HEDY LAMARR, ATTRICE E GENIO DELLE TELECOMUNICAZIONI

UN PO’ DI STORIA DEL CINEMA CHE POCHI SANNO

L’AFFASCINANTE STORIA DI

HEDY LAMARR

UN GENIO NELLA TELECOMUNICAZIONE

 

di Ernani Andreatta originale di Peter Dally di Sidney

Traduzione di Carlo Gatti ed Ernani Andreatta

Nel 1933, una bella, giovanissima austriaca si spogliò per un regista. Corse nei boschi, nuda. Nuotò in un lago, nuda. Andando ben oltre i costumi sociali dell’epoca.

Il più popolare film del 1933 fu King Kong. Ma tutti a Hollywood parlavano di quel film scandaloso con la giovane e vistosa signora austriaca.

Louis B. Mayer, dell’immenso studio MGN, affermò che essa era la donna più bella del mondo. Il film fu pubblicizzato praticamente dovunque, dove naturalmente poteva diventare popolare e apprezzato. Mussolini, secondo quel che si dice, rifiutò di vendere la sua copia per qualsiasi cifra…

La STAR del film, chiamata Ecstasy, era Hedwig Kiesler. Essa disse che il segreto della sua bellezza era: "Qualsiasi ragazza può apparire meravigliosa. Basta che stia ferma e sembri stupida".

In realtà, Kiesler era tutt’altro che stupida, anzi era un genio. Era figlia unica di un famoso banchiere ebreo ed era un genio matematico che eccelleva nelle scienze. Quando fu adulta diventò inossidabile usando tutto il potere che le potevano dare il suo corpo e la sua mente.

Tra i ruoli sexy da lei interpretati, recitò con la sua esuberante bellezza e la forza del suo intelletto, Kiesler avrebbe mandato in rovina gli uomini della sua vita inclusi due dei più inossidabili dittatori della  20th century, nonché uno dei maggiori produttori cinematografici della storia.

La sua bellezza la fece ricca per un po’ di tempo. Di lei si disse che guadagnò e spese 30 milioni di dollari.

Ma il suo vero talento risultò provenire dal suo intelletto e la sua invenzione continua a “disegnare” il mondo in cui oggi viviamo.

Vedi, questa giovane attricetta avrebbe preso da sotto il naso di Hitler, uno dei più preziosi diritti tecnologici mai sviluppati fino ad allora.

Dopo essere volata in America, non solo diventò la più famosa attrice di Hollywood, ma il suo nome comparve su uno dei più importanti Brevetti mai rilasciati dall’U.S. Patent Office.

Oggigiorno, quando usi il tuo cellulare, o quando sperimenterai nei prossimi cinque anni, in base alla tua esperienza di “super-fast wireless Internet access (tramite qualcosa che si chiama “long term evolution” oppure “LTE” technology), ebbene, sarà usata una estensione tecnologica concepita per la prima volta da una attrice di 20 anni mentre era a pranzo con Hitler.

In quel momento essa recitava Ecstasy, la Kiesler era sposata con uno dei più ricchi personaggi in Austria. Friedrich Mandl era un magnate dell’industria bellica che sarebbe diventato la chiave di volta dei rifornimenti bellici del nazismo.

Mandl usò la bellezza della sua giovane moglie da mostrare come pezzo forte in un importante pranzo d’affari con rappresentanti austriaci, italiani e forze fasciste tedesche. Uno dei temi principali in queste riunioni che includevano cene con Hitler e Mussolini, fu la tecnologia che riguardava il controllo radio dei missili e dei siluri.

Le armi telecomandate assicuravano un maggior raggio d’azione rispetto agli altri sistemi usati a quell’epoca.

La Kiesler partecipava a questi pranzi sembrando stupida mentre al contrario “assorbiva” tutto ciò che sentiva.


Essendo ebrea, Kiesler odiava i nazisti e detestava gli ambiziosi affari del marito. Mandl rispose alla sua capricciosa moglie imprigionandola nel suo castello, Schloss Schwarzenau.


Nel 1937 essa tentò la fuga. Drogò la sua domestica, le rubò i vestiti e sgusciò via dal castello, poi vendette i suoi gioielli per finanziarsi il viaggio verso Londra.

Fece giusto in tempo a scappare. Nel 1938, la Germania annesse l’Austria. I nazisti confiscarono la fabbrica di Mandl che era mezzo ebreo. Mandl volò in Brasile. Più tardi divenne il consigliere del presidente Juan Peron, icona del populismo.

A Londra, la Kiesler combinò un incontro con Louis B.Mayer con il quale firmò un contratto a lungo termine diventando una delle più famose STAR della MGM. Apparve in oltre 20 films diventando co-star di Clark Gable, Judy Garland e persino Bob Hope. In ciascuno dei suoi primi sette film fu considerata una bomba ad alto potenziale...per la risonanza riscontrata.

Ma la Kiesler, per combattere i nazisti, guardò più lontano e non soltanto interpretando film erotici. Raggiunto il massimo della sua fama, nel 1942 sviluppò un nuovo sistema di telecomunicazioni ottimizzando l’invio di messaggi in codice che non potevano essere decifrati. Mise in pratica un sistema-guida di siluri e bombe che erano in grado di raggiungere i loro obiettivi. Fu in grado di costruire un sistema per uccidere i nazisti.

Dagli anni 1940, sia i nazisti che gli alleati stavano usando una specie di singola frequenza per il controllo-radio che l’ex marito della Kiesler

aveva prodotto e venduto. Il ritiro di questa tecnologia permise al nemico di trovare la frequenza giusta per intercettare il segnale di guida del missile con interferenze adeguate.

La chiave innovativa di Kiesler consistette nel “cambiare canale”. Questo fu il modo di codificare un messaggio attraverso una banda larga nello spettro delle trasmissioni radio. Se una parte dello spettro subiva interferenze, il messaggio riusciva a passare comunque attraverso le altre frequenze usate nello stesso canale.

Ma c’era un problema: la Kiesler non riusciva a capire come poter sincronizzare il cambio di frequenze su entrambi il ricevitore e il trasmettitore. Per risolvere il problema si rivolse al primo tecno-musicista al mondo: George Anthiel.

Anthiel era un conoscente della Kiesler che acquisì una certa notorietà per la creazione di complesse composizioni. Egli sincronizzava le sue melodie attraverso 12 pianisti producendo suoni stereofonici che nessuno aveva mai ascoltato prima. La Kiesler assimilò la tecnologia per sincronizzare il suo. Poi fu in grado di sincronizzare i cambi di frequenza tra il ricevitore dell’arma ed il suo trasmettitore.

L’11 agosto 1942 fu assegnata la PATENT N° 2,292,387 ad “Anthiel e a Hedy Kiesler Markey”, che era il cognome del marito di quel momento.

La maggior parte di voi non riconoscerebbe il nome Kiesler. E nessuno ricorderebbe il nome Hedy Markey. Ma é una facile scommessa, per chiunque di una certa età che legge questa lettera, ricordare una delle più grandi bellezze dell’epoca d’oro di Hollywood, Hedy Lamarr. Il nome che il regista Louis B. Mayer diede alla sua preziosa attrice. Quel nome che la Compagnia cinematografica rese famoso.


Mentre quasi nessuno conosce Hedwig Kiesler,  Hedy Lamarr,  fu una delle pioniere delle radiotelecomunicazioni. La sua tecnologia fu sviluppata dalla Marina degli USA che la usa fin d’allora.

In questo momento tutti noi stiamo probabilmente usando la Tecnologia Lamarr. Il suo Brevetto é situato presso la “Spread Spectrum Technology”, che usiamo ogni giorno quando ci colleghiamo  alla rete wi-fi o facciamo  delle chiamate con il cellulare abilitato Bluetooth.

Hedy Lamarr è nel cuore di tutti i massicci investimenti nella cosidetta quarta generazione “LTE” (Long Term Evolution) cioè l’evoluzione a lungo termine di queste tecnologie della comunicazione senza fili. La prossima generazione di telefoni cellulari  o di ripetitori di cellulari, sicuramente genereranno un enorme ed esponenziale aumento sulla qualità e velocità delle reti di  trasmissione diffondendo i segnali senza fili attraverso l’intero spettro disponibile. Questa specie di “decodifica” è possibile soltanto usando quel tipo di commutazione di frequenza che “Hedwig Kiesler”, al secolo la bellissima  “Hedy Lamarr”  inventò.

Ed ora sappiamo il resto della storia!

Memory di Ernani Andreatta:

Ed io personalmente ricordo benissimo questa bellissima e affascinante attrice che era HEDY LAMARR nei film proiettati al Teatro Cantero di Chiavari.

 

 

Rapallo, 12 luglio 2018

 


A L'EA GENTE NAVEGÂ,..

A L'EA GENTE NAVEGÂ ...

 

Le coste italiane hanno uno sviluppo complessivo di 7.456 chilometri per cui si dice che gli italiani siano "NAVIGATORI" oltre che poeti ed eroi ed altro.  Il concetto compare sulla facciata del Palazzo della Civiltà Italiana o "COLOSSEO QUADRATO" a Roma.

MA IO HO UN'ALTRA OPINIONE!


 

La maggior parte degli italiani ancora nel XX secolo non avevano mai visto il mare:

gente dell’entroterra, di pianura, di campagna e di montagna che ne sentiva certamente parlare senza capire bene cosa fosse… interpretandolo, fin dai tempi più lontani, come la via d’accesso più insidiosa a pirati e razziatori da cui occorreva difendersi arroccandosi nel più profondo interno sulle colline tra mura e bastioni armati. Gente di terra che non temeva il maestrale, il libeccio e le tempeste atlantiche… perché non sapeva neppure come immaginarli …

Per i nostri avi, gente della costa, il mare era invece l’unica via di scampo per sopravvivere: l’amico-nemico che fin da piccoli si doveva imparare a rispettare e farselo amico per necessità; era l’orco marino con cui si giocava senza prendersi troppa confidenza perché aveva un carattere imprevedibile: voleva essere ossequiato e temuto perché lui percepiva e gradiva l’odore dei marinai veri. Un tempo si diceva:

Il buon marinaio lo si vede nella burrasca!

Il mare ha sempre punito i suoi sfidanti, quelli con la mentalità da tempo buono, arroganti e saccenti che fin dai tempi antichi costruivano navi, dighe e porti pensando al “mare forza olio”….

Purtroppo questa genia esiste ancora!

 


Verso Capo Horn...

Da grandi poi occorreva immaginarlo sempre incazzato e furioso. Da prevenuti e guardinghi si era sempre pronti ad affrontarlo con le armi create con l’esperienza dei “sopravvissuti” ai naufragi, alle demolizioni d’interi pezzi di costa, a paesi spariti insieme alle case e i rifugi delle imbarcazioni.

Gente dell’entroterra “condannata” a vivere nelle nebbie di pianura tra le dolci colline o sui monti innevati; gente di mare “condannata” a guardare oltre l’orizzonte per scoprire l’ignoto e conquistarlo per trovare qualcosa che valesse più di quella terra dura da arare e da domare negli esigui spazi tra i muretti a secco.

Pensieri diversi, mentalità talvolta opposte: di apertura e di chiusura, di coraggio estremo nell’affrontare l’ignoto marino, o di paura sulla terraferma per le improvvise guerre fratricide. Orizzonti diversi che hanno forgiato due razze diverse, due Italie che forse non si sono mai capite… non per odio, ma per un destino diverso che li ha posti su pianeti diversi.

Non occorre andare troppo distanti nel tempo. Allora parliamo dei nostri nonni che vissero a cavallo dell’800-900 quando nel Nord Italia si affacciò la Rivoluzione Industriale portando l’elettricità, i prodotti chimici ed il petrolio che sconvolsero il sistema economico e sociale nel suo insieme: una gtrasformazione che dura ancora oggi.

Ma vi siete mai chiesti da quanti secoli la gente della costa costruiva navi per solcare gli oceani e, in modo del tutto autonomo, era impegnata in una rivoluzione industriale indipendente che progrediva sia sul piano civile che militare per tenersi al passo degli altri Paesi concorrenti di tutte le sponde?

Eminenti storici ci hanno tramandato: nei secoli XIII e XIV, i Rapallini svilupparono una rilevante attività commerciale-marittima, soprattutto col Levante, ad opera della numerosa colonia rapallese dislocata a Cipro. In essa emersero naviganti, armatori e commercianti dai nomi ormai dimenticati: i Ruisecco e i Pastene. Un Domenico Pastene (fine del ‘300) diventa il più grande commerciante dell’isola, viaggia molti anni in Egitto, Siria, Asia Minore, Mar Nero, sino al golfo Persico, inviando interessanti relazioni diplomatico-commerciali alla Repubblica di Genova, lasciando infine tutte le sue ricchezze al Banco di San Giorgio. E Rapallo manda persino sulle rive del Lago di Ginevra un Sacolosi ed un Andreani, quali maestri d’ascia per la costruzione di galee sabaude. Pure alla fine del ‘300 un Antonio Colombo di Rapallo è Comandante di galee.

Durante il 1400 un rapallese è consacrato alla storia quale esperto comandante di armate navali: è l’ammiraglio Biagio Assereto, vincitore della battaglia di Ponza, la più grande del secolo XV. Tra gli uomini illustri assume particolare rilievo Giovan Battista Pastene, Almirante del re di Spagna, Pilota Major do Mar do Sud, fondatore di Valparaiso (1544). A questo punto si devono ricordare: Bartolomeo Canessa, Capitano di galeazza con Patente di corsa della Repubblica Genovese; Agostino Canevale, Comandante della galea Lomellina alla battaglia di Lepanto e Gio Bernardo Molfino, Capitano della fregata Il Cacciatore, che a metà del ‘600 corseggiava nei mari del Levante. Pressappoco alla medesima epoca, gli abitanti del Capitanato di Rapallo elargiscono una forte somma per la costruzione di una nuova galea, da incorporarsi col nome di Santa Maria del Monte Allegro, nella flotta genovese.

Durante il periodo conosciuto come “l’Epopea della Vela”, Rapallo diede figure eminenti di Capitani di Lungo Corso, da Emanuele a Giacomo Bontà, a Pietro Felugo e a Cap. Agostino Solari, da Agostino G. B. Macchiavello a Valentino Canessa e a Biagio Arata (comandante di grandi velieri in lunghe navigazioni oceaniche), tutti valenti navigatori sulle rotte oceaniche mondiali. Parecchi rapallesi si contavano anche fra gli equipaggi della Real Marina Sarda.

Génte navegâ …. Questa espressione rimasta nell’uso comune si riferisce ancora all’esperienza internazionale della nostra antica “gente di mare”, veri ambasciatori sparsi nel mondo, Comandanti che sapevano come procurarsi i noli entrando nella politica non solo economica del Paese che li ospitava, ma facendosi apprezzare fino a diventare agenti diplomatici, consoli e consiglieri di Governi.

Questa gente “navegâ” portava in patria informazioni “reali ed affidabili” su risorse naturali da esportare ed importare, notizie su rivoluzioni in corso e sulle varie instabilità che si alternavano con molta frequenza. I nostri equipaggi erano i media dell’epoca, osservatori privilegiati che portavano alla luce scenari altrimenti sconosciuti in Europa. Padri Comandanti che iniziavano i figli alla navigazione tenendoli a bordo quattro anni per lasciargli il Comando, per poi rientrare a casa ed aprire Cantieri Navali e Società di navigazione.

Questa era la gente navegà! Gente che parlava tutte le lingue del mondo marittimo, che conosceva la storia, la geografia e l’economia del mondo di allora. L’esempio tipico di persona navegà é sicuramente Giuseppe Garibaldi, la punta di un immenso iceberg umano se pensate che la sola Camogli armò 1200 velieri e non fu un caso che l’Eroe dei due mondi staccasse il proprio libretto di navigazione su un veliero di Camogli:

Non c’é famiglia nella nostra Riviera di Levante che non abbia o non abbia avuto parenti in Cile e in Perù. Di una cosa siamo certi: occorreva essere uomini di ferro prima che grandi marinai. Quella di Capo Horn fu un’EPOPEA che dovette pagare un prezzo molto alto: due/tre velieri su cinque affondavano; si parla di oltre 800 navi e di 10.000 persone perse in quel mare.

I primi marinai che emigrarono in Sud America furono i nostri avi che per un motivo o per l’altro (paura di ripassare Capo Horn, malattie, incidenti di navigazione ecc....) non rientrarono più a bordo, in pratica si stabilirono nelle principali città del Sud Pacifico e diedero vita ad attività di pesca e vendita del pescato, altri si diedero all’agricoltura, altri ancora diventarono commercianti aprendo negozi o magazzini (ALMACIEN). I più fortunati e intraprendenti iniziarono con piccoli laboratori artigianali che divennero via via fabbrichette sempre più importanti le quali fecero nel corso degli anni da calamita per tanti loro parenti amici che poi lasciarono la Liguria in cerca di fortuna.

A metà ‘800 si passò dal romanticismo dei “Capitani Coraggiosi” ad una classe di professionisti. In quel secolo, quasi ogni paese della Riviera di levante ha ospitato un cantiere navale di piccole o grandi dimensioni, in un angolo del proprio litorale. Molti furono, quindi, i velieri, i pinchi, le tartane, i leudi e i gozzi che nacquero sotto gli occhi dei “mastri geppetto” che, da queste parti, si chiamano maestri (mastri) d’ascia. Il loro ricordo, per fortuna, si perpetua ancora attraverso qualche raro figlio o nipote che professa questa arte, quasi di nascosto, con la stessa maestria di un tempo.

Lungo la passeggiata a mare di Rapallo, prima di arrivare al monumento di Colombo, sorgeva un cantiere navale che nel 1865 raggiunse una notevole importanza. Vi si costruirono non solo tartane, golette e scune, ma anche grossi bastimenti oceanici di oltre 1000 tonnellate, quali l’Iside, l’Espresso, il Genovese, il Ferdinando, il Siffredi, il Giuseppe Emanuele ed il maestoso Caccin di 1500 tonnellate, sotto la direzione di grandi costruttori navali come G. Merello, Graviotto ed Agostino Briasco.

 


 


 

Rapallo ebbe anche una buona e frequentata SCUOLA NAUTICA che esisteva nel 1865, diretta dall’astronomo Salviati (vicino alla porta delle Saline n.d.r.).

Cantieri e Scuole Navali sorgevano dirimpettai, perché legati ai “bisogni” della nuova industria marittima che sentiva avvicinarsi il rombo del motore della Rivoluzione Industriale e quindi la necessità di essere pronti per il passaggio epocale dalla marineria velica a quella moderna in ferro e poi acciaio. Non ci si può quindi meravigliare se anche Rapallo, così vicina a Genova ed alla formidabile tradizione di Camogli, fosse presa dal vortice del rinnovamento e facendo riferimento sulla notevole tradizione dei suoi naviganti ed emigranti si candidasse come sede di una Scuola Nautica Privata che, infatti, ebbe il suo riconoscimento nel 1853 da parte del Ministero dell'Educazione Nazionale.

Le vicissitudini belliche del periodo pre-unitario rinviarono l'apertura della Scuola Nautica al 19.11.1861. Ma fu con l'arrivo del preside Edoardo Salviati che gli alunni salirono dall'esiguo numero di 12 agli 82 iscritti, dei quali il 50% erano residenti a Rapallo.

Ma non erano solo rose e nel 1869 una prima Commissione Governativa invitava l'Amministrazione ad assumere docenti che la potessero rendere “Un'Istituzione vera e seria e non un'illusione come lo è al presente”. Il rigore mostrato dal Governo funzionò e nel 1870-1871 Rapallo divenne sede di esame anche per conseguire il grado di Capitano di Lungo Corso.

Nel 1872-1873 la Scuola Nautica di Rapallo ottenne il tanto atteso Riconoscimento Governativo e raggiunse l'apice della sua esistenza. Un “Rapporto Elogiativo” redatto da Giovanni Ardito, Presidente della Giunta di Vigilanza ne rimarcò la crescita per numero di alunni, oltre 300 e per la promozione, 67%. La Scuola acquisì sussidi straordinari dal Ministero ed un posto di rilievo nel Levante, nonostante l'apertura delle scuole di Recco e Chiavari che erano temibili concorrenti rispetto al potenziale bacino d'utenza.

la Scuola continuò ad essere frequentata da un buon numero di allievi, ed il 14 febbraio 1875 fu dichiarata - SCUOLA GOVERNATIVA - e nel marzo 1876 - REGIO ISTITUTO NAUTICO -.

LA SVOLTA

Rapallo, città turistica già nota all’estero per le sue bellezze naturali e climatiche, fu una delle prime città a scegliersi un destino diverso: il turismo di élite, dotato di strutture alberghiere di altissimo livello. La sua rinuncia alla cantieristica navale fu quindi obbligata dall’impossibile convivenza tra il rumoroso scalo posto sul bagnasciuga e la tranquillità cercata dal turista proveniente dal nord, già pesantemente industrializzato e inquinato dai ‘fumi carboniferi’.

Il tramonto dei velieri rapallesi coincise, quindi, con le crescenti e svariate opportunità che il nuovo secolo andava dispensando. Spesso, i nuovi investitori sul turismo erano emigranti italiani di ritorno dalle Americhe che puntarono sulle località rivierasche, già pubblicizzate nelle Americhe per il clima da sogno, i bagni di mare, le escursioni culturali di arte profana e religiosa, l’arte eno-gastronomica, ma anche per quelle ludiche, con i celebri impianti dei campi da golf, tennis ecc...

Giunti a questo punto, corre l’obbligo di porci parecchie domande. Dove é finita questa immensa tradizione imprenditoriale? Dove é finito quell’enorme patrimonio umano di cui non si parla più ormai dal dopoguerra? Forse abbiamo perso la memoria di quello che eravamo? Perché siamo diventati quasi tutti “terrazzani”? Perché ci siamo “liberati” totalmente della nostra cultura e non riusciamo più a costruire NULLA di efficiente che sappia fronteggiare le nuove sfide del mare?

Oggi, purtroppo, assistiamo al crollo di dighe e di porti… la gente ha paura del mare e persino di sfruttare le vie di collegamento via mare con le località limitrofe. Ci siamo tuffati nel mare dell’assurdità consegnandoci ai grandi professori della parola, dei comunicatori, dei filosofi …. Quasi dimenticando chi siamo “dentro”!

Noi non abbiamo la competenza per rispondere a tutti questi temi. Altri lo faranno…

Noi, come Associazione MARE NOSTRUM RAPALLO , con la blasonata rivista mensile IL MARE, oggi MARE NEWS che ci dà ospitalità, da circa trent’anni tentiamo di tenere accesa la fiaccola della MEMORIA, convinti come siamo che solo in essa possiamo ritrovare I NOSTRI PERDUTI VALORI.

 

Carlo GATTI

L'articolo é stato pubblicato nel mese di Marzo 2020 sul

MARE NEWS

Rapallo

 


ANCHE NOI PARLIAMO DI ORCHE ...

ANCHE NOI PARLIAMO DI ORCHE ...

Non siamo degli esperti, ma credo che neppure tutto ciò che si sente e si legge su questi cetacei provenga da gente illuminata…

Tuttavia, tra breve, prendo in prestito da FOCUS che ringrazio, 10 punti che mi sembra gettino non solo un po’ di luce sulla misteriosa apparizione di quattro orche fuori del porto di Voltri-Pra, ma ci aiutano a capirne di più su questi mammiferi dalla pessima fama  del tutto gratuita … Ricordate il film “L’ORCA ASSASSINA”?

Di recente una scienziata ha dichiarato che non risulta da alcuna statistica al mondo che un’orca abbia attaccato un essere umano.

L’orca è un affascinante mammifero marino, appartiene alla stessa famiglia dei delfini (Delfinidi, Cetacei Odontoceti) e non è un pesce! L’orca è un cetaceo.

I cetacei sono un infraordine di mammiferi marini che presentano un corpo fusiforme simile a quello dei pesci, il corpo assicura un’ottima idrodinamicità. Tuttavia, i cetacei non hanno le branchie ma sono dotati di respirazione polmonare, per questo emergono spesso dall’acqua per poter incamerare ossigeno. I cetacei sono i delfini, le balene, le orche e il beluga.

Come tutti i mammiferi, anche l’orca partorisce. La “gravidanza” dell’orca dura molto tempo! Dopo circa un anno e mezzo di gestazione, la femmina partorisce un solo piccolo. Il parto avviene nelle acque basse. Dopo il parto, questo incredibile mammifero marino porta subito il piccolo nato dai suoi “parenti”. Già, le orche vivono in gruppo creando delle vere e proprie comunità.

L’orca è un mammifero dall’indubbia intelligenza, tanto da attuare dei veri e proprio comportamenti sociali. Ogni comunità di orche sviluppa dei particolari versi di comunicazione e anche le cure parentali sono peculiari. Non sempre il “papà” riesce a distinguere il suo piccolo, quindi i maschi finiscono per prendersi cura di tutti i piccoli del loro gruppo così come se fossero loro figli.

Ogni femmina affronta un intervallo tra un parto e l’altro, tale pausa varia dai 3 agli 8 anni. Il motivo di questo lungo intervallo? L’orca ha bisogno di tempo perché le cure parentali sono prolungate.

La femmina raggiunge la maturità sessuale a 10 anni, il maschio deve aspettare i 16 anni per potersi riprodurre.

I figli delle orche restano nel loro gruppo di appartenenza fin all’età adulta, a questo punto le madri si assicurano di avere una discendenza aiutando i propri figli a cercare un partner per la riproduzione.

Cosa mangiano?

Le orche sono mammiferi fortemente sociali. La caccia si svolge in gruppo e le prede dipendono dall’habitat che colonizzano. Alcune comunità si nutrono principalmente di pesci, altre orche, invece, si nutrono soprattutto di mammiferi marini come foche, leoni marini o addirittura balene.

La preda più sorprendente è lo squalo. Le orche si nutrono di diverse specie di squalo, tra queste figura anche lo squalo bianco. Per molto tempo lo squalo bianco è stato ritenuto il superpredatore degli oceani, tuttavia, delle recenti osservazioni hanno evidenziato le fragilità di tale predatore.

Anche se lo squalo bianco ha una forza e dei sensi incredibilmente sviluppati, le orche, agendo in branco, riescono ad avere il sopravvento.


1. Socievolezza
Le orche sono animali estremamente socievoli. Si muovono in branchi (detti pod) anche di 40 esemplari. E cooperano nella ricerca del cibo.

2. Dialetto orchese
Usano sofisticati sistemi di comunicazione, sembra addirittura che branchi diversi utilizzino il proprio "dialetto".

3. Misure
Le orche possono arrivare a pesare fino a 8/10 tonnellate. I maschi arrivano anche ai 10 metri di lunghezza. E i cuccioli? Misurano anche 2,5 metri.

4. Aspettative di vita
Un'orca può vivere fino a 80 anni (la media è comunque sui 50 anni). Ma in cattività i tempi si riducono drasticamente a 30 anni.

5. Intelligenza emotiva
Le orche possiedono una parte del cervello che gli esseri umani non possiedono. Secondo gli scienziati, questa parte riguarderebbe l'emozioni e la consapevolezza.

6. Pinna stanca
I maschi di orca sono dotati di una pinna dorsale che nell'1% dei casi può collassare. Secondo i ricercatori questo accade in seguito a combattimenti con altre orche, o a causa della vecchiaia e dello stress. Il film Blackfish asserisce che il 100% dei maschi di orca in cattività presentano questo difetto.

7. Mamma orca
La gravidanza delle orche dura 17 mesi. E nascono cuccioli in un periodo compreso tra i 3 e i 10 anni.

8. Nomi e soprannomi
L'orca è conosciuta (soprattutto nel mondo anglosassone) come balena assassina. Orca viene invece dal latino "orcinus", aggettivo che sta per "appartenente al regno dei morti". Un'altra ipotesi è che derivi dal latino "orca", cioè barile per la forma del corpo.

9. Specie
Il biologo canadese Michael Bigg negli anni 70 avrebbe foto-identificato 10 tipi di orca, diversi tra loro per forma della pinna dorsale, e per le dimensioni.

10. Dentoni
L'orca ha denti lunghi 10 cm che le servono per nutrirsi di foche, leoni e tartarughe marine e persino balene. Alcuni esemplari come il maschio dell'orca di Patagonia sono particolarmente temerari e si spingono fin sulla spiaggia, rischiando di arenarsi, per catturare le otarie che poi offriranno in pasto ai cuccioli che li aspettano al largo (vedi video in basso).

John Gatti, Pilota del porto di Genova é l'autore delle tre foto che seguono.



L'evento eccezionale non si verificava dal 1985 quando, esemplari della stessa specie, furono avvistati a Sanremo e Finale Ligure.

Il 23 maggio del 2015 ho pubblicato sul sito di Mare Nostrum Rapallo una ricerca sul SANTUARIO DEI CETACEI da cui ne riporto alcuni stralci che potrebbero spiegare la presenza delle orche a ponente di Genova.


Il Settore viola della carta sopra riportata mostra IL SANTUARIO DEI CETACEI nel Mar Mediterraneo che bagna le coste della Toscana, Liguria, Provenza e Corsica.


Il 9 maggio partecipai al convegno AMA IL TUO MARE, vedi locandina. Nella sua introduzione, il relatore dott. Guido Gnone ci spiegò che il Torrente Polcevera (tra Ge-Sampierdarena e Ge-Sestri Ponente) segna il confine tra le due Riviere della Liguria, almeno per quanto riguarda il Santuario dei Cetacei.

A Levante la piattaforma continentale, che comprende metà Liguria e buona parte della Toscana (Fosso Chiarone), é ampia e degrada lentamente verso il mare aperto. In questo habitat sabbioso si sono adattati i delfini Tursiopi che sono presenti in gran numero e si possono ritenere stanziali.

A Ponente del Polcevera, la piattaforma continentale é molto stretta e precipita subito verso fondali che raggiungono e superano talvolta i 2.000 metri. Questo habitat, caratterizzato da fiordi abissali, costituisce il polo d’attrazione per molti mammiferi marini che dispongono di grande capacità polmonare e sono adatti alla caccia in apnea.

Una serie di fattori caratterizzano l’area del SANTUARIO DEI CETACEI:

- l’azione dei venti di maestrale e di tramontana

- del gioco delle correnti

- la condizione di omeotermia invernale consentono il rimescolamento delle acque e la conseguente risalita in superficie dei sali nutritivi, che in altri mari rimangono in gran parte confinati nelle acque profonde.

L'apporto di tali sostanze permette lo sviluppo del fitoplancton, che si trova alla base della rete alimentare e costituisce il nutrimento dello zooplancton, a sua volta preda di pesci, cefalopodi e mammiferi marini. Il gamberetto Eufasiaceo Meganyctiphanes norvegica, infatti è l'alimento principale della Balenottera comune (Balaenoptera physalus), la quale, insieme ad altre sei specie di cetacei, frequenta regolarmente le acque del Mar Ligure.

L'abbondanza di nutrimento fa sì che, nell'ambito del Mar Mediterraneo, le acque alto-tirreniche rappresentino una delle aree a maggior concentrazione di cetacei. Ognuna delle specie presenti è caratterizzata da un habitat preferenziale, strettamente correlato alla profondità del fondale; possiamo così distinguere specie costiere, di scarpata, pelagiche. Tuttavia, non esistendo in mare confini precisi, i mammiferi marini possono spostarsi liberamente ed essere talvolta avvistati in zone inusuali.

In altre parole si può dire che le particolari caratteristiche chimico-fisiche indotte dalla morfologia e dalla circolazione delle acque, rendono il tratto di mare tra Sardegna, Toscana, Liguria, Principato di Monaco e Francia una delle zone più ricche di vita del Mediterraneo.

Si tratta di un’altissima concentrazione di mammiferi marini che sono rappresentati da dodici specie : la balenottera comune (Balaenoptera physalus) il secondo animale più grande al mondo (secondo solo alla balenottera azzurra), il capodoglio (Physerter macrocephalus), il delfino comune (Delphinus delphis), il tursiope (Tursiops truncatus), la stenella striata (Stenella coeruleoalba) , il globicefalo (Globicephalua melas), il grampo (Grampus griseus), lo zifio (Ziphius cavirostris). Più rari, la balenottera minore (Balaenoptera acutorostrata), lo steno (Steno bredanensis), l’orca (Orcinus Orca) e la pseudorca (Pseudorca crassidens).

Ci sono voluti dieci lunghi anni, ci spiegarono nel 2015, affinché si giungesse alla creazione del Santuario Internazionale dei Cetacei del Mediterraneo. Sono stati anni di lavoro e impegno per molte persone che hanno creduto in un progetto e insieme sono riuscite a realizzarlo.

Nel 1992 venne effettuato un censimento sulla superficie di quello che sarebbe divenuto il Santuario dei cetacei da parte dell'Istituto Tethys, da Greenpeace e dall'Università di Barcellona , che consentì la stima numerica delle stenelle (32.800 esemplari) e delle balenottere comuni (830 esemplari) presenti nella zona nel periodo estivo.

Da quanto riportato sopra (ricerca che feci nel maggio 2015) non appare così strano che quattro orche possano essere arrivate nelle acque dell’Alto Tirreno attratte, non solo da circa 800 balenottere stanziali, ma anche da quel cibo prediletto da tutti i cetacei che si trova negli alti fondali del ponente ligure e che é stato spiegato molto efficacemente dal dott. Guido Gnone, coordinatore della ricerca-scientifica dell'Acquario di Genova, responsabile del progetto di ricerca Delfini Metropolitani.

Questo particolare, a mio avviso tutt’altro che insignificante, spiegherebbe anche la circostanza per cui le quattro orche, in questi 18 giorni, non siano mai state avvistate a levante del Porto di Voltri-Prà.

 

CARLO GATTI

Rapallo, Martedì 17 Dicembre 2019


I POSTINI DEL MARE

I POSTINI DEL MARE

Il biglietto da visita “ecumenico” dei frati cattolici del monastero delle Isole Shetland è, paradossalmente, rappresentato da una rustica targa di legno che riporta una frase pronunciata da un famoso tedesco luterano, ed è in bella vista per chi approda alla darsena dello scoglio.

“L’Europa è nata in pellegrinaggio e la sua lingua materna è il Cristianesimo” J.W.Goethe

I Frati e la Posta

Le malelingue esistono dalla notte dei tempi, ma stranamente ristagnano sulla terraferma e mai sul mare, dove la solidarietà è più praticata che promessa. I naviganti adorano quei dodici frati che gli indicano sempre la via di casa; ma tanto affetto risale anche ad una vecchia pratica che si perde nei ricordi più remoti dei marinai della vela e che ora vi raccontiamo.

Se il tempo è sereno, il veliero in arrivo dall’America avvista la scopa luminosa del faro a moltissime miglia di distanza e s’avvicina bordeggiando a cuor leggero verso quella magica luce bianca. Nell’attesa dell’alba, temporeggia navigando a spirale per capire il giro del vento e della corrente intorno al Monastero, evitando con maestria d’incagliare sulle sue secche. Infine ammaina la lancia che, cautamente, dirige verso la piccola darsena. Da questo momento, a bordo, iniziano a battere le campane e se il vento allontana i rintocchi, sparano qualche colpo di falconetto (cannoncino di piccolo calibro) per attirare l’attenzione. I frati rispondono con i gravi rintocchi delle grosse campane che spuntano da ciascun lato del campanile, poco al disotto della lanterna. Suonano a festa in segno di saluto. I marinai s’arrampicano sulle sartie cantando inni di gioia e rimangono a lungo con le gambe divaricate sui marciapiedi dei pennoni, aggrappati alle vele gonfie di vento. In questa cornice di pura poesia, comincia il rito della posta. Quando il montacarichi scende dalla rupe, s’avvicina il momento più atteso dall’equipaggio del veliero e l’ansia si trasforma in autentica felicità. I frati consegnano le lettere al capo-barca e ritirano la posta dei marinai da spedire alle famiglie.

Ma La scialuppa non viaggia mai vuota verso il faro...

Gli equipaggi dei velieri che solcano abitualmente queste latitudini difficili, sono molto generosi e considerano quei frati come gli avamposti delle loro famiglie che sperano di vedere al più presto.

Dei religiosi conoscono nomi, abitudini, gusti, punti deboli e ben sanno quanto un po’ di tabacco, una torta fresca ed una bottiglia di Rhum, siano graditi al Convento, che non lesina benedizioni, preghiere e qualche canto gregoriano che, si sa, sono un po’ difficili da imparare...

Il servizio che i Carmelitani prestano come faristi, non è retribuito con denaro, ma il Comune da cui dipendono, invia loro, settimanalmente, l’occorrente per sopravvivere e curarsi, e con lo stesso cutter che li collega alla terraferma, l’Ufficio Postale spedisce al Frate Guardiano la posta destinata agli equipaggi dei velieri. Persino i grandi e piccoli armatori approfittano della loro disponibilità per consegnare le istruzioni del viaggio ai loro comandanti: porti di destinazione, noli, tipi di carico, cambio equipaggio, rifornimenti ecc…


Navigare necesse est... ma a volte ne vale la pena!

Per chi proviene dal largo, il faro-Monastero appare come una nave vista di prora, che al posto del Jack(l’asta della bandiera sulla prua) mostra il faro che, a sua volta, sembra un minareto ai mussulmani ed un campanile ai cristiani; insomma, è un esempio architettonico di sincretismo religioso, una costruzione sui generis, che offre un misto di sacro e profano, che non è arte pura, ma è sicuramente funzionale, e per chi giunge ai suoi piedi all’alba oppure al tramonto, ricorda un rosso palcoscenico dove si esibisce un Illustre Mago disceso dall’alto e venuto da lontano.

Carlo GATTI

 

IL SERVIZIO POSTALE (dei volontari) NELLO STRETTO DI MESSINA

 

Il nostro amico Comandante Nunzio Catena ha dei ricordi vivissimi di quando transitava lo Stretto di Messina ed entrava in contatto con

I POSTINI DEL MARE

Di recente Nunzio ha scoperto un bellissimo articolo apparso su:

FAMIGLIA CRISTIANA

firmato da Franca Zambonini che vi segnalo.

A cura di Carlo Gatti e Nunzio Catena

Rapallo,  5 Marzo 2018

 

 


FUOCHI AD EST DI CANDIA - Romanzo storico

FUOCHI AD EST DI CANDIA

Romanzo storico - Di Carlo Giuseppe LUCARDI

 


Maometto II°, Sultano dell’Impero Ottomano – (ritratto da Gentile Bellini)

Alla morte del padre, Maometto II° salì di nuovo al trono e nel giro di soli due anni arrivò a porre fine all’Impero Bizantino conquistando il 29 maggio 1453 Costantinopoli (che era diventata per lui un'ossessione, tanto che cominciò a paragonarla ad una donna che aveva rifiutato il matrimonio di molti principi musulmani e che doveva diventare per forza sposa). L'assedio fu condotto con enorme spiegamento di forze, usando i più grandi cannoni allora esistenti al mondo e addirittura trasportando decine di navi sulla terra, trascinate a forza di braccia dagli schiavi dal Bosforo fino al Corno d’oro scavalcando le erte alture di Galata, per aggirare la celebre catena che bloccava l'imboccatura del Corno d'oro dal Mar di Marmara. Presa la città, Maometto II ne fece la nuova capitale dell'Impero ottomano col nome di Kostantîniyye, poté così fregiarsi oltre al titolo di "Sultano" anche di quello di "Qaysar-ı Rum", ovvero Cesare dei Romei, anche se risulta già attestato in particolar modo a livello popolare l'attuale nome di İstanbul.

Dopo questa conquista, il padişa dei turchi prese anche gli ultimi territori bizantini, il Despotato di Morea nel Peloponneso (1460) e l’Impero di Trebisonda sul Mar Nero (1461) A quel punto, nonostante lo sgomento dilagato in tutto l'Occidente, lo stato ottomano fu definitivamente riconosciuto nel mondo come un grande Impero.

La caduta di Costantinopoli nel 1453 aveva mostrato per la prima volta la vera potenza navale, oltreché terrestre, del nuovo Impero ottomano.

Venezia, sebbene sino all'ultimo fosse alleata con il morente Impero Romano d’Oriente, dopo la caduta dell'antica capitale imperiale si affrettò a mostrarsi compiacente coi nuovi padroni delle vie d'Oriente. Il 18 aprile 1454, l’ambasciatore Bartolomeo Marcello sottoscrisse infatti con il Sultano Maometto II° un trattato di reciproco riconoscimento.

Nonostante le apparenze, si trattò però di una tregua fragile, costantemente minacciata da piccole violazioni che potevano, in qualunque momento, essere sfruttate dai Turchi per scatenare un conflitto. La stessa Venezia, dal canto suo, dichiarava apertamente per bocca dei propri rappresentanti, in un concilio tenutosi a Mantova nel 1460, che l'accordo era stato costituito per necessità di difesa degli interessi in Oriente, ma che, qualora si fosse creata contro il Gran Turco una lega cristiana, Venezia sarebbe stata disponibile a parteciparvi.

In questa situazione veramente ingarbugliata, Venezia - Repubblica Marinara si trova a percorrere rotte difficili e insidiose per la sopravvivenza della stessa SERENISSIMA e delle sue basi medio-orientali.

Gli storici di professione, quando suggeriscono libri per l’approfondimento di un argomento di rilevanza storica, del tipo che stiamo trattando, raccomandano sempre la lettura di un Romanzo Storico che, sapendosi calare nella realtà del tempo, arricchisce e facilita la comprensione degli avvenimenti attraverso i personaggi di quel tempo che rispecchiano i fattori ambientali, politici, religiosi, linguistici, psicologici e comportamentali che ben poco hanno in comune con gli attuali parametri di valutazione in nostro possesso.


Ed ecco venirci in soccorso il romanzo storico di CARLO LUCARDI

Carlo Giuseppe Lucardi, nato a Genova il 21 maggio 1953, é un medico ex-ospedaliero, con la passione per la scrittura fin dai tempi dell’Università.

Carlo é socio di Mare Nostrum Rapallo da circa un anno e fa parte del gruppo:

Il suo libro, di cui ci occupiamo oggi, verrà presentato il 1°di febbraio dagli SCRITTORI IN RIVA AL MARE presso la Biblioteca di Rapallo. Seguirà la locandina.

La trama:

Il Sultano Maometto II° ha conquistato l’impero romano d’Oriente.

La sua fama d’invincibilità terrorizza tutto il mondo cristiano. Venezia deve concludere una pace svantaggiosa con lui per conservare le terre e i commerci che ancora possiede. A sugello del trattato il Sultano pretende che un carico d’armi da fuoco gli sia venduto in cambio di oro e gemme.

Maometto II pensa che coi rivoluzionari Hachen-Buchse (archibugi) a pietra focaia gli sarà facile togliere di mezzo i cavalieri di Rodi che gli impediscono la conquista di Roma.

Per essere sicuro del risultato, affida l’operazione al suo migliore fiduciario, Misha Pasha il Crudele.


Caracche a 3 e 4 alberi.

I veneziani chiedono che lo scambio avvenga in mare e caricano le armi su una caracca genovese-provenzale, la Dalfin.

Poseidone, Colui-che–scuote–il-mare, scatena una tempesta che disperde le navi, sicché la Dalfin viene catturata dalla galea del cavalier Vendramin.

(Cavaliere dell'Ordine dell'Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme, detti anche Cavalieri di Cipro, Cavalieri di Rodi e noti come Cavalieri di Malta), è un ordine religioso cavalleresco nato intorno alla prima metà dell'XI secolo a Gerusalemme).

Giovanni, figlioccio del cavaliere, ne assume il comando e fa vela su Rodi, sfidando le squadre del Pasha.

Un laido vecchio imbarcato sulla nave (medico oscuro dei Savi di Alessandria), trama per impedirglielo, e la sua bellissima schiava–strega irretisce il giovane comandante. Tutto sembra perduto, ma l’Egeo degli antichi Eroi ancora una volta mischia le carte…


L’archibugio può essere considerata la prima vera arma da fuoco portatile capace di garantire una certa precisione nel tiro. Evoluzione del più primitivo e pericoloso “scoppietto”, anche noto come "cannone a mano" (handgun in lingua inglese) l'archibugio trovò poi sviluppo nel moschetto, dando origine al fucile moderno.

Data di produzione: 1450-1650

Un romanzo rosso come le fiamme degli Hachen-Buchse e verde come il mare delle isole greche.

Il primo di un ciclo di storie di mare fra l’Oriente e il Rinascimento, il Magnifico Lorenzo e Maometto II°, i corrotti cardinali e la magia oscura dei Savi di Alessandria.

L’autore del romanzo ha fatto una scelta precisa: quella d’imbarcarsi, di volta in volta, come cronista, sulle navi in cui si svolge un’azione bellica. A noi ricorda un novello Pigafetta che descrive la storia che vive in prima persona e che ci riferisce puntualmente con il linguaggio di bordo, talvolta rozzo e crudele, talvolta raffinato a seconda del palcoscenico che può essere turco, veneziano, genovese, ma anche misto…anzi molto eterogeno! Quindi ci s’imbatte in termini assolutamente veri, pittoreschi, rocamboleschi, ironici che ancora ora rifioriscono e risuonano negli angiporti più famosi del Mediterraneo.

Il vocabolario usato dallo scrittore é molto ampio… non solo nelle simpaticissime imprecazioni che non risparmiano neppure gli dei di varie provenienze…, ma dilaga persino nella terminologia tecnico-nautica che si estende ai bordi veneziani, genovesi, turchi, arabi, levantini ecc…

Lo stesso tipo di linguaggio, talvolta esilarante, é usato anche per illustrare le armi e persino istruendo il lettore sull’uso delle stesse durante le battaglie navali che sono descritte puntigliosamente sulla base di strategie studiate e praticate con estrema efficacia!

La presenza dell’autore a bordo dà al lettore la strana sensazione di essere imbarcato e guidato nelle varie esperienze di bordo e, i personaggi che via via incontra appaiono a prima vista meno strani, anzi più umani del previsto. Talvolta é persino più facile capire come oggi, rispetto al 1400, non sia cambiato così tanto il senso della vita, dell’umanità, del dolore, dell’onore, del bello e del brutto. Infine, anche la simpatia e l’antipatia dei personaggi di queste imbarcazioni “rinascimentali”, che sono spesso espressioni dell’ignoranza profonda mista a superstizione, diventano funzionali alla genialità che essi sanno esprimere nei momenti difficili. E’ l’epoca nello stupore per le nuove invenzioni che rendono il mondo pieno di speranze e gli uomini in arme validi attori sulla scena della modernità.

La lettura del romanzo é molto scorrevole anche se, a prima vista, potrebbe essere apprezzato come un testo esclusivo per appassionati di storia, un libro di nicchia per studenti di liceo ed anche universitari. Ma non é così, il romanzo é indubbiamente “erudito” emergendo in modo inequivocabile la preparazione culturale di alto livello con cui l’autore si é avvicinato a questo progetto storico profondamente marinaro, sia nelle descrizioni particolari delle caracche, delle galee di vario tipo, ma anche nella conoscenza del linguaggio di bordo, che passa dal veneziano all’arabo, dal turco a quello usato dai Cavalieri di Rodi, ma non é tutto perché ci desta altresì meraviglia anche l’esatta descrizione delle armature del tempo, l’uso delle armi bianche, ma anche di bombarde, colubrine, basilischi e soprattutto dei micidiali archibugi veneziani al loro esordio nella storia.

L’autore tratta con molta competenza il debutto della CARACCA genovese, una torre molto alta sulla superficie del mare, figlia della COCCA con le murate e le estremità progettate per cavalcare le onde atlantiche. Ricordiamo che la cocca genovese fu progettata per uscire da Gibilterra e raggiungere i mari del Nord Europa.

La storia ci ha insegnato, e lo fa tuttora, che la nazione con la tecnologia più avanzata in materia di costruzioni navali e di armamenti é candidata alla vittoria finale.

Venezia, nella realtà del XV secolo possiede l’Arsenale militare più famoso e potente del mondo di allora. Da quella realtà, come ci spiega più volte l’autore, escono le migliori navi e le migliori armi navali che sono il frutto di secoli di studi, d’esperimenti e di grandi innovazioni in tutti i campi da parte di celebri ingegneri, fonditori e navigatori.

Tuttavia il nemico che ha di fronte rappresenta la più forte potenza militare del mondo di allora. Come finirà questa storia?

Buona lettura!


Piccola caracca - ill. del XVI secolo.


Caracca - particolare da Caduta di Icaro di Pieter Bruegel il Vecchio (circa 1558)


Battaglia navale tra caracche e galee.


Il “galeone” NEPTUNE ormeggiato nel porto Antico di Genova é finto, ma rende l’idea e soprattutto l’atmosfera marinara di un’epoca ormai lontana che il nostro capoluogo non ha dimenticato. Forse, anche il nostro amico Carlo LUCARDI n’é stato “contagiato”??Chissà! Ce lo racconterà a voce… Per il momento gli rivolgiamo i nostri sinceri complimenti per la sua opera che potete trovare presso qualsiasi libraio.

Carlo GATTI

Rapallo, 23 Gennaio 2020


ATTENTI A QUEI DUE...!

ATTENTI A QUEI DUE.....!

Il motto era: " Sempre amici anche in tempo di guerra..."

Era il 1958, frequentavamo il IV Nautico Macchinisti. Un pomeriggio, in occasione di un ricevimento delle famiglie, si sono incontrati mio padre e la madre di Terrenzio. A quel tempo, si rientrava quasi tutti i giorni a scuola di pomeriggio e quindi per mangiare, a pranzo, si andava avanti a forza di panini, sempre se non li avevi finiti prima… Parlando di questo disagio, i due genitori pensarono di farci mangiare almeno due volte la settimana al Ristorante: l'unico di Ortona, sito a metà della via principale, il Corso, di ottima qualità.

Ortona - Il corso

Approfittarono così per parlare subito con il proprietario. Queste erano le condizioni: il pranzo normale costava 600 Lire, una cifra importante all’epoca, ma siccome noi non avremmo preso vino e caffè e siccome si trattava di un abbonamento, si pattuì per 500Lire a Pranzo. I clienti erano pochi: un commesso di stoffe che periodicamente si fermava ad Ortona e un nostro Insegnante, ex Uff.le di Marina, single, proprietario di una fornace ai Saraceni. Questo per inquadrare la quasi esclusività del locale. In precedenza, andavamo qualche volta dai genitori di un nostro compagno di classe, Mariani, i quali gestivano una cantina e, quando cucinavano qualche piatto per loro che a noi andava bene, ci univamo alla famiglia. Ricordo, per esempio, dell'ottima pasta e piselli. Trionfavano gli odori di vino e tabacco. Tutto era avvolto in fitta una penombra dovuta alle volte del locale che erano 'a cielo di carrozza'. Per intenderci, si mangiava con sole 120 Lire.

Da destra: Nunzio, Terrenzio, e "Porcellino"

Le prime settimane andammo regolarmente al ristorante e molte persone restavano stupite di questo trattamento che avevamo.., eravamo considerati  miliardari!   Ma in uno di quei giorni in cui quando suonava la sirena ed eravamo già un po’ lontani c'era il rito di posare la borsa per terra e, con tutta calma, fare il gesto 'dell'ombrello', arrivavamo sotto il faro  alla testata del porto, dove a volte ragionavamo sui 'massimi sistemi', ci chiedemmo se era il caso di continuare a spendere tutti quei soldi 'inutilmente'. In effetti avevamo anche altre spese vive giornaliere come le sigarette, qualche  rivista il giovedì, e altro tenuto conto che la legge Merlin non era ancora in vigore. Si convenne allora di rallentare la frequenza al ristorante per disporre di moneta 'frusciante'.

Solo che un giorno, mio padre, mentre andava alla Banca sita nei pressi del ristorante, vide la proprietaria sulla porta e si fermò. Dopo averla salutata, chiese dei ragazzi e del loro comportamento. La Signora rispose la verità: "veramente in questo ultimo periodo li stiamo vedendo poco, forse non sono contenti del trattamento!" al che mio padre rispose: "Signora, mi faccia la gentilezza, lei prenda un quadernino, quando viene mio figlio a pranzo, gli faccia apporre la propria firma e poi quando passo io, regoleremo il conto, se vuole, le anticipo i soldi."  “Va benissimo! Ossequi.”

Quando tornai la sera a casa, mio padre al solito, non disse nulla, solo: "Quando vai al ristorante, non serve dare i soldi. Metti solo una firma sul quaderno che ti porge la Signora.” Cazzo, ci aveva fregato! E la faccia di mio padre non mi piaceva affatto…

Ore 7.00 del mattino successivo. Monto sull'Auto Forlini, posto riservato da Terrenzio: rimorchio, sedili davanti, carte già mischiate, le mie tre già pronte, allegria di sempre… Arrivo, guardo il mio amico con una faccia veramente diversa e lui: "ca success frà??"

E io: "che t'a vist Sciannapupa?", soprannome affibbiato a un professore perché il poveretto quando   camminava ondeggiando a destra e sinistra sembrava uno che culla un bambino.

"No pecchè oggi avem da parlà!" il prof. Nominato viaggiava con lo stesso nostro auto e quel giorno, martedì, avevamo compito in classe!!! Quel giorno non si giocò a carte.


Veduta aerea del porto di Ortona

Arrivati a Ortona, prendemmo la solita via del porto, ma in un angosciante silenzio. Arrivammo sotto il faro, accesa la sigaretta, si inizia con la relazione del fatto e la discussione sui provvedimenti da prendere. Alla fine si decide di parlare con la Signora in questi termini: "Causa cambiate condizioni economiche del mio amico figlio di commercianti, e lei può ben capire i manrovesci della fortuna, verremo a mangiare in due. Io metterò la firma e lei ci darà due primi. Poi lei vedrà se è possibile un solo secondo ed eventualmente la somma da integrare volta per volta. Se le va bene è così, altrimenti io non verrò più perché non posso lasciare un amico fraterno con un panino mentre io me la scialo al ristorante!!!”

All'ora di pranzo, ci presentiamo al ristorante ed esponiamo il problema alla Signora, la quale solo a vedere la faccia di circostanza di Terrenzio, disse: "Ma si, non vi preoccupate, va bene così.., purtroppo il commercio è così.." Neanche a farlo apposta il Ristorante si chiamava per l’appunto  "Il Commercio"...

Nunzio a sinistra e Terrenzio con la gambetta ...

Era fatta! Avevamo contante sufficiente per tutto. Potevamo fare anche qualche opera di bene a qualche amico e abbiamo potuto constatare che non sempre a fare del bene se ne riceve altrettanto.

Il giovedì pomeriggio, spesso durante le ore di officina, con la complicità del buon 'Bob', dopo l'appello, uscivamo dalla finestra per andare a vedere la Rivista. Portavamo con noi, spesso, Vittorio Bisignani, con il quale conservo tutt’oggi un contratto stipulato su carta igienica, in cui si impegnava a portare i libri tutti i giorni per lire 50 al mese. Quando eravamo davanti al cinema, noi gli dicevamo: "Dai Vittò, n'nte preoccupà: ce stà la polvere!" e lui era un po’ restio dicendo: "ma mo' pecchè avet da paà vu!"... "E dai!” lo prendevamo per un braccio e lo portavamo dentro!"


Avevamo dimenticato che proprio dirimpetto a noi, a 20 mt. di distanza, da dietro la tendina, DON ANTONIO ci osservava. Era il nostro Insegnante di Religione, il quale abitava lì e credeva che Vittorio non volesse cadere in tentazione. Quindi risultava che noi lo inducessimo al peccato. Così, quando entrava in aula, con i suoi giri di parole ci faceva sempre capire che eravamo dei degenerati…

E poi vai a fidarti di fare del bene!!!

Nunzio CATENA

Rapallo, 8 Febbraio 2018



ASEPOTESSI - Favola

ASEPOTESSI

Questa è la storia vera di un bambino scontento.

Guardava la TV e pensava: “Ah, se potessi andare in bicicletta!”.

Se un amico gli prestava la bicicletta smetteva di pedalare dopo tre minuti e sospirava: “Ah, se potessi giocare a calcio!” E così via.

I giorni passavano monotoni e grigi tra un sospiro e un’esclamazione: “Ah, se potessi…”

Parenti ed amici lo soprannominarono Asepotessi e questo rimase il suo nome.

Un giorno Asepotessi era a scuola alle prese con un problema che non gli veniva ed esclamò, come al solito: “Ah, se potessi essere sulla spiaggia, invece di star qui a faticare!”

Lo sentì una fatina, di solito occupata in casi più seri, e decise di accontentarlo o, se non ci fosse riuscita, di raddrizzarlo, per non essere più disturbata dai suoi sospiri.


Detto fatto Asepotessi si ritrovò disteso su una sabbia dorata e luccicante come solo le fate possono trovare ormai. Passarono pochi minuti e già sospirava: “Ah, se potessi fare il bagno e rinfrescarmi, ma non so nuotare.”

La fatina esaudì il suo desiderio e Asepotessi fu immerso in un mare limpidissimo, e sapeva galleggiare!

L’euforia di saper nuotare durò poco, presto sostituita dalla fatica. “Ah, se potessi riposarmi su una barchetta, allora sì che sarebbe bello.”

Ciaf, ciaf una barchetta apparve per incanto. Asepotessi vi si issò e si lasciò trasportare per le invisibili strade delle correnti.

Dopo un po’ incominciò a soffrire il mal di mare. “Ah, se potessi…”

La fatina non gli lasciò neanche terminare la frase. Ormai aveva deciso di aiutarlo e con le buone o con le cattive voleva farlo maturare.


Asepotessi si ritrovò così in costume da bagno e scalzo in un fitto bosco di castagni tappezzato di ricci.

Per la prima volta in vita sua doveva pensare alla sopravvivenza, a ripararsi dal freddo, a trovarsi un rifugio. Alla meglio si confezionò sandali di corteccia e una tunica di foglie. Quanto alla fame si accontentò degli avanzi di un pic-nic.

Incominciava ad imbrunire ed il silenzio del bosco si animava di mille rumori: fruscii, gridi, battiti, tonfi. Era giunto il momento della paura.

Il nostro povero amico era così occupato a cercarsi un rifugio, che neanche una volta gli sfuggì la solita frase: “Ah, se potessi!”

Si arrampicò su un albero facile facile, si abbandonò tra i rami divaricati ed, esausto, si addormentò.

Sognò di essere a scuola, di saper risolvere il problema e di passarlo a qualche compagno vicino. Si sentiva felice di scrivere, di faticare, di vivere. E nel sogno sorrise.


La fatina decise che la prova era stata superata e Asepotessi poteva tornare alla vita normale. Ormai era cambiato.

Lo sollevò e lo portò a scuola, dove tutti erano così impegnati che non si erano accorti della sua assenza.

Asepotessi ricordava tutto, ma non era sicuro di aver vissuto quell’esperienza magica e si convinse di averla solo immaginata.

Aveva però fastidio ad un piede. Che fossero spine conficcate? Riccio di mare o di bosco? Sorrise al ricordo e vi assicuro che da quel giorno Asepotessi non fu più né noioso, né annoiato.

 

ADA BOTTINI

Rapallo, 17 Dicembre 2017

 

 


LA FAVOLA DI ANDREA LIMONE

LA FAVOLA DI ANDREA LIMONE

Questa è la storia vera

del bambino Andrea

prima della cura

che fece sulla scura

sabbia di Framura


Tutti dicevano che Andrea era livido e acido come un limone.

I più benevoli gli dicevano: “Dai, ridi un po’, la vita è bella.” E lui se era in vena, tirava le labbra con un sorriso, che pareva una smorfia e lo faceva sembrare ancora più triste. Altri lo prendevano in giro e non lo chiamavano più con il suo nome, l’avevano soprannominato “Limone” e lo lasciavano in disparte.

A vederlo con il suo colorito pallido e olivastro, le occhiaie sotto gli occhi scuri e spenti, le labbra livide sembrava davvero che nel suo corpo circolasse spremuta di limone invece che sangue.

Un giorno, mentre se ne stava seduto su un muretto davanti al mare, le gambe penzoloni che, battevano ritmicamente contro il muro, arrivò sulla spiaggia una bambina un poco più grande di lui.


Non l’aveva mai vista a Framura, però gli piaceva. Decise allora, seguendo le sue tendenze negative, di essere particolarmente antipatico con lei. Lei alzò la testa, lo vide e subito sorridendo, gli chiese “Ciao, come ti chiami?”

“Che te ne importa?”

Lei non ci fece caso e imperterrita continuò: ”Io sono Luisella, e tu?”

“Io Limone, ti va bene così ‘?

“Che strano nome. E’ uno scherzo” fece lei ridendo.

“Non è uno scherzo. Mi chiamano Limone, perché io sono un limone, faccio bruciare gli occhi e la lingua e, se non mi lasci in pace, ti tiro anche una pietra.”

Come se non lo avesse sentito lei piegò la testa da un lato e disse: “Sai, ti devo fare una confidenza, a me i limoni piacciono moltissimo, li mangerei mattino, mezzogiorno e sera. Stai attento: se sei un vero limone, a merenda ti mangio.” Concluse ridendo.

“Ah, ah la spiritosa, non mi fai ridere neanche se mi faccio il solletico.” Rispose lui sbuffando.

Scese dal muretto e se ne andò.

Il giorno dopo però era ancora lì e c’era lei.

“Ciao Limone, giochi con me? Guarda, ho portato una palla, perché speravo che venissi anche tu sulla spiaggia oggi.”

“Oh, che originalità. Una palla. E’ un gioco vecchio come il cucco” rispose lui.

“A me piace sempre, ma se ne sai uno migliore insegnamelo. Io ci sto.” disse lei mentre palleggiava con abilità.

“Va beh, dai non ho voglia di pensare. Tira.”

Per un po’ giocarono e si divertirono poi, stanchi, si sedettero sulla spiaggia a riposare.

Luisella ricominciò a chiacchierare:”non ho capito se ti piace chiamarti Limone oppure no?” Gli chiese.

Andrea non ci aveva mai pensato. Gli altri, quando parlavano con lui, gli davano ordini o consigli. Non gli chiedevano mai il suo parere.. Dopo qualche minuto di riflessione disse:

”Sì, mi piace. Voglio essere acido. Non mi piace piacere. “Che discorso complicato e falso. Chi t’ha detto “che il limone non piace a nessuno? A me piace moltissimo, te l’ho già confidato”.

“Come fa a piacerti una cosa che fa digrignare i denti e venir la saliva in bocca, appena l’assaggi?”

“Sai perché? Tu parli del limone acerbo. Anche tu forse sei un po’ acerbo. Se verrai qui tutti i giorni a parlare e a giocare con me sulla spiaggia e prenderai tanto sole, diventerai un bel limone e… i limoni maturi sono una bontà”

Andrea non rispose, ma fece quello che gli aveva suggerito Luisella, non perché credesse alla sua teoria, ma perché gli piaceva molto stare con quella bambina si sentiva anche meglio come se il gelo che aveva dentro si sciogliesse al sole.

In capo a un mese era irriconoscibile: Abbronzato, sorridente e irrobustito. Insomma un bel limone maturo pieno di vitamine e sali minerali.

Sarà stato il sole, il mare, la spiaggia di Framura o Luisella, chi lo sa?

Fatto sta che dopo la cura la filastrocca suona così:

Questa è la storia vera

del bambino Andrea

dopo la cura

che fece sulla scura

sabbia di Framura

dove divenne

solare e biondo

come un bel limone

luminoso e tondo.

 

ADA BOTTINI

Rapallo, 7 nivembre 2017

 


IL VIAGGIO DI CIRO

IL VIAGGIO DI CIRO

Ciro abita in Abruzzo. E’ figlio e nipote di pastori. Il suo nome fu scelto dal padre prima che lui nascesse. Suo padre aveva ascoltato la storia di Ciro, imperatore persiano, una notte d’estate, quando è bello incontrare i tra pastori sotto le stelle e raccontare, ascoltare. Il giovane pastore ascoltava il vecchio sardo che, a modo suo, gli raccontava di battaglie e vittorie, di giardini e città, di popoli schiavi e liberati.

Quella notte Pietro decise che se avesse avuto un figlio, l’avrebbe chiamato Ciro.

Gruppo della Maiella-Abruzzo

Ciro abita in un paesino ai piedi della Maiella, vive in una casa modesta con la mamma, la nonna e altri due fratelli. Il padre e il nonno passano mesi sulle montagne ad allevare pecore e capre e scendono solo d'inverno quando buio e freddo costringono al riparo uomini e animali.


Due Pastori della Maiella a braccetto…

Ciro vive bene nel suo ambiente: è un bambino sereno con una grande mancanza e un grande desiderio: è cieco e vuol vedere il mare. Come gli sia nato questo desiderio nessuno sa spiegarlo. Fatto sta che spesso chiede alla mamma: - Mamma, quando andiamo a vedere il mare? .- E la mamma brusca gli risponde : - Ma che vuoi vedere e vedere, cosa credi che sia il mare? Una grande pozzanghera ecco cos’è! Come d’inverno qui davanti a casa, quando si scioglie la neve e non puoi uscire senza bagnarti i piedi.-

Ciro non si fa scoraggiare facilmente, torna alla carica, allora la mamma sbuffa: - Siamo poveri noi, non si può viaggiare. Smettila con questi capricci, va fuori a giocare. -

Ciro ha imparato a rivolgersi alla nonna che lo ascolta un po’ di più. Il bambino ha tanto insistito che la povera donna è contagiata dal desiderio di Ciro e quasi quasi anche lei vorrebbe vedere il grande mare. Lo ha già visto in Tv e le fa anche un po’ paura, ma per amore del nipotino un bel giorno si decide a dire di sì.

- Zitto, Ciro, non insistere più. Ti porterò a vedere il mare, ma non parlarne quando ci sono il nonno e il papà in casa. Ci prendono per matti e poi incominciano a sbraitare quei due.-

- Davvero nonna mi ci porti? – chiede Ciro sorpreso.

- Sì, sì a primavera quando gli uomini vanno al pascolo e le galline fanno più uova. –

- Cosa c’entrano le galline, nonna? –

- C’entrano, c’entrano. Fanno le uova e io posso venderne un po’ e risparmiare qualche soldino. Ma, zitto, ci penso io. E’ un segreto tra noi due. Quando sarò pronta partiremo. -

La nonna ha davvero deciso di portare il bambino a vedere il mare, anche se sa che non lo vedrà. Sa però, che potrà conoscerlo in qualche modo. Ogni giorno la vecchia pensa a racimolare qualche soldo per il viaggio: le uova, una piccola risorsa, ma insufficiente, le verdure dell’orto sì anche quelle possono aiutare, ma ci vorrebbe ci vorrebbe qualcosa di più prezioso.


Ecco, le viene in mente il velo, il velo al tombolo, un regalo di nozze, l’unico pezzo importante del suo guardaroba. Lei l’aveva sempre tenuto da parte, bene incartato nella velina con un bigliettino: “Perché mi accompagni nell’ultimo viaggio” e qualche volta aveva immaginato sé stessa morta, le mani giunte sul rosario e il velo a incorniciarle la testa e il viso. Era orgogliosa di questa sua scelta, ma ora decide di venderlo per realizzare il sogno del nipote.

Un giorno di primavera si prepara di buon mattino con il vestito della domenica, il cesto con le uova e la verdura e una vecchia borsetta al braccio.

- Dove andate, mamma? – chiede la nuora impensierita

- Giù al paese grande. C’è mercato oggi e devo fare commissioni mie - risponde lei senza troppo concedere.

- Ma che novità è questa, avete forse bisogno del dottore e non volete dirlo? -

- Mai stata così bene. Non sono una bambina, so badare a me stessa. -

La nuora alza le spalle: - Buon viaggio allora. -

- Eh viaggio, viaggio, questo non è un viaggio - sospira la vecchia che incomincia a spaventarsi per il viaggio che dovrà affrontare. Ha le idee chiare però. Giunta al paese venderà al miglior prezzo la sua merce, compreso il prezioso velo. Garantirà uova e verdura fresca una volta alla settimana al negozio del centro, una coperta all’uncinetto in lana grezza alla moglie del sindaco che gliela chiede da una vita e poi la cosa più difficile per lei, andrà alla stazione e chiederà qual è il paese di mare più vicino e il costo del biglietto. Deve fare tutto da sola, ha deciso di non confidarsi con nessuno per non essere distolta dal suo progetto.

- Nonna, come è andata? – bisbiglia alla sera Ciro, quando sono in camera da soli.

- Tra un mese potremo partire. Tutto a posto. Ma non ti far scappare neanche una parola, altrimenti siamo rovinati.–

Il bambino si addormenta felice sognando il rumore del treno che lo porterà al mare.

Arriva il grande giorno. E’ l’alba quando la nonna e Ciro vestiti di tutto punto bussano alla camera della mamma.

- Noi partiamo, andiamo a vedere il mare. Non ti preoccupare, per sera saremo di ritorno.-

La povera donna è frastornata, le sembra ancora di dormire, accenna un :- Ma..-

La porta si è già richiusa sulle sue obiezioni.

Ancora prima di arrivare a Francavilla Ciro, affacciato al finestrino, sente un profumo diverso di piante aromatiche e di sale. - Nonna, ecco il mare – grida entusiasta.

- Ancora no, ma ci siamo vicini. - risponde la nonna con lo stesso entusiasmo. Quel bambino la fa tornare indietro nel tempo e scopre voglie assopite, mai realizzate.

Appena usciti dalla stazione la nonna decide di non dirigersi verso il centro. Vuole essere sola con Ciro nel momento che incontreranno il mare. I due camminano a lungo, finché una strada sterrata sulla sinistra appare invitante.

- Di qua, Ciro, di qua. – dice la nonna prendendolo per un braccio.

E là in fondo, attraente, un triangolo verde tra due dune ricoperte di cespugli.

La nonna tace, ma inavvertitamente stringe la mano del bambino, che si mette a correre.

- Eccolo, nonna. Lo sento, lo sento. – grida Ciro leccandosi le labbra, già insaporite di sale.

- Aspettami, Ciro. – e i due per mano corrono verso il mare vicinissimo e vociante.

Al di là delle basse dune il mare appare in tutta la sua immensità.

- Nonna, com’è? – chiede Ciro con un filo di tristezza nella voce.


Parco Nazionale della Val Grande – Abruzzo

- Più grande del pascolo di Valgrande, sai quello che ci metti tutta la mattina per attraversarlo, ma adesso, leviamoci scarpe e calze, se vogliamo conoscerlo meglio.- Esclama la nonna, tornata bambina imprudente.


I due ripongono calze e scarpe sotto un cespuglio e poi per mano si avvicinano al mare.


La spiaggia di Ortona  (Abruzzo) (Foto Rossana)

Prima lentamente gustando la sabbia fresca sotto ai piedi, poi sempre più veloci. Ridono, annusano, sguazzano, gridano, assaggiano, sputano, saltano, spruzzano. E’ un’esplosione di energia gioiosa, di vita.

In quest’eccesso di movimento Ciro perde l’equilibrio e cade in mare. Di colpo la nonna sente tutti i suoi anni, l’ansia, la prudenza.

- Dio mio, Ciro, che ti ho fatto!-

Ma lui ride, ride a crepapelle e tra un colpo di tosse e una risata dice : - Un regalo, un regalo mi hai fatto. Ti voglio bene, nonna.

La nonna lo tira fuori dall’acqua e se lo abbraccia stretto, come non aveva mai fatto prima. Così ora sono bagnati tutt’e due. Per fortuna c’è un gran sole in quel giorno di maggio. I vestiti di Ciro sventolano su un cespuglio, mentre lui in mutande si diverte a fare orme e tracce sulla sabbia e poi a toccarle con le mani, la nonna , strizzata la grande gonna nera, cammina avanti e indietro sulla spiaggia per farsi asciugare gli abiti umidi che ha addosso.

- E’ l’ora di mangiare – chiama dopo un po’, e tira fuori dalla grande borsa: polpettone, frittata, formaggio, pane e frutta. Ciro non è mai stato un gran mangione, ma quel giorno divora tutto, mentre chiacchiera senza pause.

- E’ stato bellissimo. Sentivo il mare che si muoveva intorno alle mie gambe, avanti e indietro, avanti e indietro. E’ tiepido, non è come il fiume. E poi così saporito. E la voce!. Mamma mia quanto parla. Adesso senti nonna, ha cambiato voce, parla più piano.-


Ortona Mare (Abruzzo) – Spiaggia al tramonto

(Foto Rossana)

- Sì, è diminuito il vento – sospira la nonna. Lei si riempie gli occhi dei colori del mare, come vorrebbe che anche Ciro vedesse.

Lui come se avesse letto il suo pensiero le chiede di botto: - Di che colore è il mare, nonna? Anzi, te lo dico io come me l’immagino. Ecco, qui dove fa più caldo deve essere color pomodoro, qui proprio all’inizio dove mi bagna il piede dev’essere… bianco, quasi come il sapone, quando mi lavo le mani, e più avanti, nel mezzo… non lo so, ma lontano lontano dev’essere color melanzana, sai quelle lunghe, lisce che mi fai fritte d’estate-

- Bravo, Ciro, hai indovinato tutto- esclama la nonna commossa – Ora che abbiamo visto il mare possiamo tornare a casa.-

- Ci torneremo?-

- Sì, ogni anno a maggio. – risponde risoluta la nonna.

- E i soldi, nonna, dove li trovi? –

- Ah, questa volta so io dove trovarli. Tuo papà, ogni anno deve regalarti una pecora e se non lo farà, se non capirà, vorrà dire che gliela mangerà il lupo. -  conclude ridendo la nonna.


Il Giglio di mare cresce tra le dune della

spiaggia di Ortona

Nonna e nipotino, infilate calze e scarpe, voltano le spalle al mare portandosi dietro il suo ricordo, che li accompagnerà per un anno.

 

Ada BOTTINI

 

Le foto sono state inviate dal socio Com.te Nunzio CATENA

Rapallo, 8 Settembre 2017


 


IL REZZAGLIO DEL MIO AMICO "COCOLA"

 

RACCONTI IN RIVA AL MARE

IL REZZAGLIO DEL MIO AMICO ENNIO detto "COCOLA"

Pubblicazione che riporta le foto di Cocola che seguono

Ennio "Cocola" in attesa

Cocola in azione...

Splendido scatto! che rende l'idea dell'ampiezza del rezzaglio lanciato da Cocola

Cocola aggiusta la sua arma...

Nunzio Catena a lezione  di rezzaglio da "Cocola"

Per quanto riguarda il rezzaglio, come si può vedere dalla foto, bisogna raccogliere la rete in una maniera ben precisa e tenerla nella mano destra, mentre una parte dei piombi della circonferenza  va sul braccio ed un'altra viene lanciata con la mano sinistra per far aprire la rete.. Questa è una pesca che per avere buon esito va fatta ad una profondità massima di un metro, se maggiore, per il tempo che la rete tocca il fondo, il pesce, con un colpo di coda, è già fuori. Per questi motivi non viene pescata dalle vostre parti.

Quella che 'Cocola' faceva per vivere, è una pesca molto sportiva, innanzi tutto ci vuole abilità a lanciarlo perché il pesce, che veloce cerca di entrare nel fiume, vede noi come noi vediamo lui, perciò la rete deve essere lanciata quasi rasente la superficie del mare altrimenti se troppo alta, per quando i piombi toccano il fondo, ha tutto il tempo per fuggire.. Diversa è la pesca in acqua torbida, quando viene lanciato a caso, nel qual caso gioca la fortuna, oppure si lancia un sassolino, se ci sono cefali nei dintorni, questi dapprima si allontanano ma poi, siccome sono curiosi, tornano per vedere cos'è, cercando di calcolare i tempi, può andare anche bene. Purtroppo dove era Cocola, questi ultimi tipi di pesca non potevano essere effettuati e l'unico punto dove i cefali e qualche spigola convergevano, era la foce del fiume, dove la corrente uscente del fiume, 'urtando' l'onda del mare si alza e in quella trasparenza si riesce a vedere il pesce che veloce cerca di entrare.

Anche io ho imparato da piccolo a lanciarlo con una rete proporzionale alla mia 'stazza' e pescavo i pesci piccoli vicino a Cocola (che lui non pescava). Da bambino andavo lì perché papà aveva un 'trabocco' da 6 mt. di lato, al fiume, proprio vicino alla foce.

È stato proprio un bellissimo 'rezzaglio' il regalo che mi aveva fatto Marilena appena dopo sposati, perché spesso mi lamentavo di quello che avevo...Lo aveva fatto a mano il Sordo. A mano, perché spesso lo fanno raccordando diversi pezzi di rete, invece quello era fatto aumentando per ogni giro di rete un certo numero di maglie in modo che dalle poche maglie che formavano  il cerchietto centrale (attraverso il quale passavano i fili che servivano per tirare l'armatura con i piombi), si doveva arrivare ad una circonferenza di circa 15 mt. Mi piaceva da matti quella pesca, che più propriamente era una 'caccia', anche perché i cefali pescati erano commestibili e non come quelle 'petroliere' pescate nei porti, dove si vedono riuniti in gran numero che boccheggiando sembrano aspirare il petrolio come per purificare l'acqua.


La casa paterna di mio padre era molto vicina al fiume ed insieme ai fratelli hanno avuto anche prima della guerra un 'trabocco' che poi hanno ricostruito al ritorno di uno zio dall'America che da pensionato amava passare le giornate in quel tipo di pesca.

A proposito del rezzaglio, chi viveva di quello, era proprio Cocola, che era sempre alla foce del fiume Foro, in attesa di prendere qualche cefalo che cercava di entrare nel fiume. Purtroppo, Cocola non era da solo, ed allora era una lotta a chi prima poteva lanciare la rete; quando Cocola tirava la rete e vedeva nel cavo dell'onda che il cefalo era dentro, restava fermo, immobile, quasi in catalessi per alcuni secondi, chissà, forse la gioia di aver pescato qualcosa da vendere e portare casa qualche soldo.

Nel dopoguerra il REZZAGLIO era ancora molto praticato vicino alla foce dei fiumi e dei torrenti. Era un tipo di pesca molto redditizia, ma allo stesso tempo dispendiosa di energie, sia per il peso del piombo posto alle basi, sia per il fatto che la rete una volta bagnata diventava sempre più pesante.

Nel periodo che va da Ottobre a Dicembre con il passaggio di cefali, spigole e orate che migravano verso il mare si ottenevano risultati eccezionali, pescando soprattutto spigole di grosse dimensioni.

Un tempo il rezzaglio veniva costruito (sarebbe meglio dire autocostruito) in canapa o cotone, ora viene utilizzata la tortiglia di polyester o il nylon. Anticamente cucita a maglia sempre più fitta mano a mano che la rete si allontanava dal centro del cerchio, adesso viene cucito a fasce di diversa grana, mano a mano più fitta. Esistono infatti diversi tipi di grana a seconda della dimensione dei pesci a cui un rezzaglio è destinato.

Lungo il bordo inferiore del rezzaglio vi è una corda ricoperta di piombi (la funaia) che trascina la rete verso il fondo. La circonferenza della rete varia tra i dodici e i quindici metri.


Dal bordo partono circa venti cordicelle (i ramiglione) che passano all’interno della galla e confluiscono verso la corda del giacchio, lunga più di tre metri. Alle estremità della corda vi sono due occhielli (cappiole).
In alcuni modelli i ramiglione a circa venti centimetri dalla funaia si biforcano, questa deviazione è detta femmenella.


Ma come si usa? La barca si avvicina in modo lento e silenzioso verso la zona individuata. Il lanciatore si sposta verso la prua e posiziona la tavola del giacchio tra le sponde.

Il pescatore comincia serrando la corda intorno al polso (o infilando l’anello della corda al mignolo) così da non perdere la rete. Raccoglie con una mano la parte superiore del giacchio per circa metà della sua lunghezza. Con l’altra mano afferra il lembo rimasto libero.

Il pescatore ruota il busto all’indietro e, subito dopo, fa seguire un movimento in avanti. L’abilità del pescatore sta nel coordinare questi movimenti e nel lasciare andare la rete al momento giusto, facendo in modo che, grazie alla rotazione impressa, si apra completamente in aria prima di toccare la superficie dell’acqua.


Quando cade in acqua il rezzaglio deve essere disteso, così da coprire la maggior area possibile. Il peso dei piombi lungo la funaialo fa scendere rapidamente verso il fondo, imprigionando i pesci che incontra inabissandosi.

Il rezzaglio viene recuperato tirando lentamente con piccoli colpi la corda del giacchio e poi il fascio dei ramaglione. Mentre la rete viene raccolta, il perimetro della funaia si stringe e i piombi si avvicinano tra loro scorrendo sul fondo così da non far uscire i pesci.

Al pescatore non resta che issare il rezzaglio a bordo, posando la rete sulla tavola dove la libera del pescato.


Nunzio CATENA- Carlo GATTI

Rapallo, 2 agosto 2017