SONO SBARCATO... CON I PIRATI

SONO SBARCATO…. CON I PIRATI

Sciabecco saraceno

Corsaro Barbaresco - XVI secolo

Mi sono imbarcato, non riconosciuto, sulla seconda lancia che puntava sulla vicina spiaggia nel più assoluto silenzio. Eravamo una decina di uomini al comando, si fa per dire, del più esperto di noi;

ISTAMBUL – Monumento dedicato a DRAGUT

un sanguinario con la inseparabile spada da taglio leggermente ricurva (non una vera e propria scimitarra) che usava senza alcuna pietà. Era “Capo” perché noi lo avevamo scelto a quel ruolo e il Comandante ce lo aveva concesso, riconoscendogli pur egli capacità non comuni.  Lui era all’ennesimo assalto mentre qualcuno di noi al primo; e io fra quelli. La nera notte se ne stava andando lasciando posto ad un’alba ancora buia perché il Comandante, vecchio e crudele vermocane di mare, buon conoscitore del tempo, aveva previsto che per almeno quattro giorni la luna, nostra nemica, non si sarebbe fatta vedere. Dopo un ennesimo sorso di grappa ci imbarcammo.


Le prime pistole (distinte dal precedente archibugio) comparvero verso la metà del Cinquecento, secondo alcuni in Toscana, a Pistoia, ove fiorivano botteghe di valenti armaioli e il termine deriverebbe proprio dal nome di quella città. L'etimologia ufficiale lo fa invece derivare dal ceco pì šťala ("tubo, canna"), mentre secondo altri trarrebbe origine da pistoles, moneta spagnola di diametro uguale al calibro degli schioppi d'allora.

Il Capo impugnava in una mano la “duchessa”, la pistola a pietra focaia che quando sparava da distanza ravvicinata creava un cratere nel ventre del malcapitato e nell’altra la spada ricurva. Anche noi eravamo armati con le ricurve spade da taglio e, sotto le vesti, l’inseparabile pugnale, ultima chance.


Il primo archibugio di cui si ha documentazione in Italia risale al 1522.

Gli archibugi li avevano solo quelli che restavano di guardia sulla spiaggia; a noi avrebbero dato solo che fastidio impedendoci movimenti veloci.  Nel buio si scorgeva sulla spiaggia ancora, qua e là,  qualche morente falò, bruciato in onore del Santo Patrono e che a  noi servivano da orientamento. Sembrava non ci fosse anima viva. Davanti, il borgo da assaltare e, alle spalle, la nostra flotta che ci aveva silenziosamente portati fin lì. Avvicinandoci, ci accorgemmo che qualcuno dormiva russando sdraiato sulla fascia prima della battigia: era evidentemente ubriaco fradicio per le libagioni della sera; gli altri certamente russavano sui loro sacconi, se non ubriachi, certamente “cotti” dal vino e dalle troppe risate.


Rapallo – Porta delle Saline. Da qui entrarono i Saraceni...

A terra sapevamo che le porte del Borgo ci sarebbero state aperte dai delatori al nostro soldo, gli stessi che ci avevano fornito importanti indicazioni per andare a colpo sicuro e scegliere il giorno propizio. Questi venivano poi pagati al primo sbarco prossimale effettuato dopo la razzia per permettere il  riscatto dei rapiti.

A questo proposito ho sentito il Reis, nostro Comandante raccomandarsi di non massacrare se non il dovuto,  e fare più prigionieri possibili così da rendere attrattivo il successivo riscatto dei rapiti, perché era il momento che “valevano” di più privilegiando i membri delle famiglie più in vista perché merce di maggior valore. Se riscattati, si evitava di mantenerli e sorvegliarli sino all’arrivo del mercato degli schiavi perché, esibendoli in male arnese, si correva il rischio di non rientrare neppure delle spese. In oltre se avessimo incrociato un qualche veliero che meritasse essere abbordato, quelle numerose presenze ci sarebbero state di intralcio. Se invece li avessimo posti in “vendita” su qualche spiaggia vicina a casa loro, chi avesse avuto interesse a riscattali, lo avrebbe potuto agevolmente fare. Quelli rapiti a Rapallo bisognava esibirli quanto prima sulla spiaggia di Lavagna o Bogliasco anche perché il prezzo ricavabile, sotto la spinta emotiva, sarebbe stato assai più interessante di quello ottenibile sui grandi mercati degli schiavi di Algeri, Tunisi o Maiorca le cui valutazioni fluttuavano anche a secondo della quantità offerta e non solo dalla qualità. Facevano eccezione le belle ragazze da farne omaggio ai  Visir locali, per essere da loro ben accolti.

I terrazzani, quando c’erano, avrebbero dovuto fare la guardia dai terrazzi, se non dormivano  anche più di quelli che dovevano proteggere. Capimmo che la scelta di assalirli all’alba successiva alla Festa del paese, era una delle tante intuizioni del nostro Reis che, con noi, si era imbarcato sulla prima lancia che avrebbe toccato terra. L’imperativo era di fare tutto in fretta prima che gli abitanti se ne rendessero conto e che, se mai qualcuno fosse andato nei paesi vicini a chiedere aiuto, non potesse tornare in tempo con i rinforzi. Già, che rinforzi? visto che nessun uomo era armato e una palla di pistola val ben più di bastoni o attrezzi agricoli; erano poveri pescatori o artigiani o persone che prestavano i loro servigi presso qualche Signorotto locale.


Portofino – Castello Brown. «Sembra che il baluardo difensivo sia stato costruito nel Medioevo e da sempre utilizzato per funzioni militari. È comunque probabile che i romani abbiano fissato una delle loro “stazioni” nell’antica Portus Delphinis e vi abbiano costruito un “castrum” e una “turris”, come era nel loro uso fare ovunque, allorché costruivano i loro punti strategici. È, inoltre, probabile che abbiano costruito una torre nello stesso luogo ove sorge la torre che possiamo ammirare oggi.

Le guarnigioni in quei paesi non esistevano ancora. Quelle si tenevano “pronte” nei Centri più importanti, arroccati nelle poche fortezze realizzate ma senza armi offensive. Quando gli ultimi soldi di tutti e della Repubblica si erano finiti per comprare i cannoni da installare nella edificata fortezza, non ce ne erano poi più per comprare le palle e la polvere da sparo. Quindi la sorpresa e la rapidità ci garantivano il successo. Sbarcati in silenzio, cominciammo ad urlare appena varcato il portone del Borgo che trovammo regolarmente già aperto. Da li in poi era indispensabile creare il panico in modo che se uno si risvegliava di soprasalto sotto ad un incubo, era inoffensivo per quel lasso di tempo da poterlo fare prigioniero; si dava l’impressione volerli sgozzare tutti ma a noi interessavano prigionieri e non morti. Le donne correvano ancora arruffate dal sonno e sommariamente vestite,  barricarsi in chiesa con i loro piccoli “mandilli” a quadrettoni grigio-azzurri, contenenti poche cose, gli uomini buttavano dalle finestre di casa loro delle masserizie per ostruire il passaggio nei già stretti caroggi, realizzati così per quello scopo.


Il Centro Storico di Rapallo mantiene l’impianto dell’antico borgo medievale e ne conserva i portici ed alcuni portali ed affreschi. Gli stretti carruggi pedonali sono diventati oggi le vie del passeggio e dello shopping, ma alzando gli occhi, in più punti si possono vedere ancora palazzine con le finestre sottolineate da architravi o mensole con elementi decorativi barocchi a bassorilievo.

Le case al piano terra non avevano finestre, specie sul lato spiaggia, così da formare palazzata difensiva, al punto da rendere difficile entrare nelle abitazioni se non dalla porta. L’ordine che avevamo era quello di sgozzare subito platealmente qualcuno, meglio se vecchio, per alimentare il terrore che già si era impossessato degli abitanti assonnati e sconvolti. Ogni volta che trovavamo una porta chiusa, bisognava incendiare quella casa per far capire che davanti a noi le porte dovevano essere lasciate aperte per favorirci le razzie. Non tutti  noi sbarcavano per assalire; i più malconci, armati di archibugi, accatastavano e custodivano sulla spiaggia le suppellettili più interessanti così da poterle imbarcare rapidamente. Altri sfondavano le porte delle Chiese trovandovi regolarmente le donne avvinghiate le une alle altre con il Sacerdote che, pregando, le rincuorava. Urlando e strappando dei corsetti per dar loro l’impressione che volessimo stuprarle, portavamo via tutti, monaco compreso, avendo però prima tolto a tutte il fagotto con i loro averi.  Qualche scudisciata qua e là faceva capire che non scherzavamo e continuavamo ad urlare e bestemmiare come ossessi. Gli uomini tentavano di scappare e non ci opponevano resistenza: era quindi facile legarli l’un l’altro perché non avvezzi a combattere. Nel rapirli si cercavano i giovani, se non c’era qualche segnalazione preferenziale, perché certamente al soldo di qualche casata che avrebbe potuto pagarne il riscatto per non rimanere senza

personale di servizio o artigiani. Le donne, specie se vecchie, ci facevano comodo per calmare le giovani, non ancora abituate come loro ad una vita di sottomissione. Certe volte nelle case incontravamo un vecchio che, per non essere ucciso, ci dava spontaneamente quanto aveva. Per evitare che poi ci intralciasse, bastava qualche bastonata ad acchetarlo. Il nostro lavoro era rischiarato dai bagliori sinistri dell’ardere degli appartamenti che avevano tenuti chiuso o perché, fuggiti gli abitanti avevano chiuso la porta; bisognava però, mano a mano che il tempo passava stare attenti a non bruciarci con i tizzoni o le tavole che, infuocate, cadevano dai poggioli. Gli urli che lanciavamo e le implorazioni delle vittime non ci impressionavano più di tanto; c’eravamo abituati. Non potevamo perdere tempo e bisognava far capire che non scherzavamo.


Ad un certo momento il passaparola dei Capi e, al segnale convenuto, ci ritiravamo quasi tutti sulla spiaggia mentre chi restava nel borgo, correva per i vicoli urlando e brandendo fiaccole infuocate per terrorizzare, mentre il grosso di noi era già impegnato ad imbarcare i rapiti e selezionare i mobili migliori da portarsi via; il resto restava li, se non incendiato.  In meno di un’ora, ora e mezza, tutto era finito. Con il primo chiarore eravamo già a bordo e si manovrava per partire, prima che eventuali navi non previste, ci potessero cogliere con le vele afflosciate o i remi non in acqua.

All’epoca non eravamo ben visti.

Renzo BAGNASCO

 

Rapallo, 24 luglio 2016

 


 

 

 

 

 

 

 

 


STORIA TRISTE DI UN VECCHIO SIGNORE E DUE GABBIANI

Storia triste 
di un vecchio signore e due gabbiani


Un vecchio signore irlandese da giovane aveva generato due figli maschi belli come fiori, forti come la roccia, coraggiosi come solo certi uomini sanno esserlo.

Tutti in Irlanda amano e odiano il mare: lo amano da giovani, lo odiano da vecchi, perché ha procurato loro troppi dolori.

I due ragazzi, naturalmente, lo amarono sin dall'infanzia e, appena poterono, divennero due marinai.

Un brutto giorno il mare fu più forte di loro e li inghiottì. Qualcuno dice che

quando il battello affondò con tutti i suoi marinai, un volo improvviso di gabbiani si alzò dal luogo del naufragio.

Il padre invecchiò rapidamente: dolore ed età avevano lasciato profondi segni sul suo viso.


Il vecchio era solito passare il tempo sul molo, guardando il mare, combattuto tra l'ammirazione e l'odio che questo elemento della natura suscitava in lui.

Un giorno due gabbiani si staccarono dallo stormo, che volava alto, e si accoccolarono sull'onda davanti a lui. Pareva che lo guardassero. Poi volarono sul molo e di nuovo si accoccolarono sul selciato al suo fianco.

Era un comportamento innaturale per i gabbiani e il vecchio lo capì. Comprese di aver ritrovato i suoi figli.

Quando i due gabbiani si alzarono in volo, anche il vecchio volò in mare e non fece più ritorno.

Ada BOTTINI

Rapallo, 14 giugno 2016

 

 

 


SAN FRUTTUOSO DI CAMOGLI: terra di eroine

SAN FRUTTUOSO DI CAMOGLI: terra d’eroine

 


 

Almeno una volta, ogni inverno, amo tornare a S. Fruttuoso di Camogli; lo faccio ormai da tanti anni.

Scelgo, per evitare il domenicale frastuono, una luminosa mattinata di giorno feriale; frequentemente, in quella stagione, il sole, pur alto, non riesce a scaldare l’aria resa tersa dalla tramontana. M’imbarco a Camogli assieme alle derrate e alla posta per San Fruttuoso, spesse volte unico passeggero e, ogni qualvolta il battello, doppiata Punta Torretta, mi rivela quel paesaggio, m’emoziono come fossi un turista che, per la prima volta, lo scopre.

Non posso fare a meno di pensare a cosa ha scritto, di questo posto, il poeta genovese Nicolò Bacigalupo:

 

Comme un datao de mâ ti pai serroù

Nell’enorme muagion de Portofin

Che zu a picco o pâ stato scopellòu

Dai Ciclopi in scë un mâ sempre turchin.

Libera traduzione: Come un dattero di mare sembri chiuso nell’enorme muraglione di Portofino che giù a picco sembra scalpellato dai Ciclopi su di un mare sempre turchino.

 

Imbottito come un baleniere mi piace sostare, allungandomi sulla sassosa, piccola spiaggia che separa gli archi dell’antica Abbazia dal mare; supino, su quel morbido pendio, avverto pienamente di appartenere a questa terra, lambito dal mare e immerso nei pini come sono. Alle spalle mi protegge la solida costruzione in pietra mentre, dalle finestrelle del “Giovanni”, già trapela la fragranza della cucina che sta preparando il pesce, che a mezzogiorno gusterò.

Ecco, so già che quest'immersione nella ligusticità mi appagherà poi per mesi e mesi; l’annuale ritorno in quest’utero verde, perché questo ho scoperto essere per me questa baia, m’infonde pace e serenità.

Tutt’attorno, un luminoso silenzio; non c’è anima viva. Hanno già ripulito dagli affronti abbandonati durante l’invasione dell’ultima domenica, così da levare ogni traccia di questa settimanale profanazione.

 

 

In direzione dell’orizzonte, dopo l’insenatura del Cristo, scorgo ogni tanto riaffiorare neri luccichii; sono i sub che silenziosamente si esercitano e, dolcemente, la mente si apre alla fantasia.

Questa zona, oggi Parco del Promontorio di Portofino, così come la vicina Cala dell’Oro e l’altra, quella della Chiappa, si vuole che ai primordi fosse popolata da mostri antropofagi; a me invece piace pensarli quando, in epoca successiva, erano luoghi di caccia con il falco da parte d’insigni cavalieri, rampolli delle famiglie patrizie locali, accompagnati da orgogliose dame.

 


 

Nel 1104 i Consoli del Comune di Genova stabilirono che i rapaci, colà magistralmente addestrati, appartenessero all’Abate reggente quel Monastero e non potessero essere diversamente utilizzati, se non per l’uso per il quale erano stati ammaestrati.

La mitologia, spesso frammista a qualche verità storica, ci ha lasciato detto che Ercole, figlio di Giove e di Alcinea, quando tornò dalla Spagna, una volta trionfalmente attraversata la Francia, fondò Montecarlo ma, quando arrivò qui, venne fermato dai Liguri; dopo di lui, negli anni, vi giunsero i Fenici e poi gli Etruschi, i Greci, i Cartaginesi e gli onnipresenti Romani.

Il primitivo monastero sorse, per opera di Prospero, vescovo di Taragona, nel 711, ma fu poi distrutto dai saraceni.

Carlo Magno, prima, (801) e Papa Leone III dopo (812), edificarono in zona una “statio” per segnalare, con fumi di giorno o fuochi di notte, alle altre due stazioni, quella di levante posta su Capo Manara e quella di ponente, sistemata sul Capo di Faro, lo stesso sul quale in seguito edificheranno la Lanterna di Genova, eventuali avvistamenti di predatori.

Proprio al traverso di San Fruttuoso, in mare aperto, nel 1431 si combattè una battaglia fra la flotta veneta e quella genovese, secondo l’uso dell’epoca di affrontare a viso aperto il concorrente commerciale e non, come oggi, a colpi di dossier occulti.

Pietro Loredano, il comandante veneziano, impose ai genovesi una tale cocente sconfitta da lasciare, nei perdenti, un doloroso duraturo ricordo; l’unica consolazione, per lenirne le ferite, fu che lo stesso vincitore riconobbe l’eroismo dei vinti, tanto che Francesco Spinola d'Ottobone, nell’occasione duce dei genovesi ma caduto anch’esso prigioniero dei veneziani, fu, alla fine, affrancato senza che gli fosse imposta l’onta di toglierli la spada e i suoi marinai furono sciolti dalle catene alle quali erano già stati vincolati, e tutto senza chiedere il pagamento d'alcun riscatto. Quest’ultimo gesto, se ben conosco i miei conterranei, fu certamente il più apprezzato.

 

Nel 1550 Papa Giulio III, con proprio “breve”, cocesse in <jus patronato > l’Abbazia di Capodimonte, questo era il vecchio toponimo del luogo, al Principe Andrea Doria, che la scelse come sacrario delle tombe della propria famiglia.

Questa preziosa scheggia di Liguria diede alla marineria uomini e soprattutto donne coraggiose e intrepide; per tutte valga l’episodio, che costì è ricordato con una lapide e con un ingrandimento di una litografia, appesa davanti al banco del bar attraverso il quale si deve passare, perché è contemporaneamente mescita ma anche strada pubblica, se si vuol raggiungere la Chiesa oggi restaurata e l’attuale Museo, entrambi gestiti dal Fondo Italiano per l’Ambiente.

 


 

E’ l’alba del 24 Aprile 1855. La pirofregata inglese <Croesus>, nave a propulsione a vapore, al comando del Signor Hall, salpa dal porto di Genova per portare in Crimea, dove si sta combattendo, 400 uomini freschi dell’Armata Sarda e 25 muli completamente equipaggiati, nonché le relative vettovaglie ed attrezzature; al traino, secondo la moda del tempo, ha la nave appoggio <Pedestrian >, carica di munizioni e ulteriori provviste a sostegno di chi, laggiù, combatte. Dopo due ore di navigazione il piccolo convoglio si trova proprio al traverso del promontorio di Portofino; in quello stesso istante si sente il lancinante segnale di <fuoco a bordo >. Il Comandante, resosi conto che è proprio la sala macchine a bruciare e, giudicando ormai impossibile spegnerla, ordina di tagliare immediatamente il cavo del traino per evitare che le munizioni al seguito possano scoppiare e, mentre dà ordine di approntare le scialuppe, cerca di individuare un arenile sul quale potervi indirizzare la prua così che, spiaggiando la nave anche se in fiamme, ne avrebbe potuto evitare l’affondamento.

Chi conosce la zona sa che non ce né e, le uniche due eventualmente adatte allo scopo, seppur nascoste alla vista perché al fondo di cale strettissime e schermate dai capi, sono quella dell’Oro, ormai lasciata a poppa del battello e, lì vicino, quella di San Fruttuoso. Per fortuna il comandante Hall vede spuntare, dietro Punta Torretta, la grigia cupola a spicchi dell’Abbazia e, facendo d’ogni necessità virtù, ordina di mettere al massimo le caldaie e, urlando nel megafono, <avanti tutta >, avventa la nave in quella direzione a lui sconosciuta ma che ritiene, viste le costruzioni, possa essere abitata e quindi dotata di un qualche approdo; non c’era altra scelta.

L’improvvisa messa in pressione delle caldaie, se dà un forte abbrivio alla pirofregata, mai nome raggruppò in sé due infausti segnali così apertamente premonitori, di contro n’accelera la paventata fine; uno scoppio, la cui ridondante eco rimbalza risalendo lugubre fra i valloni e i dirupi del Promontorio, sconquassa la nave. La ciminiera scoppia ripiovendo in mille frammenti incandescenti; la coperta, con le parti di legno ormai in fiamme, si squarcia aprendosi come una rossa gola di drago fiammeggiante e tutto il cielo si riempie di particelle incandescenti impazzite che, frammiste all’acre e irrespirabile fumo d'olio e pittura che bruciano, paiono lapilli di un’eruzione.

E’ facile immaginare cosa successe a bordo dove, pochi marinai di mestiere, avrebbero dovuto infondere calma ed ordine ad una quantità di giovani fanti, equipaggiati ancora con le pesanti divise di panno invernale che, non essendo marittimi, in un primo tempo si saranno sicuramente paralizzati dalla paura trasformatasi poi in panico all’udire il grido <al fuoco, al fuoco >.

Non c’è nulla di peggio, in un’emergenza in mare, che il farsi prendere dal panico; purtroppo invece è ciò che quasi sempre succede, causa prima delle tragedie che leggiamo sui quotidiani. Le urla di terrore e d’implorazione, frammiste a quelle dei primi ustionati e dei feriti, si sovrapposero agli ordini di servizio, alimentando il caos. La vista della vicina costa e il mare non agitato, anziché rincuorare i sopravvissuti, suscitò l’ingannevole stimolo a tentare di raggiungerla a tutti i costi; iniziano ad accalcarsi, schiacciandosi gli uni sugli altri, premuti anche da quelli più dietro che, ancora su per le scalette d’uscita dai boccaporti, non vogliono restare ultimi ad abbandonare la nave. S’ignorano e si calpestano pure i feriti e gli ustionati; tutto avviene sotto una pioggia di fuoco e in ambiente reso invivibile dalle strutture ormai surriscaldate e con le zone di calpestio, incandescenti.

Allertati da questa scena apocalittica, i pochi abitanti presenti in San Fruttuoso, gli uomini validi erano ancora a pesca, si attivano alla meglio; come capita spesso, sono le donne le prime ad intuire d’istinto il da farsi, così come s’allarmano le leonesse se ai loro piccoli si avvicina un qualche vecchio leone.

Le uniche due donne valide, le sorelle Maria e Caterina Avegno, la prima intenta ad allattare l’ultimo nato e l’altra a confezionare il <frugale pasto >, si precipitano alla spiaggetta, capiscono subito la situazione e varano la loro barchetta per raggiungere quell’inferno. Da esperte rematrici, così come la dura vita del borgo imponeva, corrono a portare soccorso.

Mentre armeggiava, Maria avrà certamente pensato a suo figlio Paolo, appena scampato ad un naufragio in terra di Spagna, e da quel ricordo avrà trovato nuova motivazione leonina mentre, davanti a loro, imponente e dominante appare l’alta prua squarciata e in fiamme della fregata, quasi sanguinolenta fauce d’orca fiocinata a morte sulla spiaggia. Tutte le braccia di quegli sventurati, troppo giovani per morire così ingloriosamente, si tendono verso la fragile barchetta governata dalle due ardimentose; molti ne salvano ma, più il tempo passa e più il panico strizza il cervello a quelli che ancora attendono soccorso. Non appena vedono alla loro portata quel fuscello, ritenendolo l’unica salvezza, tutti assieme irresponsabilmente, vi si aggrappano, appesantiti pure dalle spesse divise ormai pregne d’acqua, lottando e sgomitandosi sino a far capovolgere violentemente quel guscio.

Caterina, più fortunata, è notata da un bravo marinaio che, sapendo nuotare, la trae in salvo ma di Maria e del suo corpo trascinato sul fondo da quegli esagitati, non se ne saprà più nulla, almeno per quel giorno. Particolare toccante: tutta la rapida sequenza è seguita dal marito Giovanni Oneto che, sebbene avanti negli anni, anch’egli con un’altra barca, si sta prodigando. Soltanto la mattina del 29 Aprile, cinque giorni dopo, il mare, fedele al suo mesto ed immutabile rituale, restituirà il corpo della sfortunata che, inizialmente, pareva voler trattenere tutto per se. Il bilancio della tragedia si chiuse con 24 marinai morti.

 


 

San Fruttuoso (Camogli). Abbazia. Tomba di Maria Avegno e Militi Italici Ignoti

 

Le sarà accordato l’onore, per concessione dei Principi Doria, di essere tumulata fra loro nell’Abbazia, così come un’apposita lapide, oggi traslata nell’atrio del Museo Marinaro di Camogli, ricorda e, vicino le sarà posto uno dei pochi pezzi recuperati dal rogo. Il Comandante Hall, come vuole un’antica tradizione marinara, scenderà per ultimo dai resti di quello che sino a poco prima era stato il suo vascello; finalmente, solo quando sopraggiunge la notte, tutti i sopravvissuti sono in salvo.

Passeranno però altre notti con la baia sempre sinistramente arrossata dai tizzoni che ancora ardono qua e là, sulle ultime parti vive dello scafo; questo lento consumarsi, sembra voler perdurare per rischiarare il più a lungo possibile il mare, così da facilitare l’improbabile “ritorno” di Maria.

 


La Regina Vittoria conferì alla memoria di Maria la Victoria Cross, la più alta onorificenza militare britannica. Il Console inglese Brown consegnò 10 sterline alla superstite Caterina e 50 sterline alla famiglia di Maria Avegno.

Dobbiamo riportare, per completezza di cronaca che, alla famiglia dell’eroina, il Governo di Sua Maestà Britannica elargì una bella somma cui si aggiunse una pensione annuale, assegnatale dal Ministero dell’Interno Italiano mentre, Sua Maestà il Re conferiva, ad entrambe le sorelle, la medaglia d’oro; anche la Francia, alleata, fece pervenire al vedovo un discreto aiuto.

Oggi, di quel gesto, resta la testimonianza ufficiale anche a Genova, nell’atrio del Palazzo Comunale, immortalato in una lapide e pure il Comune di Camogli, competente per territorio, ha apposto l’epitaffio cui si è accennato, concedendo pure alle due eroine un <Distintivo d’onore in oro >.


 

Sono ancora coricato sulla spiaggia a guardare quel mare calmo e lucido, e m'é difficile immaginare una così violenta tragedia in un luogo che, invece, sembra creato apposta per fantasticare dolci sogni, avvolti come si è, nell’armonia dei suoi colori contrastanti.

Quel tragico rogo purpureo ritorna inconsciamente nella tavolozza d’Ubaldo Merello, il pittore che più di tutti ha intriso d’amore le sue vedute degli scorci di questi luoghi “reconditi e di divina bellezza”

Per dire delle mie sensazioni, basta la poesia d’Adriano Sansa, genovese per scelta, là dove nella sua <Un mattino di sole a Dicembre > scrive:

…Se quando sarà sera sentiremo

la voce che ci chiede spiegazione

di questa breve sosta consumata

contemplandoci vivi,non sapremo

dire se non che il sole qualche volta

martella duramente, ma quest’oggi

è stato dolce senza una ragione.

 

 

Renzo BAGNASCO

 

Rapallo 14 giugno 2016

 


QUANDO I FIESCHI FINIRONO A BAGNO...

QUANDO I FIESCHI FINIRONO A BAGNO....

Silvan e Charly sono due “retired uomini di mare" che s’incontrano in DARSENA ogni mattina per il solito café delle 10. Quando non parlano di politica sforano “abusivamente” nella storia, e in questo specchio d’acqua di storia n’é passata tanta...

I nostri amici hanno appena visitato per l’ennesima volta la REPLICA della Galea custodita nel Galata Museo. Questa mattina, chissà perché, le  parole: Darsena e Galea suscitano in loro un ricordo “curioso e poco noto” che intendono rievocare. L’inesorabile caduta politica ed economica della potente dinastia genovese dei FIESCHI. Già! Per ironia della sorte, fu proprio Gianluigi Fieschi (capo dei cospiratori), a cadere dallo scalandrone della GALEA che doveva assalire.

“Com’é possibile cadere dallo scalandrone di una galea ormeggiata qui davanti e mandare tutto a puttane?” – Si chiede Charly con lo sguardo rivolto verso Calata Cembalo.

“Facciamo un breve ripasso.

– suggerisce Silvan -

Andrea Doria fu chiamato a Genova quando era Ammiraglio della flotta Portghese; fu chiamato perché, pur  essendo Ligure, non era impelagato nelle beghe genovesi e lo chiamarono appunto per derimere le controversie. Accettò a condizione che lo nominassero Duce cioè dittatore, vivesse fuori Genova e restasse amico di Re Carlo di Spagna. Questa sua fedeltà al Sovrano la immortalò con la scritta lunga quanto il palazzo e che ancor oggi si legge nel marmo che divide il piano terreno dal primo piano della sua Villa a Fassolo. La vera svolta della sua carriera si realizzò quindi nel 1528 quando riuscì a firmare con Carlo V un’alleanza militare e finanziaria. Egli s’impegnava a mettere la flotta genovese al suo completo servizio; in cambio otteneva dall’imperatore e re di Spagna un ricchissimo compenso annuo per l’uso delle navi e piena libertà di commercio per Genova in tutti gli stati da lui dipendenti, a pari diritto con gli stessi spagnoli.

L’ascesa di Andrea Doria e di Genova – Andrea Doria, nato a Oneglia, in Liguria, il 30 novembre 1466, apparteneva a una delle quattro famiglie più eminenti di Genova: i Doria, gli Spìnola, i Fieschi e i Grimaldi, un ramo dei quali si era spostato a ovest e aveva fondato la dinastia dei principi di Monaco.
L’ascesa di Andrea Doria e di Genova cominciò parallelamente all’epoca dei “conquistadores” e si svolse mentre la Spagna entrava a far parte dell’Impero di Carlo V d’Asburgo.

Andrea Doria, ormai anziano e quasi in disarmo, sperava di concludere la sua esistenza in gloria e tranquillità, magari nel famedio dei grandi. Purtroppo, suo nipote ed erede Giannettino Doria era molto ricco, potente ed arrogante e gli procurò molti nemici. All'inizio del 1547, Doria dovette così affrontare la più grave minaccia al potere sulla città che teneva ormai da un ventennio.

La Congiura dei Fieschi

Stemmi della famiglia Fieschi

I Fieschi, guelfi come i Grimaldi, costituivano assieme ai Doria ghibellini come gli Spinola uno dei quattro gruppi famigliari genovesi della più antica e potente aristocrazia. Il complotto ebbe al centro un giovane membro della consorteria: Giovanni Luigi (Gianluigi) Fieschi.

Giovanni Luigi Fieschi

Chi spinse Gian Luigi Fieschi ad organizzare il tentato colpo di Stato?”

- Si domanda Charly che ha pochi dubbi in proposito -

“Con ogni probabilità, il Fiesco era sostenuto da molti ambienti della politica italiana ed europea di allora interessati, più che altro, alle conseguenze che una manovra del genere poteva produrre. I mandanti più o meno occulti del giovane nobile sono spesso indicati nella Corte francese e in quella del papa Paolo III Farnese, interessati entrambe ad eliminare uno dei membri più importanti del “partito imperiale” in Italia. Qui, però, c’é da aggiungere un’annotazione di rilievo: la famiglia Fieschi diede alla chiesa due Pontefici (Innocenzo IV e Adriano V) e numerosi Cardinali e vescovi.

La vera ricostruzione storica andrebbe per le lunghe... Silvan scalpita per arrivare al CLOU della drammatica vicenda e attacca:

“Appena ventiduenne, Gianluigi Fieschi cercò infatti di rovesciare la supremazia dei Doria. Tuttavia, la CONGIURA programmata per la notte tra il 2 e 3 gennaio 1547 ai danni di Andrea Doria non riuscì a causa di un “incidente marinaro” che nessuno dei congiurati aveva preventivato. La cospirazione scattò il 3 gennaio 1547. Nella prima fase il piano prevedeva la presa delle “porte della città” e poi la cattura delle galee dei Doria, ormeggiate in Darsena, per liberare e quindi provocare l’insurrezione degli schiavi musulmani.
 Sparato il colpo di cannone convenuto, iniziò il combattimento.

L’AZIONE FINALE DELLA CONGIURA Fu proprio in questa seconda fase della congiura che Gian Luigi Fieschi, proiettato all’arrembaggio di una galea dei Doria, scivolò dalla passerella, cadde nello specchio di mare interno della Darsena e fu inesorabilmente trascinato sui fondali del porto dal peso dell’armatura.  Perso il Capo, i congiurati smarriti si dispersero velocemente ed il fallimento della sommossa fu inevitabile.

Il giorno seguente, Genova era di nuovo nel pieno controllo del suo Doge.

La punizione di Andrea Doria fu atroce e vendicativa per la morte dell’amato erede Giannettino, ucciso quella notte mentre usciva da palazzo di Fassolo.

I congiurati vennero messi a morte dopo un processo sommario. Il Doria bandì i Fieschi dalla città, fece radere al suolo il loro quartiere in Via Lata. Tutti i loro beni vennero espropriati: roccheforti, castelli, manieri e fortezze furono espugnati e in parte distrutti uno ad uno, con tutti i loro vasti possedimenti terrieri. Ebbe così fine il ruolo di questa famiglia nella vita politica genovese, l'unica delle quattro “grandi” a non avere grandi interessi nei commerci marittimi e nella finanza, ma che basava il suo potere sui numerosi feudi posseduti nell'entroterra.

Ecco la prima verità venire a galla: I Fieschi non erano mai stati “vicini al mare”, né fisicamente, né col portafoglio... La loro potenza si era espansa grazie alla influenze della politica e diplomazia del Vaticano in Europa.

Interrompe Charly: “possiamo dire che al Fiesco mancò il piede marino per tenersi dritto, magari sapeva cavalcare e combattere nelle campagne alle spalle di Genova, ma non sapeva nuotare, non conosceva i trabocchetti e le astuzie dei marinai delle Galee, né tanto meno possedeva u mestê do mainâ (esperienza del marinaio)”.

Infatti – aggiunge Silvan - Il ramo più importante dei Fieschi fu quello dell’entroterra genovese, detto "di Torriglia" e di Savignone".

“Cosa ne fu del cadavere del Fiesco?” – Chiede Charly -

“Ripescato dopo giorni – risponde Silvan con tono solenne - Andrea Doria ordinò che i resti di Gian Luigi Fieschi fossero esposti per due mesi sul molo, dopodichè lo fece gettare al largo senza alcuna cerimonia: “perché avesse la tomba che si era scelto”.

Charly fa una interessante obiezione - “Voglio spezzare una lancia in favore di Gianluigi Fieschi. Sono d’accordo che il Fiesco sbagliò ad indossare l’armatura, che non era sicuramente adatta per muoversi con agilità e rapidità tra una galea e l’altra. Quello non era il suo campo ideale di battaglia e questo l’abbiamo capito! Ma quale uniforme avrebbe dovuto indossare per guidare i congiurati  all’arrembaggio, di notte, in mezzo a nemici, schiavi islamici, tra uomini che non l’avevano mai visto? Come poteva dare ordini senza farsi riconoscere? Chi gli avrebbe riconosciuto il ruolo di DUX? Il ruolo è fondamentale perché costituisce il riferimento di base per tutte le azioni militari in corso. Forse il Fiesco, più campagnolo che marinaio, avrebbe avuto bisogno di un consigliere-ammiraglio. Purtroppo Andrea Doria era dall’altra parte...!

Plastico della Darsena medievale con numerose Galee. Galata Museo

In questo dipinto del 1545, (due anni prima della Congiura), si notano i due settori: mare e terra della Darsena.

Tela di Cristoforo Grassi al Galata Museo

La Darsena occupata da numerose Galee in un dipinto d’epoca

Particolare dalla Carta Topografica della Città di Genova ed. Grondona 1846

Ecco come si presentava la Darsena a fine 800. Il vapore al centro della foto é ormeggiato alla calata Cembalo, occupata oggi dal sottomarino NAZARIO SAURO al GALATA MUSEO. A destra la calata Ansaldo de Mari, detta dell’ OROLOGIO occupata da maone. In primo piano la calata SIMONE VIGNOSO (Calata Vigne). UN TEMPO c’erano camalli e operai, magazzini e carichi. Oggi turisti e studenti, caffè e tavolini. Si potrebbero accostare come due istantanee le immagini della Darsena di ieri e quella dei giorni nostri e giocare a trovare le differenze. L’idea di un Open Air Museum, realizzato anche grazie alla collaborazione con la Regione Liguria, il Comune di Genova, le soprintendenze e l’Autorità Portuale, arriva però da lontano: «Ci siamo ispirati ai musei del Nord Europa. A quanto accade a Stoccolma, ad esempio, dove i vecchi docks non più utilizzati vengono affidati ai privati, che li usano per accogliere imbarcazioni storiche» Aggiunge ancora Pierangelo Campodonico (il direttore del Museo del Mare) «in altri posti, come Dunkerque o in certi piccole città della Bretagna, sono state recuperate intere aree degli antichi porti e aperte ai turisti. Questa stessa volontà alberga in tutti noi: dare ai genovesi uno spaccato di quanto accadeva lungo quei moli, nei primi anni del secolo scorso, quando l’attività ferveva tra i magazzini che portavano il nome delle colonie genovesi, Galata, Tabarca, Cembalo, Metelino, Scio ecc... Occorre fare in modo che fra quel passato di lavoro e di vita marinara, e il nostro presente, non ci sia un fossato.

Foto: Autorità Portuale di Genova - Archivio Storico - Il Porto visto dai fotografi - a cura di Danilo Cabona e Maria Grazia Gallino - ed. Amilcare Pizzi

GUIDA PAGANO 1934

Fine '800 - La DARSENA. Notare sullo sfondo la costruzione con lo stemma di Genova alle spalle della Calata Ansaldo de Mari, chiamata anche Calata Orologio dal grande disco “orario” che sovrasta l’edificio stesso.

Foto: Autorità Portuale di Genova - Archivio Storico - Il Porto visto dai fotografi - a cura di Danilo Cabona e Maria Grazia Gallino - ed. Amilcare Pizzi

ALBUM FOTOGRAFICO

dedicato al Casato dei FIESCHI

La basilica dei Fieschi, presso il borgo fliscano di San Salvatore (Lavagna)

Il Rosone della basilica

Il Portale

La Navata centrale

Ruderi del Castello di Santo Stefano d’Aveto

Ruderi del Castello di Savignone

Castello di Savignone: Fosca dei Fieschi e il fantasma del serpente

Il palazzo nobiliare fliscano presso il borgo di San Salvatore di Cogorno


Palazzo dei Fieschi a Casella

Veduta di Senarega (Valbrevenna) con il Castello Fieschi

Bastione nel centro di Varese Ligure

Particolare della torre del Piccinino - Varese Ligure

Torta dei Fieschi

Lavagna - Panoramica aerea di piazza Vittorio Veneto durante la festa.

La Torta dei Fieschi negli anni Cinquanta.

Lavagna - Panoramica della piazza dal palcoscenico: la torta è ancora coperta dal telo.


Lavagna - Il corteo storico scende dalla scalinata della basilica di Santo Stefano, addobbata per l'occasione (edizione 2012)


Lavagna - "Torta" e palco (edizione 2014)

Lavagna - Giocolieri sul palco (edizione 2013)

La rappresentazione dei figuranti ha preso le mosse nel corteo di sbandieratori, armigeri, musici, danzatori, damine, giullari, tamburini, arcieri, cavalieri: tutti in variopinti costumi medievali, hanno attraversato la città fermandosi davanti al Comune per salutare il sindaco.

 

Carlo GATTI

Rapallo, 30 maggio 2016

 

Questo saggio é dedicato alla memoria dell'amico SILVANO MASINI socio di MARE NOSTRUM RAPALLO, compagno di tanti viaggi sui rimorchiatori  genovesi d'altomare e portuali. Silvan giunse alla tesi di laurea in Storia, con il massimo dei voti, ma decise di fermarsi... lo fece per amore della storia. Lui era e si sentiva soltanto un vero un uomo di mare.

Silvan ci manchi tanto!

 


I CADRAI - 2 -

I CADRAI – 2 –

LA STORIA DEL BASILICO

Rileggendo la mia 'Cuciniera', ho riscoperto il minestrone che facevano i CADRAI; la recuperammo con Vito Elio Petrucci.

Per saperne di più: quella ricetta me la diede Vito che l'ebbe, ancora giovanissimo e alle prime armi,  dal figlio di un cadraio che aveva aperto una osteria in Sottoripa. Vito non scrisse mai un libro di cucina perché non era amante della  "culinaria". Ha molto collaborato con me specie nelle note storiche; era un pozzo di conoscenza; mi manca tanto perché un poeta a quel livello ha una sensibilità straordinaria nel capire le persone. I miei amici lo sanno; amo stare con gente intelligente e aperta perché da loro ho da imparare; gli altri mi lasciano indifferenti perché, prima o poi, deludono!

Renzo Bagnasco

Biografia di VITO ELIO PETRUCCI

Vito Elio Petrucci (a destra) con l'amico Renzo Bagnasco

 

Vito Elio Petrucci nasce il 27 aprile 1923 a Genova dove si laurea in scienze economiche e commerciali. Collabora con quotidiani e periodici; é autore di commedie, riviste, lavori radiofonici, di numerose pubblicazioni inerenti il dialetto e la cultura genovese che lo impegnano su diversi versanti nell’opera di difesa, conoscenza e diffusione delle tradizioni liguri. E’ poeta, giornalista  pubblicista, uomo di teatro. Inizia a pubblicare poesie a partire dagli anni Cinquanta, proponendosi definitivamente come autore nel 1962 con la silloge in lingua Non esser soli. Ad essa faranno seguito numerose raccolte in genovese, edite tra gli altri, da Scheiwiller, dell’Arco, Pirella. Larga popolarità gli é data dall’aver curato numerosi programmi radiofonici su argomenti riguardanti le tradizioni e la cultura ligure; tra di essi la rubrica A Lanterna, messa in onda dalla sede regionale della RAI, e la fortunata serie delle commedie genovesi interpretate dalla Compagnia dialettale della Radio Televisione Italiana di Genova di cui é stato direttore dal 1954 per oltre vent’anni.

La sua attività in campo dialettale gli ha procurato riconoscimenti internazionali (é membro dell’Academie des Langues Dialectales del Principato di Monaco, e dell’Association International pour l’Utilisation des Langues Régionales à l’Ecole di Liegi.) Essa trova riscontro, oltreché nei molti atti unici e nelle oltre trenta commedie scritte per il teatro, nella grammatica genovese, Grammatica sgrammaticata (1984), e in diversi libri di argomento dialettale e folclorico: I Proverbi del Signor Regina, Amor di Genova, La Liguria in un libro ecc. Ha curato inoltre la pubblicazione di due volumi delle poesie di Firpo, Cigae e Bäsigo, e scritto (in collaborazione con Cesare Viazzi) la biografia del celebre attore genovese Gilberto Govi (Lui Govi, 1981 e 1989), in collegamento con i programmi di rinascita del teatro dialettale goviano.

Gli sono stati assegnati, per questa intensa attività, numerosi premi e onorificenze (Melvin Jones Fellow dei Lions Club, Premio Regionale Ligure per la poesia genovese, Premio Città di Genova 1990, Premio Luigi De Martini 1982, Premio nazionale “Il calamaio di Neri”, promosso dal Gruppo Internazionale di Lettura di Pisa, 1989).

Principali opere poetiche: Non esser soli, Uber, Roma 1962; Parlo d’Umbria, Sessantanovesimo libretto di Mal’aria, Pisa 1967; Basinghae dallaexia, dell’Arco, Roma 1970; Un vento döçe, Scheiwiller, Milano 1973; Graffionn-e, Libreria Sileno, Genova 1977; O quadrifeuggio, dell’Arco, Roma 1980; Amor di Genova, Pirella, Genova 1987; Ciù in là de parolle, Pirella, Genova, 1990.

Ödô de menestron

de mâ.

De caniggaea,

tra e muage da mae creuza

de lélloa recammae.

Me pâ de sentî ancon

I passi de mae moae,

argentin in sce-e prïe comme campann-e,

de longo appreuvo come benedissioìn.

 

SE NO GHE FïSE

Se no ghe fïse un ciaeo,

se no ghe fïse lunn-a e manco stelle,

s’avesse i euggi bindae o ancon serrae

comme un figgieu in nascion;

e fise a-o largo con un mâ de ciappa,

sensna ‘na bava d’äia;

se mettesse o mae cheu in sce’n timon

mì m’attroviéiva a-a Foxe.

 

Poeta che si pone sulla linea del Firpo quanto a sentimento panico della natura, Petrucci conosce forse un più acceso e carnale senso della vita e della comunità. Fu un accanito sostenitore e divulgatore dei valori della genovesità, ricordiamo tra le sue numerose  pubblicazioni: Bansighæ da l'æxia (1970), Un vento döçe (1972), O quadrifeuggio (1980), Ciù in là de parolle (1990).

(Genova, 27.4.1923 - Genova, 17.5.2002) è stato un poeta, giornalista, e commediografo italiano. Ha scritto diverse pubblicazioni sul dialetto e la cultura genovese, di cui era un appassionato sostenitore e divulgatore. Era membro dell'Association Internationale pour l'Utilisation des Langues Régionales di Liegi e della Académie des Langues Dialectales del Principato di Monaco.

Tra le sue pubblicazioni, 12 raccolte di poesie dialettali, 21 libri su cultura e tradizioni genovesi, diverse commedie in genovese e scritti in collaborazione con altri autori. Le sue opere sono presenti in antologie di poesia dialettale quali ad esempio: Le parole di legno e Le parole perdute.

E' sepolto nel Famedio del Cimitero Monumentale di Staglieno a Genova.

 

Dialetto Genovese

 

SENSA RESPIO

Se ti me veddi parla' con unn-a pria,

e prie de chi e conoscio

unn-a per unn-a,

no dime ninte: a l'e 'na meschinetta

che drento a gh'ha tutte e facce

do mondo ma a no l'ha mai

incontrou

o scopello de l'ommo

ch'o ghe dagghe o respio.

De votte me contan de storie

che chi e savesse scrive

saieiva grande poeta.

Cosci' so che a fin de tutto

a vegnia' a neutte appreuvo

a l'urtimo seunno de l'urtima pria.

Italiano

 

SENZA RESPIRO

Se mi vedi parlare con una pietra,

le pietre di qui le conosco

una ad una,

non dirmi nulla: e' una poveretta

che dentro ha tutte le facce

del mondo ma non ha mai

incontrato

lo scalpello dell'uomo

che le dia il respiro.

A volte mi raccontano storie

che chi sapesse scriverle

sarebbe grande poeta.

Così so che alla fine di tutto

verra' la notte dopol'ultimo sogno dell'ultima pietra.

Vito Elio Petrucci

Ærzillio

L'é bello andâ lontan  
lontan pe-o mâ, 
pe ritornâ; 
pe vedde a-o largo un giorno 
un ciæo comme 'na coæ, 
tegnîse o cheu e dî: L'é casa mæ! 
Sentî allöa che un legno into fogoâ 
o vâ ciù che 'na barca in mezo a-o mâ.

Salsedine

È bello andare lontano, 
lontano sul mare, 
per tornare; 
per vedere al largo, un giorno, 
una luce come una voglia, 
tenersi il cuore e dire: È casa mia! 
Sentire allora che un ceppo nel focolare 
vale più d'una barca in mezzo al mare.

 

 

LA STORIA  DEL  BASILICO

di Renzo BAGNASCO

Il nome del basilico discende dal latino medioevale < basilicum > a sua volta derivato dal greco <basilikon> che significa <erba da re> grazie al suo forte profumo. Come si vede la profumata piantina originaria dell’India, era già nota nell’antichità: pare che sia stato il grande Alessandro a farcela conoscere nel 340 a.c.

Purtroppo però da quando è conosciuto, praticamente da quando arrivò a noi, è stato considerato idoneo a fare tutto tranne che essere usato in cucina. Era ritenuto, a secondo delle culture, o pianta medicinale o medicamentosa, assai più spesso pericolosa e quando non addirittura demoniaca o menagramo. Salvatore Massonio nel suo <Archidipno ovvero dell’insalata e dell’uso di essa> 1627, così scrive <<Il Basilico è volgarmente conosciuto: mangiato copiosamente ne cibi scurisce la vista, mollifica il corpo, promuove le ventosità, provoca l’orina, aumenta il latte: ma difficilmente si digerisce>>

Con questo biglietto da visita il nostro basilico dovette lottare parecchio prima che gli venisse riconosciuta la sua potenzialità gastronomica che già aveva. Ancor oggi l’Italia è la massima consumatrice e poi bisogna andare in estremo oriente per ritrovarlo nel suo ruolo gastronomico. Altrove è ancora o pianta medicinale o un profumo: in Egitto durante i matrimoni sino a qualche anno fa, lo si usava, mettendone un rametto dietro alle orecchie per dare profumo ma, soprattutto, per attenuare l’afrore del sudore.

Ma torniamo a leggere il Massonio: puntigliosamente ci segnala che ne parlarono (sempre male, quasi fossero all’unisono): “Plinio nel libro 12°, Theofrasto nel libro 5°, Avicenna nel secondo trattato delle forze del cuore, Alessandro Petronio nel libro 3°, Galeno nel libro 11°, Antonio Mizaldo nel libro 3° e ancora Sabino Tirone, Columella, Gargilio Marciale, Plinio Crisippo medico, Dioscaride, Sotiane, Diodoro Siculo e Girolamo Cardano”.

Gastronomicamente parlando, compare nel 1400, precisamente nel 1474 perché menzionato e codificato nel ricettario <Cucina di strettissimo magro> inserito nella Regola dell’Ordine dei P.P. Minimi di San Francesco da Paola; sì, quello del Santuario sopra Principe/Di Negro, molto caro ai marittimi genovesi. In quell’anno infatti il Papa Alessandro VI Borgia, approvò la loro Regola che comprendeva pure, credo caso unico, una dettagliata dieta da seguire rigorosamente che oggi chiameremmo ‘vegana’. Sono loro i primi che descrivono, sotto la voce <Salsa verde alla genovese> un battuto a freddo nel mortaio formato da basilico, aglio, pinoli, olio e sale nel quale si può riconoscere il primo embrione di pesto, anche se manca il formaggio bandito dalla loro dieta.

Da sempre i Comandanti genovesi dei velieri, usufruivano del ‘giardinetto’ presente su tutte i vascelli sotto le vetrate di poppa, per portarsi dietro le nostre erbe aromatiche, basilico compreso, così da poter insaporire con odori di casa i loro altrimenti, “monotoni” menù. Le essenze reggevano il salmastro che anzi le esaltava, perché cresciute sul mare come capita se si assaggia il rosmarino o l’alloro e tutte quegli aromi che nascono sul promontorio di Portofino.

Oggi, gli autori che vogliono far vedere che hanno studiato, menzionano, come suo antesignano il <moretum> romano, come lo descrivono Columella, agronomo dell’età Imperiale e il grande Virgilio proprietario terriero e poeta. Difficile però da accettare, visto che nel moretum non c’è basilico,  molto aceto e una miscellanea di erbe tritate con aglio, legate con un vecchio formaggio da poi, una volta riscaldato, spalmare sul pane e non usato per condire. Più di recente lo hanno fatto addirittura discendere dall’<agliata> che non contempla ne basilico, ne formaggio ne pinoli, salsa oggi molto diffusa anche in Provenza: insomma una delle tante salse verdi per insaporire bolliti o pesci.

Bisogna arrivare a metà ‘800 per vederlo codificato, anche se con varianti non da poco, dai due autori delle fondamentali cuciniere genovesi, il Ratto nel 1865, seguito a ruota dal Rossi. Il primo lo definisce <Battuto o sapore all’aglio> suggerendo di sostituire il basilico, ove mancasse, con maggiorana o prezzemolo, alternative oggi impensabili. Il secondo invece lo definisce < Pesto d’aglio e basilico>; lui però non lo sostituisce con altre erbe profumate. Come si vede anche il pesto segue e muta nel tempo; certo in quello descritto però l’aglio dominava come pure il pecorino e non come oggi che lo hanno … castrato a partire dall’asfittico basilico per di più coltivato in luogo non vocato. Un tempo le zone idonee cominciavano dal Castelluccio di Pegli per finire a Coronata e la produzione copriva la richiesta di Genova; oggi va invece per il mondo. La speculazione edilizia del dopo guerra ha edificato in quelle zone e quindi, bisogna fare di necessità virtù. Va bene anche Prà.

In realtà il tanto oggi decantato pesto, sino ai primi del ‘900 non era molto valorizzato. Venivano ricordate le paste con il quale condirle, come i “mandilli de sea” o le troffie, come ci dice il Carbone nel suo <Con giardino e gioco da bocce> 1934, ma non il “nostro”.

civ.14r :   di fronte, a sinistra, era l’ingresso dell’ antica trattoria della Gina del Campasso (“Ginn-a  do Campasso”). Sfrattata dalle ferrovie da un locale vicino più antico ed adibito a osteria-cucina casalinga, la Gina (al secolo Caterina Marchese (leggi sotto per la famiglia) già vicina ai settanta, piccoletta tarchiata e robusta, accanita e fortunata giocatrice al lotto) si trasferì  nel 1860 in quei locali, chiamandoli “Trattoria della Gina, (Campasso)”.

 

L’Autore descrive tutte le trattorie di Genova centro e dintorni, e le loro specialità. Della ‘Ginn-a de o campasso’, la mitica osteria dove si ritrovano tutti gli artisti dopo lo spettacolo al Modena, famosa per le lasagne con il…pesto o il Giacinto che profumava le sue ‘xatte’ di minestrone con abbondante pesto. Altra mitica trattoria era la Lena di Vico Angogliotti che serviva troffie al pesto di <squisitezza inaudita>.

 

Piu avanti scrive <I lavoratori del porto, quelli del Molo Vecchio, si distribuiscono all’ora di colazione, nelle Osterie di Piazza Cavour dalla “Sciamadda> o dal <Gin> con la storica untuosa tavola dei <contaballe> dove per tovagliolo e per tovaglia funge la carta gialla velina della farinata …>

 

 

oppure dalla <Sapesta> in Via Giustiniani dove, anche li, al Venerdì ‘troffie co-o pesto.

Leggiamo ancora il Carbone: <<Ma basta che scocchi mezzogiorno che dai mille vicoli vengono fuori i lavoratori della Darsena e dei Bacini di Carenaggio: tutti coloro che abitano lontano non hanno ne la convenienza ne il tempo di portarsi alle loro case.>>

Dei CADRAI che spezzettavano il basilico nelle loro minestre fumanti, così da stuzzicare l’appetito dei marittimi imbarcati o di chi lavorava in Porto, si è già detto in altra parte di questo sito..

E, senza volerlo siamo arrivati al pesto la cui più vecchia ricetta pubblicata, risale al “Cuciniere italiano” del 1848, prima che ne scrivessero nella Cuciniere Genovesi. Mai nessun poeta genovese lo ha cantato, contrariamente a quanto hanno fatto per quasi tutti i manicaretti nostrani, persino le uova al tegamino. Il Pesto, come è nel carattere dei genovesi, non si fa largo a gomitate, tace a aspetta che le reazioni al suo gusto lo rendano immortale nel ricordo.

L’unico che gli ha dedicato un tratto della sua poesia <In coxinn-a > (UN VENTO DÖCE-1973) è stato Vito Elio Petrucci, l’ultimo grande cantore di Genova, là dove scrive:

 

O gesto antigo  d’un pestellâ lento,

o giâ amöso do pestello a-o torno

pe ammuggiâ o baxaicò in to göghin,

a stessa mainea de fa l’assazzo

( con ‘na diä  brusca

pe giudicâ do gusto e a conscistensca),

nisciun  ghe l’ha insegnòu;

comme o mignin ch’o sà çercase l’erba.

 

 

(A cura di Carlo GATTI)

 

Rapallo, 27 Aprile 2016

 

 


I CADRAI - 1 -

I CADRAI DEL PORTO DI GENOVA

12 gennaio 1823

Le corporazioni contemplate nella circolare del 12 gennaio corrente, che vantano ancora antichi diritti per il porto sono: Barcajuoli / Calafati e Maestri d’ascia/Minolli/ Cadrai/ Linguisti / Compagnia di Salvataggio / Piloti pratici. Per il Portofranco: Caravana / Facchini di Dogana / I cosiddetti Camaletti nostrali / Cassari / Barilari.

Qualche vecchio genovese, a passeggio nei “caroggi”, ama raccontare di come la pratica del catering - nonostante il nome foresto - affondi le proprie origini tra i moli dell’antica Superba. Ovvero nell’antica Genova cinquecentesca e secentesca, quando gli osti-marinai iniziarono a farsi sotto i bordi delle navi per vendergli - a domicilio - paioli di minestrone fumante.

Il nome storico di questa ormai scomparsa corporazione portuale deriva quindi dal verbo inglese “to cater” da cui la deformazione dialettale: CADRAI-Catrai ossia i “fornitori di cibo tipico della cucina genovese”, che era offerto prevalentemente ai portuali, ma anche agli equipaggi imbarcati sui velieri e sui vapori sparpagliati a ventaglio dalla Lanterna fino alla Darsena, alle Calate Interne e, via via,  fino al Molo Vecchio.


Questa rara foto degli Anni ‘30 l’ho avuta in dono dal compianto collega Giancarlo Oddera, Pilota del porto di Genova. I più famosi cadrai dell’epoca si chiamavano “Dria”, “Ruscin” e “Gianello”, un catering ante litteram a disposizione degli operatori portuali impegnati sui velieri ma anche per i marinai che per mesi si erano nutriti di gallette, olive, acciughe, fave, castagne secche e poco altro. L’offerta dei CADRAI veniva trasportata con robusti gozzi a remi e poteva prevedere minestrone, ma anche gnocchi, buridda… Al centro del natante dominava il pentolone di ghisa, e lungo i bordi i piatti fondi, le famose “xatte”, donde l’usuale espressione genovese che allude proprio ad un’abbondante piattata di minestrone.

Si racconta che nella pausa-pasti, i CADRAI girassero col gozzo sopravvento ai velieri per farsi annunciare dal profumo del basilico do menestron. I marinai in crisi di astinenza, dopo le lunghe navigazioni oceaniche, cedevano volentieri a quella forma di propaganda “astuta” che non conosceva ancora gli odierni annunci pubblicitari...

La notorietà dei CADRAI raggiunse il picco più alto negli anni ’20 dell’900, quando il porto era animato da numerose squadre di camalli, chiattaioli e barcaioli che affollavano centinaia di navi e di velieri ormai giunti all’ultimo atto della loro parabola esistenziale. Il Porto Vecchio era intasato di scafi, alberi e vele svolazzanti per asciugarsi al sole; il panorama tra le Calate Interne ed il Molo Vecchio era chiuso in un unico affresco di navi colorate con i loro frenetici equipaggi sempre in bilico tra il desiderio di tornarsene in mare e la tentazione di mangiarsi l’intera paga nei numerosi casini dei vicoli.

Vento di tramontana, canti di terra e di mare, rumori di bighi, pulegge, urla dei caporali sulle boccaporte di stiva, fischi di navi in manovra, profumi di biacca e catrame, ma anche di carichi orientali: “Odô de bon” cantava Faber, un’epopea di terra e di mare che univa ancora il mondo antico della vela a quella del motore sempre più sbuffante e ansioso di entrare nella storia.

Solo pochi scaricatori potevano rifugiarsi e staccare a mezzogiorno nelle osterie di Sottoripa, ma ecco apparire i “Gozzi dei Cadrai o Catrai” che richiamavano l’attenzione del cliente con urli incisivi, e non c’è portuale di una certa età che non ricordi il loro “He! Oh! Gh’è o cadrâi!”.

Il primo giro della giornata era il più importante. Focaccia, vino bianco e le prenotazioni per il pranzo: minestrone, stoccafisso e torte salate della Liguria.


La Gazzetta di Genova del 30 giugno 1921, dedicò la prima pagina ai “CADRAI”, bettoline naviganti.

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Come recita la “Guida del Porto di Genova del 1911” del Festa: “La concessione relativa è rilasciata dal Consorzio del porto di Genova a mezzo di pubbliche gare a scheda segreta... Purché a bordo del battello sia tenuto in permanenza un marittimo, possono concorrere alle gare anche le vedove o le figlie maggiorenni dei cadrai defunti. La concessione ha di solito la durata di 5 anni. I battelli devono avere un numero di colori e dimensioni speciali. Possono circolare ed esercitare liberamente il loro traffico soltanto dal sorgere al tramonto del sole”.

”Stocche e bacilli, stocche e bacilli”! Risuonava sottobordo, e dalle murate calavano pignatte appese a cimette. Tutti i marittimi del mondo apprezzavano lo stoccafisso con i ceci alla genovese ed il vino bianco delle nostre colline e sappiamo, con un po’ di nostalgia, che in ogni angolo del mondo i vecchi marinai usano ancora quelle nostre parole dialettali.

Come tutte le storie romantiche di questo mondo, anche quella dei CADRAI finì piano piano nell’angolo dei ricordi.

Nel 1911 i GOZZI CADRAI erano 40. Nel 1932 ve ne erano soltanto 10, nel 1954 erano ormai solo 3. Mutò rapidamente l’organizzazione portuale che portò ad una nuova pianificazione del lavoro e dei mezzi di carico e scarico delle navi. Più rigidi diventarono i regolamenti d’Igiene Pubblica ed aumentarono le osterie dell’angiporto che sono ancora là in Sottoripa e in via Pré...

Dai vetri colorati schermati da tendine di bordo, s’intravedono ancora le foto sbiadite degli avi CADRAI e dagli angoli di quei muri affumicati affiorano antichi reperti di legni famosi che scalarono il porto di Genova.

Che tempi! Recitava il grande Gilberto Govi.

 

CARLO GATTI

 

Le verità storiche di Renzo BAGNASCO


Il basilico che utilizzavano i CADRAI era quello “vero” non l’attuale asfittico e pallido come pollo d’allevamento. Da sempre o meglio, da prima che inventassero le “serre” (circa anni ’30) che nei giorni freddi proteggono il basilico, piantina mediorientale che richiede un minimo di tepore, lo stesso era prodotto nei terreni racchiusi fra Pegli e gli Erzelli (inizio Cornigliano-Ge) , la fascia più temperata di Genova oltre alla piccola e scoscesa Nervi. Pra’, borgo di pescatori, per il vento impetuoso e il freddo che scende dal Basso Piemonte attraverso la Valle del Turchino, ha sempre avuto temperature  non idonee alla coltivazione della nostra verde piantina anche nelle notti d’estate. Il basilico era utilizzata principalmente nelle famiglie e nelle osterie, non nei ristoranti alla moda perché considerato piatto triviale. Solo sul finire dell’’800 cominciò ad affacciarsi anche in quei locali e a farsi conoscere però come condimento delle lasagne, da noi chiamate < fazzoletti di seta>, tanto erano sottili e vero vanto della nostra cucina.

Lo Zar di tutte le Russie, una volta assaggiateli, ingaggio dei pastai genovesi a che insegnassero ai suoi come farli. Trainato da loro, il basilico cominciò ad affacciarsi anche nella ristorazione di grido. Oggi è divenuto il simbolo di Genova e, mentre i terreni di Pegli, Sestri e Cornigliano ponente sono stati cancellati dallo sviluppo edilizio di Genova o fagocitati dalle tante strade realizzate, Prà, dotandosi di potenti serre e disponendo di terreno in piano, ancorché nello svincolo del traffico portuale di Voltri, ne ha preso il posto. Per ragioni di “fretta” e di mercato, la piantina viene messa in commercio, radici comprese, ancora verdina e non matura, anche se a quel livello ci è arrivata con “aiutini” chimici acceleranti lo sviluppo e viene “sanata” gassificandolo con vapori di metile di bromuro. Infine oggi, per compiacere alla moda e visto che l’attuale ha gusto che non lo regge, lo si è privato dell’aglio: sacrilegio. E pensare che un tempo era, nei ricettari, denominato <battuto o sapore all’aglio> oppure < pesto d’aglio e basilico>!!! Tanto dovevo farvi sapere per ridimensionare storicamente il ruolo di Pra, oggi unico baluardo di un improbabile basilico, da sempre consumato a foglia “verde” e non “verdina”. Ancora una precisazione: le qualità del basilico sono tante; la nostra si chiama <basilico genovese>, non idoneo per insaporire le pizze, perché troppo delicato per resistere al calore del forno.

Infine, una testimonianza storica tale da variare il pezzo sul basilico, come ho scritto altrove. Un tempo i campi, basilico compreso, venivano concimati da un misto di "rumenta" presa alla Volpara quando tornavano dai Mercati Generali dopo aver portati i loro prodotti, e quel poco stallatico prodotto dalla loro piccola stalla. Questo mix  restava qualche giorno a macerare coperto da un telone rabberciato e poi, distribuito sparso nei campi. Non stupisce però che all'epoca il tifo fosse onnipresente.

 

Rapallo, 16 febbraio 2016



LA VOCE DEL MARE

LA VOCE DEL MARE

Maria e Giovanni erano stati sordi alla vita.

Il loro percorso fu punteggiato da coincidenze, segnali, che avevano tenacemente ignorato, proseguendo nel buio come ciechi, nel silenzio dell'esperienza, annullata dal frastuono esterno, come sordi.

Maria si era sempre innamorata dell'uomo sbagliato, Era attirata, come una calamita, da uomini difficili con un passato tempestoso. Se questa tendenza corrispondeva forse ad un bisogno profondo di consolare, redimere, Maria sbagliava poi tutto sul piano della comunicazione. Il suo approccio era razionale, analitico. Elaborava ragionamenti e pensieri validissimi, ma del tutto inservibili per gli uomini che aveva scelto. Quando ci sarebbe voluto un bacio, un'alzata di spalle o anche una porta sbattuta, lei iniziava a ragionare, facendoli indispettire.

Giovanni era, tutto sommato, un semplice. Anima sensibile, quasi d'artista, per tutta la vita aveva inseguito il successo economico solidamente raggiunto dagli amici suoi coetanei. Per conto suo non sentiva un intimo bisogno dell'agiatezza economica, ma era fortemente influenzato dalla società. Aveva aderito a valori che non gli corrispondevano, quindi per lui era stato impossibile raggiungere gli obiettivi che si era prefisso.

Entrambi sui cinquant'anni, sia Maria che Giovanni avevano riflettuto sulla loro vita e ne avevano tratto un bilancio fallimentare.

Per caso si erano incontrati nuovamente, dopo anni, una domenica di febbraio, sulla spiaggetta di Prelo.

– Ma sei tu! Come va? E' un secolo che non ci vediamo. - esclamò Giovanni incontrandola.

– Oh Giovanni, che piacere! Sei stato via? Non ti ho più visto in giro.-

– No. Sempre qui. Preso dal lavoro. Problemi, sai...-

– Uh, non parlarmi di problemi, ci navigo dentro, sperando di non affondare. - sospirò Maria.

Si accorsero di non aver più voglia di parlare e, per un tacito accordo, si allontanarono un po' sedendosi sugli scogli vicino al mare.

 


La spiaggetta di Prelo (Rapallo)

Maria guardava l'onda andare e venire, come ipnotizzata e,a poco a poco si sentiva pervadere da una calma sconosciuta. Ad un tratto udì una voce. Si guardò intorno. Più in là Giovanni, silenzioso, in contemplazione del mare. Sembrava una statua, in giro nessuno.

-  Maria, Maria, quanto hai amato?

Allora Maria capì e si stupì.

Nell'antichità Dio aveva parlato attraverso le nubi, il vento, il fuoco, ma non ricordava che avesse parlato con la voce del mare.. D'altronde era logico, si rivolgeva ad un popolo di pastori

- Tanto, Signore, tanto. - rispose

- Solo con la testa, Maria, solo con la testa. Non hai dato mai tutta te stessa. - rispose il mare.- Oh no, ho sofferto tanto, sono stata sfortunata, ho incontrato uomini egoisti, che non mi hanno capito. - E tu li hai capiti?  - riprese il mare.

Maria ascoltava senza imbarazzo. Non coglieva il rimprovero, sentiva che era un'esortazione a capire.

- Che devo fare, Signore? - chiese.

- Ascolta te stessa, amati e poi ama -

Rispose l'onda con uno slancio più forte che la spruzzò.

Maria sorrise, quello spruzzo le sembrò un nuovo battesimo, una sorta di rinascita.

Si voltò verso Giovanni, anche lui la guardò.

- Giovanni, io vado, mi prende freddo. - gli disse.

- Ti accompagno – rispose lui alzandosi – Hai un'altra faccia – aggiunse – ti ha fatto bene stare sulla spiaggia. -

- Anche tu mi sembri diverso o forse ti guardo con altri occhi. -

- No, mi sento cambiato. Sai, stavo lì, guardavo il mare e mi sembrava di farne parte. Una sensazione di abbandono, di piacere, di appagamento come non provavo da anni.. Io ero il colore e la trasparenza, il movimento e la voce. Tutto come doveva essere al principio. Un'esperienza strana. Per tutta la vita ho rincorso feste e divertimenti e ne uscivo sempre insoddisfatto, come se avessi adempiuto a un dovere. Oggi , qui nel silenzio, davanti al mare mi sono sentito felice. Era come se tutte le impalcature ,che avevo costruito intorno a me, fossero cadute e ora mi sento più libero, più leggero, - concluse.

- Anch'io mi sono liberata, forse... E' come se avessi parlato con il mare. Certo mi ha insegnato qualcosa..-

- Allora abbiamo trovato un passatempo, che non costa niente e ci dà tanto. - disse Giovanni sorridendo.

- Io direi una scuola – rispose Maria – Ci voglio tornare. Ho tanto da imparare.

- Mi sa che in futuro ci vedremo spesso. - Disse Giovanni.

- Sì, finché c'è silenzio e solitudine io ci verrò. Vuoi dire che a cinquant'anni cominciamo a capire qualcosa della vita? - chiese Maria.

- Lo spero. - rispose Giovanni, mentre insieme andavano controvento verso un futuro migliore.

 

 

Ada BOTTINI

 

Rapallo, 27 Gennaio 2016

 

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UN MATTINO L'INCANTO...

UN MATTINO L’INCANTO

La piccola spiaggia è racchiusa da scogli. I pochi bagnanti silenziosi leggono il giornale o parlottano  sottovoce, come i due ragazzi vicini a Giulia. Hanno le voci ancora sopite dal sonno.

Si sente solo il suono del mare, che varia in crescendo come sinfonia al passare di motobarche al largo, poi s’attenua e racconta l’inizio e la fine di tutto a chi la sa ascoltare.

La scena è così perfetta, compiuta, con i ciottoli rotondi in tutte le tonalità del grigio, il mare così limpido e cristallino da perdere colore in controluce, che Giulia ha un lieve tremito: il piccolo terremoto emotivo che l’assale durante l’attesa di un evento temuto.

“Se l’avvenimento negativo, sarà proporzionale alla bellezza del momento, potrebbe essere una catastrofe.” Pensa Giulia.

Poi sorride della sua premonizione come di un vizio esecrabile, ma ormai accettato. Si alza, avanza nel mare e subito è ripresa dall’incanto: ad ogni passo il mare le risponde con uno sciacquio di accettazione. Si questo è il suo ambiente, il luogo privilegiato d’incontro con la natura e con l’azzurro della vita.

“Ciao Marisa, sei in ritardo oggi. Vieni ti ho tenuto il posto” .

Qualche voce si alza nel silenzio, ma non disturba, tutto è vita intorno. Le tensioni si sciolgono, lei avanza fiduciosa e appagata nell’acqua.

Giulia nuota regolare, senza fatica verso lo scoglio, ora deserto. Tra qualche ora ospiterà le gambe irrequiete, le voci squillanti dei giovani, che si tuffano dalla sua sommità nel profondo ai suoi piedi.

Il mare è verde alla base dello scoglio, verde smeraldo purissimo, senza opacità, senza macchie.

“Ecco, questo smeraldo introvabile adesso è tutto mio, anzi vi sono immersa, inclusa, come un moscerino nell’ambra”.

Pensa Giulia appagata. Il senso di appartenenza alla natura è perfetto. Ora nuota col sole alle spalle verso riva, l’acqua cambia colore: lo smeraldo si muta in acquamarina, altrettanto pura e trasparente.

 

 

 

Lei guarda il suo corpo nell’acqua: spariti i difetti, i segni del tempo, si sente soda, liscia, ben modellata. Sa che è un’illusione, ma se la gode. E’ troppo bello, la levità del peso, la fluidità delle forme. Ritorna al largo per un’altra nuotata, grata a Dio e all’universo per il dono del mare e della vita. Ora nuota a dorso per ritornare. Ampie bracciate, profondi respiri.

 


L'attacco

Un colpo, una strisciata rapida e violenta la sollevano dall’acqua. Un bruciore intenso, il panico. Com’è rapido il pensiero! La scrittura lo snatura. Per un attimo, solo per un attimo Giulia pensa di aver urtato uno scoglio. Immediatamente dopo intuisce la verità.

Lo squalo. L’incontro temuto, altamente improbabile, è avvenuto. Ripiomba in acqua terrorizzata. La bestia, il male, l’altra faccia della natura. La memoria antica le blocca il respiro, le scompone i movimenti, tutta l’energia si incanala in un urlo, senza parole, come all’inizio dei tempi. Il dolore alla schiena è forte, ma meno potente dello scompiglio che sente dentro di sé. Fuori un’abrasione, dentro uno squarcio.

 

"No, il sangue nel mare, no!“

Il pensiero lentamente si ricompone, i movimenti si finalizzano alla salvezza. Il silenzio è frantumato, Giulia sente la gente urlare sulla spiaggia, ordini, parole sconnesse, qualcuno l’afferra per le mani, la tira fuori dall’acqua.

Il pesce intanto disorientato prosegue la sua corsa, urta il pedalò, azzanna la boa dei bagni vicini, si inabissa, riemerge, la pinna enorme, veloce a fendere l’acqua, capovolge un windsurf e sparisce. Il mare si è richiuso sopra di lui a proteggerlo.

Tutto apparirebbe perfetto, idilliaco come prima, se non fosse per la gente. Ognuno parla, racconta aggiunge, piange, telefona, organizza.

L’urlo della sirena dell’ambulanza prontamente accorsa comunica a Giulia che il peggio è passato. Tra poco sarà soccorsa, curata, guarita. E’ tornata all’oggi, all’efficienza e alla complessità della nostra società. Le era piaciuto quell’inizio di mattina così semplice, quasi primitivo. Poi l’incontro e la deflagrazione della paura.  Paura dello squalo, paura di sé. Un’esplosione di debolezza e di aggressività. Ah se avesse potuto avrebbe distrutto lo scoglio, lo smeraldo, lo squalo, quello che le piaceva e quello che detestava. Senza distinzioni.

“Ecco, attenti. Fate largo per favore. Ora signora la sistemiamo a pancia in giù. Un telo sterile per favore, per ricoprire la schiena. Che disastro! Perde sangue, Svelti. C’è un’abrasione ampia e un taglio profondo”.

Giulia vorrebbe piangere, ma non le viene, non ci riesce mai. Anzi le scappa un sorrisino amaro. La schiena, l’unica parte intatta del suo corpo. Anche quella ora sarà segnata, ferita dalla vita, dal destino, dalla sfortuna. Sfortuna, una parola che non esiste nel vocabolario dei vincenti. Un’altra categoria, non la sua. Lei ci ha provato: pensiero positivo, terapie alternative, gocce di Bach. Ha indossato la maschera dell’ottimismo, la bocca atteggiata al sorriso, gli occhi illuminati da speranze inconfessabili, ma ogni volta la vita, con un soffio di maestrale, fa volare il suo castello di carta, le lievi strutture che la sostengono e lei ricade pesantemente nella sua realtà. La salute è un sogno, il benessere un’utopia.

Sono già arrivati all’Ospedale. Il dottore del Pronto Soccorso ha un’aria sfatta, preoccupata. Deve aver affrontato qualche caso difficile. Giulia lo conosce da tanti anni. E’ contenta che ci sia lui: sa che farà del suo meglio.

“Signora, ancora lei. Cosa è successo, questa volta ?”

“Uno squalo!”

“Uno squalo?”

“Dottore, non mi dica anche lei che sono stata fortunata. Che poteva andarmi peggio. Che potevo lasciarci la pelle. Sono stufa, arcistufa di queste fortune. Le lascio volentieri ad altri. Sembra che il mio destino sia di incontrare il male, conoscerlo, soffrirlo anima e corpo e poi sfuggirgli. E’ così con le malattie, con gli incidenti. Ma fino a quando? Non ne posso più”.

Mentre Giulia si sfoga il dottore lenisce il dolore, disinfetta, medica.

“Direi di non cucire qui. Abbiamo un cerotto oggi che rimargina bene. Resterà un segno come di un graffio. Ora stia un attimo ferma e zitta, poi mi racconta tutto per filo e per segno!”

Qualcuno bussa alla porta dell’ambulatorio, l’infermiera socchiude, la porta si spalanca di colpo, un flash acceca il medico e fa sobbalzare Giulia, che incominciava a calmarsi sotto l’effetto del sedativo.

“Fuori, bastardo!”

Urla il dottore. Poi rivolto alle infermiere:

Prendetegli quella macchina!” Mentre il fotografo si allontana di corsa.

“Non è proprio nel suo stile, uscire così fuori di sé”.

Pensa Giulia. Deve essere stata una giornata davvero difficile per lui.

La voglia di interessarsi degli altri, di condividere riafferra Giulia, che si stava abbandonando al torpore.

Che cosa le è capitato dottore, oggi? Non è lei “.

“A me niente, signora, soltanto il mio lavoro. A lei piuttosto è successo qualcosa  di poco piacevole ed io sono qui per proteggerla. Vorrei che si abbandonasse adesso all’effetto dei farmaci. E’ sotto choc. Ha bisogno di riposo. Mi fanno infuriare quelle sottospecie di cronisti. C’è sempre qualche iena fuori del Pronto Soccorso. Appena arriva un ferito lo assalgono. Se potessero gli toglierebbero anche i vestiti, le medicazioni. Se ti opponi sbraitano che violi il diritto di cronaca. Che perversione! Loro e i fruitori della loro spazzatura”.

La voce del dottore ha sempre avuto l’effetto di calmarla. Qualsiasi cosa dica: “Fosfatasi alcalina?” E lei, senza neppure conoscere il significato delle parole, si sente accolta, protetta. Deve essere una questione di tono e di accento. Anche stavolta lo squalo è lontano… il sonno vicino… Lasciati andare Giulia. Domani riprenderai a combattere.

 

Ada BOTTINI

 

Rapallo, 26 dicembre 2015

 

 

 


Il MECCANISMO ASTRONOMICO di ANTIKYTHERA

IL MECCANISMO ASTRONOMICO DI ANTIKYTHERA

 

Una specie di computer di duemila anni fa.

La storia dell’Astronomia, ma non solo quella disciplina scientifica, deve molto ad un pescatore di spugne per il ritrovamento di “un oggetto misterioso”: noto come il MECCANISMO ASTONOMICO DI ANTICITERA (Antikythera).

IL RITROVAMENTO

In questa baia dell’isola di Antikythera, fotografia del 1903, fu ritrovato un relitto destinato a passare alla storia in seguito al ritrovamento di un reperto a dir poco misterioso.

 

 

 

 


 

Resti del Calcolatore (meccanismo-computer-orologio/calcolatore astron-strumento indefinito... di Antikythera) conservati al Museo Archeologico Nazionale di Atene

 

L'isoletta di Antikythera (Άντικύθηρα) fra il mare Egeo e il mare Jonio, e il probabile percorso della nave prima del naufragio

 

Era il giovedì di Pasqua del 1900, quando alcuni pescatori di spugne, per ripararsi da una burrasca si ripararono dietro l’isola di Anticitera, a poca distanza da Creta. Nell’attesa del tempo buono fecero delle immersioni e con grande sorpresa trovarono i resti di una nave romana coperta da alghe ed incrostazioni che era naufragata almeno duemila anni prima a causa di una tempesta. Pochi mesi dopo, il Governo greco organizzò una spedizione archeologica e alcuni sub specializzati s’immersero sul relitto riportando in superficie un patrimonio imponente di statue di rame e bronzo, oggetti lussuosi, manufatti tra cui un oggetto molto misterioso, un blocchetto di bronzo incrostato e corroso da duemila anni di vita subacquea. Quell’eccezionale strumento composto da ruote dentellate ed ingranaggi che lo facevano assomigliare ad un orologio ante litteram ben presto finì nelle mani di Spyridon Stais, ex Ministro della Cultura che ebbe subito l’intuizione che quell’assurdo blocco metallico potesse rappresentare uno strumento di assoluto valore, benché totalmente sconosciuto. Oltre al carico prezioso rinvenuto all’interno del relitto nella prima compagna del 1900/1901, Jacques Cousteau nel 1976 ritrovò ceramiche, anfore, statue di bronzo, 36 monete d’argento e molte di bronzo, per cui fu relativamente facile datare il periodo del naufragio trattandosi del conio di monete conosciute di Pergamo ed Efeso.

 

Il ritrovamento del lungo elenco di oltre 380 manufatti  di  sculture, monete, gioielli e ceramiche sono stati rinvenuti  nella stiva delle nave colata a picco. Il relitto risale probabilmente all’80 a.C. ma il suo carico destinato a Roma era ancora più antico, forse del III-II sec a.C.  e  di provenienza ellenica. Le monete ritrovate indicano che la nave era partita dall’Asia Minore.

 

Le parole incise su l’oggetto misterioso sono scritte in greco, e da subito attirarono l’attenzione degli studiosi per la sua estesa mole di dati difficili da decifrare e da capire.

 

UNA GALEA ROMANA

 

All’epoca dell’ultimo viaggio della galea ritrovata, Roma aveva già conquistato parte della Grecia, compresa la città di Pergamo e l’isola di Rodi. La nave ritrovata aveva misure importanti per quel tempo e pochi erano i porti che potevano ospitarla: Delo, Efeso e Rodi. I reperti di anfore del I secolo a.C. (65-50 a.C.) corrispondono esattamente alle monete ritrovate, non solo, ma anche il fasciame, chiodi, ancore ed altri particolari nautici, indicano una lunghezza di 30 metri, il trasporto di un carico molto speciale, addirittura inusuale di opere d’arte, cristalli di lusso e vasi destinati ai mercati romani. Quindi é quasi certo che la nave fosse una galea romana proveniente dalle colonie greche, probabilmente Efeso o Kos con destinazione il porto di Ostia.

UNICUM

Nella storia dei ritrovamenti archeologici, il Meccanismo di Anticitera é un unicum. Gli esperti, nonostante sia passato oltre un secolo, non lo hanno ancora chiamato con il suo vero nome non essendo un astrolabio, un planetario e nemmeno uno strumento in grado di stabilire la posizione nautica di una nave. Si tratta di uno strumento sconosciuto, o meglio non ancora “inventato” dalla scienza moderna. L’impiego della TAC ha evidenziato i minutissimi e perfetti ingranaggi di cui è composto. La conclusione é che si tratti di un calcolatore astronomico, molto avanzato, il più antico di cui si abbia traccia. Gli archeologi concordano nell'affermare che in quel tempo non era possibile produrre apparecchiature di tale complessità cinematica. Del resto si è dovuto aspettare oltre 19 secoli per realizzare un primo esempio di rotismo epicicloidale o differenziale (vedi autoveicoli moderni), presente invece nel rotismo principale del Calcolatore di Antikythera.
L’invenzione del rotismo differenziale è stata ufficialmente attribuita all'orologiaio francese Onésiphore Pecqueur (1792-1852), che lo brevettò nel 1828. Per il calcolo analitico, invece, ci si avvale della formula di Robert Willis, enunciata nel 1841 nel suo libro Principles of Mechanism.

Un GALILEO GALILEI, dal nome greco, era già stato sulla terra...

 

Il fatto più sbalorditivo del calcolatore astronomico pare sia il suo concetto base che si fonda sul principio eliocentrico e non geocentrico. Galileo, sostenitore del sistema eliocentrico, venne al mondo 2000 anni dopo e dovette soffrire parecchio per imporlo ai suoi contemporanei rischiando pure la vita...

 

Quindi si può affermare che a partire dall’età di Pericle (2500 anni fa) un team di grandi matematici, astronomi avevano già esposto principi e formule matematiche, ma anche teoremi di geometria piana e sferica che avevano anticipato  la rivoluzione industriale a cui fa riferimento la nostra civiltà. Aristarco di Samo (310-250 a.C.) sbagliandosi di poco, aveva calcolato la distanza trigonometrica tra la terra e la luna non pensando certamente che la terra fosse piatta.... e per quel che riguarda il moto dei pianeti attorno al Sole, venne sviluppata una teoria eliocentrica che, a quanto sembra, anche altri scienziati come Archimede avevano ben capito il relativo modello teorico.

 

La seconda incredibile scoperta del meccanismo:

LE ECLISSI

A cosa serviva? Nel 2000 fu nominato un team di specialisti: archeologi, e matematici capitanato dall’astronomo e matematico Tony Freeth con il compito di scoprire a cosa servisse quell’oggetto misterioso.

 

Non si sa esattamente, ma alcuni input sono emersi da “scritte” ancora leggibili. L’apparato mostrava l’orbita dei cinque pianeti conosciuti e visibili ad occhio nudo duemila anni fa, ma indicava anche l’orbita di Marte, Mercurio e delle costellazioni zodiacali. Nel suo movimento meccanico palesava le fasi lunari, ma era anche un calendario di 365 giorni secondo il calcolo egizio. Registrava anche gli anni bisestili e sapeva calcolare i movimenti della Luna rispetto al Sole e alla Terra. Il Meccanismo di Anticitera poteva prevedere, senza errori, tutte le eclissi. Infine “informava”, fatto importante per l’epoca, le date dei Giochi Panellenici (Olimpiadi).

Chi fu l’autore del computer ante litteram di ventun secoli fa?

Storici, astronomi, archeologi ed esperti di storia della navigazione, non si trovano tuttora d’accordo sul nome dell’inventore. Alla scienza attuale mancano parecchi passaggi che si sono persi tra le pieghe della storia... C'è, infatti, chi sostiene che tale livello di raffinatezza e precisione non è compatibile con le conoscenze di allora; al contrario c'è invece chi sostiene che è possibile - se non addirittura certo - che i Greci avessero tali conoscenze. Spesso ci si dimentica, infatti, che la civiltà greca in quel periodo non era quella del periodo classico o di Pericle, comunemente immaginata, in cui primeggiavano le scuole artistiche, umanistiche e filosofiche. Dopo le conquiste di Alessandro Magno, che aveva fuso insieme le più antiche civiltà orientali con quella greca, quest’ultima si era evoluta nella ben diversa civiltà ellenistica in cui le nozioni scientifiche erano estremamente sviluppate. In particolare lo erano molto più di quelle dei Romani, che riuscirono a prevalere sul piano militare e del diritto civile ma non in campo scientifico.

 

Interessante ci pare la seguente considerazione che riportiamo: “A partire dal III sec. a.C,  grazie agli studi di Apollonio di Perga ed Ipparco di Nicea, le conoscenze del mondo ellenico in campo astronomico erano molto approfondite ed era possibile trasformarle concretamente in un complesso strumento che rappresentasse i movimenti celesti. La personalità più adatta sembra essere quella di Poseidonio di Rodi, un vero genio universale esperto di geografia, filosofia, letteratura, matematica, astronomia… Operava proprio nelle isole Ionie, vicino a dove è  stato recuperato il relitto. A smontare questa tesi, però, due elementi: la totale mancanza di qualsivoglia riferimento a questa sua presunta scoperta nei testi antichi e soprattutto la lingua utilizzata per le iscrizioni trovate sull’oggetto. Le scritte sono infatti in dialetto corinzio, diverso da quello parlato a Rodi”.

 

Dalla teoria alla pratica

Un altro punto ancora da chiarire è come sia stato possibile costruire il Meccanismo di Anticitera. Infatti, é possibile passare dall’idea scientifica al disegno sulla carta di questo computer dell’antichità, ma rimane molto difficile capire come gli artigiani dell’epoca abbiano potuto realizzarlo. Il mistero continua e chi volesse contribuire alla sua identificazione può visitare il Museo della Scienza di Atene dove é possibile osservare il reperto e la sua interessante ricostruzione.

 

Com’era fatto?

“La strumentazione era in bronzo ed era composta da rotelle, molle e altri parti meccaniche di dimensioni anche molto piccole, dalle dentellature millimetriche, eppure tagliate in modo precisissimo per garantire il perfetto funzionamento dei complessi ingranaggi. Un problema non trascurabile, con il quale ha dovuto anche fare i conti una nota fabbrica di orologi che ha voluto riprodurre, con la tecnica moderna,  questa meraviglia del passato.

 

Per prima cosa, gli orologiai dei nostri tempi  hanno rinunciato al bronzo, preferendo l’acciaio. Volendo ridurre le dimensioni, per trasformarlo in modello da polso, hanno poi dovuto utilizzare il laser, per preparare le singole componenti. Sono così riusciti a realizzare un orologio che riproduce 10 delle funzioni del meccanismo recuperato dai fondali. Ne sono state fatte solo quattro copie: una verrà consegnata al Museo ateniese che lo ha esposto insieme all’originale”.

 

La Mostra in programma

Al centro dell’esposizione, aperta a tutti, c’é proprio il calcolatore astronomico di Ancitera, da molti considerato “un oggetto fuori dal suo tempo”, che non avrebbe mai dovuto esistere, un vero e proprio anacronismo di difficile interpretazione.

Calcolatore astronomico di Antikythera

 

 

(Ricostruzione di De Solla Price, 1974) Il blocchetto e’ grande piu’ o meno come un libro, e’ interamente di rame e, come visibile anche dalle foto che seguono, presenta una serie di ruote dentate a formare una sorta di meccanismo meccanico. Apparentemente non ci sarebbe nulla di strano, se non fosse che i reperti sono stati datati intorno al I secolo avanti Cristo.

 

 

Derek J. Solla Price

Riepilogando, il “meccanismo di Anticitera” fu trovato nel 1901 da alcuni pescatori di spugne, a bordo di una nave romana affondata, ma solo nel 1951 si è cominciato a capire come funzionava. Derek J. De Solla Price ci ha messo 20 anni (1950-70) per poterlo riprodurre, e comprenderne funzionamento e utilità.

 

La “macchina di Anticitera” è un orologio astronomico molto preciso in grado di prevedere le date e le posizioni del Sole e della Luna e dei cinque pianeti allora conosciuti (perché visibili ad occhio nudo) e di collegarle anche ad avvenimenti periodici, come le Olimpiadi e le eclissi. Lo scorrere del tempo era ottenuto ruotando manualmente una manovella che sporgeva dalla faccia anteriore.

 

Adesso che se ne è ritrovato uno e che si è constatata la sua utilità, ci si chiede come mai non se ne trovino degli altri, come mai non se ne siano fabbricati in serie e magari portati a bordo di tutte le navi. Forse era proprio un “oggetto unico”, inviato a Roma a far mostra di sé come bottino di guerra e mai giuntovi in seguito al naufragio. Del resto è noto (ne parlano gli storici Plutarco, Tito Livio e Cicerone) come anche Archimede abbia fabbricato un Planetario sferico, oltre 200 anni prima di Cristo, mai più ritrovato nella sua interezza, ma a cui si ipotizza appartenesse una ruota dentata, molto ben rifinita, rinvenuta ad Olbia nel 1998. Chi si interessa di queste cose non può che dispiacersi di non poter ammirare il prodotto di un simile cervello.... In fisica e matematica, nel mondo occidentale, dopo quei greci, se ne è saputo di più solo con Newton e Pascal, nel 1600, con la scoperta del calcolo infinitesimale e la teoria della gravità.

 

Ricostruzione grafica del meccanismo di Anticitera. Studiando il meccanismo, gli esperti capirono subito che ciò che rimaneva era solo una minima parte del complesso originario. Sulle varie ruote sono presenti moltissime iscrizioni diverse e gli ingranaggi sono montati in contatto tra loro proprio per trasferire il moto da uno all’altro.

 

l meccanismo misurava 18x15 cm. Prevedeva il moto della luna lungo lo zodiaco (tenendo conto dell'orbita ellittica del satellite), i movimenti del sole, le fasi lunari e le eclissi, sia solari che lunari. In tutto aveva 37 ingranaggi, tra ruote dentate, perni e lancette (7 sono andati perduti).

 

Si trattava di un complesso planetario, mosso da vari ingranaggi a ruote dentate, che serviva per calcolare il sorgere del sole, le fasi lunari, i movimenti dei cinque pianeti allora conosciuti, gli equinozi, i mesi e i giorni della settimana. La funzione di alcuni quadranti non è stata ancora ben chiarita. Per farlo funzionare bastava girare una piccola manovella.

 

Con pochissime modifiche avrebbe potuto funzionare come un calcolatore matematico. Infatti, la sua logica di funzionamento, che era di molto superiore a quella degli orologi automatici ad acqua di quel tempo, sarà la stessa dei calcolatori meccanici che verranno costruiti prima di quelli elettronici.

 

 

Nel 1902, nel relitto di una nave, rinvenuto presso l'isola di Anticitera, tra il Peloponneso e Creta, furono trovati dei frammenti di rame fortemente corrosi, che apparivano i resti di un congegno di orologeria con complicati ingranaggi. Il meccanismo risale alla prima metà del I sec. a.C., ma il congegno apparve talmente diverso da qualsiasi oggetto noto risalente all'antichità classica, che alcuni studiosi sostennero che dovesse trattarsi di un moderno orologio, affondato casualmente nel luogo del relitto.

 

Le iscrizioni sui frammenti, leggibili solo in parte, mostrano come il congegno riguardasse i moti del Sole e della Luna. Secondo la ricostruzione di Price, il meccanismo costituiva una sorta di calendario perpetuo, che permetteva di calcolare le fasi della Luna, passate e future. A questo scopo, un complesso ingranaggio trasferiva il movimento da una ruota, che rappresentava il ciclo solare, a un'altra che indicava le rivoluzioni siderali della Luna, secondo il rapporto di 254 rivoluzioni siderali della Luna ogni 19 anni solari.

 

Dal punto di vista tecnologico, sono due le caratteristiche salienti del meccanismo. La prima è la complessità degli ingranaggi, che producono il rapporto desiderato, 254:19, con l'impiego di una ventina di ruote dentate. E' questa complessità che fa classificare l'oggetto tra i "lavori di orologeria". La seconda caratteristica è la più notevole ed è la presenza di un differenziale, cioè di un meccanismo che permette di ottenere una rotazione di velocità pari alla somma o alla differenza di due rotazioni date. La funzione del differenziale era quella di mostrare, oltre ai mesi lunari siderali, le lunazioni, ottenute sottraendo il moto solare al moto lunare siderale.

 

Price arriva alla conclusione che la presenza di questo singolo oggetto di alta tecnologia è sufficiente per modificare le nostre idee sulla civiltà classica e smentire definitivamente i luoghi comuni sul disprezzo dei Greci per la tecnologia e sull'insuperabile solco che l'istituzione della schiavitù avrebbe creato tra la teoria e le scienze sperimentali ed applicative.

Album Fotografico

 

 

Modello del Calcolatore di Antikythera realizzato da John Gleave (fronte e retro) (Riporta i movimenti del Sole e della Luna, sulla base degli studi di Derek De Solla Price)

 

 

 

 

 

Carlo GATTI

 

Rapallo, 26 Agosto 2015

 

Si ringrazia:

 

- PSICOSI 2012 – Le risposte della scienza

 

- IL CALCOLATORE DI ANTIKYTERA - IL PLANETARIO DI ARCHIMEDE RITROVATO

 

Giovanni Pastore, Italy

 

 


UNA NOTTE INSONNE A CALA FRONTONE - PONZA

UNA NOTTE INSONNE A CALA FRONTONE - PONZA

 

 

Cala Frontone

 

 

Cala Frontone

 

 

Mi tolgo la maschera e mi rivolgo meravigliata a mio marito.

 

 

Chiaia di Luna vista dal largo

 

Nuotando dalla spiaggia di Chiaia di Luna  sino alla nostra barca ho guardato le ancore dei vari natanti ormeggiati, saranno state più di quindici. Ebbene una sola era sparita nella sabbia, tutte le altre erano solo appoggiate sul fondo. Qualcuna, forse, trascinata dalla barca avrebbe potuto prendere se il vento fosse rinforzato. Le altre, sicuramente erano destinate ad essere portate a spasso dalle loro imbarcazioni creando disagi e magari anche danni a chi è ormeggiato nelle vicinanze.

Marinella al timone

 

Rinaldo "Dado" lo skipper

 

‘Quale era l’unica che aveva ormeggiato da manuale?’ Domanda Rinaldo mentre recupera una spatola per andare a ripulire l’elica della nostra barca a vela dai serpulidi.

 

‘Girati, vedi dietro di noi quella in legno bianca e azzurra, certamente di un pescatore? La sua è la sola ancora che non si vede. È sparita, inghiottita dalla sabbia.’

 

Ma quella è gente del mestiere, che sa il fatto suo! Possibile che tanti diportisti siano così sprovveduti e impreparati? Finisci per trovarteli addosso al primo rinforzo di vento!

 

‘In ogni caso non dobbiamo toglierci nessuna trave dai nostri occhi, perché, prima di fare il bagno abbiamo controllato e sappiamo che la nostra Rocna è affondata sparendo del tutto alla vista.’ E Rinaldo si immerge in queste acque cristalline di Ponza per ripulire l’elica.

 

Ma che sia stato un sesto senso il mio? Perché, neanche a farlo apposta, la notte seguente… Ma andiamo con ordine. Verso sera torniamo alla nostra barca nella cala Frontone carichi di acquisti effettuati a Ponza. Col tender, per arrivare in quella grande rada, dal porto, si può attraversare uno stretto, intrigante passaggio tra alcune rocce di piccole dimensioni, ma alte appuntite, e un isolotto massiccio e rotondo, con una villa bianca sulla sua sommità. Tutto fa spettacolo, in queste isole. A cala Frontone avevamo ormeggiato presto, alle quattro, per poterlo fare in tranquillità. Le barche erano ancora disseminate nelle scenografiche baie di Ponza. Tutte le Pontine, a dire il vero, hanno una loro personalità assolutamente singolare. Le rocce, a picco e scoscese, creano panorami scenografici del tutto particolari. Ti aggrediscono per le dimensioni e per i colori che variano dal bianco candido al rosso ferroso passando per macchie di giallo intenso e di verde, dovuto a un po’ di vegetazione, disseminata qua e là. Da vedere, insomma, da fotografare, da ricordare!

 

Ma tornando a cala Frontone, la baia era comoda per raggiungere via mare i negozi e ci sentivamo anche a posto e tranquilli, dopo aver chiamato la Capitaneria per esser certi della regolarità dell’ormeggio. Rinaldo aveva sentito qualche voce che parlava di divieti. Meglio accertarsene, dunque. Ci eravamo anche affrettati a rientrare in barca perché si sentiva brontolare un temporale in lontananza. Del resto erano previsti, quindi dovevano arrivare.

 

Mentre Rinaldo mi passa dal tender i sacchetti della spesa, ci guardiamo in faccia con un sospiro di contrarietà. Eccolo il guastafeste. Mentre eravamo a Ponza si è messo troppo vicino a Vizcaya con quel suo mega yacht. Non abbiamo voglia di litigare. Perché finisce sempre così, quando chiedi a qualcuno di ormeggiarsi più lontano da te. Che il tempo non sia troppo inclemente, allora. Anche se c’è poco da sperare, visti i meteo.

 

E infatti non vado a dormire quando Dado mi dice buonanotte. Preferisco leggere ancora un po’, non mi sento tranquilla. Onda e vento sono un po’ rinforzati in questa cala gremita all’inverosimile di barche. D'altronde è il nove di agosto e c’è Ponza città vicina e la discoteca sulla spiaggia davanti a noi. Gran file di lumini un po’ cimiteriali, in verità, ti segnalano la sua presenza e ti invitano ad andarci. E anche con successo, a quanto pare, perché è tutto un via vai di gommoni in funzione di taxi che portano e prendono gente da tutta la cala e sfrecciano come dei pazzi tra le barche di giorno e di notte a una velocità inimmaginabile. Disgraziati incoscienti. Ci sono anche dei piccoli traghetti che accompagnano turisti in spiaggia o li recuperano alla frequenza di uno ogni due minuti. Anche questi procedono sparati a tutto gas senza alcun rispetto per le barche ormeggiate che si agitano in tutte le direzioni per le onde causate da questa corsa sfrenata per la rada. A volte arrivano addirittura appaiati. Non c’è un bagnante che osi allontanarsi dalla sua barca per nuotare verso la spiaggia. E se qualcuno arrivando non nota subito questo via vai piratesco, mal gliene incoglie di certo!!! Il mare è tutto loro, da navigare e agitare allo spasimo. Per salire in gommone abbiamo dovuto sfruttare i due minuti tra un passaggio e un altro aspettando che si calmassero le onde della loro corsa. Rischiavamo di finire in mare.

 

Il bello è che lo sfrecciare notturno dei gommoni continua anche se mare e vento hanno notevolmente rinforzato. Ora si balla anche per ragioni naturali. E, guarda caso, le ancore cominciano a non tenere, vedo le luci di imbarcazioni che qua e là si ammassano, si sente protestare e inveire, nuove luci di via vengono accese… Ma la nostra amatissima Rocna che prende anche sui fondali con alghe, tiene. L’abbiamo vista, anzi non l’abbiamo più vista, se l’è mangiata la sabbia quando abbiamo ormeggiato. Invece sento imprecare sulla barca a vela dietro di noi. Si devono spostare anche se non sono loro che arano ma i vicini arrivati dopo! Vanno a mettersi di fianco alla nostra, secondo me troppo vicino. Prevedo noie future se le barche dovessero ruotare. Per il momento, però, la situazione non mi sembra poi così tragica. È l’una, proverò a dormire.

 

Mi sveglia un gran sobbalzo con forte sbandamento della barca. Mi spavento. Terranno le ancore di chi ci sta intorno? Meglio verificare. Amara sorpresa. Anzi, meglio, tragica! Lo yacht che era troppo vicino a noi protende un angolo di poppa verso la nostra fiancata nella parte di prua. Quasi la raggiunge. Dall’altro lato la barca a vela sta arando e pare proprio volersi accostare alla nostra poppa con la sua fiancata. Ecco qua! Le ancore non tengono appena mare e vento si muovono un po’ di più!

 

‘Rinaldo, Rinaldo, vieni fuori!’ Imploro.

 

Fortuna, si sveglia al volo e arriva. ‘Ma sono in due che ci vengono addosso.’

 

‘Infatti!’ Gli metto in mano il pallone che avevo appena slegato e ne prendo un altro per me. Uno a prua e l’altra a poppa seguendo i movimenti dei due natanti agitati dalle onde e spinti dal vento. Da un capo all’altro della barca continuiamo a raccomandarci a gran voce, a vicenda di tenerci ben saldi, perché è difficile reggersi in piedi con quelle condizioni di mare!

 

L’incredibile è che gli occupanti delle due barche non muovono un dito, pare che la cosa proprio non li riguardi! Vedendo assoluta inattività, mi rivolgo gridando al motoryacht, ormai vicinissimo a noi: ‘Voi tutto bene?’

 

‘Tutto a posto.’ Mi rispondono, ma a parte queste tre parole, tutto resta immobile e tace alla grande.

 

Continuo a lasciar da solo Rinaldo a prua perché vedo che a poppa la vela sta per andare contro il motore del tender. Che se ne vadano, non vedono che stanno arando e tra poco ci verranno contro? Tentano di tergiversare parlando di barche che ruotano per il vento che cambia… Che cambi o non cambi, la realtà è che ci sono addosso e tra poco ci causeranno dei danni. Meno male, dopo un po’ di insistenza da parte mia mettono in moto e cominciano a recuperare catena. Cambiano ormeggio finalmente.

 

Il grosso yacht, invece, è inamovibile. Ora asseriscono di avere il motore che non parte. Come, fino a poco prima tutto bene…

 

Rinaldo si arrabbia: ‘È una storia vecchia e falsa quanto mai , siete degli scorretti… che problema avete che prima non risultava… Siete arrivati ore dopo noi e adesso che ci siete addosso non volete andarvene… ‘

 

Partono insulti e ingiurie al nostro indirizzo. Abbiamo capito con che gente squallida abbiamo a che fare. La prepotenza ha la meglio, porgo le chiavi della barca a Rinaldo che me le chiede e riusciamo a recuperare i primi metri di ancora allontanandoci dagli energumeni che erano ormai a pochi centimetri da Vizcaya! E nessuno di loro ha mosso un dito! Apatia e disinteresse totali. Neanche non fosse la loro, la barca che avrebbe potuto danneggiarsi.

Tramonto a Ponza

 

Siamo in movimento alle tre di notte. Non si vede quasi niente anche se continuo a illuminare con la torcia in cerchio i possibili ostacoli che ci circondano. E intanto recito tutto il repertorio che conosco di insulti in romanesco. Già, perché siamo in provincia di Latina.

 

Ci consultiamo su un’area di mare libero che ci sembra sufficientemente ampia per l’ormeggio. Giù venti metri su sei di fondo. Retro marcia… l’ancora si infila subito nella sabbia, la catena è in tiro ed è stabilissima.. Altri dieci e spegni tutto che andiamo a dormire. Rinaldo, però, ha un’idea. E se ci facessimo un piccolo tuffo anti stress… Accetto ben volentieri. Mi passa ogni rabbia. In fin dei conti sono debitrice di un bagno a quegli… Lasciamo perdere i titoli e godiamoci i trenta gradi dell’acqua, sia pur agitata quanto vuoi. Occasioni così capitano di rado.

 

Un ultimo giro di torcia sulle barche intorno. È forse troppo vicina quella dietro, un po’ fianco? Di notte le distanze cambiano… Mah! In ogni caso l’alta parete rocciosa è a debita distanza. ‘Hai visto, però, che una parte aggetta, sembra staccata?’ Rinaldo verifica. Va bene così. Poi che fortuna… un gommone scarica quelli della barca di dietro che partono immediatamente. Molto bene, possiamo dormire tranquilli, adesso.

 

Ma mio marito mi sveglia e mi sembra sia ancora un po’ presto. Con un occhio vedo che sono le sei.

 

‘Meglio che ci muoviamo subito, guarda fuori!’

 

Orrore! La parete rocciosa a debita distanza aveva forse una fetta staccata come ci era sembrato? Altro che fetta! A pochi metri dalla nostra poppa troneggia un alto scoglio roccioso del tutto indipendente dalla parete che gli sta dietro. E un bel vento da Est ci tiene giusto nella sua direzione. Ecco perché quel motoscafo se ne era andato di gran fretta. Tornati a bordo, hanno visto che il vento era ruotato e che il pericolo incombeva... Grazie tante, eravamo nel pozzetto, ci avevano visto, potevano ben suggerirci di spostarci… come noi sicuramente avremmo fatto!

 

 

Chiaia di Luna

 

 

Dado va all’ancora, siamo pronti ad affrontare mare e vento per raggiungere Chiaia di Luna che è protetta da questo Est. È una delle cale più belle che io abbia visto, con pareti altissime perpendicolari, poste a semi cerchio, nelle quali domina il colore bianco. Sembra l’abbozzo di un anfiteatro. Ma per il momento questo è un particolare del tutto accessorio… quel che conta è toglierci di là!

 

‘La nostra ancora è venuta fuori a fatica dalla sabbia, come prima, del resto!’ Grida Rinaldo da prua.

 

Già, almeno dove c’è un fondo che è un buon tenitore come questo, con fondali per di più bassi, i naviganti da diporto non potrebbero sforzarsi di verificare che le loro ancore abbiano preso? Se non altro quando il meteo avvisa circa possibili rinforzi di vento!

 

P S E meno male che il giorno dopo questo Est un bel momento è passato a Ovest, durante un groppo temporalesco. Mentre sto scrivendo, infatti, Rinaldo ha scoperto che a poppa non abbiamo più il tender con il motore!. La cima si è spezzata. Visto che ora il vento tira a terra dovrebbe trovarlo in spiaggia. Solo una mezz’ora fa sarebbe sparito spinto al largo… Proprio ora si è tuffato a nuoto alla ricerca sotto un fitto scroscio. Siamo certi di avere un’ottima ancora, ma è meglio che… verifichiamo lo stato delle nostre cime!

 

Marinella GAGLIARDI

Rapallo, 19 Agosto 2015