi, così come era apparso, Compatangelo scompare.

IL RITORNO IN PATRIA DI COSMA MANERA

Cosma Manera invece, insieme ai suoi uomini, difende con successo la Transiberiana e finalmente nel 1920 torna a Trieste con tre navi americane, con il grado di Tenente Colonnello riprende la sua vita militare come se nulla fosse. Gli irredenti si disperderanno per l’Italia a caccia delle proprie case e famiglie, ma non prima di aver regalato a Manera una coppa di bronzo con incise le tappe più importanti di quel viaggio in treno da Kirsanov a Vladivostok, dove avevano patito la fame e il freddo insieme. Si sposerà tre anni più tardi, avrà due bambine e morirà nel 1958, all’età di 82 anni. Oggi riposa nel cimitero urbano di Viale Don Bianco. Dal 2013, la Piazza d’Armi di Asti é intitolata a lui.

Il ritorno in patria avvenne solo nel 1920 così il capitano Cosma Manera, da allora, rimase famoso come “il padre degli irredenti”.

Cosma Manera con i gradi di colonnello (1927)

Lettere al Corriere

………Ancora un ricordo. Fra i luo­ghi da lei elencati vi è Tam­bov, (sfera viola sulla mappa) una città delle «terre ne­re » nella Russia occidentale. La visitai pochi mesi dopo il mio arrivo perché a meno di cento chilometri vi è il piccolo cimitero militare di Kirsanov, l’unico in cui fosse allora pos­sibile rendere omaggio a mili­tari italiani morti in Russia. Deposi una corona d’alloro, ma non appena cominciai ad aggirarmi fra le tombe scoprii che questi italiani erano solda­ti trentini dell’esercito austro­ungarico, catturati probabil­mente in Galizia. Più tardi sco­prii che vi era stato a Kirsanov un ospedale militare dove molti prigionieri austro-unga­rici erano stati ricoverati quan­do i bolscevichi, dopo la pace di Brest Litvosk, permisero il loro rimpatrio attraverso gli Urali e la Siberia fino al porto di Vladivostok. Cercavo la Se­conda guerra mondiale e mi trovai nel mezzo della Prima.

Sergio ROMANO

NOTE

KIRSANOV è una città della Russia sudoccidentale, situata sulla sponda sinistra del fiume Vorona. La città venne fondata nella prima metà del XVII secolo con il nome di Kirsanovo, a sua volta derivato dal nome del primo colonizzatore della zona Kirsan Zubakin; ottenne lo statu di città nel 1779, durante il regno di Caterina II.

Durante la Prima guerra mondiale ospitò un campo di prigionia in cui furono internati numerosi ex-soldati austro-ungarici di origine trentina e friulana (detti "Kirsanover"). Alcuni di loro, attraverso una complessa missione militare, scelsero di venire portati in Italia come cittadini "redenti".

VLADIVOSTOK è una citta della Russia  (606.561 abitanti), situata nell’estremo oriente russo, capoluogo del Territorio del Litorale,   in prossimità del confine con Cina e Corea del Nord.  È un importante nodo per i trasporti: possiede il più grande porto russo sull’Oceano Pacifico, sede della Flotta del Pacifico, e vi termina la Transiberiana.  Dal 2019 è capoluogo del circondario federale dell’Estremo Oriente in sostituzione di Chabarovsk.

Conclusione

Nell'agosto del 1921 Cosma Manera tornò a Roma, dove venne assegnato al Battaglione mobile dei Carabinieri Reali, prestando poi servizio nelle Legioni di Salerno, Roma e Ancona.

Il 30 aprile 1923 sposò Amelia Maria Pozzolo, da cui ebbe due figlie. Lo stesso anno ricevette dal re l'onorificenza del collare dei santi Maurizio e Lazzaro. Dopo altre missioni in Francia, Grecia, Inghilterra, Austria, Germania, Spagna, Portogallo, Bulgaria, Cina, Egitto e Russia, il 1º aprile 1927 fu promosso a colonnello e comandante della Legione di Roma, mentre nel 1929 fu trasferito al comando della Legione di Milano. Per breve tempo indagò sull'incidente al Polo Nord di Umberto Nobile, ma in seguito le autorità fasciste gli revocarono l'indagine. Sventato l'attentato al re presso la fiera campionaria di Milano, venne però accusato di non essere riuscito a trovare la bomba anarchica che era scoppiata tra la folla, per cui fu mandato a dirigere la Legione di Livorno e poi quella di Bologna.

Su sua richiesta, a dicembre 1932 fu collocato in ausiliaria, mentre l'anno successivo fu promosso a generale di brigata.

Nel 1940 fu trasferito nella riserva e promosso a generale di divisione, ma data la sua scarsa simpatia al fascismo in questo periodo si occupò maggiormente della famiglia e dei bisognosi, oltre a scrivere articoli per giornali e riviste.

Morì nella sua residenza di Rivalta a 81 anni, ricevendo i solenni funerali di Stato.

Ripensando alle difficoltà dell'epoca, e alla crudezza del primo conflitto mondiale in terre come la Siberia, non si può fare a meno di comprendere quale forza interiore dovesse avere Cosma Manera per restare tre anni tra la Siberia, la Manciuria e il Giappone, e trovare, addestrare, ridare fiducia a uomini che forse avrebbero volentieri disertato.
Era un operativo, ma anche un buon diplomatico: comunque una persona di forte spessore umano e professionale, qualità alle quali si aggiungeva, secondo gli scritti d'epoca, una serena modestia.

LIBRI CONSIGLIATI

Marco Mondini   – Disertare a Vladivostok

Quinto Antonelli -   I dimenticati della Grande Guerra

Carlo GATTI

Rapallo, 10 Agosto 2020

 


LE NAUMACHIE PIU' FAMOSE DELLA STORIA

LE NAUMACHIE PIU’ FAMOSE

LA NAUMACHIA DI CESARE



La prima naumachia fu ideata da Giulio Cesare a Roma nel 46 a.C. per celebrare i suoi trionfi. Fece scavare un ampio bacino nella Codeta Minore (Campo Marzio), vicino al Tevere da cui riceveva l’acqua. Aveva una profondità di 11-12 metri in grado di far affluire l’acqua e larga a sufficienza da contenere vere navi da guerra (biremi, triremi e quadriremi). Parteciparono alla battaglia ben 2.000 combattenti e 4.000 rematori ingaggiati tra i prigionieri di guerra.

La folla proveniente da ogni dove, persino dalle colonie più lontane, era così numerosa  e stipata al punto che, come narra Svetonio, nella ressa micidiale morirono centinaia  di persone. In quella occasione fu ricreata una battaglia tra Fenici e Cartaginesi.

 



Sappiamo che la naumachia di Cesare si trovava nel Campo Marzio, probabilmente in corrispondenza della depressione centrale dove era presente la Palus Caprae e dove più tardi venne sistemato lo stagnum Agrippae. Non potendo essere svuotata, se ne decise il riempimento nel 43 a.C.

LA NAUMACHIA DI AUGUSTO



La Saepta Iulia é l’edificio in alto al centro

Saepta Iulia (o Julia), noto in seguito come Septa e in greco come τ Σέπτα, erano edifici costruiti a Roma nel Campo Marzio. Tutta la zona è stata riedificata nei secoli successivi, ma gli studi di Guglielmo Gatti (1905-1981) hanno definitivamente fissato la posizione dei Saepta fra via del Seminario, via di S. Ignazio, via del Plebiscito, via dei Cestari e via della Minerva.

Si tratta di un complesso monumentale con uno spazio aperto di 300 x 120 mt, circondato da portici e arricchito da opere d’arte proveniente dai paesi conquistati.


Per l'inaugurazione del tempio di Marte Ultore (Marte Vendicatore), Augusto diede una naumachia che riproduceva fedelmente quella di Cesare. Come ricorda egli stesso nelle Res gestae, fece scavare sulla riva destra del Tevere, nel luogo denominato "bosco dei cesari" (nemus Caesarum), un bacino dove s'affrontarono 3000 uomini, senza contare i rematori, su 30 vascelli con rostri e molte unità più piccole.

BATTAGLIA DI AZIO

NAUMACHIA


Augusto voleva così celebrare la flotta romana, poiché egli stesso aveva conquistato il potere e sgominato i suoi nemici vincendo la battaglia di Azio, ove suo genero Agrippa, costruttore del Pantheon, era stato l’ammiraglio della flotta.

La naumachia d'Augusto (naumachia Augusti) è la più conosciuta. Nelle Res Gestæ, Augusto medesimo indica che il bacino misurava 1800 piedi romani su 1200 (circa 533 mt x 355 mt).

Plinio afferma che al centro del bacino rettangolare, si trovava un'isola collegata all'argine con un ponte. Il bacino era rifornito dall'acquedotto dell’Aqua Alsietina, appositamente costruito da Augusto per la sua alimentazione, poteva riempirlo in 15 giorni. Un canale navigabile permetteva l'accesso alle navi provenienti dal Tevere, oltrepassato da un ponte mobile (pons naumachiarius).

NAUMACHIA DEL COLOSSEO

Marziale narra che si tennero delle naumachie al Colosseo nei primi anni dopo l’inaugurazione. In seguito non fu più ritenuto idoneo per le modifiche murarie che vennero fatte all’intero impianto.


L’autore racconta inoltre che si tennero delle naumachie al Colosseo, ma gli archeologi moderni sostengono che esse furono abbandonate poiché erano necessari molti preparativi per rendere l'arena stagna e riempirla ad una altezza sufficiente (1,5 m) per potervi far galleggiare le navi.

Per l'inaugurazione del Colosseo nell'80 d.C. Tito diede due naumachie, una nel bacino agostiniano, usando ancora diverse migliaia di uomini e l'altro nel nuovo anfiteatro. Secondo Svetonio, Domiziano organizzò una naumachia all'interno del Colosseo, senza dubbio nell’85 d.C., e un’altra nel corso dell'anno 89 d.C. in un nuovo bacino scavato al di là del Tevere.

L'arena del Colosseo misurava solo 79.35 x 47,20 metri, una naumachia nel Colosseo non poteva quindi essere grande come le precedenti. E’ noto infatti che venissero impiegate sceneggiature raffiguranti navi, talvolta con meccanismi per simulare naufragi, sia sul palco che in campo (Tacito, Annales, XIV, 6, 1; Dion Cassio LXI, 12,2).

NAUMACHIE DI CLAUDIO

NOTA COME LA NAUMACHIA DEL FUCINO

Fu la più “grande” naumachia di tutti i tempi

Claudio nel 52 d.C. diede una naumachia su un vasto specchio d'acqua naturale, il lago del Fucino, per inaugurarne i lavori di prosciugamento attraverso l'apertura dei cunicoli di Claudio.

Le due flotte contavano ognuna 50 vascelli, corrispondente alle unità di ciascuna delle due flotte militari con basi a Miseno e a Ravenna.  Grazie all'ampia superficie del lago Fucino, di cui solo una parte, circoscritta da pontili, fu usata per l'occasione, le navi poterono procedere con varie manovre d'avvicinamento e speronamento. La naumachia di Claudio riproduceva realmente una battaglia navale.

Gaius Suetonius, Dione Cassio e Cornelio Tacito, scrissero:

«Per realizzare l’Opera di Prosciugamento del Lago Fucino, ci vollero circa 11 anni di incessanti e massacranti lavori, a turni implacabili, giorno e notte, in cui vennero impiegati, “in condizioni disumane” più di 30.000 schiavi e che, Claudio, ambì commemorare l’inaugurazione dei lavori del prosciugamento del Lago Fucino, con una magnificenza tale, che ne superasse ogni altra, sia in grandezza che in splendore».

Lo spettacolo più monumentale a quei tempi era la Naumachia — che, come una grande e importantissima partita di calcio di oggi, mandava letteralmente in visibilio le platee e, particolarmente, Claudio.

«La naumachia consisteva nella simulazione di una battaglia navale con combattimenti veri — con lotte all’ultimo sangue — fino alla morte».

Per l’eccellente riuscita della rappresentazione, Tacito e Sifilino, ci dicono che furono costruite circa un centinaio di galere a tre, e a quattro ordini di remi, che vennero organizzate su due flotte, una rappresentava i Rodiesi (Rodiani) e l’altra i Siculi (Siciliani). Per reperire i numerosissimi combattenti, si rastrellarono da tutte le prigioni circa 19.000 persone per farli guerreggiare su queste imbarcazioni. Per il suddetto gigantesco avvenimento, con annesso spettacolo, sulle rive del Lago Fucino, si recò ad assistere tutta Roma.

L’imperatore con la sua sposa, il figlioccio Nerone e gli altolocati della sua splendida corte, presero posto su un apposito chiosco, all’uopo predisposto ed a questi riservato, nelle immediate prossimità dell’inghiottitoio dell’Emissario. Dopo che le “galee” si erano disposte in posizioni antagoniste, in cerchio a queste, si posizionarono numerosissime zattere ed altre imbarcazioni occupate da guardiani armati di baliste, catapulte ed altre armi, con il compito di impedire che i combattenti potessero avere modo di sfuggire al loro destino.

"I guerrieri, prima di iniziare gli scontri, si guardarono intorno; e, resesi conto del triste destino, sfilarono davanti al Principe, a cui indirizzavano il funereo saluto di rito":

«Have Cesare imperator, morituri te salutant»

Claudio, fuori di sé dalla gioia, dimentico della formula del cerimoniale e, impaziente di godersi lo spettacolo, rispondeva con l’augurio: «Avete et vos» il che significa: «salute a voi». Dalle acque del Lago emerse un Tritone d’argento, seguì un infelice clangore di tromba per dar principio agli scontri, ma nessuno si mosse, e tutti si rifiutarono d’ingaggiar battaglia, perché l’Imperatore aveva augurato loro buona salute; Claudio colmo di collera, angosciato di vedere il suo spettacolo andare in fumo, li minacciò di farli uccidere tutti se non avessero subito iniziato a combattere …


… «la carneficina fu tale che l’onda vitrea dell’acqua del Lago Fucino, si colorerà di rosso con il sangue umano» … … erano migliaia e migliaia di uomini, moltissimi di questi persero la vita, in gran quantità finirono di esistere per dissanguamento, altri per le gravi ferite riportate, parecchi rimasero per sempre orrendamente deturpati: storpi, monchi, ciechi, mutilati, paralizzati; solo pochissimi si salvarono e, Claudio, vedendo quel Lago: “Plenum di sanguine”, forse temendo l’ira del dio Fucino, concesse loro la libertà.

Publio Cornelio Tacito, racconta: «Di là vedevi un urtarsi e un cozzare di zattere contro zattere, e repente di qua un inoltrarsi, d’alzarsi, inabissarsi di barche su barche, impetuosamente: da per tutto un cozzare, un azzuffarsi, un ferire, in lottar rabbiosamente, un vincere, un cader di mille schiavi, un romper d’arti, di gemiti, di sangue, di dolore e di uno sfasciar di navi».

Come consuetudine di quei tempi, tutto si svolgeva tra urli d’incitamento e di gioia, insaporito da eccelso godimento di Claudio e del suo popolo, entrambi assetati sempre della sofferenza e del — multum vulnerum sangue degli altri.





CARLO GATTI

 

Rapallo, 17 giugno 2020


STORIA DELLA NAUMACHIA

STORIA DELLA NAUMACHIA

Secondo la definizione della TRECCANI, LA NAUMACHIA - (in latino naumachia, dal greco antico ναυμαχία/naumachía, letteralmente «combattimento navale») - Combattimento simulato a scopo di divertimento, eseguito di solito in edifici costruiti a questo fine o in anfiteatri allagati per la circostanza; l'accenno più antico è in Lucilio che forse allude ai Greci. Si ritiene che le naumachie fossero dapprima divertimento privato di grandi signori romani. Nei combattimenti navali eseguiti per pubblico divertimento, gli equipaggi e i combattimenti sono forniti da condannati o da prigionieri incitati alla lotta dalla minaccia di rappresaglie contro i riottosi; il combattimento così diventava cruento e dava agli spettatori l'acre piacere del sangue, come nei ludi gladiatori.



Abbordaggio sul lago Fucino


Rievocazione della Battaglia di Salamina sul lago Fucino



Battaglia di Azio

La battaglia di Azio fu una battaglia navale che concluse la guerra civile tra Ottaviano e Marco Antonio; quest'ultimo era alleato al regno tolemaico d'Egitto di Cleopatra. 
Data: 2 settembre 31 avanti Cristo
Esito: Vittoria decisiva di Cesare Ottaviano

Personalmente ritengo che tramite le Naumachie, ROMA intendesse mostrare la sua POTENZA, EFFICIENZA E CORAGGIO al mondo ad essa ostile e alle colonie conquistate.

In altre parole le Naumachie sono stati i primi Film Kolossal risalenti a 2000 anni fa in cui venivano celebrate le grandi vittorie dei Cesari, non solo, ma anche di eroi, semidei, gladiatori, paladini della giustizia e mitici re. Per citarne alcuni: QUO VADIS (1951) - BEN HUR (1959) – IL GLADIATORE (USA 2000) -  TROY (2004), celebri per le scenografie realistiche, grandi budget e colonne sonore memorabili. Proprio a causa degli enormi costi di produzione, di NAUMACHIE e FILM KOLOSSAL ne passarono pochi alla storia.

Per il popolo era una forma di spettacolo grandioso perché violento in modo superiore a quello cui erano abituati a vedere negli anfitetari, circhi ecc…

Per gli strateghi erano vere e proprie “simulazioni” di battaglie navali, con impiego di nuove armi sperimentali e l’uso di strategie che in seguito sarebbero state impiegate nelle VERE battaglie navali.

Per gli ingegneri civili e militari erano rare occasioni per mettere a punto opere costruttive: navi, porti adeguati, pontili, opere idrauliche di enorme importanza come bacini lacustri, fluviali, laghi artificiali, deviazioni di fiumi, raccordi e canali, acquedotti, dighe, mura, paratie e molti altri esperimenti in cui diedero prova di grande efficienza e capacità costruttiva, ponti e strade che avevano come scopo la rapida viabilità per le comunicazioni con tutte le province dell’Impero.

Sullo sfondo di questo scenario in gran parte strategico c’era la TALASSOCRAZIA, propagandata e praticata per far comprendere al popolo la rotta da seguire per ottenere il dominio dei mari.

Per talassocrazia (dal greco θαλασσα, mare, e κρατος, potere) si intende il dominio militare e commerciale, esercitato da una determinata entità politica, di uno spazio marittimo e dei territori in esso contenuti o che su di esso si affacciano.

Altre potenze che esercitarono la talassocrazia in epoca classica sono per esempio la polis di Atene, la civiltà cartaginese, Roma e Bisanzio/Costantinopoli.

Ulteriori esempi di talassocrazie tratti dalla storia più moderna possono essere:

· L’Impero Khmer' e quello Sri VIjaya nella penisola indocinese e nelle isole di Sumatra e del Borneo;

· La Lega Anseatica delle città tedesche e baltiche;

· Le Repubbliche Marinare, in particolare la Repubblica di Venezia e di Genova ma anche quelle di Pisa, Amalfi, Ancona, Gaeta e la dalmata Ragusa

· L’impero Britannico, che per tutto il XIX secolo ha mantenuto il predominio sui mari.

L'esempio più vicino ai giorni nostri di una talassocrazia è quello della potenza navale statunitense che, con i suoi (attualmente) dodici gruppi da battaglia di portaerei, può proiettare la propria potenza praticamente in ogni punto del globo terracqueo, attraverso l'uso combinato della potenza aeronavale, secondo la dottrina di Alfred Thayer Mahan. È interessante notare che tutte le talassocrazie sono presto o tardi declinate proprio a causa dell'incapacità di difendere territori così eterogenei e lontani fra loro. Altrettanto notevole é il fatto che molti grandi condottieri come Napoleone persero il loro potere per aver fallito la prova della potenza marittima. In effetti, la talassocrazia è una forma di potere estremamente costosa, in quanto una flotta richiede enormi investimenti in materiali, ma anche in addestramento di uomini altamente specializzati.

Le naumachie erano, come abbiamo appena visto, simulazioni di battaglie navali svolte in bacini naturali o artificiali allagati per la circostanza, dove si rievocavano famose battaglie storiche. I naumacharii, cioè i combattenti, erano un misto di nemici caduti schiavi, marinai pagati per eseguire le manovre indispensabili, o criminali condannati a morte cui veniva risparmiata la vita se dimostravano abilità e coraggio.

Questi spettacoli, ideati e rappresentati a Roma, raramente venivano eseguiti altrove, in quanto erano costosissimi: le navi erano autentiche e subivano attacchi con le prore rostrate danneggiandosi al punto che molte affondavano con ingenti perdite umane.


Le naumachie spesso riproducevano famose battaglie storiche, come quella dei Greci che vinsero i Persiani a Salamina, o quella degli abitanti di Corfù contro la flotta di Corinto.

QUANTE FURONO LE NAUMACHIE?

Le prime tre naumachie si tennero a circa 50 anni di distanza, le sei seguenti, la maggiore parte delle quali ebbero luogo in anfiteatri, si tennero a circa 50 anni di distanza; le sei seguenti, la maggior parte delle quali si svolsero in anfiteatri, si tennero a distanza di 30 anni. Delle circa venti rappresentazioni di naumachia nell’arte romana, quasi tutte sono del IV stile pompeiano, all’epoca di Nerone e dei Flavi.

I naumacharii, nell’accingersi alla battaglia, salutavano l’imperatore con una frase celebre:

Ave Caesar, morituri te salutant.

Frase che spesso viene attribuita erroneamente ai gladiatori nel rituale saluto all’Imperatore.

Ed ecco la spiegazione:

“Almeno così salutarono l’imperatore Claudio che non desiderando il massacro di tutti fece un cenno di negazione che fu però interpretato come una grazia dal combattimento. Claudio si infuriò, gli uomini combatterono, parecchi morirono, la folla andò in visibilio e tutti i sopravvissuti vennero graziati. Poiché era andata bene, la frase venne ripetuta.

L'apparizione delle naumachie è strettamente legata a quella, leggermente anteriore, d'un altro spettacolo, il «combattimento fra truppe» che non ingaggiava dei combattenti a coppie, ma due piccole armate. Proprio in queste ultime i combattenti erano più sovente dei condannati senza allenamento specifico rispetto ai veri gladiatori. Cesare, creatore della naumachia, traspose semplicemente in un ambiente navale il principio delle formazioni di battaglia terrestre.

Le naumachie avevano la particolarità di rievocare temi storici o pseudo-storici: ogni flotta che s'affrontava rappresentava un popolo celebre per la sua potenza marittima nella Grecia classica o l'Oriente ellenistico: Egizi e Fenici per la naumachia di Cesare; Persiani e Ateniesi per quella di Ottaviano Augusto, Siculi e Rodii per quella di Claudio.

I mezzi impiegati erano considerevoli! Ciò rendeva la naumachia uno spettacolo riservato ad occasioni eccezionali, strettamente legato a celebrazioni dell'Imperatore, sue vittorie e suoi monumenti.

Acqua negli anfiteatri

L'immissione d'acqua negli anfiteatri solleva, ancora oggi, numerose domande. Innanzi tutto, questi luoghi non servivano esclusivamente per le naumachie e dovevano essere disponibili per caccie e lotte tra gladiatori. L'alternanza rapida tra spettacoli terrestri ed acquatici sembra essere stata la principale attrazione di quest'innovazione. Cassio Dione lo sottolinea quando si riferisce alla naumachia di Nerone; Marziale fa lo stesso parlando di quella di Tito nel Colosseo. Lo studio delle sole fonti scritte non fornisce alcuna informazione sulle modalità pratiche di questa prestazione.

La caduta dell'Impero romano non determina la fine delle naumachie. In effetti, ne ebbero luogo delle altre nel corso dei secoli successivi, particolarmente nel 1550 a Rouen per il re Enrico II di Francia o nel 1807 a Milano per l'imperatore Napoleone Bonaparte. Nel 1690 in occasione delle nozze del figlio Odoardo II Farnese con Dorotea Sofia di Neuburg, il duca Ranuccio II Farnese fece scavare una grande peschiera al termine dell'ampio viale centrale del parco ducale di Parma, al fine di rappresentarvi una spettacolare naumachia.

CARLO GATTI

Rapallo, 17 giugno 2020