FATA MORGANA, un'illusione ottica

 

FATA MORGANA

Una illusione Ottica

 

Nei primi anni ’60 fui testimone di un fenomeno abbastanza raro da osservare, persino dai naviganti d’altomare. Imbarcato sulla petroliera NAESS COMPANION, ero al mio sesto viaggio: Golfo Persico - Giappone. Era il periodo del monsone “buono” di Nord Est e si navigava in piena bonaccia nell’Oceano Indiano. Nonostante l’opprimente caldo umido dei tropici, (si conosceva l’aria condizionata soltanto dai depliant di alcune navi passeggeri), non percepivo alcun sintomo di noia: tra una retta d’altezza di sole ed altri calcoli astronomici, seguivo i numerosi capodogli che navigavano verso i mari freddi del sud e mi divertivo un mondo a guardare i delfini che in quella zona di mare  “volavano” scompostamente in aria e poi si tuffavano spanciando rumorosamente in cerca di plancton. A metà guardia, verso le 10, vidi nitidamente qualcosa di strano apparire a mezza altezza sopra l’orizzonte. Poco a sinistra di prora si stagliava una specie di castello, una torre immobile che galleggiava sopra l’orizzonte gelatinoso. Poco dopo vidi una seconda torre, leggermente più bassa e più scura, ancora più a sinistra. Mi venne in mente quello strano capitolo di Meteorologia che s’interessava di fate, più precisamente della FATA MORGANA, chiamato anche fenomeno delle torri. Dal ponte di comando, destai l’attenzione dell’equipaggio che lavorava in coperta e mi accorsi che nessuno di loro aveva mai visto quella “strana faccenda”. Radio-cucina diffuse subito la notizia e in un baleno l’intero equipaggio si radunò in coperta, a bocca spalancata come fossero al circo. La proiezione durò qualche minuto, il tempo necessario a tre navi in contro-corsa di passarsi al traverso. Nel frattempo anche il Comandante era salito sul ponte facendosi scappare una tipica frase in genovese: “se a terra raccontassimo certi fatti ci prenderebbero per dei belinoni...”- I commenti in siciliano della bassa forza erano invece intrisi di stregoneria e superstizione. La disputa sembrò degenerare tra chi vedeva nell’ ”apparizione” il corpo di un santo e chi invece prevedeva il peggio che potesse capitare ad una nave in navigazione...

 

Ancora oggi, ogni tanto, quella magica visione affiora tra i ricordi personali più lontani ed il pensiero va soprattutto all’idea di quel cielo ingannevole che ci aveva aspettati al varco, come la “Maga Circe” per incantarci, per fortuna, senza molti risultati...

 

 

 

In ottica la Fata Morgana è una forma complessa e insolita di miraggio che si può scorgere all'interno di una stretta fascia al di sopra dell'orizzonte.

 

A questo punto immagino la perplessità del lettore e non mi rimane che rifugiarmi dietro un banco di scuola per rileggervi quel capitolo....

 

“Il fenomeno ottico conosciuto come FATA MORGANA, é noto, (ma non troppo n.d.r), ai naviganti, ma anche agli abitanti e turisti di quei luoghi in cui questo fenomeno ottico viene osservato quando i raggi di luce sono fortemente incurvati dal passaggio attraverso strati d'aria a temperature diverse. Infatti, in condizioni di tempo sereno, può capitare che uno strato d'aria molto più calda sovrasti uno strato di aria più fredda: in questo caso, la differenza tra gli indici di rifrazione può dar luogo alla formazione di un condotto atmosferico che agisce come una lente di rifrazione che produce una serie di immagini sia dritte che invertite. L’eccezionalità del fenomeno ottico dipende quindi dalla temperatura degli strati atmosferici, ma anche dalla simultanea formazione di un condotto atmosferico, un proiettore d’immagini. Per certi versi, detto fenomeno é analogo al più noto miraggio, dove però le immagini sono molto mutevoli e deformate, difficilmente riconoscibili. Affinché il fenomeno avvenga, l'inversione termica dev'essere abbastanza forte da far in modo che la curvatura dei raggi di luce all'interno dello strato di inversione sia più forte della curvatura della Terra . In queste condizioni i raggi creano degli archi. L'osservatore deve trovarsi all'interno o al di sotto del condotto atmosferico per poter vedere la Fata Morgana”.

 

 

Talvolta, le navi sono viste anche molto al di sopra dell’orizzonte e schiacciate sino a diventare torri o castelli. Per spiegare tale fenomeno è sufficiente immaginare che la luce proveniente da un punto sia distribuita in verticale, gli oggetti in lontananza assumono le sembianze di torri, pinnacoli, obelischi.

La Fata Morgana, conosciuta anche come Morgane, Morgaine, Morgan e altre varianti, è una popolare strega della mitologia celtica e delle leggende. L'epiteto femminino “la fata” - (tradotto dall'originale inglese the fay, a sua volta adattato dal francese la fée) - indica la figura di Morgana come una creatura sovrannaturale. È una dei principali antagonisti di Re Artù – Ginevra - e soprattutto di Merlino, nelle leggende arturiane. Secondo altre leggende celtiche induceva nei marinai visioni di fantastici castelli in aria o in terra per attirarli e quindi condurli a morte.

 

 

 

Per i tanti amanti del Cielo e per lo sparuto gruppetto che sicuramente crede agli UFO, il disegno n. 3 può spiegare, spero chiaramente, come un innocente faro sulla costa possa essere scambiato per un UFO (Oggetti Volante non identificato). L’Osservatore è in O e sta osservando stelle e galassie. Improvvisamente, si accende un faro al di là della montagna dalla cima innevata. L’aria fredda che circonda la vetta del monte causa un miraggio superiore e il faro risplende alto nel cielo, aumentando e diminuendo la sua luminosità.

 

 

 

 

 


 

Il fenomeno ottico della fata morgana rientra nella categoria dei miraggi, termine con il quale si descrivono alcuni fenomeni dovuti all’incurvamento dei raggi luminosi nell’attraversare strati d’aria non omogenei. Il tipo più comune di miraggio si osserva spesso d'estate sulle vaste distese di sabbia riscaldate dal Sole o, forse più frequentemente, sulle strade rettilinee asfaltate o sulle autostrade. Sarà capitato a tutti, durante un viaggio in macchina in autostrada, di notare delle pozzanghere sull’orizzonte, come se la strada fosse bagnata.

 

Aggiungo alcune foto di Milly Mascaretti:

Carlo GATTI

Rapallo, 16 Giugno 2014

 

 

 

 

 


Il RELITTO della SANTA MARIA. Vero o falso?

RELITTO DELLA SANTA MARIA

Vero o falso ?

 

Nelle acque al largo di Haiti é stato scoperto un relitto incredibile, potrebbe trattarsi della  Santa Maria di Cristoforo Colombo

Haiti

La “caracca” Santa Maria, lunga 21 metri, un ponte e tre alberi, era l’ammiraglia della piccola flotta che giunse per prima sul suolo americano al comando del navigatore genovese Cristoforo Colombo. Le altre due imbarcazioni erano due caravelle leggermente più corte: la Pinta e la Niña. La flottiglia di Colombo partì da Palos (Andalusia) il 3 agosto del 1492, sbarcò sul suolo americano, e il 25 dicembre dello stesso anno s'incagliò su una barriera corallina al largo di Haiti. E’ stato l’archeologo marino Barry Clifford ad imbattersi nei resti di quella che potrebbe essere la caracca spagnola. La notizia deve ancora essere ufficialmente confermata ma se così fosse si tratterebbe di una delle scoperte più importanti degli ultimi anni: Clifford ha spiegato di avere scoperto il relitto della caravella nel punto esatto nel quale l’ammiraglio genovese disse che si incagliò, oltre 500 anni fa. I resti della nave si troverebbero incastrati in una barriera corallina sulla costa settentrionale di Haiti, a circa 3-5 metri sotto il livello del mare. Secondo l’esploratore statunitense, la prova definitiva che il relitto sia proprio quello della Santa Maria di Colombo sarebbe il cannone del XV secolo rinvenuto su un fianco della nave.

Usando magnetometri marini, dispositivi di radar, sonar e esplorazioni di sommozzatori, Clifford ha studiato le anomalie della piattaforma marittima, comparato i risultati con informazioni tratte dai diari di navigazione di Colombo e da materiale cartografico dell’epoca e misurato l’impatto delle correnti per stabilire i movimenti del relitto dopo il naufragio.

 
   

La missione é in parte finanziata da ‘History Channel’, suscita però sin d’ora diversi dubbi, soprattutto da parte di studiosi spagnoli ma anche italiani come P.E.Taviani. Nei suoi diari Colombo racconta infatti dell’impossibilità di smuovere l’imbarcazione, e che questa venne smantellata per costruire un fortino.

 

Dopo oltre 500 anni, il mito della Santa Maria riaffiora per l’ennesima volta. Le numerose ricerche del relitto, per dirla in parole povere, si sono risolte con un buco nell'acqua, oppure con bufale clamorose. La più significativa, quella del 1962 quando un ricercatore inglese con un gruppo di sommozzatori individuò un relitto e sicuro fosse quello della Santa Maria presentò la sua scoperta al mondo intero. Per dieci anni le ricerche si bloccarono. Solo nel 1972 fu scoperta la verità: si trattava dei reperti di una caravella del secolo successivo.

 

Lo stesso archeologo subacqueo Barry Clifford ha ammesso che cinque secoli di correnti oceaniche hanno sicuramente modificato sia i fondali che la costa. Pertanto, la volontà di proseguire le ricerche, a nostro modesto avviso, ha il sapore di una sfida più personale che scientifica.

 

Lo straordinario racconto della grande scoperta giunge ora a uno dei fatti più importanti: la fondazione della colonia della Navidad, primo insediamento europeo in America a cui si riferisce l’incisione del FORTINO (foto sopra) tratta dal libro di Washington Irving Vida y viajes de Cristobal Colon.

Le ricerche dell’equipe americana prendono le mosse proprio dall’individuazione, nel 2003, di questa costruzione. Ma secondo gli scienziati spagnoli il punto in cui dovrebbero trovarsi i resti della nave si trova oggi sulla terra ferma e non sott’acqua.

Fin qui la cronaca .... dopo di ché, la curiosità di saperne di più, ci ha spinti a risalire alle fonti e ci siamo rivolti ai testi sacri di Paolo Emilio Taviani il famoso storico colombiano che ha visitato di persona (nel corso di oltre cinquant’anni) tutti i luoghi toccati da Colombo prima e durante i suoi viaggi di scoperta. Questi preziosi sopralluoghi hanno consentito di risolvere molte questioni che erano rimaste aperte nella pur vastissima precedente storiografia.

PAOLO EMILIO TAVIANI

I VIAGGI DI COLOMBO-LA GRANDE SCOPERTA – VOLUME 1° - pag 68

IL NAUFRAGIO E IL PRIMO INSEDIAMENTO EUROPEO IN AMERICA

..... Il 20 dicembre 1492, la Santa Maria e la Niña, continuando a navigare verso levante lungo la costa settentrionale di Haiti, eran giunte dinanzi alla Baia de l’Acul......

..... Uno degli scogli, o cayo, come li chiamano nei Caraibi, arricchitosi di bianca arena, si é popolato di alberi; é la isleta che Colombo battezzò Amiga: un autentico gioiello che stava e sta ancor là a presidiare l’entrata nell’incantevole Baia de l’Acul. Oggi si chiama Ile Rat.

.... Il 24 dicembre, riuscì a salpare. Navigò di bolina, perché l’aliseo spingeva da levante in senso contrario. Alle 11 della sera, la Santa Maria aveva avanzato lentamente, e si trovava al largo del promontorio che Colombo battezzò Punta Santa, con riferimento all’imminente solennità natalizia. A quanto Colombo scrive nel Giornale, si trovava a nord o a nord-est del capo di una lega, cioé 4 miglia. Era la notte di Natale. Nessun fatto esterno giustifica il disastro. Mare tranquillo. Distanza da terra normale. Le scogliere coralline numerose e insidiose, ma non più novità, ormai. Ce n’erano altrettante sulle molte coste fino ad allora bordeggiate. Le undici. Il mozzo capovolge la clessidra. Cambia il turno del timoniere. L’Ammiraglio si ritira in cabina, recita le preghiere e s’addormenta: “eran due giorni e una notte che non aveva dormito”. Non appena il capo scompare, gli uomini di guardia sul ponte – vedette e mozzi – scendono a dormire. Juan de la Cosa, comandante della guardia, indica la rotta al timoniere, una rotta facile: seguire la Niña che procede con le vele gonfiate dal vento, illuminate dalla pallida luce della luna bassa sull’orizzonte. Il mare, l’abbiamo già accennato, era “in calma morta, come l’acqua d’una scodella tranquilla”. Juan de la Cosa dice al timoniere di chiamarlo qualora mutasse il tempo o il vento, o se comunque si verificasse qualcosa d’anormale, e scende anche lui sotto coperta. Il timoniere casca dal sonno, scuote il mozzo che ha il solo compito di vegliare sulla clessidra, gli affida – in contrasto con gli ordini di Colombo – la barra del timone e si stende a dormire. Così il destino dell’ammiraglia resta nelle mani d’un mozzo, l’unico desto di tutta la nave. La luna era troppo bassa per rivelare alla vista la spuma bianca, che si forma là dove l’onda lunga si frange sulla scogliera corallina. In ogni caso, il ragazzo, che stava a poppa, tutto teso a reggere la pesante barra, non avrebbe potuto vederla. Una corrente marina stava portando la nave sopra una di quelle secche, che ‘ruggivano’ tanto da essere sentite a distanza. Invece la nave si trovò sopra la scogliera così sommessamente che il mozzo non se n’accorse neppure. Solo quando avvertì che il timone arava, e ne udì il rumore, si mise a urlare. Colombo fu il primo ad accorrere sul cassero: poi giunsero Juan de la Cosa e tutti gli altri.

La situazione fu subito chiara. La Santa Maria s’era incagliata di prua su una scogliera corallina. Siccome la poppa pescava più della prua, il modo per rimettere a galla la nave era gettar l’ancora al di là della barriera e condurne la gomena al grande molinello di prua, quindi retrocedere, tonneggiando, con la poppa.

Questi furono gli ordini di Colombo a Juan de la Cosa: tirar la lancia che si trovava a rimorchio in mare fin sotto il bordo della nave, collocarvi l’ancora e il cavo e spostarsi con la lancia stessa di là della barriera per dar fondo all’ancora.

Sceso nella lancia, Juan de la Cosa si diresse invece a tutta forza verso la Niña. Se si tien conto che la Santa Maria era di sua proprietà. É gioco forza pensare che egli sia stato preso da una crisi di nervi. Vincente Yañez Pinzòn si comportò degnamente: rifiutò di accogliere a bordo i transfughi e inviò le sue lance con parecchi marinai a soccorrere l’Ammiraglio.

Ma ormai era tardi. La poppa s’era girata, e la nave venne a trovarsi di traverso, sicché ogni ondata la sollevava e la lasciava ricadere di peso sulla barriera corallina che, peggio di qualsiasi altro scoglio, perfora il legno della carena.

Per alleggerire il peso della nave, l’Ammiraglio fece tagliare l’albero di maestra. Ma neppure ciò fu sufficiente. La marea stava scemando e la nave “non poté respirare: piegatasi alquanto, s’aprì nelle connessure e s’empì tutta d’acqua dal di sotto”.

Il naufragio avvenne nei pressi dell’odierna Cap-Haitien.

Se oggi un turista chiede di andare sul luogo del naufragio della Santa Maria di Cristoforo Colombo, incontra molti barcaioli disposti a portarvelo. Le tempeste non sono frequenti, la baia é riparata dal promontorio a ponente e dall’immensa palude di mangrovie della penisola di Caracol a levante. – Non é pericoloso e non é lontano – vi diranno i pescatori, e i barcaioli vi porteranno ad un miglio dalla costa, su d’un frangente corallino, che sporge addirittura dall’acqua tanto da potervi salire quando la marea é bassa, mentre, quando é alta. L’onda si rompe rumorosa e si moltiplica in scintillii di spuma bianca visibili dalla spiaggia.

I VIAGGI DI COLOMBO LA GRANDE SCOPERTA - VOLUME 2° - Scheda del Capitolo XII – Pag.98/99

Nella cartina, a sinistra, si nota la scritta in rosso: Mare di San Tomaso, Baia de l’Acul. Nel centro-in alto il simbolo della Santa Maria con la Latitudine 19°49’ e poco più a destra é indicata in rosso la scritta Zona di Naufragio. Sotto le due scritte é visibile Punta Santa (scritta in rosso) da cui si accede alla Baie Cap-Haïtien.

La baia di Cap-Haïtien nelle cui acque la Santa Maria naufragò, la notte di Natale del 1492. Il naufragio deve in ogni caso essere su un banco corallino all’esterno verso il mare aperto rispetto al groviglio di banchi che insidiano le acque interne della baia di Cap-Haïtien. (Foto: G.Dagli Orti)

Prosegue:

...... La giornata del 25 dicembre venne dedicata al recupero del carico della Santa Maria e al trasferimento dell’Ammiraglio sulla Niña. .......

 

Rimasero in 39........................ A Diego de Arana diede il comando in capo.

........ Vi erano anche un cannoniere – perché Colombo vi aveva lasciato alcune bombarde e ordinato di costruire una torre, un forte e un fossato - E un nostromo, perché venne lasciata una lancia al fine di esplorare la costa, trovare la miniera dell’oro e fondare una nuova colonia in una località più idonea di quella che era stata provvisoriamente prescelta. L’esatta località della Navidad non é stata identificata. Si può solo indicare un rettangolo il cui lato di 7 chilometri é sulla linea della spiaggia, e quello di tre é in profondità. Entro questo rettangolo (bordato in nero nella cartina sopra) sta oggi un piccolo villaggio, Bord-de-Mer de Limonade, una chiesa, molte capanne, alcune piccole barche di pescatori haitiani: una distesa a fondo sabbioso, che giunge al mare con una fascia di paludi coperte di mangrovie.

VOLUME PRIMO – TRAGEDIA ALLA NAVIDAD – Pag.116

Il canale tra Puerto Rico e la Hispaniola é breve. Colombo ritrova il punto donde é partito, dieci mesi e 6 giorni innanzi, per la traversata di ritorno. Riconosce la costa allora bordeggiata, e ancor più lo attanaglia l’ansia di incontrare i compagni lasciati al forte della Navidad..........

Avanza rapido lungo le coste settentrionali dell’Hispaniola, le vele sospinte dall’aliseo, nell’attesa di ritrovare finalmente i suoi uomini, di sapere che cosa abbiano scoperto e quanto oro accumulato, che cosa sia accaduto durante il lungo periodo trascorso......

L’Ammiraglio manda a terra una barca con alcuni marinai. Trovano due cadaveri: “uno, che pareva giovane e l’altro vecchio, che aveva una fune al collo e distese le braccia e legate le mani a un legno, in forma di croce”........

Fin dalla Spagna Colombo non aveva mai cessato di pensare ai coloni dell’Hispaniola. Ora é finalmente giunto, ma non trova nessuno. E poco o nulla riuscirà a sapere, perché tutti sono morti.

Carlo GATTI

Rapallo, 1 giugno 2014



ONDA ANOMALA

 

ONDA ANOMALA


 

Una Chevron dell’epoca

 

Il 20 febbraio 1969, mi imbarcai con il grado di 3° Uff.le Coperta sulla t/n “A.N. Kemp”, petroliera di 32 mila tonnellate di stazza lorda della Società “Chevron”.


St. John

Raggiunsi la nave in Canada, nel porto di St.John. Appena arrivato a bordo, prima di fare il passo definitivo per raggiungere il ponte principale, ebbi un attimo di esitazione : l’equipaggio era composto da 32 persone, tutti italiani, ma estremamente trasandati, con la barba incolta e la maglietta o camicia annodata intorno alla vita. Dopo che li ebbi conosciuti mi resi conto che era tutta brava gente e, in poco tempo, mi adattai e diventai come loro.

Porto di Augusta

Dopo alcuni viaggi tra il Nord e Sud America, arrivò l’ordine di dirigere verso il Mediterraneo e precisamente in Sicilia, nel porto di Augusta. Per l’avvicendamento dell’equipaggio, fui promosso dopo appena un mese di imbarco e con mia soddisfazione 2° Uff.le. di coperta.  La notizia dell’avvicinamento a casa ci riempì il cuore di gioia. Nella prima decade di aprile si fece rotta per Gibilterra.

Mare di prora

Nave nella burrasca

Mare in coperta

Attraversando l’Oceano Atlantico incontrammo a metà del percorso una bassa pressione che si approfondiva sempre più e per diversi giorni fummo bloccati dalla tempesta al centro della nave, dove c’era il ponte di comando, impossibilitati a raggiungere la poppa, dove si trovava la saletta ufficiali. Il comandante dovette fare un’ampia accostata e creare le condizioni di ridosso per far correre uno di noi con una lunga cima verso poppa e stabilire un contatto con la cucina. Ci mandavano, di tanto in tanto, con un sistema di “va e vieni”, panini imbottiti, pollo e frutta. Le onde intanto si facevano sempre più alte e frangevano contro la prora. La nave teneva molto bene il mare e solo di tanto in tanto c’era qualche brusco movimento. Ricordo che una notte, esattamente alle 04:10, mentre stavo smontando di guardia e avevo già passato le consegne al primo ufficiale vidi di prora un ostacolo molto alto.

Misi bene a fuoco la vista e mi accorsi che era un’onda anomala che sicuramente era alta almeno 15 metri. Feci cenno al primo ufficiale che subito si mise in contatto con la sala macchine per ridurre al  minimo l’andatura.

Una vera Onda anomala

L’onda si infranse contro la prora, la nave ebbe una forte sollecitazione che, per fortuna, non causò danni allo scafo; il ponte di comando venne investito con violenza, praticamente sembrava di essere sott’acqua. Si ruppe un finestrino laterale, la sala si inondò e la strumentazione nautica si salvò per  miracolo. Seguì una seconda onda di circa 10 metri, il cui impatto fu più dolce, in quanto la nave aveva ormai perso velocità e avanzava a non più di tre nodi. Passato il pericolo, il comandante, che venne subito sul ponte, si complimentò con noi per aver avuto la prontezza di ridurre i motori avvisando il personale della sala macchina di ciò che stava succedendo. Mantenemmo per un po’ l’andatura minima, ci accertammo che l’onda non avesse creato qualche danno alle tubazioni in coperta, o qualche lacerazione o deformazione alle lamiere e, dopo qualche ora, aumentammo la velocità intorno ai 12 nodi per affrontare e superare la bassa pressione che si stava dirigendo velocemente  spostandosi verso Nord. In mattinata, verso mezzogiorno, uscimmo dalla tempesta. Il vento e il mare incominciavano a calmarsi. Nel pomeriggio il tempo migliorò ulteriormente, i venti si orientarono da Nord Ovest, il cielo tornò sereno. Finalmente la sera riuscimmo a percorrere la passerella per recarci a poppa e mangiare tranquillamente seduti in saletta ufficiali. Il cuoco per l’occasione preparò un buon pranzo e ricordo che, come primo piatto, ci propose una nuova ricetta “Le penne all’onda anomala”. Non so quali fossero gli ingredienti, ma la pasta aveva un gradevolissimo gusto di mare. Venni a sapere che con l’onda anomala avevamo imbarcato, oltre all’acqua salata, anche una notevole quantità di pesci rondine. Il cuoco li aveva usati per il sugo delle penne e li aveva cucinati al forno con le patate. Sarà stata la fame arretrata, ma li trovammo veramente squisiti.

Mario Terenzio PALOMBO

 

 

Rapallo, 23 Maggio 2014

 



NASCITA DI UNA BIMBA A BORDO

 

NASCITA DI UNA BIMBA A BORDO

 

 

M/n Carla Costa

 

Al comando della M/n Carla Costa, verso la metà di gennaio 1991, mi capitò un’esperienza  che non credo sia stata vissuta da altri capitani. Avevo affrontato tempeste in porto e in mare, decessi di passeggeri a bordo, sbarchi di emergenza con elicottero o con lancia, ma questa che sto per raccontarvi credo sia unica.

 

 

Eravamo partiti da St. Thomas (Haiti) diretti a San Juan (Puerto Rico). Era l’ultima serata della crociera. La nave era in festa per la serata della “toga”, che si svolgeva sulle navi “Costa” nei Caraibi e che aveva riscontrato un notevole successo. In pratica i passeggeri indossavano, durante l’ultima serata, una toga. Veniva consegnato loro un lenzuolo, il direttore di crociera spiegava come doveva essere indossato e, chi lo desiderava,  poteva trascorrere l’intera serata con questo indumento. Ciò consentiva anche ai passeggeri di sistemare anticipatamente i vestiti dell’ultima sera in valigia. Gli ospiti che avevano già effettuato crociere “Costa” imbarcavano addirittura portandosi da casa una bella toga tutta ricamata per l’occasione. La festa si svolgeva per la maggior parte sui ponti esterni, con musiche e balli latini. Quella sera, come da nostro programma per risparmio energetico, dirigemmo verso Portorico per fermarci oltre le 12 miglia dalla costa.

 

 

 

San Juan di Portorico

 

Verso le 23.00 eravamo al largo di  San Juan dove ci fermavamo alla deriva. Quella notte che ricordo benissimo, con cielo stellato e mare calmo, mi chiamarono per un’emergenza medica. Il direttore sanitario mi comunicò che c’era a bordo una signora messicana che stava partorendo: era stata imprudente perché aveva dichiarato all’imbarco  di essere al settimo mese, invece era incinta da 7 mesi e 25 giorni. Molto probabilmente lo stress del viaggio le aveva anticipato il parto. Era per lei il secondo, ma bisognava chiedere assistenza. Feci subito mettere in moto i motori e, a tutta forza, ci dirigemmo verso il porto. Era già passata la mezzanotte e, in poco più di un’ora avremmo potuto attraccare alla nostra banchina. Chiamammo la guardia costiera, informandola che avevamo a bordo una partoriente con doglie ogni quattro minuti. Allertammo la nostra agenzia “Costa”, il cui responsabile Edoardo Schivo era sempre pronto in questi casi. Egli predispose un’ambulanza al nostro arrivo e le autorità del porto ci concessero il permesso di entrare con precedenza sul traffico. Poco dopo, la Guardia Costiera ci informò che, a causa delle doglie così frequenti, era impossibile uno sbarco della signora con l’elicottero, ma che sarebbero stati pronti, sorvolando intorno alla nave, a prendere, se fosse stato necessario, il neonato, e a dargli assistenza immediata. Era stato allertato anche il pronto soccorso ed era stata preparata, per ogni evenienza, l’incubatrice.

 

 

Elicottero di Salvataggio

 

Feci diffondere un annuncio per informare i passeggeri che stavano festeggiando e danzando in piscina su quanto stava accadendo e per chiedere se tra di loro ci fosse un medico ginecologo che poteva darci assistenza. Scesi in ospedale per vedere la partoriente e trovai il nostro medico che aveva preparato tutto. Gli dissi che avevamo l’elicottero in caso di emergenza. La signora, una bella messicana di 28 anni, era sul lettino e stava dando alla luce la creatura che aveva in grembo. Fu un parto molto rapido. Diedi assistenza al medico e in quello stesso istante arrivò pure in ospedale il ginecologo che avevamo cercato il quale, con mano esperta, tagliò il cordone ombelicale.

 

 

Un momento particolare....

 

Era una bella bimba e pesava 1,950 chilogrammi. Fu veramente emozionante veder dare alla luce una creatura. Ebbi solo il tempo di congratularmi con la signora ed con il marito, poi mi recai subito sul ponte perché la nave era all’entrata del porto.

Avvisammo l’elicottero della guardia costiera che non era più necessaria l’assistenza. Nel momento in cui la nave entrava in porto, ci fu un saluto con la sirena di tutte le altre navi passeggeri che avevano ascoltato via radio la notizia della nascita. Fu emozionante: un’ entrata così non l’avevo mai fatta. I colleghi che  mi conoscevano mi chiamarono  per farmi gli auguri definendomi scherzosamente “papà Mario”. Il caro amico Edoardo Schivo era già pronto in banchina e c’era pure la stampa alla quale rilasciai un’intervista. Poco dopo, l’ambulanza trasportava la giovane  madre  e la neonata in ospedale per gli accertamenti clinici. In mattinata chiamai il console italiano Angelo Pio Sanfilippo (siamo divenuti buoni amici e ancor oggi siamo in contatto), in quanto si doveva regolarizzare la nascita avvenuta a bordo.

 

 

 

Atto di nascita

 

Per la prima ed unica volta nella mia carriera  redassi un atto di nascita. Fu fatta anche una traduzione in lingua spagnola in modo che i genitori, una volta in Messico, potessero presentarla alle autorità. I genitori decisero di chiamare la loro bimba Karla, come la nave, e in mio onore, Maria. Fui commosso da questa scelta. Firmai l’atto di nascita insieme al console che lo convalidò con i timbri consolari e lo consegnai ai genitori insieme ad una cartina nautica da me firmata e timbrata che indicava il punto esatto della nave al momento della nascita della loro figlioletta.

 

 

 

M/N Costa Victoria

 

Durante la crociera del 25 marzo 2001, a bordo della M/n Costa Victoria, ebbi una bellissima sorpresa. La sera dedicata agli sposi che desideravano rinnovare i loro voti matrimoniali,  prima di cominciare  la cerimonia con circa 200 partecipanti, notai in prima fila, una coppia di sposi con la figlia, che mi guardavano sorridendo. La bambina si avvicinò, mi abbracciò e mi disse: «Capitan, io sono Karla Maria».

 

Capii subito che si trattava  della bimba nata a bordo 10 anni prima sulla “Carla Costa”. Il  vederla già così grande e bella, mi  procurò una forte emozione, mi commossi e l’abbracciai. Anche lei, Karla Maria, mi strinse forte con affetto. Ringraziai i genitori per la gradita sorpresa e durante la cerimonia volli rendere pubblica la bella notizia, accolta da un applauso scrosciante dei presenti. Feci in modo di far trascorrere alla famiglia di Karla Maria, una settimana indimenticabile. La sera di gala dell’arrivederci la invitai al tavolo comando e a fine cena i camerieri portarono una grossa torta con la dedica: «A  Karla Maria, affettuosamente da papà Mario».

 

 

Mario Terenzio PALOMBO

 

Rapallo, 23 Maggio 2014

 


 

 


IL NAUFRAGIO DI S.PAOLO A MALTA

 

IL NAUFRAGIO di S. PAOLO A MALTA

 

Racconto di Luca - Atti degli Apostoli

 

Il naufragio a Malta fu un incidente accaduto, diremmo oggi, durante un viaggio di "traduzione giudiziaria". Tutto comincia a Gerusalemme dove la predicazione di Paolo aveva scatenato le ire degli Ebrei che lo volevano morto. L'amministrazione romana era, come è noto, tollerante e cinica. Lasciava volentieri che i sudditi delle province sottomesse risolvessero fra di loro le loro questioni. Non però in questo caso. Perché Paolo era cittadino romano e aveva diritto di appellarsi a Cesare. Nella patria del corpus iuris, nell'impero governato dalla legge, la procedura penale era una cosa seria. I governatori delle province avevano potestà istruttoria e giudicante fino alla sentenza capitale. Il processo a Gesù insegna. Non l'avevano però sui cittadini romani. Per questi ultimi lo ius gladii era prerogativa esclusiva di Cesare e cioè della magistratura romana. Queste cose Paolo le sapeva benissimo. Si dichiarò cittadino romano e si appellò all'imperatore garantendosi così una provvisoria impunità. In seguito, dopo essere stato trattenuto agli “arresti domiciliari” a Cesarea, venne trasferito via nave, con tanto di scorta armata, a Roma. 
Fu un viaggio disastroso, funestato da tempeste e da venti contrari fino al naufragio di Malta. A questo punto lasciamo parlare gli Atti degli Apostoli. "Una volta in salvo venimmo a sapere che l'isola si chiamava Malta. Gli abitanti ci trattarono con rara umanità; ci accolsero tutti intorno a un fuoco, che avevano acceso perché era sopraggiunta la pioggia e faceva freddo. Mentre Paolo raccoglieva un fascio di rami secchi e lo gettava sul fuoco, una vipera saltò fuori a causa del calore e lo morse a una mano. Al vedere la serpe pendergli dalla mano, gli abitanti dicevano fra di loro:  "certamente costui è un assassino perché, sebbene scampato dal mare, la dea della giustizia non lo ha lasciato vivere". Ma egli scosse la serpe nel fuoco e non patì alcun male. Quelli si aspettavano di vederlo gonfiare o cadere morto sul colpo ma, dopo aver molto atteso e vedendo che non gli succedeva nulla di straordinario, cambiarono parere e dicevano che egli era un dio".

 

Nel Cuore della Tempesta

Ecco il più favoloso racconto del Nuovo Testamento. Da Cesarea a Roma, “la navigazione è pericolosa” - dopo la festa delle Espiazioni – che introduce l’autunno. In effetti, la nave andrà alla deriva per quindici giorni da Creta a Malta, non potendosi orientare “né con le stelle, né col sole”. Il prigioniero Paolo si rivela più libero dei suoi 276 membri dell’equipaggio, capitano, pilota, centurione e marinai: egli è abituato al mare e all’esperienza di tre naufragi e, soprattutto, ha una sicurezza che gli viene da Dio: “Nessuno di voi lascerà la vita, solo la nave sarà persa”, afferma ai suoi compagni, quando tutto sembra perduto, “Un angelo di Dio al quale appartengo e che servo mi è apparso per dirmi: Non avere paura, Paolo… ecco che Dio ti accorda la vita di tutti coloro che navigano con te”.

 

Il viaggio di San Paolo verso Roma

LUCA-ATTI DEGLI APOSTOLI

Quando fu deciso che ci imbarcassimo per l’Italia, consegnarono Paolo, insieme con alcuni altri prigionieri, a un centurione di nome Giulio della coorte “Augusta”. E saliti su una nave di Adramitto, che doveva recarsi dalle parti dell’Asia, salpammo, avendo con noi Aristarco, macedone di Tessalonica. Il giorno seguente approdammo a Sidone; e Giulio, facendo un gesto di benevolenza verso Paolo, gli permise di recarsi dagli amici e di riceverne le cure. Salpati di là, navigammo al riparo di Cipro a motivo dei venti contrari e, attraversato il mare della Cilicia e della Panfilia, giungemmo a Mira di Licia. Qui, avendo trovato una nave di Alessandria che navigava per l’Italia, il centurione ci fece salire a bordo di quella. Navigammo lentamente parecchi giorni, giungendo a fatica all’altezza di Cnido, dalle parti di Salmone, e nel costeggiarla faticosamente giungemmo in una località detta Bei Porti, vicino alla quale era la città di Lasea. Trascorso alquanto tempo, ed essendo ormai pericoloso il navigare per essere già passato il grande digiuno, Paolo li esortava ripetutamente, dicendo: “Io vedo, o uomini che la navigazione comporterà pericolo e grave danno non solo al carico e alla nave, ma anche alle nostre vite”. Ma il centurione si lasciava persuadere dal Pilota e dal Capitano della nave più che non dai detti di Paolo. Ed essendo quel porto disadatto a trascorrervi l’inverno, i più furono del parere di salpare di là per giungere a svernare a Fenice, porto di Creta che guarda a libeccio e maestrale.

 

 

LA TEMPESTA E IL NAUFRAGIO

 

Poiché aveva cominciato a spirare un vento di Noto (Noto - l’umido vento del sud, porta le piogge e rende difficoltosa la navigazione in certi periodi dell’anno), convinti di aver ormai realizzato il progetto, levarono le ancore; e costeggiavano più da vicini Creta. Ma dopo non molto tempo si scatenò su di essa un vento d’uragano, detto Euraquilone (Grecale-Vento da Nord-Est): La nave fu travolta nel turbine, e non potendo più resistere al vento, si abbandonarono, e furono portati alla deriva. E mentre filavano sotto un isolotto chiamato Cauda, a stento riuscirono a padroneggiare la scialuppa; tiratala su, adoperavano gli attrezzi per fasciare la nave; poi per timore di finire incagliati nelle Sirti, calarono l’àncora galleggiante, e  andarono così alla deriva. Venendo sbattuti violentemente dalla tempesta, il giorno seguente cominciarono a gettare il carico a mare; e il terzo giorno con le proprie mani buttarono a mare le attrezzature della nave. Da vari giorni non comparivano né sole né astri, e continuava a infuriare una grossa burrasca, onde cominciava a dileguare ogni speranza di potersi salvare.

 

Da molto tempo non mangiavano, quando Paolo mettendosi in mezzo a loro, prese a dire: “Conveniva, o uomini, darmi ascolto, e non salpare da Creta; si sarebbe evitato questo pericolo e questo danno. Tuttavia vi esorto ora a essere di buon animo, perché non ci sarà alcuna perdita di vite in mezzo a voi, ma solo della nave. Mi si é presentato infatti questa notte un angelo del Dio al quale appartengo e a cui servo. Dicendomi: “Non temere più, o Paolo; é necessario che tu sia presentato a Cesare, ed ecco che Dio ti ha concesso tutti i  tuoi compagni di navigazione”. Perciò state di buon animo, o uomini: ho fiducia in Dio che avverrà come mi é stato annunziato. Dobbiamo andare a finire su qualche isola”.

 

E quando fu la quattordicesima notte che andavano alla deriva nell’Adriatico, verso mezzanotte, i marinai ebbero l’impressione che una qualche terra venisse loro incontro. E scandagliando trovarono venti braccia: e dopo un breve tratto, scandagliando di nuovo, trovarono quindici braccia. Allora per timore di finire contro luoghi scogliosi, gettarono da poppa quattro ancore, augurandosi che spuntasse il giorno. Ma i marinai, nell’intento di fuggire dalla nave, avevano già cominciato a calare la scialuppa in mare, col pretesto di  gettare le ancore da prora, quando Paolo disse al centurione e ai soldati: “Se costoro non continuano a restare sulla nave, voi non potrete mettervi in salvo”. Allora i soldati recisero le gomene della scialuppa, e la lasciarono cadere giù.

 

E finché non spuntò il giorno, Paolo esortava tutti a prendere cibo dicendo: “Oggi é il quattordicesimo giorno che passate digiuni nell’attesa, senza prender nulla. Per questo vi esorto a prender cibo; é necessario per la vostra salute. A nessuno di voi perirà anche un solo capello del capo”. Ciò detto, prese del pane, rese grazie a Dio davanti a tutti e, spezzatolo, prese a mangiare. Tutti si sentirono rianimati, e anch’essi presero cibo. Erano complessivamente sulla nave duecentosessantasei persone. Dopo essersi rinfrancati con cibo, presero ad alleggerire la nave, gettando il frumento nel mare.

 

Fattosi giorno, non riuscivano a conoscere quella terra; ma ravvisarono un’insenatura con spiaggia, e verso di essa deliberarono di spingere, se fosse possibile, la nave. Levarono d’intorno le ancore, che lasciarono andare nel mare; al tempo stesso allentarono i legami dei timoni e levarono al vento l’artimone, movendo così verso la spiaggia.

 

 


Artimóne s. m. [dal lat. artĕmon -ōnis, gr. ρτμων -ωνος], ant. – Nell’antichità classica nome di una vela di cui non si sono potute accertare le dimensioni e l’esatta posizione sulla nave. Nel medioevo sembra indicasse una vela trapezoidale o anche triangolare del secondo ordine subito al disopra della maestra, ossia la gabbia (cfr. Dante, Inf. XXI, 15: Chi terzeruolo e artimon rintoppa). Il termine non è più in uso nella marina italiana; in francese la voce artimon, tuttora in uso, indica l’albero e la vela di mezzana.

 

 

Ma lanciati contro una punta con il mare ai due lati, vi incagliarono la nave; e mentre la prora impigliata rimaneva lontana dai flutti, la poppa minacciava di sfasciarsi sotto la violenza dell’onda. I soldati decisero allora di uccidere i prigionieri, perché nessuno sfuggisse gettandosi a nuoto: ma il centurione, volendo salvare Paolo, impedì loro di attuare questo disegno; e diede ordine che si gettassero per primi quelli che sapevano nuotare, per raggiungere la terra, e poi gli altri, chi su tavole, chi su altri arnesi della nave. E così avvenne che tutti poterono mettersi in salvo a terra.

 

Salvi che fummo, venimmo a sapere che l’isola si chiamava Malta. Gli indigeni ci manifestarono una benevolenza non comune; ci accolsero tutti attorno ad un gran fuoco, che avevano acceso a motivo della sopravvenuta, e del freddo.

 

 

MALTA - Tutti raggiunsero l’isola, chi a nuoto, chi, grazie ad una tavola o ad un asse. Questa tappa semplice ed idilliaca: “gli indigeni ci trattarono con rara umanità, intorno ad un gran fuoco”, simboleggia l’accoglienza che il mondo pagano farà al Vangelo. Dopo il pericolo ed il naufragio, lo scalo meraviglioso a Malta ebbe, per Luca, il gusto dell’alba di una resurrezione. Una vipera morse la mano di Paolo mentre attizzava il fuoco, egli la gettò nel braciere senza alcun dolore… e la gente lo prese per un Dio. Ancora, Paolo guarì il padre del suo ospite imponendogli le mani, così come la folla di malati che accorsero. Finalmente: “lo ricoprirono di onori e, al momento della partenza, gli venne fornito tutto il necessario”.

 

Pozzuoli - La Puteoli Romana

 

 

Dopo tre mesi, salparono su una nave di Alessandria che aveva svernato nell’isola, recante l’insegna dei Dioscuri. Attraccarono a Siracusa, dove rimasero tre giorni, e di qui, costeggiando, giunsero a Reggio. Il dì seguente si levò il vento di Noto onde il giorno dopo arrivarono a Pozzuoli. E qui trovarono dei fratelli i quali li pregarono di restare con loro sette giorni. E così partirono alla volta di Roma. Ma i fratelli di là, avendo saputo di loro, gli andaronio incontro fino al Foro d’Appio e alle Tre Taverne. E Paolo, al vederli, rese grazie a Dio, e prese coraggio.

 

 

Pozzuoli – Tempio di Serapide

Il viaggio di Paolo terminò a Pozzuoli. Questo porto aveva moli importanti e traffici intensi. Pozzuoli fu fondata dai greci nel VI sec. a.C. – passata ai Romani, fu largamente favorita da provvedimenti doganali che ne fecero il porto più animato dell’impero e la base dell’irradiazione economica e politica romana in Oriente. Da Pozzuoli l’Apostolo e i suoi compagni presero la famosa Via Appia (nella pagina accanto a destra), il cui primo tratto, che va da Roma a Capua, fu costruito nel IV sec. a.C.. Questa “Regina delle strade romane” serviva anche da cimitero per i cittadini romani: i due lati della via erano infatti fiancheggiati da monumenti funerari, molti dei quali esistono ancora. Lo “stratopedarca” (stratopedarca, nell’esercito bizantino, il capo dell’accampamento equivalente al maresciallo di alloggio negli eserciti del 18° secolo) al quale furono affidati i prigionieri, apparteneva probabilmente alle Guardie Pretoriane, quella casta politicamente molto importante alla quale Augusto aveva affidato la protezione della città e della persona dell’imperatore.

 

 

 

La Via Appia

 

Paolo ha la gioia di essere accolto da dei fratelli – hanno percorso 50 Km a piedi - poiché l’Apostolo non è uno sconosciuto: essi hanno ricevuto da lui, tre anni prima, la sua grande Lettera ai Romani. A Roma, egli trova anche una comunità di Cristiani, dei quali si ignora l’origine e della quale Luca dice essere numerosa e celebre per la sua fede e le sue opere. Il cristianesimo è stato senz’altro portato molto presto da mercanti ebrei ed è rimasto accantonato vicino a delle sinagoghe. Alla morte di Claudio, Roma contava circa 50.000 ebrei, venuti da regioni molto diverse, dispersi attraverso la vasta agglomerazione in diverse sinagoghe.

 

 

Paolo giunse dunque a Roma nel 61 per esservi giudicato. Dopo due anni di residenza vigilata, nel cuore della città, vicino al Tevere (l’attuale quartiere ebreo), che egli impiegò a evangelizzare ed a scrivere, il processo sfumò per mancanza di accusatori. Ma, dopo l’incendio del 64, Nerone accusò i cristiani di essere gli autori dell’incendio. Paolo venne così arrestato, incatenato nel carcere Mamertino e condannato alla decapitazione, che ebbe luogo fuori dalle Mura Aureliane, sulla via Ostiense, più probabilmente tra il 65 e il 67.

 

Carlo GATTI

Rapallo, 11 Maggio 2014


TEMPO DI GUERRA... amarcord 5

TEMPO DI GUERRA

AMARCORD...5

 

Ho incontrato ……Eichmann

 

 

 

Sul finire del 1944, io, Lucio, Franco, Gianni, Aldo e altri, ci incontravamo sempre nel Convento dei Francescani di Pegli, dedicato a Sant’Antonio Abate, quello con il maialino. Non eravamo una vera associazione, per altro proibita dal Regime Fascista, in quell’epoca dominante. Si giocava a Biliardo, a carte e quant’altro con il beneplacito dei rispettivi genitori che, sapendoci in convento, ritenevano quello essere uno dei posti più sicuri in un momento di caos inimmaginabile. Ci eravamo organizzati una specie di bar, nei  limiti del tempo di guerra, per dare parvenza di “adulti” ai nostri incontri. All’imbrunire però si doveva per forza rientrare a casa per non incorrere nel “coprifuoco” che, all’epoca, scattava abbastanza presto ed era fatto rispettare con rigore dai militi delle Brigate Nere. Facevano parte del nostro gruppo anche i giovani frati, da poco nominati Sacerdoti e che da lì iniziavano la loro missione. Insomma eravamo tutti giovani e in Convento c’era uno dei pochi telefoni funzionanti; nelle case era oggetto raro. Noi poi non eravamo ancora in età da essere arruolati nei Bersaglieri, il corpo raccogliticcio messo insieme, per volere dei Tedeschi, dal governo fantoccio, grondante sangue, della Repubblica di Salò. Tutti i giovani in età di leva, quell’età, in guerra, continuava ad abbassarsi mano a mano che gli uomini al fronte morivano, finivano d’ufficio nei “Bersaglieri. Và detto che quel Corpo raggruppava tutti quelli che non si volevano unire volontariamente alle varie Brigate Repubblichine operative, vere e proprie bande di assassini. Insomma vi finivano i “lavativi”. Appena finita la guerra, dopo pochissimi mesi, ci raggiunse con gioia, anche Enzo, il fratello di Gianni, appena tornato a casa dopo aver risalito l’Italia combattendo come soldato del ricostruito Esercito Italiano, equipaggiato dagli Inglesi. Dopo neppure un anno, iniziarono ad arrivare degli individui che cercavano di Padre Dömotor ( che noi pronunciavamo Demeter)un frate ungherese che, da poco arrivato, si era inserito bene nel nostro gruppo. Era un formidabile giocatore di biliardo. Parlava uno strano italiano, oggi diremmo alla Zeman, ed era molto gioviale, anche se un po’ misterioso. Ogni tanto spariva per poi ricomparire senza dare spiegazioni. Poco dopo la sua comparsa cominciarono ad arrivare degli individui, tutti dall’atteggiamento dignitoso e taciturno; restavano alcuni giorni in convento, uscendo solo la sera e mai allontanandosi dal sito. Il Convento è in zona defilata e dominante, fuori dalla viabilità usuale che invece passa poco sotto, al fianco della ferrovia. Era quello che si potrebbe definire “un posto discreto e tranquillo”.

In generale, appena arrivati, vestivano lunghi inquietanti cappotti di pelle nera, che richiamavano alla mente, uniti ai  cappelli a larga tesa, l’abbigliamento classico della Gestapo, la terribile polizia Segreta hitleriana. Poi rimediavano abiti civili. A noi dicevano che erano intellettuali o attori Ungheresi, fuggiti perché ricercati come anticomunisti dagli occupanti russi e vestivano abiti raffazzonati, dati loro dalla Croce Rossa Internazionale. La Chiesa, materna, li aiutava per quello. Quindi veri e propri profughi perseguitati che noi, ormai liberi, guardavamo con simpatia anche se facevano gruppo a sé. Non parlavano con alcuno se non con Padre Demeter e riservatamente. Ogni tanto però qualcuno spariva e subito ne arrivavano altri. Di solito li vedevamo, uscendo alla sera, che facevano crocchio fuori dalla porta del convento ma mai in Chiesa, che noi invece frequentavamo. Mi ricordo che una volta, e vi rimase per alcuni giorni, arrivò un mingherlino piccoletto, dal fisico da ragazzino asciutto pur essendo adulto, ma con degli occhi che mi rimasero impressi. Erano di cristallo quasi trasparenti; oggi li definirei di ghiaccio.

Anche lui, il ragazzino, come gli altri dopo un po’ scomparve e sapemmo che pressoché tutti andavano a trovare pace in Sud America, in particolare in Argentina, all’epoca governata dal Generale Peron, utilizzando molto spesso navi della Costa, molto legata alla Curia genovese, all’epoca retta dal Cardinal Siri. Le navi spesso tornavano poi con carichi di carne congelata o altre derrate; credo rientrassero negli aiuti del dopoguerra, gestiti anche dal Vaticano.

 

Dopo qualche tempo cessò l’arrivo dei profughi e, con la partenza dell’ultimo di loro, anche Padre Demeter scomparve, insalutato ospite. Di queste presenze i frati non desideravano parlare e, se ben ricordo, di padre Demeter non avevano grande stima: la consegna era il silenzio. Non predicava ne confessava ma, visto lo strano italiano che parlava, la cosa era, per noi ragazzotti, comprensibile. E pensare che alcuni di noi, come chi scrive, affiancavano già i partigiani.

Adolf Eichmann

 

Simon Wiesenthal

 

Dopo qualche anno, tutto quell’andare e venire, venne smascherato dal gruppo di Simon Wiesenthal, l’ebreo scampato ai campi di sterminio che si era ripromesso di rintracciare quelle “pantegane”, in qualunque parte del mondo si fossero infognati. Scovarono anche “il ragazzino”; era Eichemann che avevo visto e memorizzato a Pegli. Si seppe che molti di quei “pegliesi” erano <ustascia>, cioè boia di destra croati, di etnia cristiana che si erano messi al servizio dei nazisti per massacrare i loro compatrioti, con la scusa della diversa fede. Una considerazione và fatta: la gerarchia Ecclesiastica non poteva non sapere chi erano quelli che aiutava a scappare se addirittura l’ufficio per salvarli era gestito, in Vaticano, da due Cardinali. Alla domanda legittima: <<perché lo avete fatto?>>, la solita farisaica risposta: << erano anticomunisti >>. E i cinque milioni di ebrei da quei maledetti inceneriti come fossero denaro falso, cosa erano? E i massacri degli ustascia erano giustificati solo perché contro i “comunisti”? Non mi si dica che la Curia non lo sapeva; proprio loro che sanno tutto e che confessano i fedeli. Quando, anni dopo e per lavoro, andai in Venezuela, scoprii che Padre Dömoter, morto da poco, nel frattempo era diventato niente meno che Ordinario Militare della Polizia Venezuelana. L’allora dittatore,  Perez Jemenez, affidò a militari nazisti e a membri della Ghestapo transfughi, l’incarico di ristrutturare tutte le sue Forze Armate e la Polizia.  Guarda caso, Padre Dömoter c’era un’altra volta di mezzo.

Enzo BAGNASCO

Rapallo, 17 Aprile 2014

 

 

 

 


TEMPO DI GUERRA... amarcord 4

TEMPO DI GUERRA

AMARCORD... 4

 

 

La guerra degli ….altri genovesi

Dal libro < Liguria amore mio> di Renzo Bagnasco-Mursia Editore. Capitolo Y

 

 

 

 

Senza che nessuno lo potesse sapere, stava per finire quella che, poi, si ricorderà come l’ultima estate di guerra; gli anglo-americani erano ormai padroni assoluti del campo e, in mare, da tempo, non c’era un’imbarcazione italiana e neppure più quelle poche della marina tedesca. Un’ordinanza nazi-fascista vietava infatti l’uso di barche a chicchessia per paura che, fra queste, potesse esserci chi l’avrebbe utilizzata per tenere contatti con sommergibili nemici.

 

Correva voce che al largo incrociassero navi alleate con tanto di portaerei, indispensabili basi agli aeroplani per continuare a bombardare il Nord-Italia; dopo si seppe che quegli sciami di bombardieri che vedevamo passare, partivano dagli aeroporti del Centro e del Sud-Italia, già in mano loro. Anche in cielo non volavano né aerei tedeschi e, meno che meno, italiani.

 

 

I cannoni delle nostre antiquate batterie contraeree, mai ammodernati, avevano gittata utile solo per tentare di colpire i vecchi aerei ma non per arrivare alla quota cui volavano le nuove fortezze volanti che quindi, in pieno giorno e con visibilità ottima, scorgevamo arrivare dall’orizzonte, passarci sopra le teste e andare a portare devastanti distruzioni, nell’entroterra.

 

Viste così, geometriche formazioni compatte, sembravano fazzoletti di coriandoli d’alluminio luccicanti al sole; l’uno a seguire l’altro, distanziati da un brevissimo intervallo, questi rettangoli rombanti, avanzavano indisturbati. Sotto di loro, nel tentativo di salvaguardare l’onore nazionale, si perdevano i colpi sparati vanamente dai nostri asfittici cannoni; riuscivano solo a disegnare un disordinato tappeto di bianchi batuffoli di cotone, oltre i quali s’intravedeva il greve, indisturbato avanzare degli aerei. Solo dopo aver capito che per noi non c’era più gioco o, semplicemente, perché non avevamo più munizioni, si decisero a far tacere quegli inutili rumorosi ferri vecchi, risparmiandoci le pericolose piogge di schegge che ricadevano, sparpagliate, ad ogni deflagrazione.

 

Nei primi anni di guerra i bombardamenti avvenivano di notte perché, con il buio, aerei che ancora non volavano molto alti potevano contare sul fatto di non essere individuati. Il nostro sistema d’allarme, leggermente antiquato, era basato sull’intercettazione fonica del rombo dei motori; dei non vedenti erano appollaiati alla base di aerofoni posti in altura per poter spaziare e, grazie alla loro acuta percezione, avvertivano i rumori degli aerei in avvicinamento. A questo punto partiva l’allarme che veniva diffuso alla popolazione attraverso l’urlo di apposite sirene. Quando il rombo era percepibile anche da noi, si accendevano le fotoelettriche, i riflettori militari che sciabolavano il cielo nella speranza, a volte ripagata, di “agganciare” qualche aereo, così da potere concentrare su quel puntino riflettente luce che procedeva contro un cielo nero, tutti i tiri; a volte, lo colpivano. E pensare che i nostri avversari possedevano già il radar.

 

 

 

 

 

Sul finire della guerra invece, le nuove formazioni aeree, dopo essere transitate cariche di bombe, ritornavano indisturbate e scariche; il cupo rumore iniziale emesso dai motori sotto carico era, al ritorno, meno pesante del primo, non per questo però meno lugubre. Tutto quell'andare e venire sopra le nostre teste, per fortuna, non interessò chi abitava lungo la battigia, se si esclude Recco e, rispetto agli anni che precedettero l’armistizio, si aveva l’impressione che gli obiettivi che intendessero colpire, ora fossero meglio individuati e più mirati. Evidentemente prima, quando le incursioni avvenivano di notte, erano condotte in maniera anche indiscriminata; l’importante era colpire, annientare il nemico e fiaccare i civili, non essendo facile, al buio, distinguere ogni specifico bersaglio in città rigorosamente oscurate. Se invece lo dovevano assolutamente individuare, lanciavano alcuni “bengala” (razzi illuminanti) che scendendo lentamente, trattenuti in aria da dei piccoli paracadute, illuminavano la zona a giorno, per un tempo tale da consentire d’individuare bene l’obiettivo.

 

All’epoca era ormai operante il movimento per la Libertà o dei Partigiani, il termine <Resistenza> l’imparammo dopo e, chi ci bombardava, da lì a poco sarebbe, come amico e liberatore, arrivato proprio nelle stesse zone che, appena il giorno avanti, aveva distrutto. E’ innegabile che una certa “confusione” regnava ovunque perchè, in quello stesso periodo, parte di Italiani uniti ai tedeschi, combattevano gli alleati ed i partigiani.

 

A proposito dei bersagli mirati, fui testimone di due indicativi episodi. Il primo è stato la distruzione di un tratto vitale della ferrovia che collega l’Italia con la Francia, proprio sulla costa a levante di Savona in zona disabitata; solo qualche tempo prima, Novembre 1943, pur di distruggere un simile obiettivo ferroviario, non esitarono a radere al suolo l’intera cittadina di Recco effettuandovi decine di bombardamenti, il cui centro abitato è, da sempre, scavalcato dal gran ponte ferroviario, punto nevralgico e vitale per collegare Ventimiglia con La Spezia.

 

Torniamo all’episodio che ho iniziato a descrivere; nella tarda mattinata di quel giorno soleggiato, preceduti dal consueto lugubre e appesantito rombo dei motori, arrivarono dal mare gli aerei che, compiendo un ampio semicerchio, si portarono sul bersaglio, volando paralleli alla spiaggia. Da ogni formazione vidi sganciare una quantità di bombe lucide come confetti d‘argento, il cui scoppio, data la distanza dalla quale, emozionato, osservavo la scena, subito non avvertii; mano a mano che le bombe toccavano terra, si vedeva elevarsi un parallelepipedo di fumo che si allungava nella stessa direzione della loro marcia, come gigantesco bruco grigio scuro dalle zampette rosso fuoco che, mantenendo ferma un’estremità, distenda lentamente il suo corpo segmentato. Il fragore della spaventosa, prolungata esplosione giunse qualche istante dopo, assieme all’allarmante sobbalzare della terra su cui poggiavo i piedi, come scossa da un innaturale sussulto.

 

Solo dopo si seppe che quello che avevo visto era uno dei tre bombardamenti strategici, effettuati pressoché simultaneamente, nell’Agosto del ’44 per evitare che truppe tedesche fresche, accorressero a dar man forte ai camerati impegnati in Provenza a contrastare lo sbarco degli Alleati, fra Cannes e Tolone, effettuato nell’ambito dell’operazione <Dragoon >.

 

L’altro episodio, verificatosi proprio sopra la mia testa, avvenne nella stessa estate del gran bombardamento descritto; quella mattina, al solito, passarono aerei carichi di bombe e dopo un po’, mentre noi ragazzi stavamo ancora giocando, avvertimmo il familiare rombo degli aerei scarichi, di ritorno dall’ennesima missione. Qualche istante dopo, uno, volando insolitamente solo e a bassa quota, ci passò sopra in fiamme, sorvolò l’Aurelia sfiorando il Castelluccio, un vecchio fortilizio anti-saraceni al confine fra le spiagge di Prà e di Pegli, sul quale avevano installato una mini batteria antiaerea dotata di un cannoncino rapido ma di piccolo calibro. Appena giunto sul mare, vi sganciò il residuo micidiale carico di bombe ancora a bordo per poi, poco più avanti, inabissarsi. Non avemmo neppure il tempo di spaventarci, tanto fu rapido e spettacolare il susseguirsi degli eventi. Una cosa però ricordo bene; se si è nei pressi dell’obiettivo che intendono bombardare, si vedono le bombe cadere a grappolo avvertendo il caratteristico penetrante sibilo prodotto dalle loro alette mentre fendono l’area per mantenerne posizione e direzione, ma se ti trovavi sul bersaglio, quel sibilo sopra di te si trasforma in un assordante e convulso frullare d’ali che cessa solo al momento della lacerante esplosione a seguito della quale, se hai fortuna, ti ritrovi scaraventato a terra da una fortissima, irrefrenabile ventata d’aria calda che travolge quella respirabile.

 

Quel giorno, passata la paura, uscimmo dal pertugio dove c’eravamo ritrovati senza volerlo, e cercammo di scorgere se, in mare d’ove era caduto il bombardiere, ci fosse qualcuno o galleggiasse qualcosa. Si vedevano solo militari tedeschi che, di guardia sulla spiaggia, si affannavano per trovare una barca da varare per catturare il pilota che loro, con i binocoli, avevano scorto galleggiare; non trovarono alcunché perché, essi stessi avevano imposto che le spiagge fossero sempre sgombre, avendovi fatto costruire degli inutilizzati muraglioni di vallo, intercalati da fortilizi, pronti a difenderci dagli sbarchi Alleati, che non erano neppure nei loro piani mancandone i presupposti logistici e strategici.

 

Restammo a guardare per cercare di individuare anche noi cosa loro vedessero, quando improvvisamente spuntò, volando a pelo d’acqua e controluce in direzione della terra, un aereo che, arrivato all’altezza del fortilizio, cabrò improvvisamente mostrando sotto le ali, l’inconfondibile stella, simbolo dell’aeronautica americana; dopo un mezzo “loop”, come uno squalo che in acqua mostri, rivoltandosi, il ventre, fulmineamente si allontanò.

 

Presi in contropiede, gli addetti al cannoncino, giovani bersaglieri arruolati nel nostro ultimo esercito raccogliticcio, non restò che sparargli pateticamente dietro in ritardo e mentre si allontanava; contemporaneamente, inosservato, un idrovolante alleato ammarò vicino al luogo del naufragio, recuperò il pilota e, sempre indisturbato, se ne ripartì mentre tutti erano ancora impegnati a colpire l’aereo, “falso scopo”.

 

Fui felice per quell’uomo perché, coraggiosamente e rischiando la propria vita, sganciò le bombe solo all’ultimo momento e in mare, un attimo prima di cadere; poteva alleggerirsi prima, per garantirsi una maggior autonomia che gli permettesse d’allontanarsi di più dalla costa a lui nemica ma, così facendo, avrebbe raso al suolo parte dell’abitato di Prà e di Pegli.

 

Quest'episodio sarebbe rimasto come uno dei tanti fatti bellici a sé stanti se, ogni tanto, qualche giovane aitante funzionario della Soprintendenza alle Antichità della Liguria, stimolato ed indirizzato dai sempre interessati difensori del territorio, non scoprisse, ignorando i precedenti, che proprio nel sito in cui caddero quelle bombe esistono, sparpagliati sul fondale, dei minuti reperti di cocciame antico, già studiati e classificati “insignificanti” da chi la materia la conosceva bene. L’ultima volta bloccarono ritardandolo, spensierati ed impuniti, l’avanzare del porto commerciale di Voltri e affossarono il progetto di un porticciolo turistico, ultimo tentativo di risollevare Pegli dalle ormai perdute speranze di farla risorgere.

 

Questo costosissimo fervore, è certamente imputabile al fatto che, chi subentra al precedente funzionario, per far sapere che c’è, si precipita a ritrovare a Pegli ciò che tutti ormai sanno esistere: anonimi, minuti cocci di terracotta romana.

 

Quei reperti, di cui è piena la nostra costa, furono oggetto di una campagna di studi subacquei già nel 1952, condotta dal Professor Lamboglia, padre dell’archeologia sottomarina italiana, che concluse ritenendoli <non interessanti > come risulta da <La nave romana di Alberga - Vol.18, 1952- Rivista Studi Liguri >. Ciò nonostante, regolarmente, si emettono ordinanze di divieto di transito per i natanti e per i pescatori e, per alcuni giorni, pagati ovviamente dai contribuenti, gruppi specializzati nelle ricerche archeologiche sottomarine delle forze dell’ordine, sono inviati sul posto ad effettuare ormai vane ricerche; i lavori vengono regolarmente sbandierati sulla stampa cittadina ma i risultati poi, regolarmente, tenuti ben nascosti in un cassetto di una qualche scrivania istituzionale. Ad aumentare la tensione degli “scopritori” c’è anche il fatto che, fra tutto quel cocciame, ogni volta scoprono dei frammenti di legno, subito attribuiti a schegge di nave romana ma che, invece, appartengono a “chiatte” da lavoro, barconi un tempo in uso in porto, lì inabissati dall’Università di Genova in accordo con l’Autorità portuale, sia per liberarne il porto alla fine della guerra che richiedeva nuove tecnologie di lavoro che per tentare di ricreare un habitat ittico allo scopo di ripopolare di pesci il sito. Vana speranza.

 

Nel classificare la zona come archeologicamente non interessante, il Lamboglia scriveva < ..si è avuta la certezza che non eravamo di fronte ad un relitto di nave, ma semplicemente a un avanzo di carico di una nave o capovoltasi o affondata e trasportata altrove dalle correnti.>

Pochi però sanno, e certamente meno che meno lo sapeva quel pilota che, se si continuano a ritrovare <scarsi oggetti interi e così “insolitamente” sparpagliati >, la colpa è anche di quel sant’uomo che salvò parte di Pegli e, tornando alla base da quella sfortunata azione, non avrà neppure verbalizzato di aver, piuttosto che niente, distrutto gli avanzi di una vecchia, anzi vecchissima nave.

Renzo BAGNASCO

Rapallo, 17 Aprile 2014

 


TEMPO DI GUERRA... amarcord 3

 

TEMPO DI GUERRA

AMARCORD ... 3

 

 

La mia guerra fra Prà e Pegli

 

 

Dal libro < Liguria amore mio> di Renzo Bagnasco. Mursia Editore. Capitolo X

 

 

Il giorno in cui fu dichiarata l’ultima guerra ero, con la famiglia, in villeggiatura a Visone, un paesino vicino ad Acqui Terme; sentimmo l’annuncio, anche se di quel messaggio io capii ben poco. Dall’evidente immediata preoccupazione dei miei genitori e dall’improvviso silenzio che piombò nelle vie del piccolo borgo, in contrasto con il clangore che dalla Piazza di Roma la radio faceva arrivare sino a noi, avrei dovuto capire che qualcosa di grave stava succedendo ma, si sa, i ragazzi, privi d’esperienze di riferimento e sensibili solo alle cose che vedono, non avvertono il pericolo se non quando ormai lo stanno correndo.

 

Mio padre, che aveva combattuto nella prima guerra mondiale e mia madre, che quella guerra l’aveva subita, compresero subito il dramma; io ci arrivai solo dopo qualche anno.

 

La prima reazione dei miei fu di ritornare subito a casa come se, una volta là, fossimo al sicuro; ma la “tana” é pur sempre, in emergenza, il luogo istintivamente più protettivo in cui rifugiarsi.

 

Trascorso il primo anno, la guerra promessa come veloce e facilmente vincibile, si rivelò, per chi sapeva esaminarla obiettivamente, aver preso ben altra piega. A mano a mano che il tempo passava, sempre più frequentemente si sentiva riferire da conoscenti che loro amici, rientrando dal fronte di guerra per curarsi da ferite sofferte o per una convalescenza seguita a quelle, riportavano notizie d’enormi inspiegabili sbagli, di presunti sabotaggi perpetrati dai nostri contro i nostri combattenti e di un’allarmante generale impreparazione.

 

 

 

 

Tutte queste cose contrastavano con quanto quotidianamente si sentiva dalla radio o io leggevo sul giornalino il <Balilla >, che il “regime” distribuiva nelle scuole; però anche sul <Vittorioso >, Romano vinceva sempre.

 

Ben presto, la mamma, sorella di un “marcia su Roma” e promotrice essa stessa di una colletta per erigere, nel suo paese natale, un monumento al fante italiano caduto per la Patria nella prima guerra, cominciò a disapprovare quello che stavano facendo i nostri governanti; come tutte le madri aveva intuito, per istinto, che la strada imboccata era quella sbagliata.

 

I versi che Vito Elio Petrucci ha voluto dedicarle, mi pare centrino il personaggio:

 

….a cammin-na in to tempo

 

comme’ na ciossa attenta

 

a-e vire do farchetto….

 

 

Libera traduzione: …e cammina nel tempo come una chioccia attenta ai volteggi del   falco…

 

 

Mio padre, questa nuova guerra non la capì mai perché era partito, nel 1915, volontario in marina per combattere e vincere, come fece, i tedeschi; a lui che per onorare la parola una volta data era disposto a tutto, non andava proprio giù doverli accettare adesso come alleati. Così facendo avrebbe dovuto considerare nemici da combattere, i figli di quelli che, ventitré anni prima vide arrivare da altri continenti per dargli una mano e molti morire al suo fianco mentre, assieme, combattevano l’austriaco nemico comune.

 

Credo che questo fosse lo stato d’animo di molti italiani, sicuramente di quelli che, da sempre, rappresentano la maggioranza silenziosa, nel subire la tragedia che ci coinvolgeva.

 

Noi ragazzi scoprivamo le cose giorno dopo giorno, maturando più in fretta di quanto non lo avesse fatto la generazione che ci aveva preceduto e certamente più di quella che, dopo poco, ci seguì e così le successive; c’entusiasmavamo ad ogni atto eroico del “Balilla” di turno, colpiti anche dalle illustrazioni sempre puntuali d’Achille Beltrame sulla <Domenica del Corriere >, una specie di C.N.N. di allora, non certo per la tempestività dell’informazione ma per la dovizia di particolari disegnati che facevano rivivere al lettore la drammaticità dell’episodio evocato.

 

A fronte delle festanti “oceaniche” adunate, documentate dalla stampa e dal cinegiornale Lux, contrastavano gli improvvisi, disperati scoppi di pianto in casa dei vicini, dopo che un carabiniere n’era uscito frettolosamente; qualcuno doveva pur portare le ferali notizie. Sempre più andavo prendendo coscienza che il tutto non fosse un gioco.

 

 

 

Le notti poi, destati di soprassalto dal lugubre ululato delle sirene d’allarme, bisognava fuggire nei rifugi antiaerei, veri e propri cantieri mai finiti, sommariamente avvolti in coperte e con in gola l’immancabile alitosi sulfurea dovuta alla levataccia che interrompeva la digestione; ad ogni incursione aumentava sempre più la gente che ricorreva alle gallerie-rifugio, assolutamente inadatte perché ancora in costruzione. Era gente tremante, infreddolita e rannicchiata in quegli acquitrinosi cantieri, mentre il cielo si rischiarava, a sprazzi, per i laceranti, fragorosi scoppi delle cannonate della contraerea. Tutte queste cose innescarono paure mai più sopite; ancor oggi continua a mettermi a disagio il sentire lo scoppio lacerante del “colpo tonante” che avverte della fine dei fuochi d’artificio, sparati in occasione di feste patronali.

 

A noi però bastava una successiva giornata di sole per dimenticare, apparentemente, la squassante notte, ma non così per gli adulti che assommavano alla loro, anche la paura per la nostra incolumità, con davanti, ogni giorno, sempre più nere prospettive.

 

Il 25 Luglio del ‘43 ed il successivo 8 Settembre, sconvolsero la vita della mia famiglia; l’alleato tedesco, sentitosi tradito dai nostri governanti, si tramutò di colpo in aguzzino, cercando di evitare che il soldato italiano gli sgusciasse fra le grinfie, rivestendosi in borghese con abiti rimediati, aiutati in ciò dalla popolazione e per di più convinto, visto che nessuna autorità lo smentiva, che la guerra fosse davvero finita e, comunque, da sfuggire. Non voleva essere lui a pagare le colpe di codardi pasticcioni che in quel dramma ci avevano trascinato e poi, felloni, erano fuggiti lasciandoci soli e senza guida.

 

Era obiettivamente difficile capirci qualche cosa; noi ormai parteggiavamo per quello che, ufficialmente, avrebbe dovuto essere ancora il nostro nemico.

 

Ascoltavamo i suoi notiziari, diffusi da Radio Londra nel buio della sera; si cercava di captarla, sintonizzandosi sino a che non si sentiva l’inconfondibile lugubre ripetitivo tambureggiare che segnalava l’inizio del notiziario, subito seguito dalla trasmissione vera e propria che, ancorché disturbata dalle interferenze emesse dalla censura fascista, riuscivamo, in qualche modo, a sentire, compreso i criptici <messaggi speciali > che l’emittente mandava in onda in chiusura e rivolti ai partigiani per coordinarli; ognuno di noi, sentendoli, li interpretava a modo suo, decifrandone ad orecchio l’astruso significato.

 

 


 

Erano i nuovi alleati che, da nemici, erano tornati amici come nel ’15 -’18, anche se continuavano a bombardarci o tenerci svegli con il loro onnipresente “Pippetto”, l’estenuante ricognitore De Havilland “moschito” costruito per  non essere facilmente individuabile da eventuali radar che noi non avevamo e idoneo al volo notturno.

 

Mio padre, non avendo aderito alla causa fascista, non trovava facilmente lavoro e, buon per noi che, almeno alla fine ci sia riuscito, rimediandone uno insolito e “asettico”; poco prima dello sfascio nazionale, lo accettò anche perchè fuori Genova: il cercatore d’oro alle Ferrere, due cascine poste sopra il lago di Lavagnina, nella zona di Lerma, ad Ovada. Và anche detto che quelle miniere erano già state sfruttate e abbandonate dalle legioni romane e, poi, dai napoleonici.

 

Solo ora capisco che la società che gli garantì il lavoro, sicuramente aveva, all’italiana, trovata la strada per ottenere un qualche finanziamento per il recupero e la riattivazione di vecchie miniere d’oro, nell’intento, ormai vitale, di procurare nuove ricchezze da buttare nel divorante crogiuolo della guerra.

 

Per la verità, d’oro se n’estraeva una quantità ininfluente, ma evidentemente sufficiente ad ottenere nuovi finanziamenti, specie se elargiti da mano compiacente. A tutte queste cose però all’epoca nessuno pensava e, meno che meno, mio padre che, concordato lo stipendio, si buttò nella nuova avventura con l’entusiasmo che lo contraddistinse in tutte le sue intraprese che, prima di tutto, per attirarlo dovevano stimolarlo. Molto giocò sulla scelta il fatto di poterci portare lontano dai pericoli insiti nel restare a vivere in Città.

 

Mi ricordo di quando si inventò un’attività, sempre per cercare di sbarcare il lunario durante il conflitto senza dover arrivare a compromessi con le sue convinzioni contrariamente a molti suoi colleghi che invece lo fecero ritrovandosi, alla fine, ricchi e incensurati. Il suo atteggiamento d‘allora, ancor oggi condivido. Ma torniamo alla nova iniziativa: si mise a rigenerare le lime perchè durante quegli anni terribili non si trovava quasi nulla, essendo tutto finalizzato alla produzione bellica. Immaginarsi quindi l’acciaio che era divenuto, al di fuori del giro bellico, introvabile per chi, artigiano, lavorava senza poter accedere alle “commesse” militari. Realizzò dei vasconi di legno che riempì con soluzione elettrolitica e, nei quali immergeva vecchie lime usurate; la corrente galvanica che le attraversava, corrodeva uniformemente le superfici esposte, rimodellando in qualche modo le asperità iniziali. Meglio che niente!

 

Tutta la famiglia, non appena noi figli terminammo il  lacunoso anno scolastico, frequentato a singhiozzo fra un allarme aereo ed un bombardamento, si trasferì nel basso Piemonte a Cravaria, ai piedi delle Ferrere e poco prima della diga che formava il lago della Lavagnina, zona lontana dalle incursioni e che, essendo agricola, garantiva la farina, il latte delle vacche locali ed un forno a legna per cuocervi del pane casereccio e potervi arrostire la selvaggina che mio padre, abile cacciatore, ci procurava. Per noi ragazzi tutti quei prati da potersi godere in assoluta libertà ci facevano scoprire un’indipendenza inattesa; la fantasia era poi stimolata da dei grandi cumuli di sassi, ancor oggi esistenti, ammonticchiati lungo il fiume da generazioni successive di cercatori d’oro, che immaginavamo rovine di vecchi castelli, crollati sotto i nostri assalti. E’ paradossale ma in tempo di guerra si gioca alla…..guerra.

 

Lì ci sorprese l’8 Settembre del 1943.

 

Con mio fratello, dopo aver procurato ai pochi soldati italiani presenti in zona a protezione della menzionata diga, degli abiti civili per consentir loro di tornare alle rispettive case, andammo ad ispezionare le due batterie di mitragliatrici pesanti antiaeree, sistemate ai lati di quello sbarramento e proprio sopra la casa del guardiano. Arrivati, anche se non molto pratici, c’industriammo per sabotare quelle armi e, tanto toccammo e girammo, che riuscimmo a smontarne tutti gli otturatori, gettandoli poi nel sottostante lago assieme alle cassette contenenti i pezzi di ricambio. Convinti di non essere stati visti da alcuno, dopo l’irreparabile sabotaggio rientrammo a casa senza far menzione della nostra impresa; purtroppo le cose non andarono lisce come noi pensavamo. Il guardiano pare ci avesse visto e subito riferì ai suoi superiori; questo è almeno quello che ci siamo sempre sforzati di credere per scartare la delazione politica, che ci avrebbe visto, all’epoca, nei panni di vendicatori impietosi.

 

Fatto si è che due giorni dopo una colonna militare motorizzata, composta di quattro o cinque mezzi tedeschi, sbucò dalla polvere sollevata dalla strada di terra battuta che arriva da Lerma, fermandosi al bivio di Cravaria davanti all'allora nostra casa; ancor oggi, proseguendo in piano, si va alla centrale elettrica mentre, salendo, si arriva alla diga.

 

Mia madre, alla quale avevamo poi raccontato quel segreto per noi troppo grande, seguì, celata dalla tendina, i movimenti di quei militari, cercando di capire, attraverso gli atteggiamenti e i gesti, quali ne fossero le intenzioni. Dalla prima anfibia, che seguiva la staffetta in moto, dopo un concitato parlottare e sbattere di tacchi, si staccò un Maresciallo dei Carabinieri, certamente guida e interprete, che si diresse senza titubanze verso di noi e bussò alla porta.

 

Facile immaginare l’effetto che quel battere fece su tutti noi; quando mia madre aprì, papà era per fortuna a lavorare, credo le si leggesse in viso tutto il dramma. Il Maresciallo, usando un linguaggio volutamente burocratico, fece finta di non averci identificati ma ci fece chiaramente capire che sarebbe stato meglio, anzi, molto meglio se quando fossero ritornati dalla loro ispezione, dopo aver attinto maggiori notizie dal guardiano delatore, non ci fossimo fatti più trovare. Per il momento avrebbe preso tempo, riferendo che non gli eravamo sembrati i ricercati.

 

Sono convinto che la nostra famiglia gli debba la vita; da quel giorno ho capito perché l’arma è nota anche come “Benemerita”. Quel sant’uomo, che non abbiamo mai più rivisto, speriamo non abbia pagato con la vita, altri gesti di generosità compiuti, come questo, per puro altruismo.

 

Tornati a Pegli, per noi ragazzi ci fu un solo scopo; continuare a fare quello che iniziammo lassù. C’intrufolammo fra i tedeschi che occupavano la zona, giocando alla guerra con divise e finte armi simili alle loro ma da noi confezionate, in modo da accattivarci le loro simpatie; alcuni erano padri e altri addirittura nonni, richiamati alle armi come truppe d’occupazione, così da liberare i loro giovani per poterli mandare a morire al fronte.

 

Di loro mi è rimasto l’acre afrore del sego, largamente usato per mantenere morbidi gli stivaletti e le pelletterie, parte importante dell’abbigliamento e l’insolito gusto e odore della loro gialla margarina spalmata sullo squadrato, acidulo pane di segale. Da queste frequentazioni ricavammo la notizia che stavano ultimando di minare i sentieri e i dintorni che portavano alla batteria contraerea della Bastia, posta sulla punta del colle che accoglie la Torre Cambiaso, a Prà, subito a ponente di quella della Marina installata sul Castellaccio, una collina che sovrasta il Lido di Pegli.

 

Decidemmo di “dare una mano agli alleati” anglo-americani, sminando quei sentieri. Il pomeriggio stabilito mio fratello, il cucino Franco ed io c’intrattenemmo, più a lungo del solito in modo che, al primo buio, anziché tornare a casa, avevamo informato i nostri ignari genitori che saremmo rimasti più tempo colà, c’inerpicammo per le “fasce” per raggiungere la zona prefissata.

 

La luce della luna, sbucando ogni tanto fra le smagliature delle nuvole che correvano veloci sfilacciate dallo scirocco, rischiarava ad intermittenza non prevedibile, la zona, stagliando, ogni volta contro il cielo scuro, ma non del tutto nero, la sagoma della sentinella armata che, alla sommità della collina, faceva la guardia girando fra le varie piazzole della batteria camminando sul basso muretto che le contornava. Noi, inerpicandoci dal di sotto, eravamo nascosti alla sua vista dalle lunghe ombre dei cespuglietti mentre, lei, era visibile ogni volta che ispezionava quelle proprio sopra di noi; raggiunto il sentiero, avanzando carponi, dovevamo innanzi tutto capire dove e com’erano state sotterrate le mine antiuomo, congegni anch’essi a noi sconosciuti. Più tardi scoprimmo che erano scatolette di legno con, appena appoggiato sopra, un coperchio mobile e imbottite d’esplosivo; pigiando inavvertitamente con il piede sul coperchio, questi si rincalcava sulla scatola sfilando la sicurezza che tratteneva la molla con il percussore che, colpendo il detonatore, innescava l’esplosione.

 

Camminavamo gattonando in fila indiana; il primo sondava con un bastoncino di legno il tratturo antistante nel tentativo di scoprire almeno un po’ di terreno smosso; al primo indizio, scavammo con delicatezza e vedemmo che avevano sotterrata quella mina vicina al ciglio esterno dello stretto percorso, mentre, al centro, la terra appariva compatta; lentamente, con le mani la dissotterrammo scoperchiandola, così da evitarci brutte sorprese in caso d’inavvertita pressione.

 

Chi la scavò la passò, aperta, a chi lo seguiva e, da questi, una volta neutralizzato il percussore-detonatore, al terzo che doveva riporla in un sacco. Riprendemmo, sempre acquattati, a ricercare la seconda; impresa non facile per chi, come noi, non aveva la più pallida idea di come le avessero dislocate. Bisognava, ad ogni bagliore di luna, individuare altra terra smossa, prima di poter avanzare o appoggiare le mani su un territorio così infído; occorreva anche controllare che la sentinella non ci scorgesse, ogni qual volta il suo ripetitivo giro di ronda la portava sopra di noi.

 

Finalmente ecco la seconda mina; era occultata alla base della   scarpata, dalla parte opposta della prima, sul lato verso monte del sentiero, ma mezzo passo più avanti della prima trovata; fu facile poi scoprire lo schema perché le avevano seppellite a scacchiera lungo i lati del percorso, distanziate dello spazio di un normale passo, lasciando invece accessibile il centro. Trovata la chiave, proseguimmo estraendo la terza e poi la quarta; la quinta, nel passarcela di mano, sfuggì alla presa.

 

Trattenemmo il fiato mentre la scatoletta, per fortuna senza più il coperchio che, rotolando, avrebbe potuto far scattare il percussore nel bel mezzo di un campo minato, ruzzolava balzellando lungo la scarpata. Morti di paura ad ogni suo cozzare contro un ostacolo, la seguivamo senza neppure più respirare; finalmente si fermò e, tutto quello che a noi sembrò un trambusto, non fu avvertito dalla sentinella che si trovava in quel momento, evidentemente, dalla parte opposta. Senza parlarci ma con gli occhi dilatati, decidemmo di abbandonare l’impresa e, quatti quatti, tornare a casa.

 

Finita la guerra, solo vedendo i film sui marines intuimmo il perché di quell’inspiegabile posizionamento; vedemmo che abitualmente avanzavano in fila, camminando sui cigli, così da lasciar sgombra la corsia centrale per usi di servizio ed, in oltre, in caso d’attacco aereo era più facile sottrarvisi, buttandosi al riparo delle scarpate, piuttosto che rimanere facile bersaglio, visibile a centro strada.

 

Naturalmente, come capita ai ragazzi, una volta che scoprimmo il “giochino” ne scemò anche l’interesse e non vi ritornammo più; la paura del pericolo scampato non c’influenzò più di tanto, perché solo ora ne capiamo il vero rischio di quello che, all’epoca, ci sembrava un eccitante gioco.

 

Per fortuna gli alleati non aspettarono il nostro contributo per venirci a liberare.

 

Nel frattempo, eravamo agli inizi del ’44, alla Lavagnina e dintorni, molti ragazzi genovesi in età di leva, vi si rifugiarono per non partire per il fronte, essendo voce comune che la guerra, ormai definitiva persa, da lì a poco, sarebbe finita; l’idea di <resistenza > venne dopo, anche se proprio in quel periodo iniziarono a coagularsi le Brigate partigiane, che capitanate da ex ufficiali dell’esercito italiano cominciarono a darsi un’organizzazione, collegandosi con gli alleati.

 

La presenza in zona di sempre più numerosi “renitenti” che i nazisti chiamavano “banditi”, non passò inosservato ai tedeschi sino a che, un brutto giorno, una nutrita autocolonna risalì quelle strade, non più accompagnata da comprensivi Carabinieri ma, questa volta, spalleggiata dalle squallide Brigate Nere con il compito di fare piazza pulita di tutti quei giovani disarmati. Fu una carneficina; un folto gruppo fu tradito dal fanciullesco attaccamento ad un cagnolino randagio, che, adottatolo, portarono con loro a nascondersi nel buio delle gallerie delle miniere d’oro, i cui lavori, ripresi da mio padre, erano nuovamente sospesi per il precipitare degli eventi. Al vociare dei perlustratori, il bastardino iniziò ad abbaiare, tradendo il gruppo. Nessuno si salvò.

 

Un altro, studente di medicina all’Università di Genova, fu ferito in un bosco, di là del fiume, proprio davanti a Cravaria e lì dovette morire dissanguato, fra lamenti strazianti, perché fu proibito ai contadini di portargli soccorso; la prima a scoprirlo fu un'anziana pia donna, tale fu davvero la pietosa signora Volpe, che sino a che il giovane era in vita, nonostante le lacrimevoli perorazioni, non riuscì ad impietosire il responsabile di quella carneficina. Solo quando, dopo quarant’otto ore, la voce non si avvertì più, le fu concesso di avvicinarsi al corpo di quel martire che, a furia di sfregare la nuca a destra e sinistra per il dolore, aveva lasciato nel terreno un incavo.

 

Mi piace pensare, e questo ho sempre detto ai miei figli, che anche da quella piccola cavità, sia germogliato l’albero della nostra libertà.

 

Dovettero passare molti anni per non sentire più, nelle notti di vento, quelle strazianti invocazioni di soccorso, inutilmente emesse da un giovane, non ancora ventenne, rimasto anonimo e che non accettava una morte così atroce ed inutile.

 

 

 

 

Tutti quei giovani, anche quelli i cui nomi non sono incisi nel marmo, ma che egualmente caddero, sparpagliati, nelle zone vicine, sono e debbono essere accomunati con i <Martiri della Benedicta >.

 

Ogni qual volta ritorno in quella vallata salendo da Lerma, fermo la macchina poco più avanti del bivio con Casaleggio e, nel silenzio di quei luoghi non frequentati, nell'ascoltare dall’alto lo sciacquio del sottostante torrente Lavagnina, penso a quanto scrisse il poeta Edoardo Firpo né <Ai Martiri di Crovasco >

 

………………………………

 

 

Ma in ta gran paxe di monti

 

se sente l’eco de l’aegua

 

lontan ch’a-i ciamma, ch’a-i ciamma.

 

 

 

Libera Traduzione: ■ Ma nella gran pace dei monti si sente l’eco dell’acqua lontana che li chiama, che li chiama.

 

 

In quel periodo, noi tre, sempre più affiatati, eravamo consapevoli di appartenere alla medesima “banda”; nonostante imbevuti di spirito patriottico che, come Balilla, c’era stato inculcato il senso dell’onore e della patria, come per tutti i ragazzi, la libera “banda” d’appartenenza, era cosa più importante. Certo una mano ad alimentare il nostro disincanto ce la davano, senza saperlo, anche i famigliari, evidenziando gli errori che commetteva chi governava l’Italia in quei tempi.

 

Il termine <partigiano > cominciò a circolare poco dopo, anche se loro, per i nazisti e per i residui fascisti erano ricercati, lo abbiamo già visto, come <banditi>; a noi, tali non parevano e fu quindi naturale che il nostro giovanile spirito di contraddizione ce li facesse, al di là delle nostre convinzioni, ammirare; decidemmo di stare con loro visto che molti di loro erano nostri amici anche se un po’ più anziani di me. La ricostituzione dell’esercito italiano dopo l’otto Settembre, avvenne al Nord, sotto il pungolo e il controllo nazista che, allo scopo, manovrava i fascisti aderenti alla appena inventata Repubblica di Salò; crearono reggimenti che, almeno nel nome, usurpavano pagine di gloriose eroiche epopee passate, nella vana speranza di accattivarsi le simpatie del popolo. Ricostituirono così gli alpini, gli assalitori di marina, la X MAS ed, in fine, i bersaglieri.

 

Contemporaneamente un altro esercito si era ricostituito sotto l’egida alleata e capitanato dai vecchi comandanti, iniziò, al fianco di quelli, a risalire l’Italia per liberarla. Di loro e di tutti i loro morti, la strumentalizzata propaganda del dopoguerra non ne parla mai, così come non menziona mai i seicentomila militari italiani lasciatisi marcire nei lager nazisti pur di non aderire al nuovo governo fantoccio che continuamente li blandiva assicurando loro una mendace libertà. E si che gli uni e gli altri sono stati, a tutti gli effetti, combattenti e morti per la nostra libertà, quindi dovrebbero essere commemorati ogni qual volta si parli di Resistenza. Ma si preferisce esaltare chi molto spesso occupò le città solo dopo che i tedeschi occupanti se ne erano andati, vedi Genova e Milano.

 

Al confine fra Prà e Pegli, nella grande area delle ex ferriere Ratto, poi divenuta ILVA, c’erano dei capannoni abbandonati con un gran piazzale che li univa, attraversato e servito da binari dell'abbandonata rete ferroviaria interna che, un tempo, collegava il vicino pontile sul mare cui attraccavano i battelli che fornivano il minerale ferroso, alle fonderie e, da queste, alla rete ferroviaria nazionale. Queste peculiarità fecero sì che tutti gli eserciti che si sono succeduti, utilizzassero il sito come prima zona d'accorpamento e successivo smistamento. Iniziarono i tedeschi che la occuparono in forze così come fecero con il resto dell’Italia non ancora liberata dagli alleati; poi, ricostruito l’esercito italiano fantasma, vi acquartierarono i giovani di leva, chiamati a difendere il nuovo regime, ma che non avevano però pienamente aderito da poter essere inquadrati fra le forze fasciste, tipo Brigate Nere o Muti. A loro bastava non essere considerati renitenti.

 

Furono accorpati in un raccogliticcio reggimento di bersaglieri e, proprio lì, completavano il loro addestramento; n'approfittarono anche per utilizzarli, come comparse, in documentari cinematografici che il regime faceva “girare” nei boschetti di Villa Doria a Pegli, ambientandovi improbabili azioni anti-partigiane che, distribuiti nelle sale cinematografiche sotto il loro controllo, dovevano figurare essere avvenute sul serio e in montagna.

 

Quando toccò il turno degli Alleati,  anche loro la requisirono per mettervi a riposare, nell'attesa d'ordini, i loro uomini stanchi del fronte. Noi della “banda”, a quel tempo, abitavamo in quella che era stata una vecchia masseria dei Marchesi Cambiaso, proprio al di qua del muro di cinta di quel piazzale e non potevamo quindi che subire l’influenza e il fascino di tanta variegata umanità in divisa.

 

Durante l’occupazione dei bersaglieri e della Wermach, quel parco ferroviario con annesse officine, divenne luogo ove raggruppare per effettuare riparazioni e manutenzione, treni ricolmi di mezzi cingolati avariati sui vari fronti; un giorno arrivò un convoglio stracolmo di carri armati leggeri italiani, nuovi di fabbrica, con la tipica mimetizzazione da utilizzarsi nella guerra d’Africa; peccato però che nel frattempo l’avevamo già persa unitamente al Sud e al Centro d’Italia.

 

Di notte il treno era minuziosamente sorvegliato mentre, di giorno, vista la contemporanea presenza di tanti militari, aveva fatto ritenere superfluo un tale impegno. Nell’ora del rancio, mio cugino Franco, senza avvisarci, salì su di un vagone, s’infilò nel carro armato più vicino al gran cancello in disuso, arrugginito, rabberciato e utilizzato solo raramente come uscita d’emergenza dei treni. E’ poi rimasto un mistero come, lui ragazzino, possa essere riuscito, ci disse di essersi aiutato utilizzando gli attrezzi in dotazione al carro trovati all’interno, a smontare e trascinare fuori la mitragliatrice che affiancava il cannone, il cui peso è elevato; basti pensare alla canna esterna che, per proteggerla dalle armi nemiche, era costruita con esuberanza di acciaio. A cose fatte ci venne a chiamare e, poco prima del coprifuoco, allora ormai in vigore, andammo a prelevare l’arma da lui sommariamente nascosta, per riporla nel nostro nascondiglio segreto che, ben presto, si riempì d’armi d’ogni tipo, tutte sottratte a quello che, nel frattempo, era divenuto il nemico della nostra “banda”.

 

Tutta quest'attività non poteva poi che sfociare nelle Squadre d'Azione Partigiana, nel frattempo formatesi e operanti in Città in appoggio coordinato con i partigiani sui monti; l’unico rammarico fu che, solo mio fratello, il più anziano dei tre, fu accolto nel locale 334 Brigata Partigiana di Prà. La nostra “banda” però continuò ad operare come prima ma, adesso, fiancheggiando chi si era prefissata un’azione orientata al bene comune; questa decisione ci diede la prima vera responsabilità.

 

Senza saperlo avevamo dato l’addio al ragazzino che ormai non era più in noi.

Renzo BAGNASCO

Rapallo, 17 Aprile 2014

 



TEMPO DI GUERRA ...amarcord 2

TEMPI DI GUERRA

AMARCORD... 2

 

Un mio NATALE da ragazzo

 

 

 

 

L’inverno del ’44 – 45 non finiva mai. Era di un freddo mai sofferto prima e con certe nevicate inusuali, almeno per noi del ponente di Genova. Nessuno sapeva che era l’ultimo Natale di guerra. Il mare, in certi giorni, dava l’impressione che ‘fumasse’ per l’impatto con l’aria gelida. Un giorno vidi, quasi sotto costa, due balene che avanzavano affiancate sbuffando.

 

Per ragioni di sicurezza, in mare non passava alcuna imbarcazione ormai da tempo. Le uniche unità erano dei rari scuri motoscafi tedeschi, in giro di perlustrazione.

 

All’imbrunire scattava il coprifuoco e chiunque, non autorizzato, fosse stato sorpreso per le strade, poteva essere passato subito per le armi. Noi ragazzi subivamo queste ristrettezze ma chi più ne soffrivano erano i nostri genitori impossibilitati, ad esempio, a poter, la sera, aiutare un congiunto ammalato a casa sua. Per riscaldarci si bruciavano palle di carta che facevamo in casa, macerandola e facendole poi asciugare al sole. La legna era pressoché introvabile.

 

La settimana prima di Natale noi ragazzi cominciavamo a tirar fuori da una sdrucita scatola sistemata sotto al letto, i vecchi “macachi” in terracotta di Albissola;  quando si rompevano il problema era incollarli. Non esistevano, come ora, tutti i tipi di colla per qualunque qualità di materiale: l’unica era la colla da falegname, la stessa che già usava San Giuseppe quando Gesù era ancora Bambino! ma quella colla non reggeva l’umidità ne resisteva ai colpi. Tutto il vantaggio del progresso e dell’aggiornamento, da noi arrivò solo dopo la guerra.

Mio fratello, mio cugino Franco ed io andavamo poi sulle colline sopra a Prà per staccare con le spatole il pan di bosco che, con il freddo e l’umido, ricopriva certe rive ombrose lungo i piccoli corsi d’acqua. Tutto il mancante lo realizzava la fantasia e la carta che sporcavamo, illudendoci rassomigliasse a roccia. Il cielo di carta blu con le stelle lo vendevano i cartolai e, se era “velina”, si poteva, con il meccano, giocare sulla trasparenza creando un’asta rotante con in cima una lampadina da pila, a simulare il percorso lunare. Gli stessi vendevano anche i presepi “autarchici”, cioè fogli di cartone con su stampate a colori, le figurine del presepio, da poi ritagliare.

 

Non si usava l’albero. L’unico era l’antico ramo d’alloro ( a ramma d’ofêuggio ) che i macellai legavano all’esterno del negozio; per la Festa, donavano ai migliori cliente i “berodi”  ( sanguinacci) e qualche “ scianchetto” d’alloro. In alcune case si allestiva una specie di albero, addobbando un ramo con cioccolatini, mandarini e canestrelli. In genere erano marittimi che avevano visto qualcosa di simile nelle Americhe: insomma, un albero di Natale ante litteram.

Il vero e proprio albero di Natale, quello classico, lo scoprimmo per la prima volta attraverso le finestre del bovindo del Comando che la Wehrmacht aveva insediato nel Castello Vianson, in cima alla passeggiata di Pegli. Quello sì era tutto un brillio e lustrini.

 

Il pomeriggio della vigilia eravamo andati in casa di Franco ad aiutarlo a realizzare il suo Presepio. Visto che si faceva buio, anche se eravamo abbondantemente nell’ora “libera” dal coprifuoco, decidemmo , mio fratello ed io, di rientrare.

Intanto giungevano dall’attigua caserma delle Brigate Nere schiamazzi e spari di festa. Alcuni, ormai ubriachi, sostavano cantando davanti al portone d’entrata della stessa. Come arrivammo sulla strada, uscendo dal giardinetto che la distanziava dalla casa, li sentimmo vociare e muoversi di corsa verso di noi. Rientrammo naturalmente nel giardino ma loro irruppero, sparandoci. Ci appoggiammo al muro della casa e quelli, urlando, ci bloccarono puntandoci le armi al petto. Uscirono anche le zie e, dopo un lungo battibecco alternato ad urli, quei ceffi puzzolenti d’alcool se ne andarono. Sul muro i segni dei proiettili ci sono ancora.

Nel frangente mio fratello, poco più grande di me, che aveva in tasca delle pallottole da moschetto ed operava già con la SAP di Prà ( Squadra Azione Patriottica) le aveva fatte scivolare per terra mentre quelli ci tenevano fermi per il collo. Per fortuna, cadendo, non avevano fatto rumore perché eravamo finiti con i piedi dentro ad una bassa aiuola. Solo il mattino dopo le raccattammo ma quella sera, avute le loro assicurazioni, rientrammo di corsa a casa a raccontare l’accaduto. Il mattino dopo, Natale, i nostri genitori andarono a protestare con gli Ufficiali che, imbarazzati porsero le scuse, adducendo l’accaduto al fatto che quei “masnadieri”, sentendosi proprio sotto Natale, soli, invisi alla cittadinanza e ormai terrorizzati per la imminente fine, aggiungo io, si erano ubriacati per darsi coraggio e affogare i rimorsi e le  inquetudini.

 

C’è andata bene. Ricordo bene quel Natale perché, dopo quell’episodio, mai più nessuno mi ha festeggiato a colpi di …. mitra.

 

 

Renzo BAGNASCO

Rapallo, 17 Aprile 2014



TEMPO DI GUERRA ...amarcord 1

TEMPO DI GUERRA

AMARCORD...1

 

Mi ricordo di quando vidi per la prima volta le truppe americane arrivare al Castelluccio di Pegli, al ponente di Genova, dove allora abitavo. Fu la mattina del 27 Aprile ’45. Era una bella giornata primaverile di sole e si “respirava” un’aria strana, d’attesa. Dopo anni, non si sentivano più spari.

 

 

 

Seppur lentamente e tra mille difficoltà, la V Armata proseguì l’avanzata lungo l’Italia raggiungendo Pisa e dopo aver sfondato la “Linea Gotica” anche le altre città del nord tra cui Genova.

 

Avevamo saputo che la sera prima gli uomini della V Armata americana erano entrati in Genova, trovandola già liberata dai partigiani. Noi ragazzotti, il mattino dopo ci  schierammo lungo l’Aurelia, là dove fiancheggia la ferrovia che la protegge dal mare. Eravamo accorsi per vedere gli americani, che per tante notti ci avevano tenuti svegli con i loro bombardamenti. Li conoscevamo solo attraverso i manifesti del “regime”, disegnati da Boccasile; in particolare quello < il liberator>, dove un ceffo, pilota negro,  massacrava le nostre città. Ciò nonnostante  non c’era risentimento tanto era l’odio e l’avversione verso i nazi-fascisti che ci avevano oppressi e coerciti. Tutto silenzio e i binari, raramente usati, arrugginiti. La strada era stranamente vuota, senza neppure le rare auto tedesche o i loro camion grigio-scuri; i mezzi privati, quelli, erano da tempo scomparsi a furia di ordinanze ostative imposte sia dalle Brigate Nere che dalla Wehrmacht. Solo alcuni medici potevano circolare avendo però i fari schermati e i parafanghi dipinti di bianco per individuarli. Finalmente a metà mattinata, in questa ovattata attesa, vediamo scendere lungo il rettilineo, una strana e buffa auto color senape simile ad una scatola scoperchiata, che in seguito imparammo a chiamare < Jeep>, quasi un cartone animato, occupata da giovanotti con divise attillate e con gli “anfibi” appoggiati al di fuori di quella “mezza” auto, mancante della parte superiore. Seguiva una colonna di grandi camion pieni di soldati festanti che, passandoci davanti, ci buttarono sigarette e cioccolata; dai mezzi usciva musica e per la prima volta vedemmo gli occhiali “ray ban”. Che contrasto con i nostri poveri militari indossanti sformate divise sdrucite e con i polpacci stretti da fasce che, se si allentavano, cadendo ti facevano inciampare; bastava correre un po’ perché ciò avvenisse o con i rigidi e anziani soldati richiamati della Wehrmacht, dagli stivaletti ferrati,  sempre odoranti del grasso utilizzato per ammorbidire  i loro accessori in cuoio, e di margarina spalmata sull’acidulo Roggenbrot. Gli americani, appena potevano, giocavano. Acquartieratisi nelle caserme abbandonate dal Regio Esercito ormai scomparso e poi da quello fantoccio della Repubblica Sociale Italiana, che raggruppava in “Bersaglieri” i giovani di leva che non avevano il coraggio di andare con i partigiani ma decisamente ostili a continuare la guerra. Di loro né i padroni tedeschi ne le sanguinarie Brigate Nere si fidavano; li tenevano lì in quiescènza. Alcuni di quei locali erano, sino a due giorni prima, ancora occupati dai tedeschi. Gli americani, trascorrevano il tempo giocando  tirandosi una palla, utilizzando grandi guantoni. Era l’esercizio per tenersi in forma con quello che poi conosceremo essere il “baseball”; altri leggevano i loro fumetti formato tascabile (quelli i cui eroi ancor oggi leggiamo) dalla caratteristica stampa che odorava di citrato. Tutti i confort, carta igienica e dentifricio compresi, li seguivano da sempre al pari dei loro armamenti e al vettovagliamento così come la posta, che veniva distribuita giornalmente. Il rancio poi, anziché versato nella italica gavetta con gli eterni rigatoni al monotono sugo di pomodoro, veniva servito nei vassoi a scomparti che permetteva ai singoli di scegliere nel vasto menù.  Una cosa m’è rimasta impressa: il loro pancarré sfacciatamente bianco e il cibo che avanzavano. Se penso al menù del nostro esercito che ammetteva una sola variante: solo se ne avanzava potevi richiedere il bis.  Bevevano acqua spillandola da loro sacche scure appese e disinfettate ad evitare possibili infezioni. Sulle loro bottigliette di birra, per la prima volta vedemmo la scritta < non conservare, buttare >. Dopo pochi giorni di stanziale permanenza, incominciò l’approccio con la cittadinanza; i più ardimentosi portavano a lavare la loro biancheria alle nostre donne e davano, per poterlo fare, elmetti pieni di benzina come se avessimo in casa il lavaggio a secco. La potevano portare perché i loro elmetti erano scodelle metalliche senza fori che si calzano su di un sotto-elmetto di fibra, completo di aereazione e adattamento alla testa. La benzina, rivenduta poi, valeva ben più di un pezzo del residuato caustico sapone di guerra. Spesse volte  dalla biancheria passavano al letto, battezzando con un nuovo nome un vecchio mestiere: “segnorine”. Dei partigiani, quelli con il fazzoletto al collo, gli americani avevano paura e diffidavano, evidentemente frutto del loro indottrinamento; se in un Bar ce ne fossero stati, quelli non entravano.

A far rispettare al loro interno la disciplina, ci pensavano gli < MP>, eternamente in jeep e armati con lunghi manganelli di legno dipinti di bianco. La bianca fascia al braccio con la scritta <MP>, Military Police, li rendeva riconoscibili e temuti.

 

Tutti avevano camicie e pantaloni sempre con la riga: capimmo poi che quelle “righe” non erano il frutto di continue stirature ma rese stabili con la macchina da cucire. I loro graduati, contrariamente ai nostri e a quelli tedeschi carichi di orpelli, gambali e brillii d’oro, erano vestiti come gli altri soldati: unico ‘distintivo’ erano dei rettangolini dorati , uno o più a seconda del grado, fissati sulle punte dei colletti e sugli elmetti.

 

Il fatto che ricordi queste cose mi rattrista: sto’ diventando veramente vecchio. Mi consolo pensando però che, almeno, io le ho viste e vissute.

 

 

Renzo BAGNASCO

 

Rapallo, 17 Aprile 2014