IL REZZAGLIO DEL MIO AMICO "COCOLA"

 

RACCONTI IN RIVA AL MARE

IL REZZAGLIO DEL MIO AMICO ENNIO detto "COCOLA"

Pubblicazione che riporta le foto di Cocola che seguono

Ennio "Cocola" in attesa

Cocola in azione...

Splendido scatto! che rende l'idea dell'ampiezza del rezzaglio lanciato da Cocola

Cocola aggiusta la sua arma...

Nunzio Catena a lezione  di rezzaglio da "Cocola"

Per quanto riguarda il rezzaglio, come si può vedere dalla foto, bisogna raccogliere la rete in una maniera ben precisa e tenerla nella mano destra, mentre una parte dei piombi della circonferenza  va sul braccio ed un'altra viene lanciata con la mano sinistra per far aprire la rete.. Questa è una pesca che per avere buon esito va fatta ad una profondità massima di un metro, se maggiore, per il tempo che la rete tocca il fondo, il pesce, con un colpo di coda, è già fuori. Per questi motivi non viene pescata dalle vostre parti.

Quella che 'Cocola' faceva per vivere, è una pesca molto sportiva, innanzi tutto ci vuole abilità a lanciarlo perché il pesce, che veloce cerca di entrare nel fiume, vede noi come noi vediamo lui, perciò la rete deve essere lanciata quasi rasente la superficie del mare altrimenti se troppo alta, per quando i piombi toccano il fondo, ha tutto il tempo per fuggire.. Diversa è la pesca in acqua torbida, quando viene lanciato a caso, nel qual caso gioca la fortuna, oppure si lancia un sassolino, se ci sono cefali nei dintorni, questi dapprima si allontanano ma poi, siccome sono curiosi, tornano per vedere cos'è, cercando di calcolare i tempi, può andare anche bene. Purtroppo dove era Cocola, questi ultimi tipi di pesca non potevano essere effettuati e l'unico punto dove i cefali e qualche spigola convergevano, era la foce del fiume, dove la corrente uscente del fiume, 'urtando' l'onda del mare si alza e in quella trasparenza si riesce a vedere il pesce che veloce cerca di entrare.

Anche io ho imparato da piccolo a lanciarlo con una rete proporzionale alla mia 'stazza' e pescavo i pesci piccoli vicino a Cocola (che lui non pescava). Da bambino andavo lì perché papà aveva un 'trabocco' da 6 mt. di lato, al fiume, proprio vicino alla foce.

È stato proprio un bellissimo 'rezzaglio' il regalo che mi aveva fatto Marilena appena dopo sposati, perché spesso mi lamentavo di quello che avevo...Lo aveva fatto a mano il Sordo. A mano, perché spesso lo fanno raccordando diversi pezzi di rete, invece quello era fatto aumentando per ogni giro di rete un certo numero di maglie in modo che dalle poche maglie che formavano  il cerchietto centrale (attraverso il quale passavano i fili che servivano per tirare l'armatura con i piombi), si doveva arrivare ad una circonferenza di circa 15 mt. Mi piaceva da matti quella pesca, che più propriamente era una 'caccia', anche perché i cefali pescati erano commestibili e non come quelle 'petroliere' pescate nei porti, dove si vedono riuniti in gran numero che boccheggiando sembrano aspirare il petrolio come per purificare l'acqua.


La casa paterna di mio padre era molto vicina al fiume ed insieme ai fratelli hanno avuto anche prima della guerra un 'trabocco' che poi hanno ricostruito al ritorno di uno zio dall'America che da pensionato amava passare le giornate in quel tipo di pesca.

A proposito del rezzaglio, chi viveva di quello, era proprio Cocola, che era sempre alla foce del fiume Foro, in attesa di prendere qualche cefalo che cercava di entrare nel fiume. Purtroppo, Cocola non era da solo, ed allora era una lotta a chi prima poteva lanciare la rete; quando Cocola tirava la rete e vedeva nel cavo dell'onda che il cefalo era dentro, restava fermo, immobile, quasi in catalessi per alcuni secondi, chissà, forse la gioia di aver pescato qualcosa da vendere e portare casa qualche soldo.

Nel dopoguerra il REZZAGLIO era ancora molto praticato vicino alla foce dei fiumi e dei torrenti. Era un tipo di pesca molto redditizia, ma allo stesso tempo dispendiosa di energie, sia per il peso del piombo posto alle basi, sia per il fatto che la rete una volta bagnata diventava sempre più pesante.

Nel periodo che va da Ottobre a Dicembre con il passaggio di cefali, spigole e orate che migravano verso il mare si ottenevano risultati eccezionali, pescando soprattutto spigole di grosse dimensioni.

Un tempo il rezzaglio veniva costruito (sarebbe meglio dire autocostruito) in canapa o cotone, ora viene utilizzata la tortiglia di polyester o il nylon. Anticamente cucita a maglia sempre più fitta mano a mano che la rete si allontanava dal centro del cerchio, adesso viene cucito a fasce di diversa grana, mano a mano più fitta. Esistono infatti diversi tipi di grana a seconda della dimensione dei pesci a cui un rezzaglio è destinato.

Lungo il bordo inferiore del rezzaglio vi è una corda ricoperta di piombi (la funaia) che trascina la rete verso il fondo. La circonferenza della rete varia tra i dodici e i quindici metri.


Dal bordo partono circa venti cordicelle (i ramiglione) che passano all’interno della galla e confluiscono verso la corda del giacchio, lunga più di tre metri. Alle estremità della corda vi sono due occhielli (cappiole).
In alcuni modelli i ramiglione a circa venti centimetri dalla funaia si biforcano, questa deviazione è detta femmenella.


Ma come si usa? La barca si avvicina in modo lento e silenzioso verso la zona individuata. Il lanciatore si sposta verso la prua e posiziona la tavola del giacchio tra le sponde.

Il pescatore comincia serrando la corda intorno al polso (o infilando l’anello della corda al mignolo) così da non perdere la rete. Raccoglie con una mano la parte superiore del giacchio per circa metà della sua lunghezza. Con l’altra mano afferra il lembo rimasto libero.

Il pescatore ruota il busto all’indietro e, subito dopo, fa seguire un movimento in avanti. L’abilità del pescatore sta nel coordinare questi movimenti e nel lasciare andare la rete al momento giusto, facendo in modo che, grazie alla rotazione impressa, si apra completamente in aria prima di toccare la superficie dell’acqua.


Quando cade in acqua il rezzaglio deve essere disteso, così da coprire la maggior area possibile. Il peso dei piombi lungo la funaialo fa scendere rapidamente verso il fondo, imprigionando i pesci che incontra inabissandosi.

Il rezzaglio viene recuperato tirando lentamente con piccoli colpi la corda del giacchio e poi il fascio dei ramaglione. Mentre la rete viene raccolta, il perimetro della funaia si stringe e i piombi si avvicinano tra loro scorrendo sul fondo così da non far uscire i pesci.

Al pescatore non resta che issare il rezzaglio a bordo, posando la rete sulla tavola dove la libera del pescato.


Nunzio CATENA- Carlo GATTI

Rapallo, 2 agosto 2017

 

 

 

 

 


"ACQUA ALLE CORDE!" ... Domenica delle Palme

ACQUA ALLE CORDE !!!

<aiga æ corde!> (in sanremasco)

<Ægua a-e corde> (in genovese)

 

DOMENICA DELLE PALME


Ancora una volta l’esperienza acquisita in mare è tornata utile, anzi salvifica, anche in terra, come nel caso dell’Obelisco di Piazza San Pietro.

Siamo nel 1586 a Roma, la città che ne conserva più di tutte al mondo, alcuni egizi veri e altri fatti dai romani.

Andiamo con ordine. L’obelisco di cui parliamo, vecchio di più di 3200 anni, era nel 37 d.C. ancora posizionato ad Heliopolis, importante città egiziana, nota per la sua venerazione a Ra, il Dio Sole. lo volle a Roma, utilizzando una nave appositamente attrezzata e carica di lenticchie ove adagiarvelo, ce lo ha scritto Plinio, l’Imperatore Caligola che lo posizionò ad una estremità del Circo di Nerone, area su cui, dopo 1500 anni circa, verrà edificata la basilica di San Pietro. A seguito della posizione della nuova Chiesa l’obelisco si venne a trovare sul retro della stessa: per dargli dignità l’energico Papa Sisto V, francescano e molto stimato da San Filippo Neri e Sant’Ignazio di Lojola, decise di traslarlo sul davanti, dove ancora oggi lo ammiriamo ogni qual volta imbocchiamo Via della Conciliazione.

A dire il vero a quella dislocazione ci aveva già pensato 150 anni prima Papa Nicolò V, visto che sarebbe bastato spostarlo di soli 250 metri, ma le difficoltà tecniche, insormontabili all’epoca, non consentirono di realizzare il progetto. L’obelisco infatti è alto 25 metri e pesa 350 tonnellate; originariamente terminava con un globo dove la credenza popolare, poi smentita, asseriva vi fossero conservate le ceneri di Cesare. Il Papa, una volta preso atto che il globo era vuoto, lo fece togliere sostituendolo con la croce che ancor oggi si può ammirare e fece incidere in latino sul basamento questa dedicatoria <Sisto V Pontefice Massimo fece porre con immenso sforzo l’obelisco vaticano di fronte all’ingresso. Esso era stato originariamente dedicato a divinità pagane attraverso cerimonie profane. Anno 1587 secondo anno del pontificato>.

Disegni tecnici dell'architetto Ticinese Domenico Fontana

Per attuare il suo progetto, Papa Sisto incaricò dello spostamento l’Architetto Ticinese Domenico Fontana. Si costruirono argani, impalcature e carrucole impiegando 900 uomini e 140 cavalli. Tutti questi dati si ricavano dagli Archivi Segreti Vaticani che, minuziosamente, hanno appuntato tutto ciò che veniva speso per qualunque opera afferente il Vaticano. Si pensi che hanno anche la documentazione di quanti alberi furono comprati per approvvigionare il cantiere durante la costruzione della Basilica di San Pietro: interi boschi nel Lazio e nella bassa Toscana o quanti soldi costò far affrescare da Michelangelo la Capella Sistina. Credo sia l’archivio più dettagliato e puntuale del mondo, ante-computer.

Il Cantiere

Finalmente il 10 Settembre 1586, terminati i lavori di traslazione dell’obelisco in Piazza, iniziarono i lavori per erigerlo. Data la pericolosità e l’impegno per compiere quel difficile lavoro, fu diramato l’ordine di osservare il più assoluto silenzio a che gli ordini impartiti giungessero forti e chiari a chi doveva operare. Per chi avesse trasgredito c’era la pena di morte seduta stante: il boia e la forca erano già pronti.

Essendo già stata allestita una gigantesca impalcatura attorno all’obelisco a formare una specie di strada pensile su cui fare scorrere grazie ad uno scivolo il monolite, e realizzato pure il basamento su cui metterlo una volta raddrizzato grazie ad una serie di carrucole e rinvii. Per preparare il tutto ci lavorarono da Aprile a Settembre tutti quegli uomini, i cavalli, 44 argani e una infinità di paranchi appositamente costruiti, coordinati dal Fontana che si era fatto costruire un grande trespolo dall’alto del quale poter vedere i lavori, impartendo ordini che per giungere chiari a tutti, venivano tramutati in squilli di tromba, o rulli di tamburi o segnalazioni con bandierine. Da qui si capisce il perché dell’obbligo all’assoluto silenzio. Siccome i curiosi potevano solo assistere ma da lontano, si volle far capire che il silenzio imposto era assoluto e per meglio convincere gli eventuali riottosi, come abbiamo detto, si allestì sulla Piazza la macchina della forca: a buon intenditor poche parole.

I lavori finali furono suddivisi, diremmo oggi, in 52 “steps”, alla fine dei quali lo si raddrizzò. Una volta raddrizzato bisognava alzarlo e posizionarlo sul predisposto piedistallo. Lì fu il momento più delicato; le corde a causa dell’attrito cominciavano a fumare per poi certamente rompersi, pericolo non avvertito da chi le doveva controllare, impegnato come era a guardare dove e come posizionarlo. Quando se ne accorsero l’allarme arrivò all’Architetto; questi, uomo di terra, si paralizzò non sapendo che fare.


Fu allora che dalla folla ammassata tutto attorno dove poi sorgerà il colonnato, si levò un grido con voce abituata a superare anche l’ululare del vento, che risuonò chiaro <aiga æ corde!>. Come capita a chi sta per annegare che istintivamente si aggrappa al primo oggetto che gli galleggia vicino senza controllare cosa sia ne attendere oltre, così avvenne in quella occasione. Prima che arrivassero gli ordini per via gerarchica, gli addetti ai lavori eseguirono istintivamente quel perentorio ordine risuonato nella Piazza, bagnando subito le corde che, così come capitava a bordo, si raffreddarono e si contrassero ritendendosi, evitando l’inevitabile dramma. Era il frutto dell’esperienza maturata in mare quando si utilizzavano gli stessi canapi.


Il Papa, che seguiva i lavori da un balcone del Palazzo Apostolico, aveva capito che quel trasgredire la norma aveva evitato una tragedia e diede ordine che l’uomo che era stato appena arrestato, gli fosse condotto davanti. Arrivato, quello si qualificò come Comandante marittimo Benedetto Bresca di San Remo.

Invece di condannarlo, come la solita ottusa burocrazia avrebbe fatto per aver fiatato ignorando il divieto, gli concesse larghi privilegi assegnandogli una lauta pensione ed il diritto di issare sulla sua nave il vessillo Pontificio. In compenso il Bresca, sollecitato per ottenere una ricompensa, chiese l’onore per se e i suoi discendenti, di fornire alla Basilica di San Pietro i rami d’ulivo e tralci di palma, i <Palmureli>, per la Settimana Santa, a imperituro ricordo di quanto fece lui, sanremese. Questo impegno viene onorato ancor oggi dai suoi discendenti coadiuvati dal Consorzio “il Cammino” di San Remo, dal Centro Studi e Ricerche per le Palme, dalla Regione Liguria che è subentrata alla ex Provincia di Imperia e dai comuni di Bordighera <Città delle palme> e da San Remo <Città dei fiori>, il tutto sotto gli auspici della Fondazione Bambino Gesù.

Invece la fornitura dei rami di ulivo avviene a rotazione fra le Regioni dove lo si coltiva (quest’anno tocca alla Sardegna) mentre i tanti elaborati palmureli occorrenti, alti un metro e mezzo, vengono distribuiti, oltre che al Papa, anche ai Cardinali e ai Vescovi partecipanti alla cerimonia. Per garantirne la fornitura si è coinvolta anche Bordighera dove esiste il palmeto più settentrionale d’Europa.

Anticamente i palmureli venivano recapitati via mare; quando l’imbarcazione che le trasportava arrivava alla foce del Tevere, godeva del privilegio di avere la precedenza su tutti i natanti e, per farsi riconoscere, ne innalzava uno sull’albero di maestra.

Per la storia, all’Architetto Fontana furono commissionati altri quattro recuperi di obelischi in Roma

Ed ora permetteteci un po’ di campanilismo: se il Comandante fosse stato genovese per impartire l’ordini di dare <acqua alle corde> avrebbe urlato <Ægua a-e corde> e non <Aiga æ Corde>; ma lui era sanremasco !

Renzo BAGNASCO

Foto  e consulenza di Carlo Gatti

Rapallo, 31 Marzo 2017

 

 

 


ASCOLTA IL DELFINO

ASCOLTA IL DELFINO

Vivono nel mare, insieme alle balene e alle meduse, anche la Verità, la Vita, la Sapienza.

Lungo i secoli molti marinai, pescatori, bambini le hanno incontrate, ma nessuno ha mai creduto ai loro racconti. Così, ancora oggi, molti ignorano questi tesori del mare.


Un bambino viveva su un’isola del Mediterraneo con il suo papà, che faceva il guardiano del faro. La mamma non aveva resistito a quella vita solitaria ed era ritornata al suo lavoro in città.

Sull’isola non abitava nessun altro, ma il guardiano del faro aveva molti amici. Spesso venivano a trovarlo.


A Carlo, il bambino, piaceva vivere sull’isola. Passava il tempo nell’orto del papà o sulla spiaggia in amicizia con gli animali e la natura. L’unico suo cruccio era la nostalgia della mamma. Quando questo sentimento lo assaliva con più forza, si sedeva sulla spiaggia a buttare pietre in mare e a leccarsi le lacrime, che non riusciva a trattenere.


Un giorno, mentre era in questo stato d’animo, apparve davanti a lui un’onda altissima e trasparente come cristallo.

- Chi sei? – chiese il bambino.

- Sono la Verità- rispose l’onda.

- Allora dimmi, la mia mamma mi vuole bene? – domandò Carlo.

- Sì, non sa neppure lei quanto – disse di rimando l’onda.

- E come faccio a farglielo capire?-

- Io sono la Verità. So come sono le cose e le persone, ma non so cambiarle. – rispose l’onda appiattendosi.


Prima che l’onda scomparisse del tutto, Carlo vide un delfino trapassarla ed agitare la coda in segno di saluto.

- Ciao delfino. – gridò Carlo.

Poco dopo il mare cambiò di nuovo aspetto. Proprio lì, davanti al bambino, si formò una chiazza, un laghetto quasi. Questo specchio d’acqua appariva sempre diverso: liscio e piatto come una lamina d’acciaio, poi increspato e azzurro, verde agitato, blu profondo, trasparente e leggero come aria.

- Come sei bello, mare! – esclamò Carlo.

- Io sono la Vita. Sono mutevole. Ricordati che mi hai trovato bella. Se non cambierai idea, io ti darò molto. – disse la Vita, mentre continuava a cambiare faccia.

- Io rivoglio la mia mamma. – disse Carlo quasi piangendo.

- La riavrai – disse il delfino balzando fuori dallo specchio della Vita.

- Come?- gridò Carlo, ma il delfino e lo specchio della Vita erano già scomparsi.

Tutto rimase tranquillo per un certo periodo, mentre Carlo stava ancora sulla spiaggia. Rifletteva su quanto aveva visto e non si decideva ad andarsene.

Ecco di nuovo il mare mutare. La superficie si appiattì, il colore s’ intensificò in un turchese denso e consistente. Era veramente bello, ma intimoriva quasi: l’acqua sembrava marmo.

Il colore parlò a Carlo: - Io sono la Sapienza. Abito il mare e gli uomini non mi amano. Cosa vuoi da me, Carlo?-

- Io vorrei il ritorno della mia mamma – rispose il bambino intimidito – Mi manca solo questo.-

- E’ un bisogno vero – sentenziò la Sapienza – Non stancarti di ripeterlo alla mamma e al papà. Capiranno. Ricordati, non stancarti, sii tenace. Concluse la Sapienza inabissandosi con il suo colore, mentre il delfino la seguiva verso il fondo.

Carlo tornò al faro contento e agitato. Non vedeva l’ora di raccontare tutto al suo papà, che quella sera aveva a cena parecchi amici.

Appena il bambino incominciò a raccontare, gli adulti si scambiarono occhiate d'incredulità e derisione.

“Bella fantasia” disse uno, “Diventerà un romanziere” aggiunse un altro.

- Dai, Carlo, smettila – gli intimò infine il papà.

Carlo, però, si sentiva forte e sicuro e continuò il suo racconto senza farsi intimidire. Alla fine alcuni amici avevano l’aria seria e preoccupata.

- Questo bambino sta troppo da solo. Devi provvedere, Maurizio. Meglio un collegio, di una vita così isolata.-

I consigli si susseguivano, quando un lampo squarciò le tenebre della notte e sul mare apparvero insieme la Verità, la Vita e la Sapienza, con il delfino che nuotava da una all’altra. Fu un attimo, il tempo di un fulmine, ma tutti zittirono, videro e , forse, qualcosa capirono.

- Domani, telefonerò alla mamma e parleremo di te. – disse il papà a Carlo.


La mamma non vedeva l’ora di essere cercata: il lavoro da solo non le bastava.

- Ho già in mente la soluzione – disse al marito – Tornerò sull’isola. Posso lavorare con il computer e, una volta alla settimana, io e Carlo andremo insieme in città per organizzare il mio lavoro e fare la spesa. Forse così funzionerà. – concluse.


Carlo era felicissimo della decisione della mamma, il suo papà anche.

Stavano correndo insieme sulla spiaggia per festeggiare, quando apparve il delfino.

- Ciao delfino, grazie. – disse Carlo.

- Io ti ho salvato – rispose il delfino – Tu, crescendo, salva il mare.-

- Lo farò, se m'insegnerai – gridò Carlo, mentre il delfino spariva.

E questa volta sentì anche il suo papà.

 

ADA BOTTINI

Rapallo, 26 febbraio 2017

 


UN AFFRESCO DEL MONDO DEI BARCACCIANTI

UN AFFRESCO DEL MONDO DEI BARCACCIANTI

Il m/r TORREGRANDE in un dipinto di Marco Locci

In piena notte fui svegliato dalla voce assonnata del Capitano d’Armamento della Società Rimorchiatori Riuniti. Ero convocato d’urgenza sull’ormeggio di Ponte Parodi (Porto di Genova).  La petroliera inglese SANTORINI, 40.000 tonnellate di stazza lorda, si era arenata sulla costa sud orientale della Sardegna. TORREGRANDE e CASTELDORIA erano stati scelti per l’operazione di disincaglio.


Molo Giano-Anni ’60 – Nella foto si nota la prora di un rimorchiatore portuale guarnita di “paglietto” (parabordo) usato soltanto in porto per spingere sul fianco di una nave nella fase finale dell’ormeggio in porto. Il paglietto veniva tolto in navigazione d’altura. Sullo sfondo la Torre Piloti ricostruita nel 1947 dopo essere crollata due volte durante i bombardamenti della Seconda guerra mondiale. La struttura esiste tuttora ed è assegnata ad altri servizi nautici.


Porto di Genova. M/r SVEZIA – Ultima generazione Voith Tractors. Notare la versione moderna del “paglietto” di prora.

“Abbiamo provveduto al rinforzo dell’equipaggio – m’informò il dirigente con un certo rammarico, consapevole dello spostamento forzato delle mie ferie. - Ho fatto togliere il “paglietto” di prora dalla squadra d’emergenza. Abbiamo provveduto a fare il pieno di bunker. Troverete pronto tutto l’occorrente, comprese le provviste per tre giorni. Contatterete la nostra Agenzia di Olbia che provvederà a mandarvi un mezzo con le provviste che gli ordinerete via radio. Lei sarà il capo convoglio”.

Pur essendo abituato a quel giro di chiamate, sempre notturne, sempre in inverno e con il mare che monta la diga, l’adrenalina mi entrò in circolo rapidamente senza rendermene conto. Durante il veloce viaggio da Rapallo a Genova, elencai mentalmente tutte le operazioni necessarie che non sarebbero mai venute in mente a chi non era interessato “direttamente” al disincaglio. Mi concentrai sulle carte della Sardegna orientale, sulla scelta del personale di rinforzo: 1° ufficiale di coperta, 1° ufficiale di macchina, marinaio, mozzo, marconista, sommozzatore, bombole, cavi nuovi, materiale per tamponare le falle ed infine i documenti per la “pratica di partenza” in Capitaneria.


Anni 2000 - Porto di Genova – Sulla testata di Ponte Parodi sono ormeggiati prora a terra i rimorchiatori in attesa della chiamata operativa. Sullo sfondo é visibile: l’entrata della Vecchia Darsena e parte del “nuovo look” del Porto Antico.

Era il 1969. Giunsi a Ponte Parodi tra il lusco e il brusco. Buona parte della “Terza Flotta” (così chiamata la flotta RR di allora) era nervosamente in movimento, sovrastata da nuvole di vapore. Quattro navi stavano pendolando in rada nell’attesa del pilota e gracchiavano in VHF chiedendo istruzioni.


Il TORREGRANDE (in primo piano) visto da un passacavi di bordo

Il Torregrande era ancora al suo posto, con la prora a terra, nella stessa posizione in cui l’avevo lasciato la sera prima. Il suo “naso” senza paglietto gli restituiva eleganza, ma senza quella bardatura medievale, perdeva aggressività come se, improvvisamente, fosse stato relegato a compiti di retrovia.

Per salire a bordo i marinai avevano sistemato una stretta passerella di legno dondolante che non prometteva nulla di buono...

La prua del Torregrande era molto più alta della banchina, ma nessuno aveva pensato a collegare, forse per la premura, uno scalandrone più decente.

Di solito si saliva sulla prora del rimorchiatore a filo banchina, e poi si trasbordava saltando da una coperta all’altra sino a giungere a destinazione. Ma quella mattina ancora buia, i rimorchiatori portuali avevano lasciato l’ormeggio per l’imboccatura e il “bestione d’altura”, alto, maestoso e senza “damigelle” legate al suo fianco, era legato di punta a Ponte Parodi, in solitario e con poche cime sottili.

Mi avviai con fare sbrigativo sull’asse di legno, con il solito sacco di tela olona che usavo per le trasferte brevi. Purtroppo sottovalutai la potente “smacchinata” dell’ultima “barcaccia” (rimorchiatore in tono affettuoso...) in partenza che diede un colpo di maglio sul fianco del Torregrande che si traversò facendomi perdere l’equilibrio. Il sacco cadde in mare insieme all’asse di legno che avevo sotto i piedi. I miei 30 anni mi permisero di rimanere appeso ai maniglioni del paglietto finché giunse il nostromo Zeppin richiamato dalle mie imprecazioni... Per fortuna mi stava aspettando sulla prora, ansioso di dirmi tante cose... e appena percepì il pericolo chiamò rinforzi e in tre riuscirono a sollevarmi sul copertino e a recuperare con la gaffa il mio sacco “galleggiante”.

“Belin Comandante! Voî pe pöco cazeîvi in mâ comme u Fiesco

(per poco cadeva in mare come il Fiesco)”. Borbottò preoccupato il mio fedele nostromo.

Vorrai dire come un belinone..”. – risposi trafelato - ma felice come fossi giunto in zona medaglie al bordo della piscina - Grazie per il salvataggio. Fatemi sapere chi é quel tanghero ... lo ringrazierò a modo mio, con la stessa moneta.”

Il tempo “maneggevole” ci mise tutti di buon umore e, allontanandoci da tanti occhi indiscreti, mi sentii finalmente “libero” di decidere e risolvere i problemi imminenti alla mia maniera.

Il marconista Gino si mise subito in contatto con la nave in difficoltà, e seppi che in seguito ad un blackout del motore, la SANTORINI aveva scarrocciato verso la costa andandosi ad appoggiare con la prora sulla scogliera che scendeva a picco su una spiaggia di sabbia. Il resto dello scafo sembrava libero e non incagliato.

Il direttore di macchina Silvan giunse sul ponte di comando per avvisarmi che il motore era a pieno regime. Alla nostra abituale velocità di 13 nodi, potevamo coprire la distanza di 310 miglia in 25 ore.

Con quella bonaccia, prima ancora d’entrare nel clima della “spedizione”, l’equipaggio si radunò spontaneamente sul ponte di comando. Capii che l’idea prevalente era di tornare sulla scena del delitto: il Comandante appeso come un salame al posto del paglietto di prora...

Giocai d’anticipo e chiesi al nostromo: “Zeppin, ma com’è la storia del Fiesco?”

Il nostromo Zeppin era il più anziano di bordo ed anche il marinaio più esperto. A lui spettava di prendere la parola, anche perché la frase: per poco facevi la fine del Fiesco” sembrava una delle numerose frasi del suo repertorio, un po’ sibilline e tanto storpiate che erano destinate a fare il giro di tutti i bordi di Ponte Parodi suscitando ilarità e commenti sui marinai carlofortini dei quali, per la verità, nessuno osava mettere in dubbio le qualità marinaresche, lo spirito di servizio e l’inesauribile laboriosità.


“Leudi Surairi” (zavorrai) alla foce del Torrente Petronio a RIVA TRIGOSO. A prua si nota la passerella molto stretta su cui i marinai transitavano in equilibrio con la coffa colma di sabbia e pietrisco sulle spalle. I leudi adibiti a questo tipo di trasporto erano chiamati SURAIRI in dialetto rivano, ed i suoi marinai FROISCIU. Tra i vari tipi di Leudi, a detta degli esperti, il “Zavorraio” aveva la linea più ELEGANTE rispetto ai Vinacceri e ai Formaggiai.


Leudo a Rapallo

E’ un modo di dire nella marineria di Carloforte. – precisò Zeppin - Da ragazzo navigai parecchi anni sui leudi “vinacceri”, “formaggiai” e “zavorrai”. Con questi ultimi si trasportava sabbia di fiume destinata all’edilizia dei costruttori del Tigullio. Il leudo pescava poco, si dava fondo la “zappa” (ancora) di poppa e si portava la prora a pochi metri dalla spiaggia dove si caricava. Il collegamento tra la prora e la battigia era un asse di legno lungo e molto flessibile. Scendere a terra con una coffa di sabbia sulle spalle, a parte il peso, era una specie di danza, ma se si perdeva il ritmo, era facile cadere in mare con la coffa in testa. Quanto capitava, la reazione del Capitano era sempre la stessa: pe pöco t’andavi in mâ comme u Fiesco. Ma mai nessuno mi spiegò il significato di quella frase. Forse non lo sapeva nessuno, così l’abbiamo sempre ripetuta a memoria come le scimmie”.

Radio cucina diffuse prontamente in genovese i suoi “giornali radio”…

Zeppin: (nostromo) Chi à premûa vadde adaxo.

(Chi ha premura vada adagio)

In effetti il Comandante aveva premura si partire…

Zagallo: De nëutte tûtti i gatti son bardi.

(Di notte tutti i gatti sono grigi)

Il cognome del Comandante era noto…

Zagallo (lo spiritello dispettoso): No te lasciâ di pê se ti no é attaccôu de man.

(Non lasciar andare i piedi, se con le mani non sei attaccato)

Per fortuna ero attaccato…

Bobby: (1° Uff.le) Se i belinoin avessan e äe, saieva de lungo nûvio.

(Se gli sciocchi avessero le ali sarebbe sempre nuvoloso)


Quando giungemmo in vista della SANTORINI, mi accorsi sul radar che la nave era staccata dalla scogliera. Si era disincagliata da sola. Chiamai il Comandante e chiesi se avesse ancora bisogno di noi.

“Abbiamo a disposizione pochi giri di macchina – rispose preoccupato – Ho bisogno che il vostro sub s’immerga di poppa per farmi una perizia su eventuali danni subiti dal timone o dall’elica. Temo che non sia tutto in ordine. Sentiamo forti vibrazione che da poppa arrivano fino al ponte di comando.

“OK Comandante. Stia tranquillo! Dugga, il nostro esperto sommozzatore, si é fatto cinque anni di guerra, quasi tutta sott’acqua. Il Mediterraneo é un cimitero di navi, ha fatto tanto allenamento! Andrà subito a poppa, ma poi gli farò ispezionare tutto lo scafo.

“Molto bene faremo così. Poi decideremo insieme il da farsi”.

Dugga rimase in acqua circa un’ora ed il suo rapporto fu impietoso per il Comandante della nave, ma molto vantaggioso per la nostra Società.

La petroliera UK era andata per scogli... Due pale dell’elica erano completamente piegate. Del timone era rimasta soltanto la parte alta appesa ad un solo agugliotto.

Più brevi del previsto furono gli accordi intrapresi tra gli armatori delle due unità. L’ordine mi venne confermato con un telegramma che m’invitava a prendere immediatamente la nave a rimorchio con destinazione Genova.

Mi recai sul Ponte di Comando della nave per concordare la rotta, l’assetto e le comunicazioni. Con me salirono a bordo il D.M. Guido Bianchi per carpire notizie sull’avaria del motore, il 1° Ufficiale di coperta Giorgio Ghigliotti che insieme al nostromo Zeppin si recarono a prora per occuparsi degli attacchi da rimorchio che avevo predisposto.


Il Comandante greco di nazionalità inglese parlava, come tutti i levantini, un ottimo italiano-marinaro. L’incaglio ed i danni che ne sono derivati, sono sempre vissuti da chi é al comando, come una sconfitta personale che potrà pesare in qualche modo sulla sua carriera. L’armatore e le Assicurazioni gli chiederanno molte spiegazioni sul suo operato di marinaio.

Il suo sguardo triste mi spinse a dargli tutto il mio appoggio morale e tecnico per ciò che rimaneva del viaggio. Ricordo che durante la navigazione, ogni due ore ci sentivamo sul Walky-Talkye e, dopo le prime conversazioni esclusivamente tecniche sulla navigazione in corso, prendemmo confidenza e si passò a parlare di sport, di musica, e poi delle nostre rispettive famiglie.

Il viaggio si concluse felicemente e con Capitan Lazzare diventammo amici......

P.S.  Sul sito di Mare Nostrum Rapallo, nella Sezione NAVI E MARINAI-Saggistica Navale,  il lettore può trovare il saggio:

QUANDO I FIESCHI FINIRONO A BAGNO...

Carlo GATTI

Rapallo, 10 Febbraio 2017

 


MACAIA e CALIGO

MACAIA e CALIGO

A Primavera in Rapallo si terrà il Raduno Regionale dei suonatori di campane, organizzato dall’Associazione  Campanari Liguri, che sta tornando a rivivere per merito dei suoi associati, coinvolgendo sempre più giovani, indispensabili campanari di domani. In Liguria poi abbiamo addirittura un “suonare alla ligure” ed i campanari utilizzano per farlo, i “pestelli”, che battono su robusti tasti; pare siano rimasti gli unici ad usarli.


I nostri campanili si evidenziano in quanto sono sproporzionatamente alti rispetto alla Chiesa cui appartengono.

 

Li hanno costruiti così svettanti perché il loro suono, anche quando scandivano le ore, doveva essere facilmente udito da tutti, compreso i contadini  sparpagliati  a coltivare l’avaro terreno lungo le strette valli; per tutti era l’”orologio” che ritmava le varie fasi della giornata. Solo così l’onda, piovendo dall’alto, poteva giungere il più lontano possibile.

Non tutti sanno però che di analoga funzione ne fruiva anche chi andava per mare; fungevano da faro senza luce, da bussola e da “radar” in un’epoca nella quale pochi avevano l’orologio, se non lavoravano nelle ferrovie e nessuno possedeva gli altri due supporti: oltretutto il radar ancora non esisteva.

 

Abbiamo accennato a quanto il campanile rappresentasse  anche una indispensabile sicurezza per chi era impegnato nella pesca a breve e medio raggio, sino a divenire vitale se si era colti dall’improvvisa foschia, il terribile <caligo>, che con la sua densità ovattata faceva perdere totalmente  l’orientamento, così come erano indispensabile in certe notti che, divenendo improvvisamente buie e tempestose, era vitale localizzarne i rintocchi, unico sistema per dirigersi verso terra; così le torri campanarie sono state utilizzate per secoli.

Ed è a questo punto che entrano in scena “macaia” e “caligo”.

Edoardo Firpo nella sua < Mattin de frevâ > così canta il ‘dopo maccaja’:

A tramontann-a de vei

al’à scorrio a maccaja

e netto o çê a l’à lasciòu.

In sce-a cianùa marinn-a

sciorte de nuvie perfette.

E case i schêuggi a collinn-a.

son serræ dentro un cristallo.

Dai limpidiscimi monti

nasce unna strana creatua,

leggera leggera, ch’a dua

appena-a o tempo de moï.

Traduzione: La tramontana di ieri ha scacciato l’umidore e limpido cielo ha lasciato. Sulla pianura del mare escono nuvole perfette. Le case, gli scogli,la collina son chiusi in un cristallo. Dai limpidissimi monti nasce una strana creatura ,leggera leggera, che dura appena il tempo di morire.

In effetti la “maccaja”, così la si scrive in dialetto, è parola ligure di probabile origine greco/latina’ malacia’; sta ad indicare una singolare condizione meteorologica che si verifica in particolare nel Golfo di Genova, quando spira vento di scirocco, con cielo coperto e tasso di umidità elevato.


Di lei ha scritto Cristiano De Andrè nella sua  Notti di Genova < Genova apriva le sue labbra scure/ al soffio caldo della maccaja>, la stessa che rende inutilizzabili i bicchieri se non ben lavati.

Tutt’altra cosa e assai  più pericoloso è invece il <Caligo> ovvero la ‘nebbia di mare’.


La nebbia, spesso presente altrove, da noi si forma improvvisamente solo quando giunge il flusso mite dell’anticiclone africano e trova un mare ancora freddo: scorrendovi sopra fa condensare rapidamente le goccioline appena evaporate, rendendo invisibile tutto attorno.  Si forma preferibilmente  in Aprile e Maggio, mesi in cui il mare, che funziona come un  condensatore, ha ancora una temperatura invernale; mai in autunno, quando il mare è ancora caldo dall’estate.

Oggi il caligo non gode più della triste fama di un tempo, perché a bordo tutti hanno una  bussola quando non anche il radar ma, un tempo, in loro mancanza, era provvidenziale l’intervento delle campane.

In quei frangenti, le donne dei pescatori, sempre in eterna ansia, correvano dai Parroci, svegliandoli se di notte o allertandoli  se di giorno, affinché suonassero le campane con uno suono cadenzato seguito da un certo silenzio prima di riprendere, così che chi era in mare potesse percepirne il caratteristico segnale e verso di esso orientarsi, perché il caligo è come un materasso di fitta nebbia, adagiato per uno spessore non eccessivo sul mare, ma talmente avvolgente da far perdere l’orientamento specie ai sottili e bassi gozzi. Quel suono ripetitivo e alternato cessava non appena, solo a pochi metri da riva, spuntava dalla nebbia una prua di qualche gozzo che, alla voce, orientava anche gli altri.

Lo so perché sono un “prain” e vedevo le donne, e pesciæ-e, quelle che avrebbero dovuto poi andare a vendere il pesce, raggruppate sulla battigia in angosciante attesa a pregare e scrutare: i capelli arricciati dalla bruma, l’una vicina all’altra, stringendosi nei loro lisi scialli

Ecco perché abbiamo ricordato i campanili parlando di  … mare.

A Prà, sino a pochi anni fa centro di pescatori, il piccolo campanile di San Rocco, era praticamente sulla spiaggia perche lì avevano edificato la demolita Chiesetta.

Chiudiamo con questa vecchia filastrocca:

Alto svetta il campanile

Sotto un celo primaverile

Poi scampana allegramente

Per avvisare tutta la gente

Che c’è festa in tutto il mondo

Fin nel mare più profondo

Forte suona la campana

Nella valle più lontana

Per portare in ogni cuore

La certezza dell’amore

 

Renzo BAGNASCO

Rapallo, Martedì 7 Febbraio 2017

 


IL TEMPERINO E IL TONNO

 

IL TEMPERINO E IL TONNO

Una volta un temperino cadde in mare dall'astuccio di un bambino svogliato che faceva i compiti delle vacanze. Plof, plof, plof, che strano ambiente e che strani personaggi: tutti viaggiavano in orizzontale.

Il temperino era un tipo molto attivo e baldanzoso e, non trovando matite si rivolse ad una acciuga: «Ciao, hai la coda un po' larga, vuoi che te la temperi?». «Ma cosa dici?» borbottò quella «io sono bella affusolata». E fuggì via con un guizzo. Ondeggiando, ondeggiando, il temperino si posò sul fondo sabbioso dove riposava una magnifica sogliola. «Come sei piatta, che ne diresti di un temperatina alla coda?». «No, No», rispose la sogliola insabbiandosi. «Uffa, che noia!», pensò il temperino, «qui mi arrugginisco». Venne la sera, venne lo scirocco che portò con sé potenti onde: una, compatta e maestosa, si arrotolò su se stessa e precipitò sul fondo con la forza di mille schiaffi. Il temperino si era quasi assopito, quando si sentì sollevare, capovolgere, trasportare con tanta irruenza da non distinguere più né il sopra né il sotto. Dopo un'altalena che gli parve eterna andò a sbattere contro uno scoglio tra le cui fessure si nascondeva una triglia tutta rossa e impaurita, che dimenava la coda per non farsi portare via. «Posso rendermi utile?» strillò il temperino ancora un po' intontito. «Se ti fai temperare la coda, questa si allunga e ti serve meglio». «No, si  assottiglia e non mi serve più». «No, si allunga». «No, si  assottiglia». Il battibecco finì presto, perché un'altra ondata strappò il povero temperino dal suo rifugio e se lo portò in alto mare.

Il poveretto fece appena in tempo a capire dov'era, che si vide davanti un tonnetto vivace ed affamato, con la bocca spalancata, pronto ad ingoiarlo. «No, ti prego, non mi mangiare, sono indigesto! Ti posso rendere un servizio eccezionale: guarda che coda hai, così non si usa più, lasciatela temperare, vedrai come sarai elegante». Il tonno inesperto e vanitoso acconsentì e il temperino si mise al lavoro di buona lena. «Ahi, mi fai male!», urlò il tonno. «Chi bello vuole apparire, deve soffrire», replicò il temperino continuando a lavorare. «Ecco fatto», esclamò soddisfatto il temperino, «sei bellissimo».

Il tonno cercò di voltarsi per guardarsi la coda, ma non ci, riuscì e, visto che nei dintorni non c'erano specchi, dovette fidarsi delle parole del temperino. Era ancora dolorante, ma incominciò a muoversi incontro ad altri pesci per sentire i loro commenti. Che disastro! Si dava un gran daffare con le pinne, ma non riusciva più a dirigersi dove voleva: la coda temperata non funzionava come la precedente. «Aiuto, aiuto», cominciò a lamentarsi. «Mamma mia, aiuto! Come farò a raggiungere i miei compagni?». Più si dimenava e più girava su se stesso come una trottola. Il tonno era ormai esausto e disperato, quando Nettuno, il dio dei pesci e del mare, udì le sue implorazioni. «Chi mi disturba a quest'’ora?» gridò con voce di tuono, «ah, sei tu piccolo incosciente, cos'hai combinato?». «Io veramente niente... è stato il temperino, mi ha detto che la mia coda era fuori moda, allora io... ». «Ma bene, bravo, non ti piaceva la tua coda, ora tieniti quella nuova, servirai da esempio agli altri sciocchi come te». «No, ti prego» pianse umilmente il piccolo tonno, «potente dio di tutti i pesci, aiutami non lo farò più». «D'accordo», rispose Nettuno impietosito, «ora ti toccherò con il mio magico scettro e ritornerai come prima, ma ricordati: con la natura non si scherza, altrimenti sono guai». E mentre con la mano destra ricomponeva la coda del tonno, con la sinistra Nettuno scagliò il temperino fuori dal mare, perché non facesse altre stupidaggini. Così il temperino tornò nell'astuccio di Claudio a compiere il lavoro al quale era stato destinato.


ADA BOTTINI

Rapallo, 22 novembre 2016



ANCHE I GABBIANI SBAGLIANO LE MANOVRE

ANCHE I GABBIANI SBAGLIANO LE MANOVRE...


Agropoli nel Cilento, chiude a Sud il golfo di Salerno

“Una antica leggenda di Agropoli narra che i gabbiani sono le anime dei marinai morti in mare e chi li uccide o li scaccia attira su di sé l’ira del Signore”.

Nel XVIII secolo ad Agropoli ci fu una grave pestilenza per cui furono abbattuti numerosi capi di bestiame che erano portatori del virus mortale.

In quel periodo di grave carestia, solo il mare offriva l’unica fonte sana di nutrimento, ma le continue burrasche impedivano alle barche da pesca di uscire e gettare le reti. I più giovani e forti pescatori del paese, di fronte alla fame nera che incombeva sul paese, decisero di affrontare il mare con tre barche. L’imprudenza fu devastante! Appena gettate le reti, un’onda tremenda li travolse scaraventando i loro corpi insieme ai loro legni negli abissi marini. San Pietro e San Paolo, assistendo alla drammatica vicenda, provarono pietà per gli sventurati marinai e li trasformarono in gabbiani, uccelli dalle splendide ali bianche, che si spingono al largo insieme ai loro amici pescatori.

I gabbiani che volano ancora oggi sul porto di Agropoli sono le anime dei pescatori defunti. Le geometrie dei loro voli, per chi sa leggerle, comunicano sempre l’arrivo del tempo cattivo, ma anche quello favorevole alla pesca lontano dalla costa.

Fin dalle prime esperienze lavorative sulle navi, i giovani marittimi accettano questa leggenda quasi fosse un lasciapassare… una sorta d’imprinting che accomuna i naviganti morti in mare a questi “spiriti con le ali” che accompagnano le navi, ma esigono amore e rispetto. Guai a molestarli, guai ad ucciderli.

Non è tuttavia escluso che anche tra i marittimi ci siano dei seguaci dell’Illuminismo… convinti che tutte le superstizioni abbiano origine dall’ignoranza, oppure siano nate quando il timore dell’ignoto prevaleva sulla ragione.

 

Il mio pensiero sull’argomento credo non interessi nessuno tuttavia, se provate un po’ di curiosità per la superstizione dei marinai, potete leggere questo mio ricordo che è legato ad un episodio accaduto in porto a Napoli.



Il VULCANIA in navigazione

IL VIAGGIO. Nei primi anni ’60 ero imbarcato come Allievo Ufficiale di coperta sul M/n VULCANIA, con circa due anni di navigazione compiuti sulla petroliera T/n NAESS COMPANION (Tank), M/n SATURNIA (Pax) e M/n Marco POLO (Pax). Eravamo partiti da Trieste (Home Port) e, toccati Venezia, Dubrovnik, Patrasso, Messina, arrivammo a Napoli per la penultima sosta in Italia.

Quel solito viaggio di linea prevedeva poi lo scalo a Gibilterra, una breve sosta in rada a Punta Delgado (Azzorre) per imbarcare i pescatori portoghesi impegnati nella campagna del merluzzo sui Banchi di Terranova. Dalle Azzorre il VULCANIA proseguiva sulla rotta ortodromica per Halifax (Canada), Boston e New York.

LA MANOVRA DI PARTENZA. Il VULCANIA era ormeggiato con il lato “dritto” al Molo Beverello del Porto di Napoli. Il pilota portuale arrivò via terra, quando due rimorchiatori avevano già il cavo al gancio, il più potente a prora e l’altro a poppa. La nostra prua anni ’20, verticale e tagliente, lambiva i “cavi alla lunga di poppa” di una nave passeggeri greca, anch’essa in partenza, senza rimorchiatori e con il pilota a bordo. Le due navi erano quindi vicine ed avevano entrambe la prora rivolta verso l’imboccatura del porto. Sarebbero quindi uscite in convoglio, una dietro l’altra. Molto probabilmente i Comandanti delle due unità avevano concordato con l’Autorità Marittima lo stesso orario di partenza dalla Stazione Marittima.


M/N VULCANIA a Trieste. Notare la disposizione dei cavi d’ormeggio.

Avevamo ormai mollato da terra gran parte dei cavi d’ormeggio, quando un gabbiano reale precipitò sull’aletta di plancia di dritta del Ponte di Comando, proprio sui piedi del Comandante Giovanni Peranovich che in quel momento discuteva la manovra d’uscita con il Pilota ed il Comandante in 2a Eugenio Danieli. Il volatile di grandi dimensioni stava volteggiando sulla nave quando, a detta di qualcuno, virò improvvisamente andando a colpire la draglia che unisce i due alberi della nave. Quel maledetto cavo d’acciaio, teso e di grosso diametro, gli aveva tranciato un’ala di netto.

L’incidente di volo avvenne sotto lo sguardo impressionato di molti passeggeri che erano assiepati sul Ponte Lance per assistere alla manovra. Il povero gabbiano tramortito aveva insanguinato non solo la postazione, ma anche la divisa del Comandante mentre un fortissimo odore di “bestino” aveva invaso il Ponte di Comando ed anche la Sala Nautica. Lo Stato Maggiore del VULCANIA proveniva dalla città giuliana e l’intercalare “MONA” si moltiplicò all’infinito per tutto il golfo di Napoli…. Il Comandante in 2a diede subito l’ordine di ripulire dappertutto e rivolgendosi al 1° Ufficiale Prossen gli sussurrò: “Sarà un viaggio del c….!”.

Il Comandante andò a cambiarsi la divisa e quando ritornò sul Ponte, vedendo che la nave greca era ancora in banchina, diede l’ordine: “MOLLA TUTTO A PRORA E A POPPA!”

Probabilmente, anche da bordo della nave greca, vedendo che il VULCANIA era ancora fermo, partì l’ordine “MOLLA TUTTO….!”

All’epoca non c’erano i Walkie Talkiee per le comunicazioni di manovra si utilizzavano i fischi che sbruffavano vapore dalla ciminiera.

Non si sa, se per volontà del destino… o del gabbiano, ma i fischi non furono emessi né sull’una, né sull’altra nave che nel frattempo si allargarono contemporaneamente…

Disponendo di due rimorchiatori in tiro e di uno scatto più potente, il VULCANIA, con la sua prestigiosa livrea di transatlantico “old fashion”, forzò l’andatura esattamente come fece il più lento paquebot greco che però era in posizione più avanzata. Il risultato della contemporanea manovra di disormeggio risultò sballato nella tempistica, infatti, le due navi in movimento si affiancarono, strisciando gli scafi e danneggiando pesantemente le rispettive lance di salvataggio. Decine di pastorali (tipiche lampade di bordo che illuminavano i ponti aperti di un tempo) furono scardinati e partirono come proiettili in tutte le direzioni. Persino lo scalandrone (scala reale), subì notevoli danni da schiacciamento. Non mancarono neppure le urla di terrore di quei passeggeri che rischiarono di essere feriti da nuvole di scintille sprigionate dallo sfregamento delle lamiere o persino di essere “decollati” da cime spezzate e scodinzolanti come fruste impazzite. L’equipaggio dovette lavorare anche di notte per rendere funzionante la Scala Reale per lo scalo successivo di Palermo.

Durante il Viaggio Atlantico verso gli States, l’incidente di manovra di Napoli rimase il più gettonato “articolo di fondo” delle salette equipaggio, sale e saloni passeggeri delle tre classi, ma non saprei dire se i superstiziosi l’abbiano avuta vinta sugli scettici… Tuttavia, per quanto mi riguarda, se a distanza di 55 anni ho riesumato questo ricordo, significa che in qualche “sentina” del mio cervello è rimasto un dubbio “esistenziale” più che razionale, che si specchia in quel celebre detto che distingue il genere umano in:

“I vivi, i morti e i naviganti”.


Una bella immagine del VULCANIA presa dal Ponte Lido dell’ANDREA DORIA nel 1954

Il Vulcania (nave gemella del Saturnia) fu un liner varato nel 1926. fu anche utilizzato come nave trasporto truppe e nave ospedale nella Seconda guerra mondiale.

l Vulcania fece il suo viaggio inaugurale partendo il 19 dicembre 1928 da Trieste sulla rotta Trieste-Patrasso-Napoli-Palermo-Gibilterra-Azzorre-Halifax-Boston-New York. Nel 1930 venne ristrutturato con modifiche ai locali passeggeri, oltre alla sostituzione, causa inaffidabilità, dei due motori Burmeister & Wain, costruiti su licenza a Trieste, con due Sulzer, sempre Diesel costruiti su licenza a Trieste. La stazza aumentò così a 24.469 tonnellate. Nel 1934 vi fu una nuova ristrutturazione dei locali passeggeri. Nel 1936 la nave venne trasferita, insieme al resto della flotta Cosulich, alla Società Italia di Navigazione. Nel dicembre dello stesso anno il Vulcania effettuò il suo ultimo viaggio sulla rotta Trieste- New York-Trieste.

PERIODO BELLICO

Nel 1941 il transatlantico fu requisito dallo Stato italiano per essere utilizzato come nave trasporto truppe nel Nord Africa . Nel 1942-'43, in accordo con le forze alleate iniziò il servizio di rimpatrio di civili internati (specialmente donne e bambini) e di soldati italiani feriti daall'Africa Orientale Italiana, con la protezione della Croce Rossa Interfnazionale. Per tali servizi vennero utilizzate anche altre navi della Società Italia: il Caio Duilio, il Giulio Cesare, e il Saturnia. A parte il Saturnia ed il Vulcania, le altre due navi vennero affondate a Trieste durante i noti bombardamenti alleati.

A seguito dell'armistizio dello 8 settembre 1943 il Vulcania imbarcò una parte degli allievi della Accademia Navale, che allora aveva sede a Brioni, per trasferirli in un porto della Puglia. A differenza del gemello Saturnia, il Vulcania non eseguì questa missione, essendo stato fatto incagliare. Fu quindi requisito ed utilizzato dai tedeschi.

Il 29 marzo 1946 il Vulcania fu noleggiato all'American Export Line per il servizio sulla rotta New York-Napoli-Alessandria d'Egitto-New York. Su tale rotta la nave effettuò sei viaggi, l'ultimo dei quali iniziò il 4 ottobre 1946 e terminò il 15 novembre 1946; venne quindi restituito alla Società Italia e condotto a Genova con scalo intermedio a Napoli. Il transatlantico subì massicci lavori e fu ricondizionato e riallestito. I locali passeggeri assunsero la seguente suddivisione: 240 passeggeri in I classe, 270 in cabina ed 870 in classe turistica. Nel luglio 1947 navigò sulla rotta Genova-Sudamerica ed il 4 settembre 1947 riprese il servizio sulla rotta Genova-Napoli-New York:; l'ultimo servizio iniziò il 21 settembre 1955 ed il 28 ottobre 1955 fu posto in servizio sulla rotta Trieste-Venezia-Patrasso-Napoli-Palermo-Napoli-Palermo-Gibileterra-Lisbona-Halifax-Boston-New York. L'ultimo servizio iniziò il 5 aprile 1965 ; al termine la nave fu venduta alla Siosa Grimaldi Line che la rinominò Caribia, destinandola alle crociere.

Il transatlantico venne radiato nel 1973 ; il 18 settembre dello stesso anno venne condotta a rimorchio nel porto di Barcellona. Da lì iniziò il suo ultimo viaggio, sempre a rimorchio, con destinazione la città dii Kaoshiung, nell'isola di Taiwan, dove iniziò la sua demolizione il 15 marzo 1974.

Tipo

Transatlantico

Proprietà

Cosulich Società Triestina di Navigazione, Trieste

Identificazione

161

Costruttori

Cantieri Riuniti dell'Adriatico

Cantiere

Monfalcone

Impostata

30 gennaio 1926

Varata

19 dicembre 1926

Entrata in servizio

2 dicembre 1928

Radiata

1973

Destino finale

Demolita a Taiwan nel 1974

Caratteristiche generali

Stazza lorda

23.970 tsl

Lunghezza

181,58 m

Larghezza

24,31 m

Altezza

14,17 m

Propulsione

Due motori diesel Burmeister&Vain

Potenza: 25.000 kW, due eliche

Velocità

19,4 nodi

Capacità di carico

8.330 TPL

Passeggeri

1780

I classe 310

II classe 460

Intermedia 310

III classe 700

 

Carlo GATTI

Rapallo, 21 Novembre 2016

 


GIA', MA AVEVO UN BEL FIATO

Già, ma avevo un bel fiato!



Già da piccolo avevo la passione per l’immersione in mare. Anche se a quel tempo l'acqua era limpida, avevo sempre gli occhi rossi, perché mi sforzavo di vedere i granchietti, i pesciolini colorati, e non mi sarei mai staccato da quella  barriera corallina, senza padrone, che sentivo mia. Allora le maschere da sub non c'erano, e se c’erano giravano al largo dalla mia proprietà…

Fino ai primi anni ‘50 non avevamo l'acqua corrente, allora mi lavavo nella bacinella e, prima di lavarmi, vi immergevo la faccia per allenarmi a resistere il più possibile. Durante la giornata lo facevo parecchie volte ed ogni volta nonna Memena, mi bussava alla schiena e mi diceva: "jsci..., mò t(e)  sfiet ..!" = (tira fuori la testa.. che così ti soffochi!).

Ma avevo escogitato un “sistema d’allenamento” che mi faceva incassare un regalo dalla nonna. Funzionava così: facevo una bella inspirazione e poi, espellendo l'aria  lentamente, emettevo un suono bestiale che durava veramente troppo, lo replicavo finché non diventavo cianotico...  Dopo due o tre disperati lamenti, la nonna ne aveva le scatole piene e per zittirmi mi sganciava  10  lire.

Quando poi era tempo dei bagni in mare, stavo più tempo sott’acqua, che sopra... Mi piaceva tanto, adoravo rimanere in apnea  perché entravo in contatto diretto con i miei amici  pesciolini che si fidavano al punto di  venire a mangiare tra le mie mani! Mi venne una bella cassetta toracica, piena di fiato che  mi serviva per andare a cercare le cozze, i cannolicchi e altro…

Già, ma avevo un bel fiato!

Dentro di me sentivo aumentare i limiti dei miei desideri. In pratica sognavo ad occhi aperti di realizzare qualcosa che somigliasse al “palombaro”  che si muove in verticale sul fondo, con scarponi zavorrati e che respira attraverso un tubo.


Cominciai a parlarne con un mio amico, e presto scarabocchiammo un progetto… I problemi erano tanti. Abitavo in una frazione dove non esisteva neanche un negozio, non avevamo soldi e, praticamente, nulla che ci servisse!

Già, ma avevo un bel fiato!


Innanzi tutto pianificammo di cominciare dai piedi… per riuscire a camminare sul fondale come i palombari.


Abitando vicino alla ferrovia, ci venne in mente di smontare quelle piccole piastre forate di ferro, che servivano per fissare il binario alle traversine di legno con 4 grossi bulloni. Bene! su queste fissammo dei vecchi zoccoli trovati sulla spiaggia.


Per respirare avevo adocchiato un tubo di gomma telata, poco più lungo di un paio di metri, che papà adoperava per travasare il vino dalla botte ai recipienti più piccoli... Solo che puzzava di vino e respirare quell'aria già ubriacava...


Cominciammo le prove usando il pattino di zio Giovanni.

Il sistema per restare e camminare sott'acqua, era perfetto. Ciò che non andava era il tubo perché, oltre alla puzza, arrivati ad una minima profondità, l'aria non arrivava più…

Già, ma avevo un bel fiato!

Quella è l'età della scoperta di tutto. Beato chi ha un maestro! Però se non lo hai, impiegherai più tempo, ci sbatterai a faccia.., ma alla fine riuscirai a scoprire, senza saperlo, principi importanti di fisica e  meccanica.

Così arrivammo a scoprire che con un solo tubo di un certo diametro, l'aria non faceva in tempo ad essere respirata e poi essere riemessa oltre una certa lunghezza del tubo! Ci sarebbe voluto un sistema: innanzitutto era necessario disporre di una maschera dove poter far circolare l'aria e da lì respirare.


Maschera antigas T.35

Le maschere che siamo abituati a vedere oggi, non esistevano, la plastica non era stata ancora inventata, però avevamo adocchiato una maschera antigas, della Seconda guerra mondiale, finita da non molto, che un vecchio aveva in un capannone e che faceva proprio al caso nostro.


Non passò molto che riuscimmo a rubare quella maschera e la nuova sfida fu di fare in modo che il tubo fosse interrotto nell'interno di essa. Non poche furono le difficoltà  per evitare che entrasse acqua, ma alla fine bene o male ci riuscimmo. Infilammo i due tubi dove c'era quella specie di proboscide dove aveva il filtro e siccome non avevamo niente di adatto all’uso perché il silicone non era stato ancora inventato, dopo ore di concentrazione, arrivammo alla soluzione “naturale” : la cera d'api, che chiedemmo ad un apicultore... La necessità aguzza l'ingegno!!!. Ora il problema grande era trovare qualcosa per poter pompare l'aria.


Gira e  pensa che ti ripensa... Alla fine vidi un soffietto a mantice, con due manici  di legno, con un mezzo metro di tubo di ferro che papà, prima della guerra, adoperava per dare lo zolfo alle viti!  Armiamo il tutto, andiamo dove l’acqua era un po’ alta, e io sul pattino dirigevo le operazioni. Legai con una cima di sicurezza il mio amico Renato, la cavia di tutti i miei esperimenti, non sempre riusciti… e, una volta immerso, comincio a pompare... ma dopo qualche attimo, vedo Renato emergere a razzo con gli occhi rossi, tossiva come se fosse intossicato. Lo calmai e lo feci rifiatare.

“Esaminiamo le cause” – dissi improvvisandomi esperto… “in quel soffietto, nonostante siano passati 15 anni, ci sono ancora tracce di zolfo! Eppure avevo pompato là dentro per giorni e giorni per togliere la polvere e la ruggine”.

Ricordo perfino di averlo messo sopra una pentola di mamma, dove bolliva l'acqua con tanto vapore, alla fine l'impianto era perfetto... Entrava un po’ d'acqua dalla maschera, ma riuscire a stare sott'acqua,  per diversi minuti a 3/4 metri, e poter giocare con i pesci, ha significato per noi la realizzazione di un sogno!

Ripensandoci oggi, è stato un prodigio realizzarlo con niente… Adesso basta andare in un negozio, con i soldi di papà e comprare il prodotto finito. Però non li invidio i ragazzi di oggi, drogati da quegli “affaretti” che hanno in mano e dai quali non tolgono mai lo sguardo, senza mai guardare in alto per vedere una nuvola: e chiedersi: perché corre? chi la spinge? dove va ?


Gia! Forse per questo avevo un bel fiato!

 

Nunzio CATENA

Rapallo, 19.11.2016



UN ABBRACCIO TRA GENOVA E ODESSA

CONFERENZA PALAZZO DUCALE GENOVA

7 ottobre 2016

 

Sabato pomeriggio Mare Nostrum Rapallo è stata ospite dell’Associazione LA MELA DI VETRO (Presidente Franco Andreoni) a Palazzo Ducale (Genova).

In sintesi il Programma:

- UN ABBRACCIO FRA GENOVA E L’UCRAINA allo storico gemellaggio GENOVA-ODESSA, agli antichi commerci genovesi in Crimea.

Agli scritti di IVAN FRANKO (il Dante Ucraino)

(1856-1916) Leopoli, letterato, scrittore, giornalista e politico.

IVAN FRANKO L’ARTE DELLA PAROLA. Poemi e storie a cura di Stefania Statchevic, Docente di letteratura ucraina. Pregevolissimo l’intervento di alcune signore in costume antico ucraino che hanno recitato poesie e dissertato sulla travagliata storia dell’Ucraina sotto la direzione di Elena Mikneieva, Lameladivetro per l’Ucraina. Stefania Lorusso, dirigente associativa.

- IVAN FRANKO: ricordi di mare a cura di Carlo Gatti. Non potevano mancare le navi della MORFLOT (passeggeri, petroliere e da carico) che da sempre hanno collegato le nostre nazioni.

Per questo argomento, sono state proiettate  27 immagini e raccontato episodi, aneddoti e situazioni di mare  che sono state apprezzate dal numeroso pubblico italo-ucraino, tra cui numerosi diplomatici di vari Paesi.

- I GEMELLAGGI FRA GENOVA E ODESSA a cura di Nuccio Schifano

- A conclusione della conferenza, LAMELADIVETRO ha offerto piatti tipici ucraini che sono stati molto apprezzati e graditi da tutti noi per la loro semplicità, genuinità e squisitezza.

Ringrazio i nostri soci che ci hanno seguito in trasferta, in particolare Marcella Rossi Patrone e suo marito Andrea che hanno fatto conoscere MARE NOSTRUM in questo contesto che ama l’Italia e gli italiani molto più di quanto gli italiani stessi ne siano consapevoli. Ringrazio il Presidente dell’Associazione Franco Andreoni con il quale mi complimento per l’ottima riuscita dell’incontro.

Ho quindi rivissuto di persona, con molto piacere, quel PERIODO in cui GENOVA e ODESSA avevano intensi scambi culturali, commerciali e turistici.

Segue l’intervento del Comandante Carlo Gatti,

Presidente dell’Associazione MARE NOSTRUM RAPALLO

Dopo aver navigato su petroliere, navi passeggeri e da carico, sono stato Comandante di Rimorchiatori portuali e d’altomare a Genova per oltre otto anni. Nel 1975 ho vinto il concorso da Pilota del Porto di Genova. Mi sono congedato nel 2000, dopo 33 anni di manovre.

RICORDI: Ne ho veramente tanti.

Cominciamo dai più seri: In tanti anni di professione, non ho mai fatto un danno con una nave della Morflot. Questo significa principalmente due cose:

A bordo ho sempre trovato un ambiente IDEALE. (fatto non sempre scontato)

Non mi è mai capitata una AVARIA alle macchine, al timone o altro.

Questi due evidenze delineano una grande serietà degli equipaggi e della organizzazione che c’era al loro interno.

Il ricordo tra i più significativi è sicuramente legato al Comandante Serghei Stepanov e alla sua nave passeggeri ODESSA. Conoscevo da tempo Serghei, avevamo la stessa età, (pochi giorni di differenza). La sua nave arrivava a Genova il sabato mattina e ripartiva alle 20.00 per la crociera di una settimana nel Mediterraneo. (Barcellona-Tunisi….).

Quel giorno, ormeggiata l’ODESSA a Ponte dei Mille, Serghei mi disse:

“potresti venire con noi” – “Dove?” - Risposi – “In crociera” – Insistette.

“Ma cosa racconto a mia moglie?” – “Vai a Rapallo, la prendi e stasera si parte!”.

Beh! Non me lo feci dire due volte. Organizzai tutto ed alla sera partimmo con il pilota già a bordo che non sarebbe sbarcato sull’imboccatura del porto, ma avrebbe proseguito per una vacanza che non era in programma. I miei colleghi di guardia dimostrarono molto fair play salutandoci con una serie di fischi più o meno lunghi ….dall’invidia.

Avevo un grande feeling con Serghei! Ma tra il 19 gennaio 1990 e il 26 dicembre 1991 accadde quel che tutti sappiamo: La dissoluzione dell'Unione Sovietica, che fu il processo di disintegrazione che coinvolse il sistema politico, economico e la struttura sociale sovietica.

La nostra amicizia fu quindi vittima di quel ciclone geo-politico …

Ho sempre sperato d’incontrarlo a bordo di qualche altra nave ucraina, ma passarono quasi dieci anni e non lo rividi più.

La nave passeggeri ODESSA era la più elegante della Flotta del Mar Nero, ma non riuscì neppure essa a salvarsi da un lunghissimo sequestro nel porto di Napoli per insolvenza nei pagamenti di creditori italiani. Seguii con tristezza la vicenda e seppi che al comando non c’era più Serghei Stepanov ma il Comandante Lebanov.

Un altro mio simpatico ricordo è legato al Comandante della nave passeggeri SHOTA RUSTAVELI, purtroppo non ho presente il nome, ma ricordo che era un’autentica “sagoma”. Parlava bene l’italiano e ogni due parole diceva belin… era sampdoriano e quando la SAMP giocava a Genova correva allo stadio Marassi. Persino in manovra indossava la sciarpa della Samp e non sembrava davvero un UCRAINO, ma un super tifoso della “gradinata Sud”, insomma era uno di loro… (io sono genoano), che tifava per il famoso giocatore sampdoriano: l’ucraino Pietro Vierchowod (denominato lo ZAR).

Fin dall’inizio della mia carriera avevo imparato a dare gli ordini nella lingua russa, avevo fatto anche un corso… e conoscevo parecchie frasi per cui a bordo mi attiravo sorrisi e simpatie.

Le navi da carico e le RO-RO russe entravano in porto alla mattina  presto per essere ormeggiate ed operative in banchina quando imbarcavano i portuali  (mani chiamate alle 06.00).

Finita la manovra avevo sempre un “simpatico” problema da risolvere. Il Comandante mi trascinava in cabina davanti ad un enorme vassoio di tartine burrate coperte di ottimo salame delle steppe, ma anche di squisito caviale. Ma prima d’iniziare la colazione, secondo lui, era imperativo preparare lo stomaco e la testa… con una VODKA “Moskovskaya” ghiacciata.

La situazione a volte era disperata: il mio stomaco vuoto, che era quello di un irriducibile astemio, si sforzava educatamente di minimizzare il rifiuto. Gli facevo ascoltare la mia radio di servizio che urlava il mio nome da tempo stato destinato all’entrata di un’altra nave, che aveva salpato ed era pronta, ancora in cubia, in attesa del pilota…

Il Comandante mi guardava con lo sguardo truce e pieno ci compassione per chi non riusciva a tenere il suo passo di uomo duro e virile.

Punto nell’orgoglio alzavo il bicchiere e via:

ваше здоровье (vaše zdorov'e)!!!

Finita la cerimonia chiamavo la pilotina sperando nella fresca tramontana... per recuperare il mio profumo naturale…

A volte capitava uno stacco di tempo tra una nave e l’altra, ed era anche piacevole rimanere in sua compagnia. I Comandanti ucraini sono molto acculturati e dell’Italia conoscono la storia, la letteratura e la musica sicuramente meglio della media degli italiani.

Se la manovra era stata difficile a causa del vento, e il Comandante era soddisfatto del lavoro svolto, me ne ritornavo in torretta con la bottiglia di Vodka: Moskovskaya o Stolichnaya, ma in casa mia non mancava mai il vasetto di caviale e la Chakta (granchi del Kamchatka).

Tra i Piloti italiani e i Comandanti ucraini c’é stato un cordiale rapporto di lavoro e anche di amicizia. Genova e Odessa sono gemellate soprattutto dalla loro STORIA. Odessa (1979 anno del gemellaggio ufficiale).

La regione di Odessa era abitata anticamente dagli sciti ed è probabile che proprio qui fosse stata fondata una colonia greca chiamata Odessos. Terra attraversata dai popoli migratori a partire dal III secolo d.C., temporaneamente sotto l'influenza polacca e lituana, dopo la grande invasione del 1241 divenne in possesso dei tatari che vi eressero l'insediamento di Haçi-Bey. Nel 1529 questa zona venne invasa dagli ottomani, sotto cui rimase fino alla guerra russo-turca degli anni 1787-1791.


Via Richelieu - Cartolina del XIX secolo

La città di Odessa venne fondata ufficialmente nel 1794 dalla Russia nel territorio perso dalla Turchia nel 1792 . La fortezza turca di Yeni Dünya divenne il principale porto russo sul Mar Nero col nome di Odessa (Одесса). La città crebbe velocemente sotto il governatorato del Duca di Richelieu negli anni 1803-1814. Nel 1819 Odessa divenne un porto franco e tale rimase fino al 1879. In questo lungo arco di tempo la città si affermò come importante centro di scambi commerciali e zona di transito tra Europa e Asia, da un carattere squisitamente cosmopolita. Durante la guerra di Crimea (1853-1856), la città venne pesantemente bombardata dalla Marina inglese e francese. In seguito riprese nuovamente a crescere e svilupparsi in quanto principale porto russo per l'esportazione dei cereali. Nel 1866 venne collegata da una linea ferroviaria a Kiev e Kharkiv in Ucraina e Iasi in Romania.


La biblioteca tra il 1890 e il 1900

Nel 1905 la città divenne luogo della rivolta operaia sostenuta dall'equipaggio della corazzata POTEMKIN e dalla rivista leninist Iskra. Durante la Rivoluzione russa del 1917 Odessa venne occupata dal Comitato Centrale Ucraino, dall'esercito francese, dall'Armata Bianca e dall'Armata Rossa. Quest'ultima prese possesso della città nel 1920, annettendola poi all' Unione Sovietica.

Nel 1847 in questa città è morto Vasil Evstatiev Aprilov, scrittore e patriota bulgaro.

Il detto - di autore anonimo - "Genuensis, ergo mercator", ossia "Genovese quindi Mercante" - fu mirabile sintesi di quel mercanteggiare così famoso nel mondo sul quale i genovesi basarono un impero coloniale fondato su Colonie d'oltremare che andava dall'Irak all'Isole Canarie, dall'Inghilterra alla Palestina (raggiunta fin dalla prima crociata), racchiudendo nel proprio pugno tutto il Mar Mediterraneo occidentale e il Mar Nero, definito il Lago genovese, e tenendo testa quando non ponendo sotto il proprio controllo tre imperi: quello Svevo, quello Bizantino e quello Asburgico, del quale ultimo i genovesi controllavano l'economia ed il commercio. Caffa, Solcati, Tana, Chio, Focea, Mitilene, Pera non sono che alcune fra le tante Genova che i mercanti della Superba fecero risplendere nei commerci.

La città di Odessa ha una storia strettamente legata all'Italia. Infatti gli italiani sono menzionati nel Duecento per la prima volta, quando sul territorio della città odierna fu ubicato l'ancoraggio delle navi genovesi. La nuova affluenza degli italiani nel Sud dell'Ucraina crebbe particolarmente con la fondazione di Odessa.

Agli inizi dell'Ottocento la comunità italiana cominciò ad avere un ruolo importante nella vita pubblica e commerciale della città. La Lingua Italiana iniziò a diffondersi e con il passare del tempo entrò nella sfera delle comunicazioni degli uomini d'affari.

All'inizio del XIX secolo la colonia italiana era composta in primo luogo da commercianti, marinai e militari in servizio nell'Armata russa.

L'architetto italiano Francesco Boffo (1790-1867) fu capo architetto del comune di Odessa per oltre 40 anni, contribuendo alla trasformazione di Odessa in un vero museo a cielo aperto dell'architettura neoclassica e neorinascimentale italiana, rivaleggiando con San Pietroburgo nel nord dell'Impero russo. La sua opera più famosa è la scalinata Potemkin, oltre a circa 30 palazzi ed edifici pubblici.

CLASSE IVAN FRANKO

M/n. IVAN FRANKO

M/n TARAS SCHEVCHENKO

M/n MARCO POLO ex PUSKIN

M/n ODESSA

M/n MAKSIM GORKY

M/n MAKSIM GORKY

Gorbachev and Bush about to share a meal on board the Soviet cruise ship Maxim Gorky, Marsaxlokk Harbour, Malta 2-3 dicembre 1989

Carlo GATTI

Rapallo 31 Ottobre 2016

 

 


IL COMPLEANNO DELLA LUNA

IL COMPLEANNO DELLA LUNA

 

Una festa così non si ripeterà mai più, almeno per qualche miliardo di anni. Ed io c'ero. Plenilunio di marzo, Oceano Atlantico, mare d'inchiostro e d'argento, cielo terso e teso come un fondale per la prima attrice: la Luna. Mai stata così sfavillante, con una corona di luce intorno, eppure nitida, con le sue macchie misteriose ed i suoi mari d’ombra.

La nave fendeva il mare nero in due baffi luccicanti, carica di luci, suoni e gente festante. Voi credete che qualcuno, su quella nave, alzasse il naso in aria e si accorgesse dello spettacolo naturale? No, no cari miei. Chi lavorava, chi danzava, chi dormiva, nemmeno un curioso intorno. Nel grande salone si festeggiavano i diciotto anni della figlia di un industriale americano e di una aristocratica francese. Tutti i passeggeri vi partecipavano: chi per invito, chi per curiosità mondana. I camerieri e gli orchestrali erano indaffaratissimi per non scontentare nessuno (cosa difficile quando si lavora con gente capricciosa).

La Luna guardava giù con una punta d'invidia: diamine, per diciotto anni di vita, una festa da favola! A lei, in miliardi di anni, nessuno aveva mai mandato un mazzo di fiori con la scusa che magari sarebbero seccati subito. D'un tratto si ricordò che sì, era anche il suo compleanno, perché, proprio il 15 marzo di quindici miliardi di anni fa, era nata lei. Allora incominciò ad agitarsi per attirare l'attenzione: concentrò due o tre raggi di luce verso il salone delle feste, che si rischiarò in modo straordinario, ma gli ospiti pensarono ad un gioco di riflettori ed applaudirono il comandante. La Luna s'imbronciò, chiamò dal Polo alcune nubi e le pregò di nascondere la sua luce. Mare e cielo si fecero tetri e foschi, la nave indifferente proseguì nel buio, anzi per un attimo sembrò più bella, con tutte le sue luminarie. Allora la Luna pregò le nuvole di lottare tra loro e produrre fulmini e saette, che si abbatterono sulla nave come riso sugli sposi. Un fulmine colpì il generatore di corrente e fece saltare l'impianto elettrico. Buio dentro e fuori. Un coro sommesso di sorpresa, qualche urlo, poi silenzio dentro e fuori. La nave era ferma sull'Oceano, la gente si guardava intorno e la Luna lassù, contenta di aver finalmente un po' di attenzione, cominciò a spogliarsi dei suoi veli e riapparve in tutta la sua bellezza. «Com'è bella!» «Com'è luminosa!» «Non mi stancherei mai di guardarla!» mormora qualcuno. Un bambino allungò il braccio. «Mamma, voglio la Luna» esclamò. «Non sei il primo» rispose la mamma, «ma è impossibile anche toccarla. Noi siamo qua e lei è là, non c'è strada tra noi e lei». Il bambino voleva la Luna, la Luna voleva una festa come si usa tra gli uomini.


Come fare? Quella notte la Luna era veramente la regina del cielo. Pregò le stelle così: «Stelle, amiche eterne delle mie notti, stelle voi siete tante. Non vi ho mai disturbato, non abbiamo mai litigato. Oggi è il mio compleanno, il centocinquantamiliardesimo compleanno, fatemi un regalo. Fate in modo che quella gente possa raggiunger mi per festeggiarmi!». Le stelle si intenerirono e tutte insieme si riunirono a formare una scala, che dalla Luna scendeva fin sulla nave. Non vi posso spiegare la luminosità e la magia di quella notte. Provate a chiudere gli occhi e richiamate alla mente il brillio di diamanti, zaffiri e rubini a migliaia. No, ancora non ci siamo. L'oro del mare a mezzogiorno, il silenzio della neve all'alba, il luccichio degli occhi di un bambino felice, risvegliano in me le emozioni di allora. Cominciammo tutti a salire, prima timorosi, poi sempre più veloci e sicuri verso la Luna.

La scala era lunghissima, ma per niente faticosa e in breve tempo fummo tutti lassù. Il bambino si divertiva un mondo a saltare e volteggiare come un palloncino pieno d'aria. La ragazza diciottenne offrì alla Luna i fiori che aveva tra i capelli e la Luna la ricambiò con polvere lunare da usare come cipria nelle occasioni importanti, perché dà una luminosità setosa alla pelle. Insomma fu uno scambio generale di auguri, doni reciproci, battimani, tappi di spumante che saltavano in tutte le direzioni; anzi, se vi capita di passare di là ce li trovate ancora, perché non siamo riusciti a raccoglierli tutti. Io suonai con il sassofono «Ma tu, pallida luna, perché...» e lei si commosse moltissimo e forse fece qualche magia al mio sassofono, perché ancora oggi ho un grande successo quando suono canzoni dedicate alla Luna. Nessuno le suona meglio di me.

L’alba ci sorprese festanti ed emozionati e ci costrinse ad un ultimo brindisi sulla scala di stelle, mentre tutti insieme cantavamo: «Buon compleanno Luna» e lei ci accarezzava con i sui raggi d’argento per ringraziarci.

Ada BOTTINI

Rapallo, 17 Ottobre 2016