CARLOFORTE - LA MADONNA DELLO SCHIAVO

LA MADONNA DELLO SCHIAVO

A sinistra l’isola di S.Pietro (Sardegna)

Verso la metà degli anni ’60, La Società Rimorchiatori Riuniti di Genova rinforzò la sua già potente flotta (50 unità circa) con nuove costruzioni finanziate in parte dalla Cassa del Mezzogiorno. Con questo escamotage politico-economico furono varati sei potenti ‘mastini’ ai quali vennero assegnati tipici nomi sardi: Torregrande, Casteldoria, Nuraghe, Capo Ferro, Capo Testa, Capo Caccia. Avevano una banda blu, pitturata sopra il bottazzo, che correva lungo il panciuto scafo nero e facevano compartimento CAGLIARI, la cui scritta era ben visibile sulla poppa.

Una clausola dell’operazione prevedeva che l’armatore assumesse equipaggi sardi che, guarda caso, furono reclutati in larga parte a Carloforte (Isola di S.Pietro), baluardo di scuole nautiche d’eccellenza, e di grande tradizione marinara. In quegli anni i carlofortini (alias carolini) erano sparsi ovunque sulle navi della marina mercantile di Stato, di quella Libera ed anche militare.

I nuovi ‘barcaccianti’ * sardi furono accolti come lontani parenti che ritornavano a Genova dopo tanti anni di lontananza storpiando un po’ il dialetto, ma che di Genova-Pegli ne sapevano più di tanti locali...

La comunità composta di marinai, motoristi, ma anche comandanti ed ufficiali non solo s’inserì facilmente nel tessuto portuale sotto la Lanterna, ma fu subito stimata per le qualità marinare che dimostrò anche nella nuova e difficile attività dei ‘rimorchi d’altomare’.

Dai loro racconti, ben presto venne alla luce la sofferta storia di quest’antica etnia di corallari ‘pegioti’, inviata a Tabarka (Tunisia) dalla nobile famiglia dei Lomellini e per i barcaccianti autoctoni, meno acculturati, si trattò di una autentica scoperta. La storia si diffuse su tutti i bordi e in breve tempo, non pochi scelsero u schéuggio come meta delle loro vacanze. Da una conoscenza più approfondita emerse allora che l’identità di questa minoranza, non solo correva lungo il meridiano che passa per Ge-Pegli, l’isola di S.Pietro e l’isolotto di Tabarca in Tunisia, ma che queste sparse radici sostenevano un unico tronco ben piantato nella terra dei nuraghi.

Già, i tabarchini si sentono più sardi che continentali ed é giusto che sia così! Se in tutto il mondo ogni isola attrae i suoi figli con una speciale forza magnetica, i carlofortini o carolini sentono ancor di più questa triplice forza ‘insulare’ in virtù, anche, della consapevolezza di sentirsi una maglia d’unione tra l’Europa e l’Africa.

Forte genovese di Tabarca

 

Veduta aerea di Tabarca

A questo punto, per chi non si fosse ancora imbattuto in questa simpatica comunità etnica che parla il dialetto genovese, consigliamo di seguirci in questa veloce cavalcata storica...

Nel 1542 un nucleo di marinai e pescatori partì da Pegli  e dai vicini paesi della riviera ligure, al seguito del potente casato genovese dei Lomellini che aveva avuto concessioni territoriali in Nord Africa, e s’insediò sulla costa e sull'isolotto di Tabarka  (Tunisia) che si trova nei pressi del confine con l’Algeria.La loro storia prese avvio con redditizi traffici commerciali di spezie e stoffe pregiate, ma soprattutto con la pesca e la vendita del corallo  che durò fino al 1738, anno in cui partì la prima richiesta di rimpatrio. Dopo una pacifica convivenza con le altre comunità della zona magrebina, durata ben 196 anni, la concessione dei Lomellini diventò improvvisamente un problema. Sui fondali intorno all’isola cominciò a scarseggiare il corallo, i mercati languirono e iniziarono a moltiplicarsi le incomprensioni. Le contestazioni politico-commerciali con alcuni rais locali si risolvevano sempre più spesso con l’uso della violenza contro la comunità cristiana. Le convivenza prese una pessima piega quando cessò il dialogo, e il ricatto e la schiavitù diventarono le uniche armi imposte da chi regnava a Tunisi o ad Algeri in quel momento. Per questi motivi, stanchi di crescenti vessazioni, una parte dei Tabarchini, con a capo Agostino Tagliafico, nel 1738 chiese al re Carlo Emanuele III  di Savoia di rimpatriare in un luogo sicuro, in pace e libertà, per continuare i commerci con il resto del Mediterraneo. Fu scelta l'isola degli Sparvieri, allora deserta, mediante una regolare infeudazione. Oggi l’isola si chiama San Pietro e si trova in prossimità della costa Sud-Occidentale della Sardegna.

Stemma del Comune di Carloforte (6.420 ab.) (Isola di S.Pietro)

Gonfalone

Calata Mamma Mahon (Carloforte)

Spiaggia da Bobba (Carloforte)

Grati per la soddisfacente sistemazione, i nuovi abitanti dell’isola eressero una statua in onore del Re nella piazza principale del Paese (U Pàize) che fu chiamato Carloforte come segno di riconoscienza e fedeltà. A San Carlo Borromeo fu invece dedicata la Chiesa parrocchiale. Il Re donò per l'occasione un pregiato quadro raffigurante il Santo Patrono, ancora oggi situato nell'abside della Chiesa. Nel 1770 un seconda comunità di coloni provenienti da Tabarka s’insediò nella vicina Isola di Sant'Antioco, sul lato prospiciente l'Isola di San Pietro, dove fu fondato il paese dio Calasetta.  Evidentemente, i conti tra i tabarchini e i berberi nord-africani non si erano chiusi definitivamente. Infatti, il 3 settembre 1798, nelle primissime ore del mattino, gli equipaggi di tre navi corsare algerine sbarcarono nel porto di Carloforte e l’isola subì una feroce incursione piratesca. 933 carlofortini (circa la metà degli abitanti dell’isola) furono catturati, deportati e tenuti schiavi a Tunisi per cinque anni, fino al 24 giugno 1803, giorno in cui furono riscattati e poterono ritornare in patria. *

Sono passati ormai 215 anni da quella tragica ‘Via Crucis’ sofferta dai deportati carlofortini. Quale ricordo é rimasto oggi nel cuore e nella mente dei suoi discendenti? Oltre all’incancellabile ‘passaparola’ tramandato come un tam-tam di generazione in generazione, é rimasta per sempre una testimonianza di fede che vale la pena ricordare.

Durante il quinquennio di schiavitù, il prigioniero Nicola Moretto, un ragazzo che era riuscito a farsi benvolere dal suo padrone e quindi a godere di qualche libertà, rinvenne sulla spiaggia di Nabeul, vicino a Tunisi, una statua lignea. Quel pezzo di legno, nonostante fosse consumato dalle burrasche e corroso dalla salsedine, conservava ancora i lineamenti di una Madonna con il Bambino. Il ragazzo, come preso da un incantesimo, la nascose nel suo mantello e la riportò a casa difendendola dalla curiosità degli altri servitori musulmani. Riuscì a fatica a consegnare la statua a don Nicolò Segni, che dopo una sommaria ‘ritoccata’ la pose subito in venerazione.

Chiesa della Madonna dello Schiavo (Carloforte)

La Statuetta ritrovata

Il ritrovamento, é facile immaginarlo, fu accolto come un segno tangibile della protezione della Vergine e, improvvisamente, il morale dei deportati passò dalla disperazione alla speranza, e quindi alla fiducia in una prossima liberazione. Fu un evento miracoloso? Quei 933 disperati lo interpretarono, sicuramente, come un segno del cielo che avrebbe dato, prima o poi, i suoi frutti. Da quel fatto ebbe origine il culto della "Madonna dello Schiavo" protettrice dei Tabarkini.

Si tramanda che persino i musulmani, che venerano Maria (Maryam) e credono nella sua eccellenza e verginità, guardarono a quel ritrovamento con profondo rispetto e, da allora in poi, trattarono con maggiore rispetto gli schiavi cristiani.

Successivamente, re Carlo Emanuele III di Savoia pagò un oneroso riscatto e gli schiavi poterono ritornare in Sardegna.** La piccola statua della Madonna fu portata anch'essa a Carloforte e per accoglierla fu costruita l'omonima Chiesa della "Madonna dello Schiavo".

Le persecuzioni piratesche continuarono ancora per diversi anni, fino a quando il fenomeno fu definitivamente represso in tutto il Mediterraneo. Ma questa é un’altra storia. Concludiamo questo rapido sguardo a “volo d’uccello” segnalando che nella storia della comunità Carolina, dal 1738 fino ai giorni nostri, spiccano personaggi divenuti famosi nel mondo dell'arte, della cultura, della politica, nelle armi, delle arti e dei mestieri. Una parte cospicua della sua etnia risiede in tutti i continenti, non solo per necessità, ma per vocazione marinaresca, tanto che molti anziani ritornano a pösâ e osse nella loro terra d'origine: ‘u schéuggio’.

Carloforte é gemellata con le seguenti città: Tabarca (Spagna)- Camogli, dal 2004 - Montecchio Maggiore, dal 2009.

Note:

* La parola Barcacciante, deriva probabilmente dal termine francese ‘barcasse’ che indica un’imbarcazione portuale tuttofare.

** Solo sei carlofortini, per salvarsi dalla schiavitù, abiurarono la fede cristiana divenendo musulmani. Gli altri perseverarono, sostenuti da un certo don Nicolò Segni, che aveva seguito volontariamente i suoi concittadini nella prigionia; può essere interessante sapere che tale don Segni è un lontano parente della ben nota famiglia di politici sardi.

*** I padri Mercedari si impegnarono a fondo nella raccolta della somma necessaria per il riscatto, che, rispetto ai valori di allora, fu enorme: 655.000 lire sarde; della somma il 12% era stato raccolto dai frati, mentre il resto fu a carico delle famiglie degli schiavi e del Regno sardo. L’evento della liberazione ha avuto il suo epilogo nel santuario di Bonaria (Cagliari), retto dagli stessi Mercedari, con una particolare celebrazione di affidamento a Maria Santissima.

Carlo GATTI

Rapallo, 13.9.2012

 


CANI "MARINAI" d'amare di B.Malatesta e C.Gatti

CANI MARINAI

Cani d’amare

L’ambigua pronuncia del titolo si riferisce ad un argomento che solo pochi di noi hanno mai preso in considerazione: la frequentazione dei nostri amici a quattrozampe  sulle navi. Credo invece che parlarne possa svelare degli aspetti, a dir poco, sorprendenti.

 

Sicuramente in molti abbiamo notato almeno una volta una simpatica bestiola che abbaia scodinzolando sulla coperta di un rimorchiatore oppure quando sfreccia con brio da prua a poppa su una chiatta nei canali del Nord Europa. Ma chi ricerca attentamente su questo soggetto, trova la conferma che cani e uomini hanno condiviso da tanto tempo il loro destino in mare e non solo nei momenti di reciproca compagnia.

Quando ero giovane ufficiale, negli anni '70, una delle ricorrenti affermazioni  che sentivo a bordo era un  antipatico commento ripetuto durante le interminabili ore di navigazione notturna nell’oceano. Forse per rompere il silenzio ovattato del ponte di comando, il saggio di turno declamava in maniera pseudo-filosofica: "la  guardia, la fanno solo i marinai e i cani!".
Da allora è passato del tempo e dopo aver terminato la mia carriera e le guardie sulle navi, ho deciso di avere come amico un cane del quale sono perdutamente innamorato. Durante i momenti di reciproca e naturale incomprensione mi chiedo a volte quale sia l’eventuale attaccamento del mio amico verso una nave, se mai  vi si trovasse sopra. Dalle prime ricerche fatte, ne ho ottenuto un risultato inaspettato, che rende inappropriata la seppur amorevole definizione di “mascotte di bordo”: cioè il nostro amico ne merita davvero una ben più consistente. Vediamo alcuni aspetti di questo discorso.

E’ risaputo che i cani occupano i primi posti per dedizione ed attaccamento alla famiglia, sia quella gioiosa di un’abitazione che quella più atipica dell’equipaggio di una nave. Lo si denota dalle immagini che ci giungono nel tempo: prima i quadri bucolici del ‘600, poi gli innumerevoli dipinti delle scene di caccia, quindi le dagherrotipie e fotografie di fine ‘800 che ritraggono equipaggi di velieri con il loro fedele amico. In queste ultime, spesso l’animale è immortalato vicino al Numero Uno, il Comandante, quasi come se tra i due vi fosse un legame invalicabile alle persone che collega la solitudine del comando da una parte con l’eterna ed incommensurabile fedeltà dall’altra.

 

 

L'equipaggio del veliero "Bedford" (1904): il cane è vicino al Capitano! (tratto da http://content.lib.washington.edu)

 

 

Tempo fa, mi aggiornai su uno dei transatlantici più gloriosi della  nostra Marina Mercantile, il Rex. La veloce unità, come è noto, nel 1933 guadagnò con onore il Nastro Azzurro per aver compiuto la traversata atlantica ad una velocità di 29 nodi circa (54 Km/h)! Il suo Comandante, Francesco Tarabotto, splendida figura di Capitano Marittimo di Lerici, diplomato nautico a Genova, teneva a bordo una femmina di terrier, Lilly.
La testata americana Niagara Falls Gazette scrive, tra l’altro, nell’ottobre 1934: “ Il Comandante Tarabotto è scapolo e se gli chiedete perché, lui sorride riservatamente e asserisce che i suoi unici amori sono il Rex e la sua cagnetta Lilly, un terrier arrogante che scorrazza tra il ponte di comando e gli alloggi ufficiali”.

 

 

 

Uno splendido quadro di Marco Locci: Il Rex, il Conte di Savoia e il Conte Grande

 

Coloro che conoscono anche a tratti la storia del Rex, sorrideranno all’accostamento di Tarabotto, ufficiale imponente, che incuteva immediato rispetto, con la vivace bestiola, ma evidentemente anche lui se ne era “innamorato”.

 

Quello scritto mi stimolò a continuare a ricercare notizie dei cani sulle navi, a capire cioè se  la loro presenza fosse unicamente quella di tenere compagnia alla gente o se ci fosse qualcosa di più. I due esempi che seguono ci dicono infatti che il comportamento di quegli animali verso le navi è, a dir poco unico e forse, ancora inspiegabile.

Mi ricordai infatti dell'articolo sul nostro sito di Carlo Gatti, past President della Società,  che narrava le tragiche vicende della piccola nave da carico Fiducia, poi affondata,  il cui equipaggio fu salvato dalla nave passeggeri italiana Vulcania nel dicembre del 1962 a nord della Sicilia. Gatti si trovava lui stesso a bordo della nave passeggeri come Terzo Ufficiale di Coperta.
Si legge tra l’altro:  “…ci fu, purtroppo, una vittima di cui non abbiamo ancora fatto cenno. Su quella coperta inclinata e flagellata dai marosi, scivolava da paratia a paratia, abbaiava e piangeva un pastore tedesco, che nessuno poteva più aiutare. L'equipaggio stremato ed ancora impaurito, ma ormai al sicuro sul ponte passeggiata del grande transatlantico, volle seguire con lo sguardo il drammatico epilogo della sua nave. I naufraghi si schierarono l'uno accanto all'altro, s'appoggiarono tristemente al parabordo del ponte e fissarono a lungo, con gli occhi sbarrati, l'ultimo comandante di bordo che, abbandonato per sempre dagli uomini, s'allontanava incredulo nel buio più profondo.

 

 

L'affondamento della nave da carico FIDUCIA (arch. C. Gatti)

 

Lo salutarono sbracciando i loro baschi fradici tra le lacrime e gettando nell'angoscia, non solo i passeggeri, ma anche il collaudato equipaggio dell'anziana Vulcania. A bordo, tutto si fermò per un attimo, il nostro Comandante, stagliato come una sfinge sull'aletta della plancia, salutò con tre fischi lunghi e mesti la coraggiosa Fiducia che si apprestava a compiere la sua ultima traversata verso gli abissi, con il suo indomito e fedele nocchiero. La nave poco dopo sparì, trascinando con sé il suo ultimo compagno di viaggio, il più fedele. Se ben ricordo, il suo nome era Dock. (l’articolo completo è a http://www.scmncamogli.org/oldsite/pagine/nfiducia_nar.htm).

Dopo qualche tempo, un altro evento, toccante come il precedente, richiamò la mia attenzione. Nel dicembre 2010, la nave italiana Jolly Amaranto fu investita da una terribile tempesta nel Mediterraneo. L’unità fu abbandonata in quell’inferno e l’equipaggio venne salvato da un rimorchiatore. A bordo c’era un cane, Athos, che fu anch’esso portato in salvo. Dopodichè in un attimo successe l’imprevisto: il cane si lanciò in acqua per raggiungere la nave morente in mezzo alla tempesta!

Vano fu il tentativo di un marinaio che si tuffò dietro di lui per soccorrerlo, anzi dovette lui stesso essere portato in salvo dai sopravvissuti. La povera bestia sparì nelle onde implacabili e buie di quel mare in tempesta. (vedi toccante testimonianza a You Tube a http://www.youtube.com/watch?v=uQPsdywrVTs).

Dock e Athos si sono comportati in maniera simile, erano vincolati alla propria nave in maniera sublime, sino a sacrificare la vita, nonostante i propri padroni, sicuramente gli esseri a loro più vicini e più cari, fossero già tratti in salvo.

 

 

San Rocco di Camogli: Il monumento al cane, amico fedele dell'uomo (foto B. Malatesta)

 

A San Rocco di Camogli, il 16 agosto di ogni anno, si celebra la Festa del Cane, dove vengono premiati quegli animali che si sono distinti per le loro azioni di eroismo verso gli umani. Sarebbe bello che un segmento della manifestazione fosse dedicato ai quattrozampe delle navi, i quali ci ricordano istintivamente che l’unità sulla quale lavoriamo è davvero qualcosa di vitale importanza e che dobbiamo fare di tutto per salvaguardarla.=

 

Bruno Malatesta - 8/2012

 

Appendice: I cani nella storia marinara

I cani, si sa, hanno molta storia e tradizioni in comune con le persone. Sin dall’inizio della navigazione, questi animali sono sempre stati a bordo e siccome molti secoli fa le imbarcazioni naufragavano frequentemente, succedeva che i quattro zampe sopravvissuti abbandonavano l’unità arenata negli scogli, avventurandosi così in un nuovo paese, a volte originando quelle razze che oggi sono considerate pure. Nel 15mo e 16mo secolo per esempio, gli esploratori europei giunsero sulle coste del Nord America portando con loro mastini, cani pastore e waterdogs. Il famoso ed utile Terranova che, insieme al Labrador, è forse il cane acquatico più conosciuto, è il risultato dell’insieme di quelle razze.

 

 

Un Terranova

 

Ma non è solo l’aspetto della genesi di stirpi canine che richiama il nostro interesse. Ben presto, quando s’intese che i cani potevano essere addestrati con risultati sorprendenti, vennero utilizzati per espletare alcune operazioni di bordo, soprattutto il lavoro duro.
Nei vascelli da guerra erano impiegati per scambiare messaggi strategici tra i comandanti, cioè come dei veri e propri messaggeri acquatici; sulle navi da pesca invece raccoglievano il pesce o lo spingevano nelle reti o addirittura sistemavano tali reti ed altra attrezzatura che si trovava sia a bordo che in mare.  Nei casi di razze pregiate, costituivano preziosa merce di regalo verso potenti dignitari che avrebbero assicurato così buoni affari al comandante della nave. Potevano anche servire per cacciare i ratti di bordo; per esempio, i piccoli Chihuahua scovavano soprattutto i vermi che si infilavano dove altri cani di taglia maggiore non arrivavano.  Infine, compito molto importante, riportavano a bordo tutto quello che cadeva in mare, persone comprese. =

 

 

Ancora una testimonianza!

 

 

UNA MANOVRA DA CANE........

 

Entrai in timoneria mentre il traghetto della Tirrenia, proveniente da Porto Torres, stava imboccando l’entrata del porto.

“Ciao Comandante, ben arrivato!”

“Ben trovato a te! Stamattina abbiamo un pilota in più!” – Pensai d'incontrare quel collega che ogni tanto ritornava a Genova dai suoi genitori. Mi guardai intorno, ma vidi solo il timoniere ed un cagnone nero accucciato in un angolo. Il comandante rideva di sottecchi...mi spiegò:

- “Quella specie di orso bruno là nell’angolo si chiama Pilot e fa parte dell’equipaggio. Si é imbarcato con me un mese fa e sbarcherà con me tra dieci giorni! Non ci crederai, ma a bordo ha le sue mansioni  e guai ad interferire... E’ un cane molto orgoglioso!”

Lo guardai incuriosito e dissi: “Lo hai assunto come ‘gigolot’ per le cagnette di certe anziane passeggere ? O l’hai chiamato così in onore della mia categoria...?”

“Ad essere sincero né l’uno né l’altro. Il mio cane, di razza sconosciuta, sente la manovra come uno di noi e, allora, capisci, non potevo chiamarlo in un altro modo... Non vorrei che la battuta ti suonasse un po’ strana. Non c’è alcun doppio senso, credimi.”

Il Comandante sembrava davvero preoccuparsi della mia reazione e replicai: “Amo i cani e se anche fosse così, troverei la tua descrizione originale e assolutamente divertente”.

 

Poi mi rivolsi  direttamente all’interessato come fosse un collega: “Se sei dei nostri e ami la manovra, come dice il tuo datore di lavoro, uno di questi giorni ti porto sulla Torre/Piloti per farti conoscere i miei colleghi. Magari alcuni li conosci già”.

Pilot mi fissò con un occhio solo e poi  girò il testone per indicarmi la prua. Capii che non voleva assumersi alcuna responsabilità circa la mia distrazione !

C’era un po’ di tramontana, chiudemmo la porta di sopravvento e cominciammo a far ruotare la nave a dritta di 180° per portare la poppa in direzione della scassa n. 4 di Ponte Colombo. Durante la rotazione era immobile e concentrato, ma appena la nave terminò l’accostata, Pilot si alzò e con tutta calma ci precedette verso l’aletta di dritta, si sistemò vicino ai comandi esterni, poi si girò impaziente verso di noi  facendoci intendere: ‘avvicinatevi é il momento di portare la nave in banchina’.

Il suo padrone non gli aveva fatto alcun cenno. Rimasi basito. Pilot aveva segnalato non solo l’inizio della seconda fase della manovra, ma si era anche trasferito verso il lato d'attracco previsto quel giorno, che poteva essere un altro tra i quattro in funzione nel terminal. Una cosa é certa: Pilot non si sbagliò. Non dissi nulla. La nave andò regolarmente all’ormeggio e i cavi vennero filati a terra e poco dopo il Comandante urlò all’interfonico: “Abbassate la rampa!”. A quel punto Pilot lasciò la postazione scrollandosi di dosso le ansie accumulate e pensando: “La manovra é finita. Missione compiuta”. Lasciò il Ponte di Comando  e se n’andò in cabina ad aspettare il suo padrone per ricevere le meritate coccole.

A quel punto mi rivolsi al mio amico Comandante e chiesi con morbosa curiosità:

- “Comandante, la manovra non é mai la stessa e noi lo sappiamo perché ogni giorno la cambiamo in base al vento e alle esigenze del Terminal. Ora ti chiedo:  Pilot si é mai spostato verso il lato sbagliato della manovra?”

- “No! Non é mai successo! Io credo che lui percepisca il mio pensiero e analizzi inconsciamente i miei gesti. Le sue reazioni si basano, credo, sulla nostra empatia.

- “Ma si comporta allo stesso modo anche nella manovra di partenza?”

-“Si ! Anche alla partenza. Pilot anticipa sempre di qualche minuto la mia salita sul Ponte di Comando e appena sente l’ordine: “Rimanere su un cavo e lo spring”, si sposta sull’aletta di manovra, quella giusta! Appena molliamo i cavi da terra, lui rientra prima di me in timoneria, si sistema davanti al vetro centrale per indicarmi la rotta d'uscita dal porto”.

Quando siamo in mare aperto, a volte succede che mi trattenga sul ponte a scambiare quattro chiacchiere con gli ufficiali ma, anche in questo caso, non riesco mai a fregarlo. Sembra che Pilot capisca dalle mie parole e dal tono della voce quando sta per giungere l’attimo del mio congedo. Fino a quel momento rimane impassibile nell’attesa della mia decisione che lui percepisce sempre nell’attimo giusto e ancora una volta mi precede dandomi il tempo di salutare i presenti.

Carlo, cerca di venire anche alla partenza. Credo che Pilot voglia farti vedere ancora qualcosa...

T’aspetto!”

 

Una nota sul TITANIC

 

 

 

A bordo del transatlantico affondato al largo di Terranova il 14 aprile 1912 c'erano, a quanto riporta lo storico del Titanic Claudio Bossi, ben 35 cani che accompagnavano passeggeri di prima classe, e per i quali fu approntato anche un canile. Non risulta invece che ci fossero gatti.

 


La presenza di cani di razza a bordo era tale che, per il 15 aprile, era stata anche prevista un'esposizione canina per intrattenere gli ospiti che, ovviamente, non ebbe mai luogo. Due cani sopravvissero al naufragio.

Qualche tempo dopo l'arrivo dei naufraghi a New York, il quotidiano N. Y. Herald pubblicò la storia di Rigel, un terranova che sarebbe appartenuto al primo ufficiale William Mc Master Murdoch, il quale avrebbe nuotato per ore abbaiando fra le scialuppe alla ricerca del padrone scomparso, attirando così l'attenzione dell'equipaggio della Carpathia, la nave che giunse per prima e raccolse i superstiti.

 

 

 

Carlo GATTI - Bruno MALATESTA

Rapallo, 26.08.12

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


URAGANO "EMILY" - Una dura prova per M.T.Palombo

URAGANO "EMILY"

Comandante CSLC Mario Terenzio Palombo

Sono nato a Savona il 30 agosto 1942, da famiglia di tradizioni marinare: mio padre Francesco, autentico “lupo di mare” era originario di Porto Santo Stefano (Monte Argentario), mia madre Renata Mattera, era dell’Isola del Giglio. La mia famiglia nel 1935, per esigenze di lavoro, si trasferì in Liguria, nella pittoresca cittadina di Camogli.

Il comandante Mario Palombo nel 1983

Mio nonno Biagio, già armatore del pinco-goletta Nettuno, comandato da mio padre, si mise in società con una famiglia camogliese ed iniziò i trasporti e la vendita a Camogli e Santa Margherita Ligure, di carbone e legna proveniente dalla Sardegna.

Mi sono diplomato nel 1963 all’Istituto Nautico “Cristoforo Colombo” di Camogli.

Dopo varie esperienze su navi da carico e petroliere, nel 1972 iniziai la mia carriera su navi passeggeri con la Società di navigazione Home Lines, assumendo il mio primo comando nel 1983. Nel 1988 questa Società fu venduta e venni, nello stesso anno, assunto dalla Società Costa Crociere dove rimasi a ruolo, sino al 30 giugno 2007. Con queste due importanti Società maturai sempre più la mia esperienza professionale partecipando a vari allestimenti di nuove navi, con l’affidamento del comando di navi prestigiose.

Il 21 giugno 1987 mi imbarcai al comando della M/n Atlantic (Home Lines) impegnata sulla linea New York – Bermuda. Fu una bella stagione calda e le crociere andarono a gonfie vele. L’alta temperatura aveva favorito lo sviluppo di depressioni e tempeste tropicali e alcune di queste erano già passate nelle vicinanze dell’isola, ma per fortuna sino a settembre le tempeste si erano esaurite durante la nostra sosta in porto e avevano permesso un tranquillo viaggio di rientro a New York.

La sera del 24 settembre, però, mentre eravamo tranquillamente in porto ad Hamilton (Bermuda) un comunicato straordinario ci informava che la tempesta tropicale che si trovava a 480 miglia a SW dell’isola, nelle vicinanze delle Bahamas, stava dirigendosi verso Nord rafforzandosi, con previsioni di ulteriore peggioramento e probabile passaggio, nelle seguenti 36 ore, su Bermuda.

L’intera isola era in stato d’allarme, tutti però speravano, come era successo molte altre volte, in un cambiamento di direzione della tempesta in prossimità della terra. Convocai subito nel mio studio il comandante in seconda Giorgio Bercic, il direttore di macchina Martino Gallinaro, il capo commissario Augusto Fazzio e il nostromo Latino Calloni per informarli sulla mia decisione in merito all’uragano e sui preparativi per affrontare il maltempo in navigazione. Studiata la situazione sulla carta nautica e valutate varie ipotesi, quella più valida al momento era di partire in tarda serata o in prima mattinata, di passare a Sud dell’isola e, una volta ricevuto il bollettino meteo aggiornato con l’ultima posizione, assumere una rotta di allontanamento in tutta sicurezza, per poi dirigere verso la costa (Cape Hatteras) e quindi verso New York. Avevamo, in questo modo, un buon margine da poter sfruttare convenientemente. Purtroppo la navigazione nei canali di Bermuda, data la loro ristrettezza era interdetta durante la notte e, nonostante la nostra motivata richiesta, non riuscimmo ad ottenere il permesso di partenza.

Non rimaneva che attendere la mattina successiva con una buona dose di ottimismo.

Il capo commissario preparò un avviso che fece diramare in tutte le cabine passeggeri, con il quale si comunicava che la nave, per l’avvicinarsi dell’uragano all’isola, non potendo rimanere in porto, per motivi di sicurezza, avrebbe anticipato la partenza al mattino successivo alle 07.00. Seguirono annunci per altoparlante in modo che tutti fossero informati sulla situazione. Il comandante in seconda fece chiudere le corazze degli oblò dei due ponti al di sopra del galleggiamento ed il nostromo preparò alcune pompe portatili che installò in prossimità degli ombrinali in cui l’acqua piovana avrebbe potuto defluire con difficoltà e causare allagamenti.

Informai la nostra agenzia sulla decisione di partire la mattina seguente. Il responsabile, un certo John Moore (mio amico già dal mio primo arrivo a Bermuda), essendo anche lui esperto di mare, approvò la mia idea e mi confermò che, essendo previsti piovaschi, le autorità portuali avevano ulteriormente esaminato la nostra richiesta di partenza notturna giungendo però alla conclusione di non accoglierla. Passai la notte nell’attesa di ricevere qualche bollettino meteo di aggiornamento. Purtroppo a quel tempo le previsioni non erano così accurate come oggi e per avere la posizione della tempesta e l’intensità del vento bisognava attendere che un aereo da ricognizione si recasse sopra l’occhio dell’uragano e con un’apposita sonda, rilevasse tutti i dati.

Provai pure a chiamare il Miami Hurricane Center, ma non avevano aggiornamenti. La mattina del 25 settembre 1987 il cielo si presentava grigio scuro ed il mare calmo, non un alito di

vento. Il barometro scendeva rapidamente. Da 1000 hPa, in pochissimo tempo, era già arrivato a 980 hPa. La cosa mi insospettì, la tempesta doveva essere vicinissima a noi. Avevamo appena iniziato ad alleggerire gli ormeggi per la partenza prevista alle 07.00, ma diedi ordine di sospendere, per attendere l’emissione del successivo bollettino meteo. Telefonai nuovamente al Miami Hurricane Center e mi dissero che a breve avrebbero diramato l’aggiornamento, infatti, poco dopo, il nostro strumento inizio a scrivere il messaggio.

Come pensavo, in realtà, la tempesta tropicale era molto più vicina a Bermuda e durante la notte si era intensificata trasformandosi in uragano e dirigendosi a forte velocità verso l’isola, in quanto aveva trovato condizioni meteo favorevoli con l’avvicinarsi alla terra. Si calcolò che aveva addirittura galoppato spostandosi ad una velocità superiore ai 30 nodi (55 Km/H) e che la forza del vento aveva raggiunto raffiche oltre i 100 nodi (180 Km/H). Il bollettino concludeva scrivendo che l’impatto con l’isola era previsto alle 08.00 del mattino. L’unica cosa da fare era riormeggiare la nave con tutti i cavi a disposizione e sperare in un cambiamento di rotta dell’uragano.

Ricordo che passammo intorno alle bitte d’ormeggio disposte in banchina almeno una dozzina di cavi a prora e poppa, in aggiunta feci mettere spezzoni di cavo d’acciaio, di cui la nave era dotata, tra le bitte di ormeggio lungo lo scafo e lungo la banchina. Questi spezzoni servivano a non far allargare troppo la nave dalla banchina durante le raffiche, evitando che aumentasse la tensione dei cavi di prora e di poppa. Feci zavorrare la nave per aumentarne la stabilità durante le forti raffiche ed in caso di una possibile perdita d’ormeggio. Feci inoltre devirare l’ancora di dritta in mare (lato banchina) sino a otto lunghezze (220 metri di catena) e feci disporre tra la banchina e la nave tutti i parabordi di cui la nave era dotata (circa una dozzina).

L’ancora in mare sarebbe stata una sicurezza in più nel caso in cui il vento fortissimo ci avesse fatto rompere i cavi e perdere l’ormeggio. Quando tutto il nostro personale addetto a queste operazioni salì a bordo, togliemmo lo scalandrone e rimanemmo in attesa degli eventi, con i motori in moto, pronti all’emergenza.

Tutti gli abitanti dell’isola si erano barricati in casa cercando di sbarrare e chiodare le finestre per limitare i danni. Puntualmente alle 08.00 il cielo, che prima era grigio, diventò nero, praticamente buio come la notte. Il barometro scendeva paurosamente a rotta di collo. La pioggia in pochi minuti diventò torrenziale e la quantità d’acqua caduta in pochi minuti fu tale da allagare tutte le strade, mentre le nostre pompe ausiliarie, fortunatamente, reggevano bene salvaguardando dall’allagamento l’interno della nave. La potenza del vento era paurosa. In porto sembrava di essere in mare aperto. In certi momenti le raffiche raggiungevano gli 80 nodi. Le barche ormeggiate poco distante dalla nave, strapparono gli ormeggi e rimasero in balìa del mare come fossero dei leggeri fuscelli.

Intanto la depressione che si era creata proprio al centro di Bermuda fece salire la marea di oltre due metri, il barometro era sceso ancora sino a 960 hPa. Il mare lambiva l’orlo della banchina. Guardandoci attorno, osservando le case sulle isolette, sembrava che l’isola dovesse inabissarsi. Sulla banchina riservata alle navi da carico ubicata proprio dietro di noi, le fortissime raffiche di vento fecero cadere tutti i containers vuoti accatastati e li spinsero in mare.


In porto ad Hamilton (Bermuda)

Danni causati alle bitte di ormeggio dalle prime raffiche violente di vento

I tetti delle case non resistettero a questa forza tremenda e di tanto in tanto, grossi pezzi di copertura dei tetti venivano sradicati e volavano via. La stazione marittima venne scoperchiata completamente. Il nostro scalandrone volò in mare. Le macchine e le moto rimaste in strada volavano via e venivano accatastate una sull’altra. Le uniche piante a resistere alla furia del vento erano le palme lungo la passeggiata. Venivano strapazzate in tutti i sensi, si piegavano quasi a toccare terra, ma resistevano. La nave, invece, quando la raffica aumentava di intensità veniva sbattuta contro la banchina, si avvertivano i forti colpi e le vibrazioni, ma i parabordi aggiuntivi che avevo fatto mettere proteggevano lo scafo che si manteneva integro. Il vento soffiò da SW, sbattendo la nave contro la banchina per oltre un’ora, poi il vento incominciò a girare da W e poi da NW, segno che il centro dell’uragano si stava allontanando, ma la forza del vento in questo settore era ancora più forte. Per circa cinque minuti le raffiche diminuirono di intensità, ma dovevamo aspettarci qualcosa di ancora più forte e tremendo. Improvvisamente le raffiche ripresero superando i 100 nodi ( 180 Km/H.), parte dei tetti ripresero a volar via e una forte raffica spinse violentemente la nave lontano dalla banchina, Si pensò che i cavi avessero ceduto, invece guardando tra la pioggia li vidi penzoloni e mi accorsi che in banchina mancavano tutte le bitte da ormeggio.

Praticamente i cavi avevano resistito, ma le bitte con tutto il cemento armato avevano ceduto e oltre alle bitte erano venuti via blocchi di banchina. Avevamo perso l’ormeggio.


Perdita dell'ormeggio causata dal fortissimo vento

Le bitte avevano ceduto perché su ognuna di esse c’erano almeno tre o quattro cavi che, insieme, avevano formato un fascio molto resistente che superava la tenuta della bitta stessa.

La furia dell'uragano contro la nave Atlantic

Una scena che, a prima vista, mi lasciò sbalordito. Fortunatamente mi ripresi subito pensando che la poppa della nave spinta dal vento avrebbe potuto urtare contro la banchina, il vento infatti aveva fatto ruotare velocemente la nave. Tolsi tutte le sicurezze sui motori per avere l’intera potenza disponibile e misi le leve di colpo avanti tutta.


Perdita dell'ormeggio causata dal fortissimo vento

La nave reagì subito, ebbe un balzo in avanti portando via anche le bitte di ormeggio di poppa. La nave fu salva dal possibile urto contro la banchina. Subito per altoparlante gridai al nostromo di cercare di recarsi a prora per dare fondo all’ancora di sinistra.

Mi dissero dopo che, sentendo la mia voce così forte e decisa, l’equipaggio e i passeggeri si rassicurarono pensando che chi stava in quel momento al comando, non aveva perso la calma. Il nostromo Latino Calloni fu rapido, passò dal portello di prora, riuscì con una cintura di sicurezza a legarsi al verricello e, al mio ordine, quando la catena di dritta che era già in mare si stese tutta, diede fondo all’ancora di sinistra lasciando andare, anche su questa, circa sette lunghezze (200 metri). Ci trovavamo in mezzo alla baia del porto con le due ancore in mare.


In porto ad Hamilton (Bermuda) si lotta contro le violente raffiche di vento

Pioggia e vento non mollavano, non si vedevano neppure la banchina e la terra intorno a noi per le forti raffiche di vento e per la pioggia torrenziale. Mi sentivo però più sicuro, dentro di me pensavo che le ancore avrebbero salvato la nave. In tutto questo frangente si doveva pensare anche ai nostri passeggeri e all’equipaggio. Il nostro direttore di crociera era sul ponte per dare informazioni sull’accaduto con messaggi sempre ottimistici. Feci anche dire loro di stare tranquilli perché in quelle circostanze il luogo più sicuro era la nave e anche se ci fossimo arenati, non ci sarebbe stato alcun pericolo.


In porto ad Hamilton (Bermuda) la nave lotta contro la furia dell'uragano Emily

Le raffiche di vento causavano improvvisi sbandamenti a dritta e a sinistra di oltre 10 gradi. Cercavo di manovrare la nave con i motori, non si vedeva nulla per la furia della pioggia e per il vento. L’ufficiale a poppa di tanto in tanto gridava che la nave si avvicinava paurosamente alla banchina ed io prontamente agivo sui motori per evitare l’urto.


In porto ad Hamilton (Bermuda): raffiche violente di vento

Molte volte arrivammo a meno di un metro di distanza, ma riuscimmo sempre a evitare il contatto. La forte escursione di marea aveva fatto sì che la nave galleggiasse tranquillamente anche nella parte più interna del porto, dove veniva sospinta dal vento.


In porto ad Hamilton (Bermuda) la nave lotta contro la furia dell'uragano Emily

Tutto intorno a noi lo scenario era terrificante: a terra case scoperchiate, strade allagate, macchine accatastate, in porto barche e containers rovesciati e alla deriva.


 


Nelle tre foto: in porto ad Hamilton (Bermuda), raffiche violente di vento contro le case

Dopo circa due ore di furia, finalmente, verso mezzogiorno, il vento incominciò a placarsi. In mezz’ora il tempo fece un rapido cambiamento. Prima si calmò il vento, poi il cielo da nero diventò grigio e poco dopo incominciò a schiarirsi fino a divenire completamente sereno.


In porto ad Hamilton (Bermuda): la furia dell'uragano si sta placando

Il barometro che aveva raggiunto un picco in discesa sino a 956 hPA,( mai visto così basso!) stava salendo molto rapidamente e ciò significava che l’uragano dopo aver scaricato tutta la sua furia sull’isola si era diretto in mare, degradato a depressione tropicale. Come avevo pensato le ancore avevano salvato la nave.

Con una lancia messa a disposizione dalla nostra agenzia feci un giro di ispezione intorno alla nave. Nessun danno allo scafo e alla sovrastruttura, nessun vetro di oblò rotto.

L’isola fu invece semidistrutta dalla tempesta. Mentre giravo con la lancia intorno alla nave, i passeggeri applaudivano e mi gridavano «Bravo Mario, grazie!». Anche da terra molti abitanti usciti di casa applaudivano nel vedere la nave integra in mezzo a tutto quel disastro.

Prima di poter partire per New York si dovette attendere qualche ora per consentire al comandante del porto di far sgombrare l’area dalle imbarcazioni che si trovavano in mezzo al canale e sulla nostra rotta. Rimanemmo nella rada di Hamilton antistante la banchina di ormeggio, inoltre studiammo con il comandante, il pilota e il nostro agente, il capitano John Moore, la priorità delle azioni da intraprendere per poter far scalo senza problemi la settimana successiva.

C’erano da ripristinare le bitte, da riparare il tetto della stazione marittima e da ripescare il nostro scalandrone caduto in mare. Per le bitte i tempi erano lunghi, in quanto si doveva attendere che il cemento armato facesse ben presa e quindi si decise, per almeno due o tre scali, di utilizzare la catena di emergenza sistemata nei pozzetti della banchina di prora e di poppa della nave. Questa catenaria nei casi di vento fortissimo, veniva di proravia connessa alla catena della nave, di poppavia ad un fascio di almeno tre cavi, di cui uno di acciaio. In questo modo l’ormeggio poteva considerarsi sicuro, di certo non in caso di uragani, in quanto era meglio che le navi lasciassero per tempo il porto per raggiungere mari più tranquilli. Nel nostro caso, le catene non erano state utilizzate in quanto pensavamo di partire in prima mattinata, ma la nave era stata salvata dalle proprie ancore.

Suggerii al comandante del porto di far installare bitte molto resistenti, almeno due in testata ed in radice della banchina, con un solido e profondo basamento. Ci vollero tre settimane, ma finalmente avevamo nuove bitte molto forti posizionate a regola d’arte.

Liberato il canale da tutti gli oggetti pericolosi per la navigazione, poco dopo le 14.00 partimmo per New York. Avevo passato quattro ore terribili in piedi, nonostante tutto mi sentivo ancora forte sulle gambe. Durante la navigazione lungo la costa dell’isola era possibile osservare le spaventose distruzioni provocate alla vegetazione e alle case dall’uragano.

Lasciata la costa a circa cinque miglia di distanza, al limite della barriera corallina l’uragano Emily che dirigeva verso Nord Est e che era ormai solo una depressione tropicale, ci aveva lasciato un’ultima sorpresa: davanti a noi il mare lungo formava, sui bassi fondi, onde tra i sei e i dieci metri che frangevano sulla barriera, sollevate da raffiche violente di vento. Feci subito fare un annuncio ai passeggeri che avremmo affrontato le onde a bassa velocità e che non ci sarebbe stato alcun pericolo per loro e per la nave.


Sotto le coste di Bermuda, primo impatto con le onde lasciate dall'uragano "Emily"

Affrontata la prima onda, dovetti diminuire e subito aumentare la velocità per governare bene la nave. L’ Atlantic si comportò egregiamente; data la bassissima velocità, l’onda passò senza provocare forte movimento di beccheggio né tantomeno forte impatto. A seguire ce ne furono altre quattro, tutte tra i sei e gli otto metri. Finalmente fuori, assumemmo la rotta iniziale più verso Cape Hatteras, dove il mare era previsto molto più calmo. Il viaggio fu buono e i passeggeri rimasero soddisfatti.

 

Impressionante veduta delle onde lasciate dall'uragano "Emily"

Sul programma del giorno chiamammo la serata dell’ arrivederci “Gala dell’uragano Emily” e dovetti poi firmare tutte le copie perché i nostri passeggeri lo vollero tenere come ricordo.

La stessa sera ricevetti moltissime lettere di elogio e di ringraziamento dai passeggeri. Avrei dovuto scendere in ristorante, ma ero troppo stanco, mi feci vedere soltanto durante i due cocktail prima dei due turni della cena. Fui accolto con grandi applausi, elogiai i nostri passeggeri per la calma mantenuta durante l’emergenza e poi mi ritirai per un meritato riposo.


Onde montagnose lasciate dall'uragano "Emily"

Non riuscii a dormire quella notte, sentivo forti crampi alle gambe per la stanchezza e poi il pensiero del pericolo corso e superato mi veniva continuamente in mente. Rivedevo chiaramente tutto. Ringraziai il Signore per avermi dato così tanta forza da mantenermi sempre calmo e lucido in tutte le decisioni e negli ordini impartiti e per avermi fatto uscire dalla tempesta con la nave integra.



Nelle foto sopra: impressionanti vedute delle onde lasciate dall'uragano "Emily"

La notizia dell’uragano e della nave scampata al pericolo era rimbalzata su tutte le reti televisive degli Stati Uniti. In arrivo a New York, la mattina di lunedì 27 settembre, un elicottero di una rete televisiva sorvolò la nave e, all’arrivo in stazione marittima fui intervistato varie volte sull’accaduto.

Vidi poi in televisione che tutti i passeggeri intervistati avevano rilasciato dichiarazioni encomiabili nei confronti miei e di tutto l’equipaggio per come era stata gestita l’emergenza e per l’informazione continua e rassicurante. Per alcuni giorni in TV non si parlò d’altro che di me, della nave e dell’uragano. Fu una buona pubblicità per la nostra Compagnia.

Anche i passeggeri appena imbarcati non facevano altro che parlare di questa storia e, appena mi vedevano, mi fermavano per conoscerne i dettagli .

Ritornati a Bermuda, guardando l’isola con l’occhio più attento, notammo moltissimi tetti delle case distrutti e tantissimi alberi abbattuti. Gli abitanti avevano iniziato la riparazione provvisoria dei tetti utilizzando della tela in attesa che giungesse sull’isola altro materiale idoneo per la riparazione.

Ci ormeggiamo in porto ad Hamilton utilizzando l’unica bitta rimasta di prora e di poppa ed in aggiunta, come avevamo già stabilito, le catene sistemate nei pozzetti della banchina.

Appena arrivati ci fu una bella sorpresa: la banda dell’isola ci diede il benvenuto. Ricetti l’invito di presentarmi dal governatore dell’isola: fu una cerimonia molto toccante che culminò nella firma dell’evento dell’uragano su un registro dove di solito firmano le persone importanti.

Il governatore John W. Swan mi consegnò una targa in memoria del passaggio dell’uragano e oltre al suo encomio personale mi diede una lettera dove esaltava il mio comportamento e mi dichiarò cittadino onorario dell’isola per tutta la stagione 1987. Fui veramente commosso e nello stesso tempo fiero per quanto, con l’aiuto di Dio, ero riuscito a fare.


Firma del registro "Eventi straordinari su Bermuda" in presenza del governatore dell'isola

Riporto qui di seguito i contenuti della lettera ricevuta:

PREMIER – THE CABINET OFFICE – HAMILTON 28.9.1987.

Caro Comandante Mario Palombo,

Tutti, tra coloro che sono stati testimoni delle difficoltà duramente provate dalla m/v Atlantic, nel culmine del cattivo tempo causato dall’uragano Emily, lo scorso venerdì, sono rimasti sbalorditi dalla consumata destrezza con la quale Tu sei stato capace di portare la Tua Nave fuori dal pericolo.

La subitaneità con la quale Bermuda è stata colpita dall’uragano, ha colto molta gente di sorpresa, ma le storie rimangono di quelli che, come Te, sono stati capaci di emergere dall’occasione. La Tua rapida azione ha certamente allontanato ciò che poteva essere un disastro molto pericoloso. Quindi, a Nome del Governo, ho il piacere di encomiare Te ed il Tuo Equipaggio per la pronta ed efficiente azione con la quale Tu hai manovrato la Tua Nave fuori dal pericolo, Vogliamo sperare che, da oggi in poi, Noi navigheremo mari più tranquilli. Cordiali e personali saluti, sinceramente John W. Swan.

Alcuni giorni dopo dal presidente della Compagnia ricevevo la seguente lettera:

HOME LINES INC. 5 Ottobre 1987.

Caro Comandante Mario Palombo,

Voglio congratularmi con Te e con il Tuo Equipaggio per il modo coraggioso con il quale avete affrontato le difficoltà causate dall’uragano Emily.

Vi porgo i miei migliori saluti, sinceramente. N. Vernicos Eugenides President.

Il Presidente della Home Lines New York mi scriveva in data 1 Ottobre 1987.

Caro Comandante Mario Palombo,

a seguito della nostra conversazione telefonica relativa all’atroce uragano Emily, voglio esprimere per iscritto il nostro apprezzamento e ringraziamento per il modo magistrale con il quale Tu hai manovrato la Tua nave durante quei critici momenti. Noi siamo estremamente orgogliosi di avere Comandanti del Tuo calibro nella nostra Famiglia Home Lines.

Congratulazioni, sinceramente, Franciskos G. Stafilopatis, President.

Dal nostro Comandante di armamento di Genova ricevevo :

AGENZIA MARITTIMA ITALO SCANDINAVA Sede in Genova, 7 Ottobre 1987.

Caro Comandante,

Ho appena finito di leggere ed osservare tutto il materiale, fotografie, estratto giornale, lettera del Primo Ministro ecc. da lei cortesemente inviatomi relativamente alla famigerata “Emily”. Naturalmente sono tornato con la mente alle conversazioni telefoniche con Lei avute quando mi ha informato di quanto accaduto e mi viene il dubbio che in quelle nostre conversazioni forse non sono stato capace di esprimerLe appieno il mio apprezzamento e la mia ammirazione per la capacità con cui ha saputo affrontare la pericolosa emergenza ed essere padrone della nave malgrado tutte le circostanze avverse che, in breve giro di tempo, si sono scatenate contro di Lei e la sua nave. Solo la Sua perizia e la Sua calma Le hanno consentito di manovrare in condizioni praticamente impossibili e di tener testa agli elementi. Ammirevole è stato anche il comportamento del Suo Equipaggio al quale La prego di esternare il mio apprezzamento. Lei non può immaginare quale soddisfazione sia per me il poter dire una volta di più che i Marittimi della Home Lines sono sempre i migliori di tutti.

Con i più cordiali saluti, Diego Voussolinos.

Inoltre il giornale di Bermuda la “ Royal Gazzette “ riportava un articolo da un bellissimo titolo : “ATLANTIC NEVER LOST CONTROL” dove esaltava la mia impresa e dove ringraziavo il mio bravissimo direttore di macchina Martino Gallinaro per la collaborazione ricevuta nel mantenere sempre tutti i servizi nave in efficienza durante questa dura prova. Riportava che, mentre l’isola era stata colta di sorpresa, io non mi ero lasciato sorprendere, mi ero preparato, mettendo a frutto la mia esperienza, per affrontare le intemperie. In questo articolo riportavano anche quanto io ero fiero dei miei ufficiali e del mio equipaggio per il comportamento coraggioso dimostrato in questa occasione.

In conclusione posso dire che fu veramente una brutta esperienza dalla quale venni fuori senza danni con l’aiuto di Dio. Il fatto di aver pianificato ogni cosa e cercato di prevedere il peggio mi fu senz’altro di grande aiuto in quanto tutti i miei ufficiali erano pronti all’emergenza ed erano a conoscenza del miei piani in tutti i dettagli e, quindi, sapevano come muoversi. Inoltre l’equipaggio era stato informato su come intervenire in aiuto, se fosse stato necessario, dei nostri passeggeri e soprattutto sapeva di dover agire con calma evitando di creare panico. Fu proprio la calma, che grazie a Dio, riuscii sempre a mantenere, a farmi prendere le giuste decisioni per la nave, i passeggeri e l’equipaggio.

dal Libro : "La mia vita da uomo di mare" del Com.te Mario Terenzio Palombo - Editrice Innocenti - Grosseto (4/09)

Carlo GATTI

Rapallo, 15.03.12

 

 


MARIETTO ed il suo rimorchiatore d'altura Casteldoria

MARIETTO DI BARTOLOMEO

ed il rimorchiatore Casteldoria


Il m/r  Casteldoria

Una buona macchina della sua epoca

Gli armatori di allora lo avevano programmato e realizzato per farne un “uso allargato” e per questo motivo la “barca” aveva uno shape più elegante e navigabile di quei “mastini portuali” che avevano la prora bassa, rincagnata e richiamavano alla memoria la virilità dei gladiatori romani. Sul suo unico albero  svettava l’antenna del radar che gli conferiva un portamento nobile e suscitava una certa invidia tra le  altre barcacce del porto che erano destinate allo stesso impiego.

Tuttavia, il suo compito principale era pur sempre il “servizio portuale” che era alle prese, in quegli anni di boom economico, con il gigantismo crescente delle petroliere e dei primi containers transoceanici, ragion per cui, i suoi 1.535 cavalli di razza erano sempre molto richiesti sulle tre imboccature del porto di Genova.

Ma la Società aveva da difendere “Il suo Marchio RR” anche nel settore dell’Altura a corto e medio raggio e certamente non era disposta a lasciarsi scappare i  vecchi clienti e qualche “nolo buono” da mettere nella “cantia”. Il Casteldoria nacque così nel 1961 per soddisfare questa doppia esigenza economica e operativa.

In realtà, fuori dell’ambiente  di Ponte Parodi, pochi erano in grado di distinguere  le diversità tra le due attività di rimorchio: portuale ed alturiera che, in qualche modo, pur partendo da una radice comune, erano ben presto destinate a dissociarsi al traverso del fanale rosso del porto, per seguire rotte ben distinte e caratterizzate da responsabilità oggettive ed esperienze tecniche complementari, ma differenti.

In porto occorreva imparare una tecnica per la verità molto complessa, che si affinava in molti anni di gavetta e si realizzava di pari grado con la personalità, il coraggio ed il senso marinaro del suo comandante che agiva per mezzo del timone e di un potentissimo motore, ma che interagiva con un “suo” equipaggio motivato, addestrato e direi personalizzato. L’intelligenza complessiva dell’equipaggio doveva poi adattarsi alle caratteristiche  della nave da rimorchiare in porto, al suo personale, alle condizioni meteo e soprattutto al pilota portuale che, con un suo metodo originale, dirigeva la manovra accanto al comandante della nave.

“Saper navigare” costituiva invece il presupposto del rimorchio d’altura. In mare aperto, il Casteldoria ed il suo equipaggio cessavano di essere un “servizio portuale” retribuito dalla nave in manovra e diventavano una “unità indipendente”, un piccolo e poderoso scafo che però si allungava con  quasi 300 metri di cavo e terminava sul dritto di poppa dell’unità trainata. Il rimorchiatore era soltanto la testa del convoglio che esercitava il comando su quasi 500 metri di spazio “nazionale”. Il Casteldoria, steso tutto il suo cavo, diventava improvvisamente la nave più lunga del mondo ed il suo esiguo equipaggio aveva il compito di controllare una superficie di mare  che durante i piovaschi invernali, le mareggiate e le nebbie adriatiche diventava impervia, infinita, difficile da gestire per l’occhio e l’orecchio umano che erano ancora sprovvisto, a quell’epoca, di moderni strumenti ed “aiuti” alla navigazione.

Il comandante del Casteldoria cessava così di prendere ordini dall’alto e diventava autonomo nelle sue decisioni e responsabilità. Proprio su questo punto fondamentale del Codice della Navigazione si dividevano quindi le due principali attività di rimorchio.

In mare non ci sono taverne!”

Con questa pittoresca sentenza, i marinai di una volta usavano sottintendere il concetto di pericolosità delle furie del mare in burrasca e le difficoltà di trovare un ridosso nell’attesa di un cambiamento favorevole del tempo. Ma questo monito sembrava ancor meglio “appiccicarsi” alla realtà di un rimorchio d’altura che poteva navigare solo in alti fondali, lontano dalla costa, a causa dell’immersione (pescaggio) di circa 20-30 metri che disegnava l’arco (catenaria),  del suo cavo filato  fuoribordo.

In inverno le burrasche erano di gran lunga più veloci dei “rimorchi” d’altura che annaspavano  a 5/ 6 nodi,  senza alcuna possibilità di fuga su rotte alternative. Il risultato era sempre  lo stesso: lunghe notti alla cappa (con la prora al mare), “ballando con i lupi”, piegati su se stessi, nell’attesa che il vento girasse  a tramontana per poi controllare i danni e riprendere la rotta.

Era importante per un comandante d’altura, che non poteva “scappare” da una depressione, capire i segnali del tempo, intuire la verità tra le righe dei bollettini meteo e capire poi con l’esperienza, quali erano i bollettini affidabili,  quelli meno e quelli addirittura pericolosi. Ma era ancora più difficile decidere di “mollarsi” dal porto o dal ridosso quando il meteo non dava alcuna certezza e i Ricevitori, qualche volta, premevano per esigenze legate ai loro programmi operativi.

Ricordo di un Rimorchio in Mediterraneo

Spero che gli amici barcaccianti abbiano già perdonato la lunghezza di questo cappello introduttivo teso, nelle nostre intenzioni, soltanto a proiettare alcuni sprazzi di luce su un mondo che troppo a lungo è stato occultato in una nicchia, che molte volte è stata scambiata e confusa con altre realtà marinare e che, ancora oggi, sfugge quasi sempre alle giuste interpretazioni.

Il motivo di tanto silenzio sta nella ritrosia dell’uomo di mare che rifugge dalle operazioni di marketing terrestre e  - dialoga solo con il mare - come sosteneva il celebre scrittore di mare Vittorio G. Rossi.

Questa “piccola” storia di un viaggio del Casteldoria non è altro che l’occasione per ricordare il comandante Marietto Di Bartolomeo che ci ha lasciato in questi giorni. Il suo amico e compagno di bordo per oltre vent’anni, il direttore di macchina Osvaldo “consumi” Schiano di Porto  S. Stefano, mi ha chiamato al telefono e con un comprensibile magone alla gola mi ha raccontato un episodio, uno fra i tanti  vissuti accanto al “suo” comandante  sicuramente, per essergli ancora un po’ vicino, su quel ponte angusto del Casteldoria dove le decisioni, le gioie e le sofferenze legavano le persone ben oltre i normali rapporti di lavoro.

Un Pontone della Soc. MICOPERI al Traino del M/r CASTELDORIA

VIAGGIO MARS EL BREGA-CAGLIARI- e rientro a GENOVA

Dal 14 al 23 dicembre 1970

Osvaldo racconta:

“Per quattro giorni consecutivi, dalla partenza da Mars El Brega (Libia), la navigazione era stata regolare e veloce fino all’alba del 18.12, quando il primo bollettino meteo delle 06.25 ci fornì un preoccupante Avviso di Burrasca forza 7 sul Canale di Sardegna, quindi sulla parte finale del nostro viaggio da compiersi in mare aperto.

Il comandante Marietto Di Bartolomeo, serio e scrupoloso come sempre, ci chiamò sul ponte e illustrò il bollettino del tempo, sentì le nostre opinioni e poi decise di rallentare l’andatura per portarsi a ridosso di Capo Mustafà (Tunisia) situato ad una ventina di miglia a ponente di Capo Bon. L’intenzione era quella di giungervi all’alba per constatare “de visu” la situazione meteo, per poi decidere se pendolare dietro la punta o rischiare l’avventura sperando in un rallentamento o meglio in una deviazione della depressione”.

A questo punto del racconto, Osvaldo rivive la stessa tensione emotiva di quel lontano inverno del ‘70 e con la consueta verve esuberante della sua gente toscana, riprende il racconto al presente storico,  ma la sua voce  ogni tanto è rotta dall’emozione.

“Verso le 04, improvvisamente il beccheggio causato dal mare lungo in prora s’interrompe. Il vento leggero che sibilava al traverso si ammutolisce, il convoglio frena dolcemente fino a fermarsi. Sembra un incaglio. Ma  il Casteldoria, con il cavo già abbondantemente accorciato, non è ancora sotto costa; allora è evidente che abbiamo incocciato qualcosa.  Il cavo si è stirato ma ha tenuto. Sveglia generale. Tutti sul ponte di comando, per guardare la carta nautica che però è muta.  In quella zona non è segnalato alcun relitto. Abituati come siamo a vedere il nemico in faccia, è davvero traumatico sentirsi aggrediti alle spalle, anzi sotto i piedi, vigliaccamente!

Marietto, grande marinaio, rimane calmo e tranquillizza l’equipaggio,  smorza subito qualsiasi suggerimento avventuroso e comincia ad “assaggiare il fondale” con qualche timido strappetto teso a sganciarsi, ma è chiaro che teme di peggiorare la situazione. Prova qualche accostata da ambo i lati e poi desiste.

Marietto mi guarda e intuisce che forse il suo fedele direttore di macchina, munito di una cospicua esperienza  sui pescherecci di Porto S. Stefano, potrebbe aver già conosciuto quel problema che penalizza, ogni giorno, numerosi pescherecci che sono costretti a  lasciare costosi pezzi di rete a strascico, cavi e attrezzi vari sui relitti del Mare Nostrum che, com’è noto, da oltre duemila anni è teatro d’affondamenti di navi mercantile e  militari di ogni razza e bandiera.

Nel suo sguardo leggo un invito a prendere la parola.

- Marietto ascolta! Una volta ci è capitato con il “Papetto II” d’incocciare un relitto, pare si trattasse di un’ala d’aereo abbattuto a sud della Capraia e so che da queste situazioni non si esce tirando a strappare… ma lavorando con il cervello, con la calma e con l’astuzia. Io, come sai, non sono un manovratore e non ho la sensibilità di sentire sulla pelle se il cavo resisterà o cederà, come invece capita a te, ma questo lavoro l’ho visto fare numerose volte.

“Dai Osvaldo, dimmi la tua!”

- Rispose con la solita ironia Marietto che aggiunse:

“Quando mi g’anavo ti ne vegnivi! (quando io ci andavo tu ne venivi!) Così recita un vecchio proverbio genovese che si tramanda da padre in figlio, e se fosse una belinata, pazienza, qui ne sento tante…!”

-  Ascolta Marietto:

Molliamo il cavo di rimorchio dal gancio del Casteldoria.

Lo filiamo tutto in mare. Quando siamo liberi, passiamo di poppa al pontone e sbarchiamo  due uomini.

Gli passiamo un cavo da mettere alle bitte e noi ci portiamo l’altra estremità al gancio.

Poi toccherà a te cominciare a tirare piano piano il pontone verso l’alto fondale. Con un po’ di fortuna, il cavo di rimorchio impigliato e venuto nel frattempo in bando, dovrebbe liberarsi -

“Ho capito Osvaldo!”

Risponde preoccupato Marietto.

“Con questo sistema dobbiamo però virarci ancora parecchi metri di cavo, che nel recupero potrebbe  incocciare altri punti del relitto. L’idea mi sembra buona, ma ho l’impressione che per risolvere il problema, ci vorrà molta fortuna….!”

- Purtroppo non conosco altre soluzioni!

Insiste Osvaldo –

Marietto era un uomo molto riflessivo e da esperto uomo di mare, non tardò a capire che la strategia suggerita da Osvaldo era valida, ma sentiva che la buona riuscita dell’intera operazione sarebbe dipesa dalla tattica impiegata, cioè dalla  scelta di una manovra basata sulla sensibilità, sul sentire, attraverso le vibrazioni del cavo, la descrizione “visiva” di quel misterioso fondale.

Occorreva impadronirsi di una telecamera virtuale che aiutasse ad immaginare la posizione del relitto che imprigionava il cavo di rimorchio, forse sotto una lancia di salvataggio, oppure sotto la poppa di un vapore inclinato. Occorreva  captare la giusta sensazione e indovinare  la direzione di tiro da imporre al pontone, con uno spostamento viscido, scivoloso, subdolo ma efficace.

Osvaldo prosegue nel racconto.

Marietto pensò tutto questo e poi decise di tentare.

Portò  tre uomini sulla Micoperi, gli fece stendere il cavo e con molta tranquillità disse all’equipaggio:

“Ragazzi! Quando “veniamo in forza” datemi una mano ad osservare le reazione del pontone: anche il minimo rumore, sussulto, oppure il più impercettibile  sbandamento; datemi tutte le variazioni della velocità d’avanzamento ed avvertitemi immediatamente se ci fermiamo”.

Io mi misi silenzioso sul telefono di macchina ed ascoltavo i battiti del motore ed ero pronto a comunicare al 1° macchinista la potenza che Marietto voleva. La mia preoccupazione era superiore a quella di sempre. I miei suggerimenti erano stati accolti dal comandante, ma ne sentivo in qualche modo il peso, la condivisione della responsabilità anche se Marietto, ormai, aveva deciso che quella era la tattica migliore. Tutto  sarebbe dipeso dalla dea bendata, e solo lei poteva vedere sotto la superficie di quel mare verde ingannatore, ma a parte la superstizione, tutti noi speravamo nella mano marinara di Marietto che non ci aveva mai deluso”.

Quando le prime luci dell’alba diffusero ampi e crescenti chiarori rossastri, il comandante dette il via all’operazione “recupero cavo”.

La dea bendata quella mattina era dalla nostra parte. Dopo circa 30 minuti di tiro, il cavo si liberò e lo recuperammo tutto, senza aver riscontrato il minimo danno. Rifacemmo l’attacco  e si partì per Cagliari. Natale era alle porte e Marietto riuscì a portarci dalle nostre famiglie in tempo per festeggiare la festa più importante dell’anno, a “porto cosce”!

Carlo GATTI - 04.03.12

Equipaggio:

Comandante    - Mario Di Bartolomeo

D.M.:               - Osvaldo Schiano

1°Uff.le  cop.   – Luigi Gabrielli

1°Macch.         – Angelo Angius

Marò                - Maiulo (senior)

-“-                   - Giovanni Bottino

-“-                   - Antonio Mazza

-“-/cuoco         -               Parodi

In ricordo di “Marietto”

Sabato 29 Settembre 2007.

Cari Amici,

......oggi abbiamo salutato un caro amico che ci ha lasciato: il Comandante Mariano Di Bartolomeo…..

per tutti da sempre Marietto per il suo imbarco giovanissimo nel Mondo dei Rimorchiatori, il nostro Mondo. Comandante e Uomo di grande statura morale nella professione e nella vita.

Ci ha stupito la mancanza alla mesta cerimonia di una partecipazione delle nuove generazioni a testimonianza di un Mondo, che pur nelle personali divergenze, raccoglie il testimone di una appartenenza e la porta oltre.

Vedete, la mia generazione pur avendo conosciuto di sfuggita Uomini della generazione precedente ha sempre onorato chi ci ha preceduto e che tanta storia ha tramandato ai successori.

Per quasi un secolo questo filo non si è interrotto.

Un filo tessuto dalla dura vita di Bordo, dalle vicissitudini dei colpi mare presi su mezzi allora inadeguati…un filo tessuto consolidando amicizie e sentimenti di fratellanza che hanno segnato la nostra vita professionale ed umana e che ci saremmo portati dietro per tutta la vita.

Il Mondo dei Rimorchiatori come senso di appartenenza ad una “casta”(passatemi il termine) privilegiata che ci onorava e ci onora ancora con orgoglio.

Abbiamo avuto dure vicissitudini sociali, scontri (per noi, e a quel tempo) epocali ma mai abbiamo messo in forse questi sentimenti ed il desiderio in qualche modo di tramandarli, mai il senso di appartenenza a questo Mondo ci ha abbandonato, e mai abbiamo dimenticato il rispetto verso la Società (Rimorchiatori Riuniti) che ci ha aperto a questo Mondo anche se il dialogo talvolta si faceva aspro.

Oggi sembra che quel filo si sia spezzato, le nuove generazioni restano chiuse nel breve spazio della loro attuale professionalità esercita, sorde verso preziose testimonianze storiche e, forse, poco o nulla interessate a passare il testimone.

Un mondo in via di estinzione che resterà senza passato e dal futuro incerto se non innervato su sentimenti di alto profilo umano.

……oggi abbiamo salutato un caro amico che ci ha lasciato, il Comandante Mariano Di Bartolomeo…….

mi va di dire: ti sia lieve la terra, Marietto, sei un galantuomo e tale resti con noi.

TESTI di:

Carlo Gatti

Silvano Masini

Paride Faggioni

 

 


Navigare contro "MELTEMI" ?

NAVIGARE CONTRO MELTEMI ?

NOTIZIARIO DELLA

GUARDIA COSTIERA

ANNO XIII - DICEMBRE 2011

Un racconto inedito di un’avventura realmente vissuta.

di Marinella Gagliardi Santi

Nata a Milano, la scrittrice Marinella Gagliardi Santi ha poco della cittadina. Frequenti le sue e fughe dalla città per raggiungere la Liguria, considerata da sempre terra d’adozione. Perché il mare è una presenza sottile e insinuante nella vita di Marinella, nome che gli aderisce veramente addosso. E qualcosa deve essere scritto nel suo DNA, visto un nonno e uno zio navigatori transoceanici e una bisnonna che affittava imbarcazioni sul lago Maggior fatto insolito per una donna, vista l’epoca! Impegnata per parecchi anni come insegnante, per fuggire la metropoli oggi Marinella - con il marito, suo skipper e compagno d’avventure - vive e scrive sul Lago di Varese. Non è il mare, ma sempre acqua è...

Non riusciamo ad avanzare oltre, il vento contrario è troppo forte… non ci consente di raggiungere Amorgos…Anche il mare era peggiorato. Le onde, oltre a colpirci in continuazione con violenza, stavano squassando troppo la barca, erano diventate incrociate… La frase, pronunciata da Rinaldo, mio marito, alle cinque di un pomeriggio di agosto, trovava un po’ sgomenti sia me che il nostro amico Elio, compagni di avventura con lui nelle Cicladi in una sfida contro il famoso vento greco, il Meltemi. Di necessità avevamo scelto di navigare non sotto la sua spinta, ma affrontandolo a viso aperto! Dunque avremmo ripiegato su Astipalaia, un’isola che fa parte del Dodecanneso: era l’approdo più vicino, ma ci saremmo arrivati in piena notte. E avremmo ancorato al buio in una baia interna sconosciuta, raggiungibile attraverso uno stretto passaggio… Unico dato consolante, il vento in poppa, e se vai col vento, sia pur forte, ma in poppa, è tutto un altro discorso che averlo frontale e furioso come questo famoso vento greco. Per tornare all’origine della nostra avventura, devo dire che quella volta l’avevo fatta davvero bella. Avevo detto sì alla richiesta del nostro amico di dargli una mano per riportare la sua barca a vela dalla Turchia al Peloponneso. Elio, partito da Genova su Alga, un Cirano 38, progetto Sciomachen, aveva cambiato più equipaggi nella sua Odissea verso oriente: ora, arrivato in Turchia e rimasto solo, ci aspettava, come gli avevamo promesso. E tu gli hai detto sì! Aveva commentato, preoccupato e incredulo Rinaldo quando avevo accettato la proposta di Elio. Avevo capito che anche tu fossi d’accordo… A parte il fatto che preferisco navigare sulla mia, di barca, ma sai almeno a cosa vai incontro? Certo, in agosto, il Meltemi, nelle Cicladi… Ma sai anche che non si va mai contro questo vento? Nelle Cicladi tutti navigano da ovest verso est, tenendoselo in poppa e le barche vengono riportate indietro quando ha finito di soffiare! E tu vuoi navigare di bolina contro una furia di vento? E come può Elio da solo? Del resto ormai ho preso l’impegno, hai brindato anche tu all’impresa, siamo ingaggiati.

Sì, ma io proprio non avevo capito a cosa stessimo levando i calici! Ed ecco il portolano, in inglese, che sconsiglia la nostra navigazione asserendo che non si va contro il Meltemi e consigliando una rotta ben precisa attraverso le Cicladi, se proprio non se ne può fare a meno! La mia adesione risaliva all’inizio di giugno, perciò ho avuto tempo di rielaborare le mie ansie per due mesi abbondanti, anche sulla scorta di letture varie, a volte intercettate del tutto casualmente. Una, in particolare, trovata su una rivista, continuava a riaffiorare impietosa nella mia mente: il succo dell’articolo era che contro il Meltemi navigano al massimo quelli di Caprera, con il rischio, però, di far dei danni all’attrezzatura, se non di farsi male loro stessi…

Due mesi, perciò, di attesa che si era depositata in modo fastidioso nel mio inconscio e ogni tanto affiorava, interrogandomi circa la mia decisione e la mia convinzione di voler affrontare davvero quel famoso terribile e temibile vento greco… Ed eccoci arrivati ad uno dei momenti delicati del nostro viaggio per mare. Amorgos era lì, a sole due miglia, ma la nostra velocità di avanzamento era nulla. Le onde, incrociate, si accanivano contro la barca e anche contro di noi, chiusi e sprofondati nelle nostre cerate (è l’inizio di agosto e fa freddo!). Il Meltemi a 38-40 nodi, urlava tutta la sua rabbia, si sarebbe detto che ce l’avesse proprio con noi, in quel momento. Un simile urlo di vento, cupo e profondo che stordiva ed intimidiva, non l’ho mai sentito, a parità di intensità, da nessun altra parte del Mediterraneo che ho visitato, ma nemmeno ai Carabi… Il Maestrale ha sì un suono forte, ma lo ricordo più sibilante e metallico. Dunque, invertita la rotta, puntiamo su Astipalaia, la città vecchia letteralmente, in greco; l’isola a forma di farfalla, geograficamente. Sia pur forte il Meltemi, ma averlo che ti spinge da poppa è davvero tutto un altro vivere, l’onda, poi, che ti arriva da dietro, ti fa sì surfare, ma diventa un divertimento a confronto dell’impatto frontale che avevamo prima, mentre viaggiavamo contro vento. I problemi sorgono dopo cinque ore di navigazione, quando intravediamo appena, nel buio di una notte senza stelle, la sagoma scura di una collina lunga e omogenea. A parte un piccolo faro sulla punta del promontorio alla nostra sinistra, luci a terra, nessuna. Punti cospicui, perciò, zero! Lasciata quell’unica luce, è l’oscurità più totale…

Non ci restava che affidarci al plotter e verificare attentamente latitudine e longitudine confrontandole con le coordinate del portolano per identificare, e questo era il bello, non un’ampia e accogliente baia, bensì uno stretto passaggio tra le rocce che si apre su un canale di accesso, che finalmente, ci avrebbe condotto a un’ampia, e, si sperava, tranquilla baia interna… Con quel buio pesto l’avremmo trovato? In più ora avevamo un’andatura al traverso, di certo meno tranquilla del gran lasco di prima. Avvolgiamo, perciò, lo yankee, e accendiamo il motore per poterci avvicinare con maggior cautela.

Certo che il Meltemi non demorde neanche di notte, non va a dormire insieme al sole come fanno certi venti per bene… continua a soffiare invariato e spinge le onde davanti a sé, a frangersi sulla scogliera. Spingerà anche noi… dobbiamo individuare con certezza questo benedetto accesso! Ora il varco dovrebbe essere davanti a noi. Ci comunica Rinaldo che non stacca gli occhi dal plotter e non si stanca di asciugarlo dalle continue ondate, mentre io credo di interpretare il suo pensiero: quando siamo all’ormeggio, nei porti, è successo più di una volta che lo strumento non mettesse la barca dove in effetti era, ma spostata, anche se di poco. E se qui ci posiziona davanti al canale di accesso sbagliando anche solo di poco? Mi consolo pensando che, se non altro, i fondali erano dati sicuri, puliti. Anche quella, però, è una certezza del tutto relativa. Insomma, in quelle condizioni e senza il radar, bisognava fidarsi, di necessità, di quello strumento che per fortuna ci eravamo portati con noi dall’Italia, perché Elio non ce l’aveva, lui vuole navigare - come dice Rinaldo - duro e puro.

Ecco che si materializzavano, in quel frangente, parte delle mie inquietudini dei mesi passati: quell’alta collina continuava ad incombere nera e cupa, gelosa del suo varco… Dai, Marinella – incalza Rinaldo – dicci qualcosa tu, che avevi 11 decimi! Ecco, appunto, avevo! Vi sembra di vedere qualche novità in questo nero omogeneo? Incalza Elio che, giustamente è al timone di Alga, visto il frangente. La responsabilità della barca è tutta sua… Silenzio da parte nostra.

Cosa dite, avanzo? Perché ora la parete rocciosa è ben vicina! Vai, fidiamoci del plotter, ci dà l’ingresso proprio davanti a noi… Che tensione tremenda in questa notte impenetrabile: vento che incalza, onde che spingono, rocce incombenti… E vai che c’era davvero l’ingresso davanti alla nostra prua! E’ Rinaldo che ce lo comunica per primo, lui che è il più alto e quindi vede fuori dalla capottina già di suo, senza bisogno di scomode torsioni, come facciamo noi. Alla fine il plotter era stato onesto, ci aveva condotto al varco, che però ci sembrava davvero un po’ stretto. Colpa del buio, di certo, ma non è che fosse un passaggio poi così ampio, rivisto di giorno. Più a destra, Elio! Ero io che guidavo il procedere di Alga seduta sul winch di sinistra guardando con estremo rispetto la parete rocciosa dalla mia parte. Ma non troppo a destra, Elio! controbatteva dall’altra parte della barca Rinaldo, seduto sul winch opposto come osservatore della roccia di destra. Ma come è lungo questo canale, sembra non finire mai! Voi continuate a dirmi se sto timonando bene nel centro, sto facendo del mio meglio, dato che il vento e le onde continuano ad accompagnarci anche qui senza demordere…Insomma la tensione ancora non ci abbandonava… Finalmente, sulla sinistra, si apre una baia ampia e tranquilla, delimitata da alte colline.

Era ora, il Meltemi ne è rimasto fuori e le onde con lui. Primo sospiro di sollievo. Non si vedono luci, ma si intravedono due case bianche, distanziate tra loro. Avanziamo pianissimo, ci sembra incredibile: ad agosto nemmeno una barca? O siamo noi che non le individuiamo? È vero, non ce ne sono proprio. Questa navigazione nelle Cicladi, contro il Meltemi, sulla scorta della rotta suggerita dal Portolano, ci sta portando lontano dal turismo, attraverso le isole nelle quali vanno in vacanza i Greci. Addirittura in baie di notte deserte! Questo è uno degli aspetti più avvincenti del nostro viaggio: niente affollamenti né confusione, solo qualche barca di pescatori; luoghi, almeno all’apparenza incontaminati, che ti consentono ancora di vivere il mare nella sua integrità. È quello che vorremmo trovare sempre, lontano dalla confusione dei porti estivi e dalla mondanità. L’ancora ha preso. Spegniamo il motore, non c’è un rumore, l’acqua sembra quella di un lago. Pare incredibile questo silenzio se paragonato con l’ululato cupo del Meltemi che ci accompagna incessante durante la navigazione. Secondo respiro di sollievo. Sorgono spontanei tra noi dei batti cinque incrociati, ripetuti e molto soddisfatti. In realtà non siamo riusciti a superare il primo puntum dolens (in tutto sono due) dell’incanalamento del Meltemi tra le Cicladi, là dove, arrivando da nord-est, raggiunge spesso forza 10. Ma domani ci riproveremo. Una suoneria rompe l’incanto del silenzio… è Miriam, la moglie di Elio, davvero molto inquieta: Ma dove vi eravate cacciati, sono ore che chiamo i vostri cellulari! Siamo appena atterrati a Vathi, nella baia interna di Astipalaia. Rispondo io, che sono corsa a recuperare il telefono. Ma cosa vi viene in mente di navigare di notte col Meltemi? Lei ha le sue ragioni, ma come spiegarle che non si poteva fare altrimenti? Poi capirà. Dunque a domani, Meltemi, per oggi hai vinto tu, ma domani sarà un nuovo round… speriamo di uscirne dignitosamente vincitori! P.S. Sembra quasi inutile che io stia qui ad aggiungere che il nostro amico Elio, appena tornato in Italia, è corso a comperarsi un plotter cartografico… la prova dei fatti l’aveva convinto!

Marinella Gagliardi Santi

Rapallo, 03.03.12


Veliero TROYAN e Cap. Filippo AVEGNO, un "Manico di altri Tempi..."

Cap. FILIPPO AVEGNO

un “manico d’altri tempi….”

 

La Camogli marinara, grazie ai suoi intrepidi marinai, vanta molti “primati”. Alcuni appartengono alla “grande storia”  per il loro carattere di novità nel campo armatoriale, assicurativo, sindacale, di tecnica marinara ecc…. Altri, poggiando soltanto sulla leva del coraggio e della perizia navale, non hanno avuto quella cassa di risonanza che avrebbero  meritato. Tuttavia, ciò che vi racconteremo appartiene sicuramente alla “piccola storia”, forse all’aneddotica, al sentito dire… che tale sarebbe rimasto senza le “prove” dei meritati riconoscimenti che esistono tuttora.

L’impresa di Capitan Avegno trova ospitalità in questa rubrica del nostro sito per almeno due buoni motivi:

1) – E’ stata riportata alla luce da Gio Bono Ferrari in un articolo pubblicato dal Secolo XIX il 19 novembre 1937. E come sapete lo studioso camoglino è tuttora la nostra guida spirituale che ci accompagna nei percorsi della gloriosa storia navale locale.

2) -  La Società Capitani e Macchinisti Navali di Camogli è un covo di Lupi di Mare. Qui si discute solo di mare, d’armatori, di navi di ieri e d’oggi, d’equipaggi, di porti, d’imprese, di manovre, di carichi e di tutto un mondo che sa di salato…e qualche volta, quando le discussioni si accendono, sembra che anche la sede sbandi e si metta a rollare e beccheggiare sotto i colpi di mare!

Oggi quindi parleremo dell’emozionante avventura di capitan Avegno che stupì la marineria internazionale della sua epoca perché ebbe una conclusione felice. Nel caso invece di un clamoroso incaglio, l’eroe di quel giorno si sarebbe coperto di ridicolo e d’immensi debiti da pagare per danni materiali ed anche morali, in termini di carriera e prestigio personale. Ma l’uomo conosceva il suo mestiere come pochi ed aveva calcolato perfettamente tutti i rischi. Pensò quindi di mettersi in cattedra e dare una lezione agli increduli capitani delle navi che si trovavano come lui alla fonda.

La data non è certa, ma quasi sicuramente fu verso la fine dell’800, quando il veliero Troyan, di 1663 tonnellate di registro, dell’armatore camogliese Luigi Mortola, al comando di Capitan Filippo Avegno di Camogli, arrivò di buon’ora nelle vicinanze di Gulfport, situato nel Golfo del Messico, a metà strada tra New Orleans e Mobile, tra le grandi diramazioni del fiume Missisipi. Erano tempi duri per la navigazione, specialmente quando non erano disponibili portolani, carte nautiche e piani nautici delle zone locali. A quanto c’è dato di capire, il porto interno era stato appena costruito e i primi velieri che dovevano inaugurarlo avevano gettato l’ancora nella rada antistante la foce del fiume, nell’attesa  di essere portati all’ormeggio da un servizio di pilotaggio che ancora non esisteva.

Golfo del Messico

Al suo arrivo, il Troyan si trovò in compagnia di due velieri norvegesi, una nave francese ed un clipper americano alla fonda nella baia di Gulfport. “Nessuno dei capitani stranieri” – ci racconta Gio Bono Ferrari – “aveva voluto entrare nella lunga e stretta imboccatura che portava al porto interno per tema di gravi avarie”. Capitan Avegno, uomo “spiccio”, fece gettare a mare lo schifetto e per vari giorni scandagliò i vari canali, pericolosi davvero per i banchi di sabbia che continuamente si spostavano. E una sera, alle autorità del paese che spaventate per il discredito che poteva sopravvenire al nuovo porto, domandavano la sua opinione ed il risultato dei suoi “rilievi”, egli rispose che avrebbero tentato di navigare la fiumara e di entrare nel porto”.

Si riunì presto un “Consiglio” straordinario nella sala del Municipio, al quale parteciparono anche  i capitani dei velieri europei, preoccupati per l’entrata in porto e  per il ritardo delle operazioni commerciali.

Dopo la favorevole dichiarazione di cap. Avegno, prese la parola il comandante francese che era anche il più anziano del gruppo. Parlò nel nome degli altri capitani presenti e dichiarò che era cosa temeraria voler far navigare in quella fiumara dei bastimenti da 1600 tonn. come lo stesso  “Troyan” camogliese e la nave francese. Terminò il suo intervento con replicati “pas possible, pas possible”!

Riprendiamo ancora il racconto con le  parole di Gio Bono:

“Capitan Avegno, sicuro ormai dei suoi rilievi (che servirono poi per la Carta Nautica del luogo) attese il vento favorevole e un bel mattino, senza rimorchiatore e governando con poche vele s’inoltrò nella fiumara. Bisognava far vedere a tutti che gli italiani sapevano riuscire. La grande nave con poche vele, ma con il gran pavese al vento, andava avanti; andava! Capitan Avegno, a cavalcioni sul bompresso, scandagliava in persona le limacciose acque della fiumara. Il secondo era alla barra. E gli ordini, questa volta da prua a poppa, passavano secchi e rapidi. Quattordici camogliesi erano intenti alla manovra, agli ordini del vecchio nostromo Olivari. Tutti sapevano che si stava giocando una carta per l’onore della marina italiana; nessuno fiatava”.

Al di sopra delle nostre teste” – raccontò più tardi il marinaio Prospero Schiappacasse – “si sentiva uno sbatacchiare di ali, era la bandiera italiana! Ce la farà ad entrare per prima tra tutte le altre bandiere del mondo?”

La nave camogliese Troyan riuscì nell’impresa, superò bassifondi e correnti contrarie ed entrò senza avarie lanciando orgogliosamente le gomene sul “vergine molo” di Gulfport e la nave ormeggiò tra gli applausi scroscianti dei presenti, incluse le Autorità. Per cap. Avegno e per la sconosciuta bandiera italiana fu un trionfo!

Cap. Avegno fu dichiarato ospite onorario ed ebbe a sua disposizione la carrozza ed il valletto dello Sceriffo ed ebbe in dono un’artistica coppa d’argento.

Il capitano camoglino, non pago della vittoria di squadra, volle lasciare un altro segno importante, questa volta personale e della solidarietà marinara. Alcuni giorni dopo, Avegno accettò la nomina di “pilota di Gulfport” e portò  felicemente i quattro velieri all’ormeggio per la caricazione del legname.

 

 

Carlo GATTI

Rapallo, 19.02.12

 


I FRATI delle Shetland consegnavano la POSTA ai marinai dei velieri

I FRATI E LA POSTA DELLE SHETLAND

UN VECCHIO RITO

La fantasia e la realtà qualche volta si confondo

 

STORIE D’ALTRI TEMPI

La rupe che innalza il faro-Monastero verso il cielo, è ricca di suggestione e ricorda una mano divina intenta a sollevare la fiaccola della speranza e della libertà. Il faro è alto oltre cento metri sul livello del mare ed è pressoché inaccessibile. Non vi sono scale o sentieri e ciò che oggi si chiama “ascensore” in passato era una semplice cesta che saliva e scendeva a forza di braccia.

Il rustico e primitivo sistema è diventato un montacarichi che utilizza numerose pulegge, ma la prudenza consiglia di sollevare soltanto una persona alla volta e che naturalmente sia gradita ai frati, perchè soltanto loro, con la loro forza sempre meno vigorosa, possono compiere le due operazioni: virare e devirare.

L’attrezzatura marinaresca non manca, perchè i naufragi dei velieri incauti o sfortunati che finiscono tragicamente sulle scogliere intorno al faro, non sono rari ed avvengono ad ogni seria tempesta.

Cavi, bozzelli, pastecche, pompe per l’acqua, utensili d’ogni tipo, pezzi di vele, cordami e pitture, legname, mobili, suppellettili ecc… riempiono ogni volta i magazzini del faro, così tanto, da somigliare più alle stive dei velieri caricati “alla marca” che ad un eremo di frati solitari. Molti di questi reperti sono bruciati per cucinare e riscaldare gli ambienti, la parte più pregiata viene invece ripulita, ingrassata e riattivata per essere utilizzata nella vita quotidiana della piccola comunità.

La risalita al faro è molto pericolosa per la sua ripidezza, e se l’eremo esiste ancora dopo le numerose insidie subite, si deve proprio all’inaccessibilità dell’uomo che porta con sé, quasi sempre, il vizio piratesco di rapinare e distruggere. La sua sicurezza non è quindi minacciata, ma il riposo più sereno per i frati avviene solo quando un confratello è di vedetta. Il dover montare di vedetta al faro sotto il cielo stellato, a similitudine dei naviganti sui velieri sperduti nell’oceano, è così diventata una curiosa consuetudine. Il frate guardiano decide i turni di guardia in base al tempo atmosferico ed agli impegni quotidiani d’ogni confratello.

Un chiostro Carmelitano

Durante il lungo inverno, le tempeste e le burrasche fanno strage d’imbarcazioni in tutto il Nord Atlantico e accade talvolta che, in quella zona, i frati Carmelitani siano i primi ad avvistare lance di salvataggio, zattere semiaffondate con marinai aggrappati a tutto ciò che galleggia. Spesso sono i primi a lanciare i segnali di soccorso ai porti vicini, mentre in altre occasioni si calano addirittura in mare per salvare i naufraghi svenuti e assiderati che rischiano di sfracellarsi sugli scogli.

Questa dedizione dei frati agli uomini di mare, per una strana assurdità, è spesso associata all’incredibile fama d’avvoltoi e spazzini del mare che si portano addosso. Dei frati si raccontano perfide bugie, poche verità e qualche strana leggenda, come quella secondo cui avrebbero difeso il Monastero dai pirati con lancio di macigni, usando anche archi con frecce avvelenate, olio bollente ecc… che sarebbero diventati ricchissimi trafugando tesori da navi naufragate nei loro dintorni, che terrebbero in ostaggio donne salvate dalla furia selvaggia del mare, che sarebbero incalliti contrabbandieri di liquori, tabacco, pietre preziose e così via…

Insomma, potere, sesso e denaro sarebbero gli ingredienti più usati per insaporire di pettegolezzi i banchetti di non pochi signorotti di terra che vedono nei preti, frati e naviganti i discendenti di puttanieri, contrabbandieri e ladroni. Altri dubitano invece che la loro storia risalga alla conversione d’antichi bucanieri e galeotti condannati al remo e poi graziati da Dio con un morbido naufragio sullo scoglio...

Screditare e diffamare dei poveri Carmelitani scalzi, in una vasta area “riformata” com’è l’intero Nord Europa, sembrerebbe fin troppo facile e del tutto scontato. Ma è altrettanto pensabile che alcune popolazioni di queste latitudini, che non hanno proprio nulla da spartire con la fede cristiana, siano infastidite dall’immane e coraggiosa sfida che questi “poveri cristi” lanciano, senza un lamento, a quella natura inospitale che nell’immaginario collettivo è domata soltanto dalle razze indigene.

E’ vero! I vichinghi e i loro discendenti sono, da sempre, specializzati nella lotta contro la natura avversa e sono forti e coraggiosi sia in mare che in terra, ma cadono in errore coloro che affermano, per esempio, di non aver nulla da imparare da un nugolo di fanatici frati omosessuali…!

Dei frati Carmelitani scalzi, certa gente teme forse la sconosciuta umanità, il carisma, l’amore sincero, la parola di conforto, l’aiuto spirituale che donano ai naviganti. In mare, infatti, vive e lavora da sempre una razza un po’ speciale, che prova sempre ad aiutarsi nel buono e nel cattivo tempo. Questa stravagante verità è testimoniata dal detto universale:

L’Umanità si divide in tre categorie:

I Vivi, i Morti e i Naviganti

Il biglietto da visita “ecumenico” dei frati cattolici del monastero è, paradossalmente, rappresentato da una rustica targa di legno che riporta una frase pronunciata da un famoso tedesco luterano, ed è in bella vista per chi approda alla darsena dello scoglio.

“L’Europa è nata in pellegrinaggio e la sua lingua materna è il Cristianesimo”

J.W.Goethe

I Frati e la Posta

Le malelingue esistono dalla notte dei tempi, ma stranamente ristagnano sulla terraferma e mai sul mare, dove la solidarietà è più praticata che promessa. I naviganti adorano quei dodici frati che gli indicano sempre la via di casa; ma tanto affetto risale anche ad una vecchia pratica che si perde nei ricordi più remoti dei marinai della vela e che ora vi raccontiamo.

Se il tempo è sereno, il veliero in arrivo dall’America avvista la scopa luminosa del faro a moltissime miglia di distanza e s’avvicina bordeggiando a cuor leggero verso quella magica luce bianca. Nell’attesa dell’alba, temporeggia navigando a spirale per capire il giro del vento e della corrente intorno al Monastero, evitando con maestria d’incagliare sulle sue secche. Infine ammaina la lancia che, cautamente, dirige verso la piccola darsena. Da questo momento, a bordo, iniziano a battere le campane e se il vento allontana i rintocchi, sparano qualche colpo di falconetto (cannoncino di piccolo calibro) per attirare l’attenzione. I frati rispondono con i gravi rintocchi delle grosse campane che spuntano da ciascun lato del campanile, poco al disotto della lanterna. Suonano a festa in segno di saluto. I marinai s’arrampicano sulle sartie cantando inni di gioia e rimangono a lungo con le gambe divaricate sui marciapiedi dei pennoni, aggrappati alle vele gonfie di vento. In questa cornice di pura poesia, comincia il rito della posta. Quando il montacarichi scende dalla rupe, s’avvicina il momento più atteso dall’equipaggio del veliero e l’ansia si trasforma in autentica felicità. I frati consegnano le lettere al capo-barca e ritirano la posta dei marinai da spedire alle famiglie.

Ma La scialuppa non viaggia mai vuota verso il faro...

Gli equipaggi dei velieri che solcano abitualmente queste latitudini difficili, sono molto generosi e considerano quei frati come gli avamposti delle loro famiglie che sperano di vedere al più presto.

Dei religiosi conoscono nomi, abitudini, gusti, punti deboli e ben sanno quanto un po’ di tabacco, una torta fresca ed una bottiglia di Rhum, siano graditi al Convento, che non lesina benedizioni, preghiere e qualche canto gregoriano che, si sa, sono un po’ difficili da imparare...

Il servizio che i Carmelitani prestano come faristi, non è retribuito con denaro, ma il Comune da cui dipendono, invia loro, settimanalmente, l’occorrente per sopravvivere e curarsi, e con lo stesso cutter che li collega alla terraferma, l’Ufficio Postale spedisce al Frate Guardiano la posta destinata agli equipaggi dei velieri. Persino i grandi e piccoli armatori approfittano della loro disponibilità per consegnare le istruzioni del viaggio ai loro comandanti: porti di destinazione, noli, tipi di carico, cambio equipaggio, rifornimenti ecc…

Navigare necesse est... ma a volte ne vale la pena!

Per chi proviene dal largo, il faro-Monastero appare come una nave vista di prora, che al posto del Jack (l’asta della bandiera sulla prua) mostra il faro che, a sua volta, sembra un minareto ai mussulmani ed un campanile ai cristiani; insomma, è un esempio architettonico di sincretismo religioso, una costruzione sui generis, che offre un misto di sacro e profano, che non è arte pura, ma è sicuramente funzionale, e per chi giunge ai suoi piedi all’alba oppure al tramonto, ricorda un rosso palcoscenico dove si esibisce un Illustre Mago disceso dall’alto e venuto da lontano.

Carlo GATTI

Rapallo, 16.02.12

Tratto dal romanzo “Il Giustiziere di Narvik”

Ediz. Magenes Milano 2012

 


Il NASO (fiuto) del "Barcacciante" da rimorchiatore

IL NASO DEL BARCACCIANTE

Alla fine degli anni ’50, la meteorologia scolastica dell’Istituto Nautico era limitata ad un’ora settimanale. Questo fatto la dice lunga su quanto era ancora agli albori, quella che oggi è una scienza tutt’altro che compiuta... Qualche anno fa, con un po’ d’ironia, circolava una mezza verità: “Il Servizio Meteo dell’Aeronautica indovina soltanto il 40% delle previsioni. Se invertissero le previsioni, indovinerebbero almeno il 60%....” Chi ha navigato per i sette mari, sa perfettamente che è difficilissimo prevedere il tempo nel Mediterraneo, per la semplice ragione che si trova geograficamente tra due continenti con caratteristiche climatiche opposte. In questo grande lago, praticamente, avvengono continui ed improvvisi miscugli di alte e basse pressioni, che spesso assumono velocità che anticipano o ritardono i fenomeni meteo annunciati. A metà degli anni ’90, un giovane comandante americano di un container piuttosto grande  aveva perso una lancia di salvataggio nel centro del “Golfo Leone”. Quando arrivò a Genova, stordito e malconcio a causa dei danni subiti, disse al pilota Charly: “…superata la Rocca di Gibilterra, credevo d’essere arrivato finalmente indenne, dopo una traversata atlantica tempestosa, invece mi sono infilato in una pressure-cooker (una pentola a pessione) che mi aspettava per esplodere…”. Nel Nord-Europa i bollettini del tempo sono in grado di prevedere, non soltanto i venti, le piogge le nevicate ecc…, ma anche gli orari in cui inizieranno e cesseranno questi fenomeni. Sappiamo che certe performances non dipendono dalle singole organizzazioni nazionali, ma da una serie complessa di parametri legati alla geografia climatica locale. E’ risaputo, infatti, che i dati raccolti dal cielo (sonde, satelliti, aerei ecc..), dalla terra e dalle navi, vengono elaborati da Centri Meteorologici specializzati di alto livello scientifico e poi sono trasmessi nell’etere a tutti i  Paesi del mondo. Ma sulle nostre coste, purtroppo, le libecciate sono sinonimo di antiche e recenti tragedie, che oggi evitiamo di rievocare, anche perché sappiamo benissimo che la nostra gente se le porta dentro come un marchio.

Da questo breve ma necessario preambolo, s’intuisce che la gente che è nata, vive e lavora sulle nostre coste, ha i piedi ben piantati sul bagnasciuga della pentola a pressione e, sicuramente a causa di un’atavica sfiducia nella debole scienza-meteo, preferisce osservare direttamente i “segnali premonitori del tempo locale” con grande attenzione, mentre porge soltanto un orecchio un po’ distratto alle previsioni del tempo della RAI, assimilandole, spesso, all’oroscopo del giorno…

Genova, porto del vento.

Ruggero Tiengo, da anziano barcacciante quando, presto la mattina,  montava di guardia sul suo rimorchiatore a Ponte Parodi, annusava in silenzio la sua arena, in cerca di segnali sul “tempo che farà.” Dall’inclinazione del piccolo scalandrone che poggiava tra la banchina e la poppa del rimorchiatore, capiva anche al buio contro quale vento avrebbe lottato quel giorno. Se esso era molto inclinato a causa delle acque  basse, era il segnale di “alta pressione” e Rugge indossava un cagnaro imbottito contro il  gelido vento di tramontana. L’aria tersa e pulita accendeva tutte le luci di Genova, in un’unica grande Lanterna che andava incontro alle navi per portarle in porto, proprio come un rimorchiatore. Rugge amava il suo lavoro e il suo equipaggio, mentre il rimorchiatore era la sua seconda casa. Ma Rugge aveva anche un altro amore segreto: il vento di tramontana, che con le sue raffiche induceva Comandanti e Piloti ad attaccare più rimorchiatori. Di essa diceva: “Cara Tramontana! Vento amico,  che fai paura a chi non ti conosce, facci lavorare e porta tanti soldi ai nostri armatori, ma anche a noi!” Se invece lo scalandrone di bordo era poco inclinato a causa delle acque alte, era il segnale di “bassa pressione”. Rugge non aveva dubbi, lo scirocco era nell’aria, anzi  lo sentiva già sotto i piedi, perché u sciocu u l’intra in te ogni recantu du porto e ti u senti cumme a corrente elettrica…. Rugge si affacciava in coperta e lo vedeva nelle boe leggermente abbattute. Anche l’odore dell’aria era diverso. Lo scirocco veniva da lontano, era intriso di salsedine e portava suoni di catene, gavitelli e paglietti di gomma che stridevano al contatto. Le luci del porto erano un po’ annebbiate e a volte formavano globi che volavano insieme ai gabbiani che volteggiavano in agguato all’interno del

porto rimescolato dalla corrente. I rimorchiatori erano agitati e sembravano impazienti di scorrazzare liberi di legare le navi in banchina. Quando poi si accendevano le luci di bordo, si accentuava il gioco cromatico, ed improvvisamente si potevano misurare le sensibili oscillazioni degli alberi che  piano piano svelavano gli arcani misteri della notte. Rugge annusava sempre l’aria come per dire: “A mi, de musse nu me ne cunta nisciun. Sentu l’oudu de l’aggiu, u l’è un vapore cu vegne dall’Egittu”. Rugge aveva ragione. La sciroccata in arrivo, spingeva verso Genova l’odore del carico di aglio, che arrivava mezza giornata prima  della nave… Rugge prendeva il primo café in cucina, e quando saliva sul ponte di comando, cominciava la giornata di lavoro colpendo con un una ditata il barometro "U Juan" - dalla lettura dell’antico strumento, tanto caro ai naviganti, otteneva la conferma che il suo computer cerebrale aveva elaborato in modo esatto tutti i dati immagazzinati. “Ti vediee Juan che al sorgere del sole tutti ne daian ragion.” Ed infine, Rugge rendeva grazie al suo fiuto di barcacciante, accarezzando il quadretto della Madonna della Guardia.

Se osservate un rimorchiatore d’epoca e vi sforzate di paragonarlo ad una bruttissima barca a vela, forse commettete un errore di fantasia, ma non vi sbagliate di molto. Il suo corpo centrale, formato dalla tuga e dall’altissima ciminiera, funziona esattamente come una vela. Il suo comandante lo sa e, quando ha la macchina ferma e gli avviamenti di macchina limitati, deve prevedere esattamente la posizione che il suo RR via via, assumerà rispetto alla nave ed alla banchina. Si tratta di un lavoro complesso che diventa stressante quando il vento di tramontana scende dalle alture a 20/30 nodi di velocità, oppure quando la sciroccata persa lo investirà sopra e sotto la linea di galleggiamento. Quando gli avviamenti venivano eseguiti manualmente, il personale di macchina diventava il miglior giudice del suo Comandante. Rugge era un gran velista dentro ed era molto calmo, faceva pochi avviamenti e tutti a bordo lo adoravano. Sapeva prendere il vento e insegnava: “Poppa al vento meno vento”. Alla partenza di una carretta dal Porto Nuovo, Rugge si faceva sotto per ultimo, con un solo abilissimo avviamento indietro, si portava vicino alla nave, fermava la macchina, prendeva il cavo e poi si faceva spingere dalla tramontana, al segnale del Pilota metteva in moto con il cavo già teso. Una volta mi disse: “Charly, oggi non si usa più, ma ai miei tempi, quando una nave usciva storta dal bacino di carenaggio, la si raddrizzava con la scia di una smacchinata….” Il “naso del barcacciante” sta tutto nel fiuto del vento, nello sfruttare i refoli, i rebighi, persino i rimbalzi ed i giri che si formano tra i magazzini di ogni calata. Non è da tutti trovare sempre il vento e prenderlo dal lato giusto per farsi abbattere dalla parte più conveniente. Un qualsiasi manovratore conosce alla perfezione gli effetti del timone e dell’elica di una imbarcazione tradizionale nella marcia indietro, ma con il vento forte questi effetti cambiano e  ci vuole l’artista per ricondurre la barca all’obbedienza.

Rugge,  guardava spesso verso i monti e diceva: “Se l’è negro a tramontann-a preparate a-a burriann-a “. E quando gli chiedevo: “ A Rugge cumme o l’è u tempu doman?” - Con voce ferma e convinta rispondeva: “Portofin u l’è scuo, cieuve seguo!” - Rugge non sbagliava mai le previsioni, neppure quando credevo d’averlo preso in castagna. “Rugge, oggi c’è uno strano scirocco, fa freddo. Cose u l’imbelinn-a u tempo?” “ Mia Charly, Sciocu freido ghe neve vixinn-a, u nu faià rimm-a, ma ti a casa staseia nu ti ghe vae!” Belin se aveva ragione Rugge! Dopo qualche ora si mise una nevara che mi costrinse a rimanere a bordo per due giorni!

Ciao Rugge ! So che da lassù ti sembreranno strani i rimorchiatori di oggi che girano come trottole e se ne fregano del vento… anzi forse ti verrà male a chiamarle ancora “Barcacce”… ma, credimi, il naso del Barcacciante è sempre allerta perché “de mainae ghe n’è ciu pocu.

Carlo GATTI

Rapallo, 10.02.12



Il rimorchiatore d'altura BRASILE nel MISTRAL !

Il rimorchiatore BRASILE nel MISTRAL

Il sole era appena tramontato e già calava la seconda notte del nuovo anno di qualche tempo fa….Charly ed il suo equipaggio alla “mala fuera” avevano a rimorchio una vecchia draga di  ottanta metri,  che una ditta specializzata nella costruzione di pipelines gli aveva consegnato a Sines in Portogallo, per trasferirla a Genova.

Il rimorchiatore Brasile, sul quale il “rapallino” era passato al comando da meno di un anno, era il più elegante della flotta genovese e siccome aveva una potenza eccessiva per quel lungo guscio semi vuoto, lo trainava visibilmente scocciato, con autosufficienza. Abituato com’era ai rimorchi di navi importanti, il mastino si sentiva sprecato,  proprio come certe signore aristocratiche che un po’ si vergognano di trascinare il  loro amato bastardino che indugia ad annusare …

La depressione era  scivolata via verso levante, lasciando il consueto mare lungo e montagnoso da libeccio, ma i bollettini meteo di allora erano ancora più “precari” di oggi… e non solo la davano in ritardo sulla nostra zona, ma nelle  ultime emissioni erano ancora lontani dall’annunciare il maestrale che  già spingeva verso l’alto, quasi in verticale, il pennino del barografo di bordo.

Charly era nervoso, il golfo che gli si apriva davanti era chiamato “LEONE” fin dall’antichità, per le terribili ferite che ha sempre procurato agli sconsiderati marinai che hanno osato sfidarlo nella sua zona centrale, ma che pur tuttavia avevano avuto la fortuna di poterlo raccontare.

Già dai tempi del mitico Ulisse, il marinaio sa che deve “salutare” questo  golfo infame, facendogli un profondo inchino. Questa è la prima lezione che s’impara uscendo dal Nautico. Il Leone vuole essere riverito, accarezzato e adulato dalle spiagge della Catalogna fino a quelle oltre Tolone e viceversa. Soltanto con questa miserevole “sviolinata” si può prevedere il giorno del ritorno a casa.

Ma questo discorso “marinaresco” si faceva arduo per un rimorchiatore che aveva trecento metri di cavo d’acciaio fuoribordo, col quale disegnava una catenaria verso il fondo di oltre 20 metri. Il Brasile pur essendo infinitamente piccolo, aveva quella notte lo stesso problema di pescaggio di una gigantesca petroliera, che certamente non si sarebbe mai sognata di andare a sfiorare gli scogli per cercare ridosso…mentre Charly se voleva portare il suo rimorchio a destinazione, aveva l’obbligo   d’inventarsi un rifugio per non finire azzannato dalla belva che annunciava il suo arrivo ruggendo a grandi balzi.

Charly mise la prora in terra e cominciò a cercare affannosamente i piani dei porticcioli vicini alla frontiera franco-spagnola, ma non li trovò, e dai cassettoni della sala nautica uscirono soltanto inutili carte generali di navigazione. Mentre il barometro continuava a salire, cominciarono a ringhiare le prime raffiche di MISTRAL. In un attimo il mare si coprì di creste minacciose. Dagli strumenti di bordo, Charly si rese conto che i fondali erano in rapida diminuzione, allora diede  l’ordine di accorciare il cavo di rimorchio, mise  la prua nel vento ed iniziò l’atterraggio.

”Non avevo scelta!” - Raccontò in seguito Charly -  “Al buio e senza carta nautica, decisi d’infilarmi, alla “gran puta”, nel buco naturale che in quel preciso momento avevo  davanti al bittone di prora.

Ma questa volta sarei entrato senza chiedere il permesso all’autorità del posto, per non incorrere in qualche probabile “divieto” legato all’assoluta impraticabilità….. Mi era già successo e da quell’esperienza negativa imparai l’arte di arrangiarmi!”

Collioure (dipartimento del Roussilion), era il nome della piccola località, a me sconosciuta,  che vedevo sul radar come ultima spiaggia. Mano a mano che mi avvicinavo notavo che il vento tendeva a cambiare direzione, come se le folate cercassero un trampolino di lancio sul promontorio a levante del paese, per poi scendere  in picchiata e mitragliare a raffica, quasi di traverso,  l’entrata del porticciolo.

Per “sentire” la vera forza del Mistral, misi la prora  nella sua direzione e mi resi subito conto che la nostra potenza di macchina era del tutto insufficiente a vincerlo. La draga era alta e faceva vela.  S’avanzava con il freno a mano tirato.

Davanti all’imminente pericolo di scarrocciare sulla scogliera di sottovento, scappai da quella trappola accostando a sinistra, con la macchina avanti tutta. Acquistai immediatamente velocità e nel guadagnare l’imboccatura, la vidi mentre apriva lentamente i suoi oscuri sipari e, dallo sfondo di questa specie di presepe, fuoriuscivano le tenui luci policrome che disegnavano la passeggiata, un bastione illuminato  e poi  un’altra spiaggia più piccola a levante.

Nella rapida accostata sottovento, il convoglio acquistò il necessario spazio vitale, presi le ultime misure e subito dopo ci trovammo quasi a toccare con la prora la base del torrione che sosteneva il fanale verde d’entrata; mentre la poppa della draga  lambiva l’estremità dell’antemurale che aveva alla sua estremità il fanale rosso. Gli ostacoli erano illuminati dai nostri potenti proiettori e, da terra, per qualche nottambulo sbucato dai caruggi,  in cerca  di vento fresco per smaltire la sbornia delle feste… si trattò d’uno spettacolo emozionante!

In quella “adrenalitica” posizione, i brividi mi correvano lungo la schiena, ma l’agognato ridosso era lì, e noi ci tuffammo nel porticciolo compiendo una curva secca a sinistra per smorzare l’abbrivo e avvolgere il convoglio su se stesso, ma anche per diminuire il raggio della frustata in rotazione. Sfiorammo una cinquantina d’imbarcazioni ed ostacoli vari, senza fare il minimo danno e quando riuscimmo a compattarci, riscontrai che nell’attacco di rimorchio, non solo si era spezzata una catena della patta d’oca, ma si era dissaldata la sua lunga benna che ora brandeggiava lateralmente, trattenuta soltanto da sottili ritenute d’acciaio.

Le battaglie “navali” precedenti avevano indebolito la vecchia draga che, sotto le luci dei fari, appariva sbandata  e più abbassata.

All’interno del porto, le luci natalizie illuminavano un’incantevole baia, ma solo verso l’alto, poichè all’altezza della nostra visuale operativa, vi era una linea d’ombra e lo spazio sembrava ancora più ristretto.

Metà dell’equipaggio saltò sulla draga, rifece gli attacchi di rimorchio, poi riportò il rimorchio a pochi metri dalla poppa del Brasile che, inforcato su due ancore smisurate, guardava ormai beffardo, dalla gabbia sicura del porto, il Leone che s’aggirava  libero e assetato di sangue nella sua savana salata.

L’equipaggio quella notte fece miracoli e ne uscì vincitore! Ingaggiò un vero corpo a corpo con il Mistral che entrava a raffiche, scoppiettava da tutte le parti, abbatteva le palme e sollevava polvere e sabbia, polverizzandola con l’acqua di mare, per farne aghi taglienti.

A causa dell’ansia accumulata, nessuno andò a dormire e con il chiaro fummo sorpresi da una  visione nostrana: le imbarcazioni che avevamo minacciato di strage, erano Leudi di taglia piccola, ma perfettamente simili a quelli delle nostre parti.

Leudi - Catalani nel porticciolo di Collioure

Il marinaio Stea, che è di Sestri Levante esclamò: “Emmu sbagliou rotta, semmu arrivee in rivea!”

Stea aveva ragione! Eravamo entrati in un pezzetto della nostra Riviera di levante: c’erano i Leudi, le palme allineate sulla passeggiata, le  torri bastionate e sullo sfondo le case colorate che salivano sulle colline. Un pezzo della nostra terra si era specchiata, a seicento chilometri di distanza, sull’altra sponda del Mediterraneo.

Il Capitano del Porto di Collioure inizialmente non si fidò del mio rapporto verbale, e mandò una pattuglia a controllare la rada interna per presentarmi il conto  dei danni. Ma fu deluso! E quando mi convocò nel suo ufficio, trovò anche il modo, molto simpatico, di contraccambiare le mie bottiglie di Chivas con un cartone di  vasetti di acciughe preparate alla catalana e mi disse:

Comandante, qui ci stiamo chiedendo come avete fatto, questa notte, ad entrare in porto.

Sa! Da queste parti, di Mistral ce ne intendiamo…!

Leudi-Catalani dei primi del ‘900

 

Qui sono nati i Catalani (così vengono chiamati i Leudi da queste parti) con l’albero storto a calcese per inchinarsi al Mistral. Qui siamo tutti marinai e provetti pescatori fin dall’antichità. Qui peschiamo, prepariamo a mano ed esportiamo  le migliori acciughe del mondo….” Lo interruppi per spiegare…:

“Capitano, anche dalle mie parti peschiamo e  mangiamo le stesse acciughe, che sono  pescate da almeno due secoli con i Leudi, che però sono stati costruiti dai nostri cantieri rivieraschi!

Il Capitano, trattenendo un ruggito, mi fissò duro negli occhi, mi ricordò il Mistral… e allora ripiegai sulla diplomazia…..

“Che strano! Nessuno ha mai pensato di gemellare i nostri paesi, che sembrano costruiti e pitturati dallo stesso artista, con lo stesso pennello?”

“Non lo so!”

Rispose abbonacciato il graduato.

“Si vada a fare un giro nel paese e vedrà spuntare i Catalani sui portoni delle case, sui piatti di maiolica e ceramica, sui ferri battuti dei cancelli, sui pavimenti delle piazzette. I Catalani sono il nostro patrimonio culturale!

Tra poco le farò assaggiare il famoso vino di Bonyuls e sono sicuro che ritornerà a Collioure da turista con la sua famiglia. Ma per quanto riguarda il “pittore”, deve sapere che qui è nata la scuola  di Matisse, Derain, Dufy e Parquet.”

Mi raccolsi in silenzio e  pensai ad alta voce:

“Anche in Liguria i Leudi sono un  patrimonio culturale-marinaro e di artisti son piene le fosse…!”

Allora?

“Qui, charchedun u cunta de musse!”

Ma il Capitano del porto era una persona davvero simpatica, e quando mi portò nel bar più vicino per farmi assaggiare il Bonyuls, brindammo alle nostre tradizioni marinare e decidemmo di lasciare agli storici di “mestiere” la responsabilità di stabilire la primogenitura del Leudo!

Quando in tarda mattinata ritornai a bordo intontito dai troppi bicchieri di Bonyuls, mi rivolsi all’equipaggio e dissi:

“Qui, charchedun u cunta de musse!”

Carlo GATTI

10.02.12

 


Nostra Signora di BONARIA

NOSTRA SIGNORA DI BONARIA

Protettrice dei Naviganti e degli Emigranti, diede il nome a

Buenos Aires

La capitale dell’Argentina Buenos Aires fu fondata definitivamente nel 1580 con il nome di Ciudad de la Santísima Trinidad y Puerto de Nuestra Señora de los Buenos Aires. La città fu battezzata con questo nome in onore della Madonna di Bonaria venerata a Cagliari in Sardegna. Nella capitale argentina si trova una basilica, eretta nel 1911 dai frati Mercedari, dedicata a N. S. de los Buenos Aires, la cui festa, come nel capoluogo sardo, si celebra il 24 aprile.

Il nostro mai dimenticato Lucio Mascardi era un esperto di “emigrazione ligure”, perchè lui stesso era emigrato da bambino con la sua famiglia in Sud America. Lucio amava l’Argentina, il Plata, il tango, il calcio genovese in Argentina e spesso raccontava della nostalgica devozione degli emigranti italiani alla N.S. di Bonaria.

“La fine del secolo vide l'affermarsi della vocazione portuale di Buenos Aires col miglioramento delle infrastrutture portuali e ferroviarie. Fu proprio in quel periodo che si formò il quartiere della Boca, abitato in massima parte da marinai genovesi immigrati. Ancora oggi gli abitanti della Boca si chiamano xeneizes, (genovesi in dialetto genovese) e la scritta xeneizes appare sulle magliette della gloriosa squadra calcistica del Boca Juniors. Il XX Secolo vide poi il consolidarsi dell'immigrazione europea che, con la seconda e la terza generazione, faceva ormai parte della classe dirigente. Buenos Aires crebbe con le caratteristiche di una grande metropoli ed il porto fu un punto d’arrivo e partenza per transatlantici carichi di persone e merci. Poi tutto cambiò con la seconda immigrazione, verificatasi nella seconda metà del secolo, quando comparvero sulla scena argentina persone provenienti da altri paesi del Sud America e dell'Asia. L'accoglienza sociale di queste nuove minoranze etniche fu però diversa e le comunità in questione faticarono ad inserirsi nel tessuto sociale argentino.

 

PATRONA MASSIMA DELLA SARDEGNA

Il Santuario di N.S. di Bonaria - Cagliari

La leggenda – narrava Lucio – risaliva al 25 marzo del 1370, quando una nave proveniente Spagna verso l'Italia, s’imbattè in un’improvvisa e violenta tempesta. Nell'estremo tentativo di salvare l'equipaggio, il capitano della nave diede ordine di gettare in mare tutto il carico. Questa fu la sorte anche di una pesante e grande cassa, di cui s’ignorava il contenuto, che fu gettata per ultima. Appena questa toccò l’acqua, la tempesta si placò. Cercarono invano di recuperarla, ma essa cominciò a navigare autonomamente e sulla sua misteriosa scia rimorchiò la nave stessa verso la costa, senza che nessuno riuscisse a governarla. Approdò ai piedi del colle di Bonaria, dove frattanto si era radunata una piccola folla di curiosi che aveva assistito da lontano all'odissea della nave in mare. Ancora una volta, vanamente, tentarono di trascinare a riva per aprire quella cassa misteriosa, sino a quando, chiamati da un ragazzino, giunsero sulla spiaggia alcuni padri Mercedari del vicino convento che non ebbero alcuna difficoltà a portarla in secco e solo allora notarono che su di essa era inciso lo stemma del loro ordine. La trasportarono sino al convento sul colle e l'aprirono altrettanto facilmente. Dentro vi era la statua della Madonna con il bambino che mostrarono ai presenti, che presto diventarono folla. Fu il primo atto di venerazione verso Nostra Signora di Bonaria”.

La chiesa del convento ospitò il simulacro, divenendo da allora il Santuario della Madonna di Bonaria. Solo nel XVIII secolo iniziarono i lavori di costruzione della grande basilica che oggi affianca il santuario.

La navicella d’avorio tanto cara ai marinai.

Un tempo, gli uomini di mare si recavano al Santuario per conoscere la direzione del vento che spirava al largo dell’isola. La preziosa informazione nautica era fornita da una misteriosa navicella d’avorio appesa ad una cordicella in un angolo del santuario, proprio di fronte alla statua della Madonna. Questo misterioso ex voto “senza tempo” sembrava indicasse, con la posizione della prora, il pericolo di burrasche. Ai capitani in partenza per il lungo corso, la navicella consigliava sempre la rotta più sicura.

Ma oggi, nel nuovo millennio, la navicella indica sempre la direzione del vento? Forse! Di sicuro si sa solo che racconta ancora la storia di una devozione sincera. Quella del popolo del mare. Oggi le navi compiono soste brevi, il tempo è tiranno e i marinai rinnovano quel rito di fede soltanto nel cuore quando mettono la prua verso l’orizzonte.

La statua della Madonna di Bonaria fu incoronata il 24 aprile 1870, per volere di papa Pio IX.

Il 13 settembre 1907, per volontà di papa Pio X, Nostra Signora di Bonaria fu proclamata:

Il 7 settembre 2008 anche Benedetto XVI, in visita pastorale a Cagliari, ha presieduto una concelebrazione eucaristica sul sagrato della basilica di Bonaria. Alla fine della messa, prima di recitare l'Angelus, il Santo Padre ha rinnovato l'affidamento della Sardegna alla Madonna, ha onorato il simulacro della Vergine di Bonaria con il dono di una Rosa d'Oro e ha sostituito l'antica navicella d'argento, che ornava il candeliere che la statua reca nella mano destra, con una nuova in filigrana d'oro.

Carlo GATTI

Rapallo, 10.02.12