AFFONDAMENTO V.L.O.C STELLAR BANNER
AFFONDAMENTO
STELLAR BANNER
Era una Very Large Ore Carrier da 300.000 DWT
Per VERY LARGE ORE CARRIER, s’intende quel tipo di Classificazione di navi portarinfuse
con capacità di trasportare fino a 400.000 tonnellate di carico.
I FATTI
lL 24 febbraio 2020 - la Stellar Banner subì rilevanti danni alla prua durante la fase di partenza dal terminal Ponta da Madeira di Vale a Maranhão. Secondo l’Autorità Marittima locale, il Comandante decise di portare la nave al largo, a circa 50 miglia a Nord della costa di São Luís come misura precauzionale per evitare il blocco del transito navale della zona portuale. Appena fu possibile, i 20 membri dell’equipaggio furono evacuati e messi in salvo.
Nel tentativo di salvarla e ripararla, il Comandante ne provocò volontariamente l’incaglio su un fondale da lui ritenuto idoneo. Dopo un’agonia durata quattro mesi, l’Armatore optò per lo scuttling.
IL 12 giugno 2020 - La Stellar Banner fu affondata nel punto indicato dalla freccia nella foto sotto.
Posizione approssimata dell’affondamento della STELLAR BANNER
CARATTERISTICHE DELLA NAVE
STELLA BANNER: al momento dell’affondamento aveva soltanto quattro anni vita
Anno di costruzione:……. 2016 -
Tipo d’imbarcazione……. Bulk Carrier
Stazza Lorda: …………….. 400.000 tons (carico max)
Lunghezza f.t………………. 340 mt
Larghezza…………………… 55 mt
Equipaggio…………………. 20 persone
PROPRIETA’
La STELLA BANNER apparteneva alla Compagnia Marittima POLARIS battente bandiera delle Isole Marshall, ma era di proprietà e gestione di una Compagnia Marittima Sud Coreana. Il noleggiatore per il trasporto del minerale di ferro per i viaggi BRASILE-CINA era il ben noto colosso minerario brasiliano VALE.
LE FASI DEL DISASTRO
1a Fase - L’urto della nave contro “qualcosa di non definito” si verificò mentre era ancora in navigazione “di manovra” (in posizione non meglio precisata). Il Coordinatore per le emergenze ecologiche dell'Istituto brasiliano dell'ambiente e delle risorse naturali rinnovabili (Ibama), Marcelo Amorim provvide a circondare la nave con una particolare BARRIERA (nota con il nome di PANNE) per prevenire e circoscrivere un disastro ambientale in caso di fuoriuscita di petrolio o altri liquidi inquinanti.
Tuttavia, nonostante l’allarme diffuso da aeromobili di servizio, risultò che i serbatoi della nave erano intatti, la sala macchine della nave era asciutta e i generatori elettrici erano in funzione.
2a Fase – Il Comandante prese la decisione di proseguire la navigazione per portare ad incagliare la sua nave al largo, con il duplice scopo di evitare l’affondamento in acque portuali e tentarne possibilmente l’eventuale recupero del carico e della nave stessa.
3a Fase - Dopo aver effettuato un parziale allibo di parte del carico, e dopo aver ottenuto un nuovo rassicurante assetto della nave, sembrava vi fossero le condizioni ideali per un lieto fine dell’avventura.
Successivamente, da perizie effettuate sull’intero scafo dagli operatori della celebre ditta olandese SMIT SALVAGE, gli stress registrati risultarono molto peggiorati.
Il minerale rimasto a bordo, 125.000 tons, secondo le Autorità brasiliane, non rappresentava una minaccia per l’ambiente marino di quella zona.
4° Fase - Maturò così la decisione di rimorchiarla al largo in acque più profonde (vedi foto sotto) con lo scopo di affondarla, tramite l’impiego di cariche di dinamite, non essendoci più garanzie di riportare l’unità ad un normale galleggiamento.
5° Fase - M/V Stellar Banner fu fatta affondare Venerdì 12 Giugno 2020 a circa 70 mg. al largo della costa di Maranhão (Brasile).
LINK VIDEO AFFONDAMENTO STELLAR BANNER
Video davvero impressionante. Due anni per costruirla, due minuti per farla sparire…!
https://www.youtube.com/watch?v=1nmTYAShqiY
(Io lo vedo con Google Crome)
ALCUNI COMMENTI
Entriamo ora in qualche dettaglio tecnico con la speranza di capire ciò che non è stato raccontato...
Su questo ennesimo naufragio sono stati pubblicati soltanto rapporti monchi, dichiarazioni semi ufficiali degli operatori di terra, nessuna testimonianza del Comandante e dell’equipaggio della nave o dagli addetti ai lavori che non sono pochi. L’unico Report che abbiamo trovato sul web è estremamente vago e conciso; lo riportiamo integralmente:
On 26 October 2021, the Maritime Administrator Marshall Islands published the Casualty Investigation Report. The report concluded that the most significant cause of the accident was a deviation from the planned route when transiting the Baìa de São Marcos, and pointed also to deficiencies in on-board management and in the information available on nautical charts.
Carta geografica della regione Nord del Brasile che fu teatro dell’incidente
A seguire pubblichiamo
LA MAPPA DELLA BAIA DI SãO MARCOS
L’indicatore rosso (ovale), mostra la Baia de São Marcos nella quale si verificò l’improvviso cambio di rotta della nave STELLAR BANNER
IPOTESI (del tutto personale) SULLA CAUSA DEL DISASTRO
La STELLAR BANNER, durante la manovra di uscita dal terminal marittimo Ponta da Madeira di Vale di São Luís, dove aveva caricato 270.000 tons di minerale urtò, probabilmente, contro il fondale o presumibilmente contro la sponda del canale producendosi una falla di ben 25 metri sul mascone di dritta della prora (nell’opera viva dello scafo) da cui entrò la via d’acqua che provocò il suo vistoso sbandamento su quel lato.
Marinaresco fu il comportamento del Comandante che per evitare l’affondamento della nave in canale decise, rischiando la vita, di portarla ad incagliare su un basso fondale a circa 50 miglia nautiche dal porto di partenza.
La mappa della zona sopra riportata, ci ricorda la geomorfologia di certi fiordi della Norvegia con le sue bellezze “insidiose” per la navigazione, la quale viene sempre e comunque intrapresa con la presenza obbligatoria del Pilota (P.mare o P.canale o P.portuale a bordo).
Ci viene quindi spontaneo immaginare che a bordo della STELLAR BANNER, accanto al Comandante fosse presente anche il “Practico” locale con il suo ricchissimo bagaglio di conoscenze dell’intera zona.
Il che fa supporre che la nave sia andata fuori rotta per motivi NON dipendenti da chi aveva il Comando della nave in quel momento, ma forse, per l’eccessivo pescaggio della nave su un fondale meno profondo del previsto, circostanza che avrebbe potuto determinare la perdita del controllo dell’unità stessa. Ripeto, qui si sta ragionando di navi gigantesche che normalmente rasentano i fondali e le sponde di canali artificiali di enormi altezze.
Come abbiamo accennato nelle varie fasi di questa incredibile storia, nella posizione d’incaglio “provocata e provvisoria”, la SMIT SALVAGE, intervenne con la massima urgenza creando le condizioni per alleggerire la nave: fece scaricare dalle stive ben 145.000 tons. ed oltre 3.900 metri di cubi di olio combustibile. Fu proprio’ alla fine di questa operazione di ALLIBO che i Tecnici sperarono in un recupero totale della S. BANNER.
SPERANZA che fu poi delusa a causa delle falle subite e verificate ulteriormente dai Subacquei, topografi ed altri esperti del settore marittimo che, dopo aver accuratamente ispezionato le principali strutture della nave, consigliarono di AFFONDARLA.
Sicuramente a malincuore, la società armatrice sudcoreana Polaris Shipping ne prese atto e diede il proprio consenso a quell’inevitabile sentenza.
Secondo le Autorità brasiliane, la restante quantità di merci a bordo non costituiva una minaccia per l’ambiente.
Scuttling*: (dall’inglese “to scuttle” che vuol dire proprio affondare), una tecnica molto in voga durante la Seconda guerra mondiale. Vi si ricorreva per ostacolare il nemico, per evitare di consegnargli risorse o segreti militari e strategici, o più semplicemente per questioni di “onore”, per la serie: meglio affondare che arrendersi.
Oggi tutto ciò lascia trasparire una certa controversa interpretazione su varie tematiche relative all’ambiente. Ciononostante in alcuni casi quella dello scuttling è considerata una pratica “virtuosa” e proprio a basso impatto ambientale. In America si contano circa 700 scafi affondati per la realizzazione di barriere artificiali per proteggere ed incentivare il ripopolamento ittico o il turismo subacqueo di determinati siti.
Interessante è il punto di vista della POLIASS INSURANCE BROKERS:
Certamente il caso della Stellar Banner non rientra tra queste operazioni virtuose, perciò abbiamo cercato una spiegazione per capire meglio le scelte di questa operazione eutanasica coinvolgendo la stessa Poliass:
“Analizzando gli ipotetici risvolti assicurativi inseriti nel contesto specifico, l’affondamento volontario è una tipologia di “PERDITA TOTALE” che rientra in una casistica piuttosto ristretta. L’approvazione di questa procedura richiede valutazioni molto attente da parte di tutti gli stakeholders coinvolti: tecnici, periti, broker e assicuratori. Per effettuare lo scuttling* ciascuna delle parti chiamate in causa dovrà, infatti, considerare questa pratica, come la decisione più sicura ed economicamente più vantaggiosa.
Una volta presa la decisione, la prima azione da fare riguarda la riduzione al minimo dell’impatto ambientale (e le responsabilità ad esso conseguenti), e ottenere il consenso delle autorità marittime (e non solo) di riferimento, senza il quale, nessun affondamento volontario può essere effettuato.
Nel caso di specie, la marina brasiliana ha dichiarato che quanto non è stato possibile recuperare dalla V.L.O.C. non costituisce minaccia per l’ambiente, così l’enorme Stellar Banner è stata affondata. Ci auguriamo di poterla rincontrare in tutta la sua maestosità, protagonista di uno dei romanzi d’avventure marine sullo stile di Clive Cussler.”
Voltiamo pagina e dedichiamo la nostra attenzione ad un punto che noi riteniamo, (magari a torto), essere la chiave di lettura della tragica avventura della STELLAR BANNER.
Tutto è possibile! Ma ci sentiamo di escludere che la nave sia andata fuori-canale per un errore di comunicazione tra Stato Maggiore e timoniere (fatto grave che può accadere), ma è molto raro che quattro o cinque persone di guardia - in manovra sul Ponte di Comando, NON s’accorgano di un ordine sbagliato o MALE eseguito da un membro dell’equipaggio.
Mi soffermerei piuttosto su un’altra possibile causa dell’incidente trattandosi di una tra le più grandi unità al mondo, il cui problema principale non è la navigazione in altomare, ma quella costiera e di “approaching” ai porti e ai canali naturali, ma soprattutto artificiali i cui fondali, se non sono tenuti costantemente sotto controllo, variano continuamente a causa delle condi-meteo, ma anche per le correnti fluviali molto forti da quelle parti che smuovono enormi quantità di detriti che vanno a riempire i “canali subacquei” dove transitano le navi.
A questo punto CREDO CHE LA PAROLA UNDER KEEL CLEARANCE possa essere la chiave di lettura della disastrosa partenza della STELLAR BANNER.
Quei tre vocaboli, insieme, UKC indicano lo spazio libero al di sotto della chiglia della nave
Per esperienza personale, posso affermare che queste “giant ships” (navi giganti) se hanno “poca acqua sotto lo scafo”, ossia poco fondale a disposizione, sono soggette ad una precaria manovrabilità che viene disturbata da formazioni di correnti e controcorrenti anche laterali persino difficili da spiegare… essendo forze, ripetiamo, che si formano nel letto di canali artificiali scavati appositamente per permettere il passaggio di queste navi.
Oltre al pescaggio già enorme di queste navi, occorre tenere conto di altri fattori:
-
sbandamenti della nave nelle accostate.
-
cambiamenti di assetto legato ai consumi di bordo: acqua, carburante ed eventuali tramacchi (trasbordi) di quantità di carico ecc…
-
l’effetto squat (un termine la cui spiegazione meriterebbe un capitolo a parte)
-
gli effetti “suction” e “cushion”, dovuti alle differenze di pressione che si creano tra le sponde e lo scafo della nave.
-
la densità dell’acqua che varia, le presumibili altezze del moto ondoso che si vanno ad incontrare…
Quando uno soltanto di questi elementi entra in azione, produce un’istantanea variazione del pescaggio e dell’assetto della nave ed infine sulla manovrabilità della nave..
Se avete afferrato il concetto di UKC vi sarà ancora più facile immaginarlo dopo averlo proiettato sulla STELLAR BANNER, che aveva un pescaggio probabilmente superiore ai 20 metri (un palazzo di 7 piani).
CONCLUSIONE
Conosciamo ormai per esperienza i tempi ed i modi di come vengono chiusi certi brutti capitoli di marineria e ritengo superfluo ritornarci sopra; il nostro sito ce ne racconta in abbondanza.
Abbiamo letto che la nave aveva caricato nelle stive 270.000 tons di minerale delle 400.000 che poteva trasportare. Probabilmente, se ne avesse caricato di meno, avrebbe avuto un UNDER KEEL CLEARANCE maggiore, cioè molta più acqua sotto la chiglia, che le avrebbe consentito una maggiore MANOVRABILITA’ E SICUREZZA in navigazione permettendole di tenersi in mezzo al canale di uscita, seppure in acque già di per sé molto insidiose.
Se questa fosse la vera causa della “scomparsa” della STELLAR BANNER, l’intera tematica ricondurrebbe ad un’unica spiegazione:
Il desiderio “generale” d’incrementare i PROFITTI a scapito della sicurezza!
LINK SUL TEMA: di Carlo GATTI
Il primo è magnifico!
SUPER PETROLIERA "SALEM"- UNA FRODE COLOSSALE
https://www.marenostrumrapallo.it/salem/
SYRAKOSIA - Gigantismo Navale nell’antichità
https://www.marenostrumrapallo.it/sracusana/
“GIGANTISMO NAVALE” - Un sogno che viene da lontano … JAHRE VIKING
https://www.marenostrumrapallo.it/giga-2/
IL GIGANTISMO NAVALE PETROLIFERO
https://www.marenostrumrapallo.it/giga/
Carlo GATTI
Rapallo, 29 Agosto 2022
LA TRAGEDIA DELLA PETROLIERA "LUISA" - FU UNA SCONFITTA DELLA SOLIDARIETA'?
LA TRAGEDIA DELLA PETROLIERA ITALIANA "LUISA"
Fu una sconfitta della solidarietà umana?
Tra i tanti articoli trovati sul web ho scelto quello della brava giornalista Agata Sandrone che, a distanza di 50 anni, ha saputo raccontare con maestria le varie fasi dal tragico naufragio della petroliera italiana LUISA, non tralasciando l’aspetto emozionale che ancora oggi ci riempie di commozione.
Per alcuni di noi il nome Luisa può sembrare un nome proprio di una bella ragazza. Non è così se lo associamo alla tragedia del 5 Giugno 1965. “Luisa” era una bellissima petroliera iscritta al compartimento di Palermo, ma era di proprietà di una società veneziana, la Cosarma. La petroliera da 31mila tonnellate fu distrutta da un gigantesco rogo a Bandar Mashous, nel golfo Persico. Nella Luisa c’erano 41 marinai, tra cui 17 Siciliani e 9 Palermitani; tra questi marinai 4 facevano parte della borgata di Sferracavallo: Vincenzo Giammanco, Ignazio Vassallo, Salvatore Cricchio e Nicola Favaloro e Lo Bello Francesco di Isola delle Femmine. La petroliera Luisa era giunta a Bandar Mashur, il più importante porto per l’esportazione del petrolio iraniano. Era stata noleggiata dal consorzio petrolifero iraniano e stava effettuando al molo 1 un carico di 25.000 tonnellate di greggio destinato all’Italia. E’ stato proprio al completamento delle operazioni che nella caldaia della nave si è verificato un esplosione. Tempestive sono state le manovre del comandante per allontanare la nave dal molo, evitando così che le fiamme giungessero ai magazzini del porto. Con questo disperato tentativo scongiurò una catastrofe peggiore. La nave in fiamme si allontanò sempre più dal porto, cominciandosi a inclinare fino a capovolgersi. Le fiamme invasero il mare e anche se i marinai si fossero buttati in acqua sarebbero stati accerchiati dalle fiamme.
Alla fine la Luisa affondò e ventotto dei quarantuno membri dell’equipaggio persero la vita, tra questi tre marinai di Sferracavallo e il povero ragazzo isolano. L’unico scampato, ma bruciato in gran parte del corpo, fu Nicola Favaloro un mozzo di appena 19 anni. I familiari e l’intera borgata appresero la notizia della terribile tragedia alla radio e quando la madre sentì il nome del figlio svenne. Pochi metri accanto, in un’altra modesta abitazione, la famiglia di Vincenzo Giammanco di 40 anni, fuochista, scoppiava in un pianto dirotto: il loro Vincenzo era stato ucciso nella terribile esplosione, lasciando la moglie Dora e due figli molto piccoli. Così pure la famiglia di Ignazio Vassallo di 49 anni cadde nel profondo dolore. Anche lui lasciò moglie e figli. Ignazio era un uomo molto scrupoloso nel compimento dei suoi doveri ed era costretto a vivere spesso lontano dalla famiglia per motivi di lavoro. Come il povero Salvatore Cricchio di 27 anni, motorista, il più piccolo di nove figli (da tutti veniva chiamato Turiddu) che apparteneva ad una famiglia di pescatori che abitavano alla zotta; lasciò i suoi genitori e la fidanzata, che era prossima a diventare sua moglie. Dopo qualche mese per il padre Vincenzo fu talmente grande il dolore che il giorno di Natale lo trovarono morto inginocchiato davanti alla foto del figlio.
Nella borgata di Sferracavallo e negli altri paesi della Sicilia da dove partirono i poveri marinai, furono svolti i funerali senza le salme dei propri cari. I resti umani che furono ritrovati non hanno dato la possibilità risalire ad un’identificazione e quindi furono posti con unica sepoltura al cimitero di Venezia, luogo deciso dalla società Cosarma.
Il 4 Giugno 2015, prima di sera, nel porto di Sferracavallo il parroco della borgata, Massimo Pernice, ha celebrato una messa per ricordare le vittime della petroliera Luisa incendiatasi il 5 Giugno 1965 nel golfo Persico. Nel ricordo dei nostri tre compaesani e di un ragazzo di Isola delle Femmine, periti in quell’occasione, è stata lanciata in mare una corona di fiori.
Agata Sandrone
Il primo marittimo della lista delle vittime: Lazzaro PARODI di Varazze, era il Comandante della LUISA. Unico ligure nel Ruolino Equipaggio della nave.
La T/n LUISA era stata costruita nei primi anni ’60, al momento del disastro era praticamente nuova, moderna, veloce e molto sicura. Le sue sister ships navigarono fino alla pensione.
In questa mappa del Golfo Persico, il cerchio rosso più alto indica il porto del Golfo Persico dove è avvenuta l’esplosione ed il successivo affondamento della LUISA nella rada antistante.
Purtroppo, della tragedia della T/c LUISA non ci è pervenuta alcuna testimonianza e/o relazione scritta dell’accaduto. A distanza di tanti anni non si sa praticamente nulla delle cause che produssero tanti morti, dolore e costernazione tra i familiari delle vittime, ma anche tra i tanti marittimi che si sono sentiti vicini a questi EROI del mare che incontrarono la morte in circostanze che forse si potevano evitare. Morire in mare in acque portuali o comunque davanti alla costa è inspiegabile per non dire inaccettabile! Purtroppo la letteratura marinara è ferita anche da questi casi non del tutto rari!
Dobbiamo fare una precisazione. All’epoca dell’incidente della T/n LUISA, il porto iraniano che fu teatro del naufragio della nave italiana si chiamava Bandar Shahpur. (Bandar significa Porto).
Tutti i reportage giornalistici dell’epoca usano infatti quel nome, così come noi ex naviganti anche di petroliere, continuiamo a ricordarlo con quel toponimo. Tuttavia va registrato che, in seguito alla rivoluzione del 1979, quel complesso portuale prese il nome dell'ayatollah Khomeini, diventando: Bandar-e Emam Khomeyni.
Una dozzina di chilometri a est del porto di Bandar-e Emam Khomeyni si trova il porto petrolifero di Bandar-e Mahshar; in quel distretto portuale petrolifero era attraccata la LUISA al momento dell’esplosione in Sala Macchine.
La foto (sopra) si riferisce all’impianto petrolifero di Bandar-e Mahshahr. In una di queste banchine a T era ormeggiata la T/n LUISA.
In questa mappa della parte più a Nord del Golfo Persico, è rappresentato l’intero complesso portuale iraniano che fu teatro della tragedia della T/n LUISA.
Nelle foto sotto abbiamo recuperato le foto del locale Porto Petroli iraniano.
A sinistra della foto si erge la Torre antincendio del tipo simile a quelle installate nel Porto Petroli di Multedo-Genova
COMMENTO
Sono passati 57 anni da quel tragico avvenimento del quale, per mancanza di testimonianze orali e scritte dell’equipaggio italiano, non si è mai neppure sfiorata la VERITA’ su quanto successe veramente quel giorno.
Ci furono sicuramente inchieste da parte delle Autorità Portuali e Marittime che ebbero lo scopo di salvaguardare gli interessi iraniani per recuperare il denaro necessario a riparare i danni compiuti dalla nave italiana alle strutture portuali.
Purtroppo, come sanno coloro che hanno “navigato” in questi ambienti, certi fatti si mettono a tacere nel più breve tempo possibile. Questo è il compito principale delle Società di Assicurazioni delle navi e del carico che trasportano; le eventuali controversie che sorgono tra le parti vengono regolate “silenziosamente” nell’interesse generale del trasporto petrolifero quale LINFA indispensabile e necessaria che alimenta l’intero circuito economico-industriale del mondo intero.
THE SHOW MUST GO ON – L’esempio di questo “sistema” tuttora in atto, lo abbiamo sotto gli occhi in questi giorni di guerra tra la Federazione russa e l'Ucraina che ci mostra quanto sia preziosa una certa fonte energetica e quanto essa possa incidere sull’economia locale e globale degli Stati industrializzati.
Nel 1965 il Porto iraniano di Bandar Mashur era, ma lo è tuttora, uno fra i principali “distributori” di Petrolio del Golfo Persico. Chi ha navigato sulle petroliere in quel periodo, come il sottoscritto e molti soci di M.N., ricorda i lunghi convogli di petroliere di tutte le bandiere transitare nel Canale di Suez e accodarsi in fila indiana nel Golfo Persico e poi dividersi per andare a caricare il crude Oil nei vari porti di produzione nel Kuwait, Arabia Saudita, Iran e Irak per poi trasportarlo verso l’affamata Europa, Sud Africa ed Estremo Oriente ed altre nazioni in espansione economica.
Naturalmente in Italia e nel mondo “assetato” di petrolio, esistevano ed esistono tuttora altrettanti porti petroliferi attrezzati con gli stessi impianti molto tecnologici del Golfo Persico che, una volta acquisito il “prodotto”, lo pompano verso le raffinerie che lo trasformano nelle varie benzine e molti altri prodotti chimici che vengono poi smistati via mare e su gomma verso le città e le zone industriali del nostro paese.
Le Sette Sorelle Americane governavano allora l’intero mondo petrolifero, e da loro provenivano anche i modelli architettonici di banchine portuali e impianti di pompaggio nonché l’insieme delle normative legate alla loro sicurezza e a quella delle navi operative in banchina.
Ho descritto con brevi annotazioni il circuito petrolifero internazionale per entrare nell’argomento SICUREZZA, con lo scopo di mettere a confronto il comportamento tenuto dall’Autorità portuale di Bandar Mashur con le PROCEDURE messe in atto dalle Autorità del Porto Petroli di Multedo-Genova il quale si trovò ad affrontare un caso analogo a quello accaduto alla T/n LUISA.
L’incidente cui mi riferisco, successe il 12.7.1981 alla petroliera giapponese “HAKUYOH MARU” che fu colpita improvvisamente da un fulmine mentre si trovava sotto discarica nella banchina denominata “Pontile GAMMA”, lato di Ponente del Porto Petroli di Multedo-GE.
“Purtroppo si dovette registrare la morte di quattro membri dell’equipaggio della petroliera giapponese Hakuyoh Maru, ma anche di un tecnico della SNAM e di un guardiano di bordo”.
FATTO GRAVISSIMO! Ma come potrete leggere tra breve, l’Autorità portuale genovese fu in grado di limitare i danni prendendo decisioni immediate, sensate e soprattutto MARINARESCHE.
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Fu subito evacuato il personale di bordo, sbarcato, allontanato dalla nave e messo in sicurezza.
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La nave fu sottoposta ad un immediato BOMBARDAMENTO di prodotti antincendio dalle TORRI situate lungo la banchina e dotate di potentissimi cannoni “telecomandati” da apposite cabine esterne al perimetro delle banchine operative. La nave fu immediatamente circondata dai mezzi antincendio dei Pompieri e dai Rimorchiatori dotati di spingarde. Questi mezzi rimasero a lungo sotto lo scafo per raffreddarlo evitando ulteriori esplosioni.
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Nei 45 minuti successivi la prima esplosione, ben CINQUE NAVI ormeggiate alle banchine limitrofe furono portate in rada, in totale emergenza, dai servizi portuali: Piloti, Rimorchiatori e Ormeggiatori. La “fuga” dal porto fu programmata e realizzata tempestivamente scegliendo le petroliere che si trovavano più vicine alla Hakuyoh Maru perchè erano già pericolosamente surriscaldate: “da far bruciare i piedi”! - Come ebbe a testimoniare il Pilota Giancarlo Cerutti.
In queste due foto (sotto) del Porto Petroli genovese si notano chiaramente, ai lati dei pantografi di scaricazione, le Torri antincendio (pitturate di rosso) poste lungo la banchina a ridosso della petroliera, da cui si può dedurre anche visivamente, che il posto più sicuro per DOMARE l’incendio su una nave altamente pericolosa, sia il PORTO che la ospita, purché sia dovutamente attrezzato ed organizzato.
Ecco il LINK che v’invito a leggere:
HAKUYOH MARU – ESPLODE A GENOVA, 12.7.1981
https://www.marenostrumrapallo.it/hakuyoh-maru-esplode-a-genova-12-7-1981/
Nell’Articolo troverete una documentazione fotografica di eccezionale valore documentale.
Desidero concludere questo “commento” con una amara considerazione da uomo “navigato”, prima come ufficiale a bordo di cinque petroliere poi, per otto anni al comando di rimorchiatori portuali ed alto-mare inanellando salvataggi, disincagli ed anche interventi anti-incendi a Genova e nel Porto Petroli di Multedo. Terminai la mia carriera dopo 25 anni da Pilota del Porto di Genova, nello stesso ambito portuale in cui ho continuato a maturare le più svariate esperienze attraverso “celebri naufragi” - dalla “LONDON VALOUR” alla “HAVEN” e molti altri che ebbero, al contrario, un epilogo a lieto fine.
“Ognuno ha il suo destino” – Uso rispondere ai miei Amici quando mi fanno osservare che in tutta la loro carriera da Comandanti, non gli è mai successo nulla di notevole da tramandare ai posteri …!
Dopo questa premessa che allude alla mia esperienza di “Comandante sfigato” (per scelta), ritengo immodestamente di poter esprimere un mio pensiero al riguardo:
L’equipaggio della LUISA è stato vittima di molte circostanze negative, tra cui la disorganizzazione e l’impreparazione tecnica delle Autorità iraniane che non pensarono minimamente, e prima di tutto, alla salvaguardia della vita di quel povero equipaggio, COSTRETTO – suppongo - ad allontanarsi con la propria nave dalla banchina mentre era sotto incendio, in progressivo sbandamento e nel contempo in navigazione di manovra.
Ripeto, nonostante le molte ricerche effettuate, non sono riuscito a leggere una relazione del Naufragio della petroliera LUISA.
Non spetta quindi a me dare giudizi di alcun tipo, ma il pensiero che L’equipaggio della LUISA sia stato abbandonato al proprio destino lo penso ormai da 57 anni!
Anche il Porto di Multedo, come si vede dalle foto sopra, è circondato da "pericolosi" serbatoi e da un corposo centro abitato, sicuramente più popolato di Bandar Mashur.
Purtroppo, in quella tristissima giornata di 57 anni fa “qualcuno”, in quel lontano porto iraniano, pensò che era meglio non rischiare l'incendio di alcune strutture portuali e decise di condannare a morte un EQUIPAGGIO con la sua nave. Ancora oggi si preferisce definire EROICO il comportamento di quelle vittime che in realtà morirono a causa di decisioni sbagliate dal punto di vista tecnico, marinaresco ma soprattutto umanitario.
Qualcuno scrisse: “Il primo grado dell'eroismo è vincere la paura" . Sia a Bandar Mashur che a Genova-Multedo abbiamo visto in azione dei veri EROI, ma con una differenza: che i primi sapevano d'incontrare la morte; i secondi, pur conoscendo i rischi, hanno POTUTO lottare per evitarla.
Carlo GATTI
Rapallo, 5 Maggio 2022
HAKUYOH MARU - ESPLODE A GENOVA, 12.7.1981
HAKUYOH MARU - ESPLODE A GENOVA, 12.7.1981
GENOVA
(Porto Petroli Multedo)
12.7.1981
INCENDIO – ESPLOSIONE
della super-petroliera giapponese
“HAKUYOH MARU”
Nave |
Bandiera |
StazzaL. |
Portata |
LunxLar |
Anno Costr. |
Hakuyoh M. |
Giap. |
59.060 |
93.425 |
281 x 46 |
– |
Ante Banina |
Iugosl. |
55.875 |
81.188 |
244 x 42 |
1980 |
I.Prosperity |
Liberia |
42.605 |
89.479 |
254 x 39 |
1975 |
S.Ferruzzi |
Italiana |
29.081 |
50.482 |
195 x 32 |
1981 |
Luogo dell’incidente
All’interno del Porto Petroli di Multedo-Genova.
Causa dell’incidente
Un fulmine cade sulla petroliera che, ultimata la discarica di crude–oil sta pompando zavorra in previsione della partenza, già fissata per il tardo pomeriggio.
Testimonianza
Da “I Piloti della Lanterna” di Stefano Galleano, riportiamo:
– Il pilota di guardia Giancarlo Cerutti, così ci ha raccontato l’avvenimento: “Alle 14.50 ho visto un fulmine cadere sulla Hakuyoh Maru e dopo tre secondi la petroliera veniva squarciata da una tremenda esplosione con getto di rottami a grande distanza. Nel contempo si sprigionavano dalla cisterna alte colonne di fiamme e fumo densissimo.”
Comandante Giancarlo CERUTTI – Pilota del Porto di Genova
Nato ad Alassio il 3 Dicembre 1937, la passione per il mare arriva in modo naturale, la barca a vela e la pesca subacquea lo attraggono subito. Frequenta l’Istituto tecnico nautico Statale “Leon Pancaldo” di Savona, dove nell’anno 1955/56 si diploma Capitano di Lungo Corso. Dopo il diploma frequenta il 51° corso Allievi Ufficiali presso l’Accademia Navale di Livorno e ne esce come Guardiamarina. Inizia la sua carriera da terzo ufficiale, per ricevere 6 anni dopo il suo primo Comando. È l’inizio di una vita da Comandante. Nel 1971 vince il concorso per Piloti nel porto di Genova dove rimarrà fino al 1998. Un grande comandante, ricordato dai “lupi di mare” per essere stato l’eroe della Haven, che affondò tristemente al largo della costa tra Arenzano e Varazze.
Appena fu possibile, Cerutti contattò la Stazione Piloti richiedendo l’invio di altri colleghi per provvedere allo sgombero del porto.
Infatti si trovavano, sotto discarica ai pontili, altre quattro navi mentre una quinta era in allestimento all’Italcantieri.
“Ordinavo al timoniere Ottonello di dirigere a tutta forza verso il pontile Delta ponente dove stava bruciando la Hakuyoh Maru e dove al lato opposto, cioè al pontile Delta levante, era ormeggiata la Ante Banina ritenendo che detta petroliera, avendo scaricato il prodotto ed essendo lambita dalle fiamme sospinte da una leggera brezza da ponente, fosse quella con maggior pericolo di esplosione. Durante il tragitto, contattavo via VHF il comandante della Ante Banina e gli suggerivo di cominciare urgentemente a filare per per occhio in mare i cavi d’ormeggio, soprattutto a prora dove nessuna persona sarebbe stata in grado di mollare o tagliare i cavi dalle bitte del pontile, dato il fumo e le fiamme che sempre spinte dalla brezza di ponente, lambivano il pontile e la petroliera stessa”.
Operazioni di Salvataggio
Porto Petroli di Multedo
Da sinistra: Molo di Ponente, Pontile Alfa, Pontile Beta, Pontile Gamma, Pontile Delta. Ogni Pontile ha il lato d’ormeggio di Ponente ed il lato di Levante.
“Alle 15.00 sono salito a bordo della Ante Banina tramite una biscaglina di emergenza filata da una lancia di salvataggio. Mi sono reso conto del pericolo gravissimo che correva la nave e, d’accordo con il comandante, decidevo di lasciare l’ormeggio ed eseguire la manovra senza rimorchiatori, in quanto la manovra d’aggancio degli stessi avrebbe fatto perdere parecchio tempo e la nave sarebbe rimasta affiancata al pontile, come minimo, altri quindici o venti minuti esposta al tremendo calore sviluppato dalla petroliera in fiamme.”
12 Luglio 1981. Porto Petroli di Multedo (Ge): la petroliera HAKUYOH MARU, a sinistra nella foto, é appena esplosa. Allo stesso pontile GAMMA é ormeggiata la M/c ANTE BANINA che é investita dal fuoco della HAKUYOH MARU. Il Pilota Portuale Giancarlo Cerutti, vista la catastrofica situazione di una possibile esplosione della nave, del Porto Petroli e forse di una parte della città alle spalle, decide di salire a bordo per allontanare la ANTE BANINA in estrema emergenza. Sale a bordo tramite la biscaglina sistemata sul lato sinistro della nave. Il ponte di coperta della nave é già incandescente, ma il pilota ha il coraggio di salire sul ponte di comando e, dopo aver fatto tagliare tutti i cavi d’ormeggio, riesce ad allontanare la nave senza rimorchiatori attaccati al cavo, e portarla in sicurezza in rada.
In questo momento Il fuoco é pericolosamente vicino alla poppa della M/c “INDUSTRIAL PROSPERITY” ormeggiata al pontile BETA Ponente; notare a destra della foto la M/c “ANTE BANINA” dirigere in emergenza fuori del porto con il Pilota G.Cerutti a bordo.
Mentre Cerutti porta felicemente la Ante Banina in sicurezza fuori dal porto e dall’abitato di Multedo, i colleghi Giuseppe Verney e FrancescoMaggiolo, provenienti da Genova, si dirigono verso le navi Industrial Prosperity e Molara.
Nel frattempo giunge sul posto, il Capo Pilota Giuseppe Longo che unitamente al personale del Porto Petroli e della Capitaneria, contribuisce efficacemente all’organizzazione dei soccorsi.
Sbarcato dalla Ante Banina, Cerutti si porta a bordo della Devali ormeggiata al pontile Beta ponente. Una parte dell’equipaggio é in fuga… sulla banchina.
“Visto l’esiguo numero di gente al posto di manovra, lo stesso Comandante, dopo avermi avvisato, si reca di corsa a poppa per aiutare a mollare i cavi. Sul ponte rimango io ed il timoniere. A prora due marinai riescono, dando i cavi di terra mollati dagli Ormeggiatori, ad agganciare due rimorchiatori.”
Poco dopo le 16.00 la nave é libera anch’essa e può procedere verso l’ancoraggio sicuro nella rada.
Infine, verso le 17.00, esce dal Porto Petroli anche la Serafino Ferruzzi disormeggiata dall’Italcantieri con il pilota G. Verney.
Dal momento della caduta del fulmine sulla Hakuyoh Maru: 14.50, allo sbarco del pilota dalla Ferruzzi, sono trascorse due ore circa. In quell’arco di tempo cinque navi in condizioni di grave rischio: sono uscite dal Porto Petroli e messe in sicurezza.
–Ante Banina
– Industrial Prosperity
–Molara
-Devali 1° le quali pur non correndo pericolo immediato avrebbero potuto essere coinvolte nell’incendio, tuttora in corso della sfortunata Hakuyoh Maru.
–Serafino Ferruzzi, ormeggiata all’Italcantieri, avrebbe potuto correre seri rischi perché si trovava sottovento alla nave incendiata.
Questa operazione fu resa possibile grazie all’azione di tre piloti prontamente intervenuti e all’ausilio, spesso determinante e partecipe del personale dei rimorchiatori, di quello delle pilotine e degli ormeggiatori. Certo, non va taciuto l’intervento del personale di terra (Porto Petroli, Capitaneria, VV.FF.) nell’opera di spegnimento o di contenimento dell’incendio, ma senza la professionalità dei PILOTI nell’evacuazione delle altre navi cariche o in zavorra non inertizzata, i rischi corsi dalle installazioni portuali e, soprattutto dalle abitazioni del vicino centro di Multedo, sarebbero stati ben maggiori.
LE VITTIME
Purtroppo si dovette registrare la morte di quattro membri dell’equipaggio della petroliera giapponese Hakuyoh Maru ma anche di un tecnico della SNAM e di un guardiano di bordo.
I Protagonisti
Ai piloti, protagonisti di quella “calda” giornata vennero concesse le:
Medaglie al Valore di Marina
Giancarlo Cerutti (Argento)
Giuseppe Longo (Argento)
Giuseppe Verney (Argento)
Francesco Maggiolo (Bronzo)
A GIANCARLO CERUTTI venne assegnato il premio dall’Istituzione dei Cavalieri di Santo Stefano intitolato:
UNA VITA DEDICATA AL MARE
Questo è solo uno fra i tanti riconoscimenti ottenuti nella sua lunga carriera, a questo se ne aggiungono altri che elenchiamo:
Nel 1981 viene decorato con la Medaglia d’Argento al valore di Marina per il comportamento tenuto in occasione dell’incendio ed esplosione della petroliera Giapponese “Hakuyoh Maru” colpita da un fulmine nel porto di Genova/Multedo.
Nel 1983 gli viene assegnata la Targa d’argento da parte del Club Capitani di Mare di Milano, dal Collegio Naz. Patentati Cap.L.C. E D.M. Di Genova.
Nel 1985 gli viene assegnato il premio “Una vita dedicata al mare” da parte del “Sacro Militare Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano” di Pisa.
Nel 1991 gli viene assegnato il “Premio S. Giorgio” da parte dell’Associazione Nazionale Capitani di Genova.
Nel 1998 gli viene assegnato “Il Cuore della Vecchia Alassio” da parte della stessa Associazione.
Nel 2006 gli viene assegnato “L’Alassino d’oro” da parte del Comune della città di Alassio.
Attualmente, ritiratosi nella sua Alassio, non ha perso il suo interesse per il mare ed è docente presso la “Unitre” di Alassio, Università della Terza Età, per i corsi di “Astronomia e Navigazione”.
Ricordiamo che su questo stesso sito di Mare Notrum Rapallo ho dedicato al collega Giancarlo Cerutti la rievocazione dell’esplosione e successivo affondamento della superpetroliera HAVEN nella rada di Arenzano, avvenuta nel 1991, a dieci anni di distanza dalla esplosione della HAKUYOH MARU.
“Ho salvato diciotto marinai ma per favore non chiamatemi eroe”.
«QUEL pezzo di carta per me vale più di ogni medaglia». Ore undici, secondo piano della Torre Piloti di molo Giano. Giancarlo Cerutti, oggi pilota del porto in pensione, quell’11 aprile 1991 era in servizio a Multedo. Fu lui a raccogliere per primo il “may day” della Haven e a partire insieme al timoniere con la pilotina verso il largo. Per aver salvato diciotto marinai lanciatisi fra le fiamme della petroliera Cerutti venne decorato con la medaglia d’oro al Valor di Marina, la più alta onorificenza in tempo di pace. Ma la cosa che più inorgoglisce quest’uomo che ha lavorato per oltre quarant’anni prima di andare in pensione e ritirarsi ad Alassio, è un pezzo di carta: una lettera scritta a mano dal primo ufficiale della Haven che lo ringrazia, anche a nome di tutte le persone che Cerutti ha salvato. Quel pezzo di carta termina con queste parole: «…consentendoci di tornare alle nostre famiglie». A Giancarlo Cerutti é stato chiesto:
– “Comandante, si sente un eroe?” «Per carità, lasciamo perdere. Ho fatto l’unica cosa che dovevo fare, intervenire il più presto possibile. E se sono qui a raccontare quegli episodi è perché sono anche stato fortunato».
– “In che senso?” «La petroliera a fianco della Hakuyoh Maru poteva esplodere, ma siamo riusciti a toglierla in tempo dalla banchina a cui era ormeggiata. E la seconda esplosione, quando già eravamo sottocoperta, fece partire in orizzontale pezzi di ferro che avrebbero potuto distruggerci. Passarono a qualche metro di distanza».
– “Che cosa prova, a vent’ anni da quell’11 aprile 1991?”
«La stessa intensa emozione e un grosso rammarico, quello di aver visto morire davanti ai miei occhi tre ragazzi, gettatisi in acqua e subito travolti dalle fiamme. Non dimenticherò mai le loro parole, “Help pilot, help pilot”. Chiedevano aiuto, non ce l’abbiamo fatta».
– “Diciotto però li avete salvati”.
«Sì, a ripensarci ora, a distanza di vent’anni, mi vengono addirittura in mente episodi un po’ buffi. Li racconto adesso, anche per stemperare un po’ la tensione. Un marittimo indiano si era gettato in acqua con la valigetta e non se ne voleva assolutamente liberare. Era intriso di petrolio, lo sollevai per i capelli. Un altro invece ebbe un infarto una volta salito sulla pilotina. Ricordo che istintivamente gli diedi la mia giacca, per coprirlo. Quando tornai a terra mi venne in mente che dentro alla giaccia c’erano le chiavi di casa e anche quelle della torretta dei piloti. Non potei far altro che aspettare e dopo un paio d’ore venne la polizia a restituirmi la giacca».
ALBUM FOTOGRAFICO
La foto del primo allarme in porto il 12 luglio 1981 sulla petroliera giapponese Hakuyoh Maru.
Ecco come si é presentata la “coperta” della petroliera Hakuyoh Maru pochi giorni dopo l’esplosione avvenuta il 12 luglio 1981 a Multedo, agli ormeggiatori del porto che si sono recati a bordo in servizio sostitutivo di equipaggio: prima per il ripristino degli ormeggi, giacché la nave era pericolosamente inclinata, poi per il trasferimento dal pontile Delta, al campo boe dell’Italcantieri.
Questa immagine rende l’idea della Terrificante esplosione che ha letteralmente squarciato la coperta della HAKUYOH MARU.
Notare lo sbandamento della nave nelle foto sopra
A sinistra della nave il rimorchiatore PANAMA alla spinta durante il trasferimento del relitto al campo boe dell’Italcantieri.
TERMINAL PETROLI MULTEDO
Il terminale petrolifero di Genova Multedo é uno dei maggiori d’Italia e d’Europa. Insieme a Trieste e Marsiglia occupa una posizione di predominio nella movimentazione e nel traffico di prodotti petroliferi. In Italia é considerato prima dei porti di Augusta, Melilli e Sarroch che pur vantano un considerevole traffico. Il movimento di prodotti di Multedo é valutato nell’ordine di 30 milioni di tonnellate annue. Attraverso Multedo vengono alimentate le raffinerie più importanti del Nord Italia e per mezzo di oleodotti lunghi 2.000 km circa anche quelle della vicina Svizzera e della Germania. Multedo, che si estende per circa 345.000 mq di cui ben 134.000 di aree di terra, é stato realizzato a tappe a partire dagli anni 60. Esso si articola in un porto interno, ove trovano ormeggio fino a 10 navi in simultanea, e due strutture al largo per navi di grande tonnellaggio. Infondo al Porto Petroli vi sono le strutture del Cantiere Navale di Sestri Ponente e i pontili della Lega Navale, riservati alla nautica da diporto I pontili sono difesi dalle mareggiate dall’ampia spianata delle piste dello aeroporto C. Colombo e dalla diga foranea. Essi costituiscono autentici baluardi contro il mare. Il porto interno, oltre ai 4 pontili, ALFA-BETA-DELTA-GAMMA, dispone di ulteriori 4 accosti per navi con prodotti speciali, immediatamente a ridosso del molo Occidentale, sulla sinistra, appena entrati nel bacino petrolifero. Menzione a parte meritano i lavori di ristrutturazione da poco conclusisi, per garantire ulteriore e maggior sicurezza sia per l’ambiente primariamente, sia per le stesse navi, fattore determinante per un terminale cosi’ nevralgico.
INFRASTRUTTURE
Il porto Petroli di Genova é gestito dall’omonima Società per Azioni.
Il porto petroli si compone di una banchina e 4 pontili: la prima viene utilizzata per il carico/scarico di prodotti chimici. I 4 pontili, denominati alfa, beta, gamma e delta ed il primo dei quali risulta fuori servizio, servono per lo scarico del greggio e per il carico/scarico di prodotti lavorati.
Il pontile delta, presentando un pescaggio maggiore, può ospitare anche le più moderne petroliere. Tale pontile, però, presenta un problema connesso con il previsto spostamento verso mare dell’area occupata da Fincantieri esso dovrebbe passare fuori servizio, poiché le saldatrici non potrebbero stare così vicine ai prodotti trattati. Per colmare questa lacuna si è ipotizzata costruire una paratia tra Fincantieri e porto; il problema appare tuttavia rimandato a causa della crisi subita dal settore della cantieristica.
Un’ulteriore infrastruttura (Piattaforma) è costituita dall’ormeggio offshore, danneggiata nel 2008 da una mareggiata e da allora fuori uso, cui si aggiunge una boa monormeggio, anch’essa fuori servizio.
Una rete di oleodotti collega il porto petroli a diverse raffinerie del nord Italia e quella di Aigle, in Svizzera; tale rete consente di evitare qualsiasi attività di stoccaggio o trattamento dei prodotti petroliferi.
SISTEMI DI SICUREZZA
A causa dell’elevata infiammabilità dei prodotti trattati, il porto attua una severa politica per la sicurezza, che prevede un sistema antincendio con cannoni che gettano acqua di mare mista a schiumogeno, testati una volta al mese.
Alla base di ogni pontile è presente un bunker antincendio, dal quale gli operai, una volta rifugiati, possono eventualmente controllare tutti i cannoni ad acqua e schiumogeno.
In porto le navi hanno la consegna di tenere sempre i motori accesi, per essere pronte a mollare gli ormeggi e allontanarsi in caso di emergenza. Inoltre è prevista una prova mensile antincendio, con la partecipazione di tutto il personale del porto e dei vigili del fuoco interni e statali.
Tutti i pontili sono dotati di un cosiddetto “sentiero freddo”, un corridoio con muri d’acqua che in caso di incendio si attiva e consente la fuga delle persone presenti nell’area. Una norma antiterrorismo impone inoltre che tutto l’equipaggio delle navi venga trasportato in autobus dal pontile fino all’esterno del porto petroli.
Alcuni dati tecnici del Porto Petroli di Multedo (Genova).
A sinistra il Molo OVEST, operativo per piccole petroliere: Lunghezza =890 mt
W.1 – Lunghezza utile = 70 mt – Pescaggio 4,9 mt
W.2 – Lunghezza utile = 100 mt – Pescaggio 10,7 mt
W.3 – Lunghezza utile = 160 mt – Pescaggio 10,9 mt
W.4 – Lunghezza utile = 107 mt – Pescaggio 4,88 mt
Gli ormeggi W-1.2.3.4 sono destinati a navi con prodotti speciali, in particolare gli ormeggi W-2 e 3 sono dotati di cosiddetti PANTOGRAFI appositamente progettati per prodottiestremamentepericolosi.
Un ulteriore ormeggio e’ previsto fra le zone ALFA e BETA; esso e’ lungo 60 mt con una profondita’ di 5,3 mt.Tale ormeggio e’ riservato per carichi bituminosi e olii combustibili.
Seguono, sempre da sinistra verso destra, i pontili che possono ospitare petroliere sempre più grandi:
Il pontile ALFA (ponente e levante) Pescaggio = 11,5 mt – Lunghezza Utile= 214 mt (Lev)-242 mt (Pon)
Il pontile BETA (ponente e levante) Pescaggio =13,5 mt – Lunghezza Utile= 222 mt (Lev)-242 mt (Pon)
Il pontile GAMMA (ponente e levante) Pescaggio = 15,2 mt – Lunghezza Utile= 276 mt.(Lev)-256 mt (Pon)
Il pontile DELTA (ponente e levante) Pescaggio = 15,2 mt – Lunghezza Utile=325 mt (Lev)-330 mt (Pon)
Il Porto Petroli visto da terra. In alto, si può notare la vicinanza della pista di atterraggio dell’Aeroporto, il Canale di calma, la diga foranea e poi la rada.
Notare in questa immagine il “pantografo” che collega le linee di discarica della petroliera al pontile
L’autore di questo saggio ha avuto il grande PRIVILEGIO di essere collega del Pilota Giancarlo Cerutti (nella foto) per 25 anni. Come tutti i veri “uomini di mare”, Giancarlo non ama parlare di sé, ma soltanto del mondo del mare, di nuoto, di pesca subacquea, di navi, di amici di bordo, di Storia Navale mercantile/militare e di materie professionali. Il PILOTAGGIO per lui é sempre stato sinonimo di “missione” da compiere e, come si é visto, un “dovere” ancora più importante della sua stessa vita.
Da nessuna parte é scritto che il Pilota debba “rischiare la vita” – ma lui l’ha fatto! Non si é tirato indietro dinanzi al fuoco e alle esplosioni perché su quelle navi ed in mare tra le fiamme c’erano dei padri di famiglia. Giancarlo Cerutti é un fulgido testimone del grande passato marinaro del nostro Paese. Mi AUGURO che questo articolo sia letto e assimilato specialmente dai giovani che si accingono ad andare per mare affinché lo affrontino con lo spirito giusto, quello che ci ha testimoniato Giancarlo Cerutti: la vita di chiunque é sacra! Ma quella del “marittimo” lo é ancora di più!
La spiegazione sta nel concetto stesso di solidarietà di cui in terra si parla, ma in mare si applica. Oggi l’uomo di mare é il salvatore, il giorno dopo, lo stesso, potrebbe essere il salvato!
Eccovi in breve ciò che accadde alla fine degli anni ’90 del secolo scorso, al pilota genovese Giorgio MORESCHI.
Per un errore di manovra della Pilotina, lo sfortunato Pilota cadde in mare mentre saliva sulla biscaglina di un cargo cinese. In pochi attimi il vento ed il mare lo schiacciarono contro la murata della nave abbrivata in avanti e, quando ormai Giorgio era a pochi metri dall’elica in moto, il Comandante cinese fermò all’ultimo istante il motore e quindi il propulsore.
Giorgio Moreschi rimase incastrato nella gabbia dell’elica e dovette seguire le infinite immersioni ed emersioni della poppa del cargo sottoposta a forte beccheggio. Il salvataggio fu lungo e doloroso, ma alla fine, il Pilota riuscì miracolosamente a salvarsi. In ospedale furono necessari parecchi giorni per liberargli i polmoni dall’acqua di mare ingerita… Ma alla fine poté ritornare alla sua famiglia, proprio come i naufraghi della HAVEN...
Che dire?
– In terra quasi più nessuno crede ai miracoli…!
– In mare quasi tutti ci credono! Ma non é superstizione!
Carlo GATTI
Rapallo, venerdì 13 Ottobre 2017
LA TRAGEDIA DEL "MONTELLO" DISSOLTO IN UNA PALLA DI FUOCO
LA TRAGEDIA DEL "MONTELLO" DISSOLTO IN UNA PALLA DI FUOCO
Introduzione di Carlo GATTI
Ogni tanto mi capita di ritagliare articoli di Storia marinara che conservo in un cassetto per poi approfondire, arricchire, ricostruire e pubblicarne la rivisitazione sul nostro sito. Della tragedia del MONTELLO presi coscienza ai tempi del Nautico di Camogli quando me ne parlò un mio compagno di scuola che in quella tragedia perse un parente a lui molto caro.
Di quel tragico capitolo di storia nostrana: nave costruita a Riva Trigoso, Armatore Genovese, Equipaggio rivierasco, non ne sentii più parlare per molti decenni. A risvegliare in me quel ricordo fu una pagina ormai ingiallita del Secolo XIX, che in data 3 giugno 2011, in occasione del 70° anno della tragedia del MONTELLO, pubblicò con la firma del giornalista Roberto Pettinaroli e che conservai come una reliquia nell’attesa di recuperare i nomi dello sfortunato equipaggio.
Purtroppo, quasi subito, mi resi conto che esistevano solo notizie frammentarie sul tragico evento bellico nel quale fu colpita la nave genovese. L'articolo di Pettinaroli è quindi l'unica fonte a me nota, ed oggi ve la propongo in versione integrale perchè merita di essere letta e meditata non solo per la precisa e puntuale narrazione storica, ma anche e soprattutto per il linguaggio “marinaro” usato che solo un rivierasco di razza può permettersi. Aggiungo infine che l’atmosfera, purtroppo tragica che lo impregna, è figlia del coinvolgimento emotivo e nostalgico dell’autore di cui soltanto sul finire del racconto si può oggettivamente comprenderne tutte le motivazioni che vi lascio intuire.
Confido nei nostri Amici “conservatori” dei Musei Marinari della Riviera che forse potranno recuperare i nomi e cognomi dello SFORTUNATO EQUIPAGGIO del MONTELLO affinché possa rimanere viva la memoria dei loro nomi e cognomi non solo presso i loro discendenti, ma anche nelle pagine della storia locale della nostra Riviera.
7 dicembre 1926 - VARO DEL PIROSCAFO MONTELLO al Cantiere navale di Riva Trigoso
di Alberto PETTINAROLI
E’ UNA MATTINA già calda davanti alle coste dell’Africa settentrionale. Il sole è quasi all’orizzonte e l’aria è tiepida, come dev’essere all’inizio di giugno. Il convoglio AQUITANIA, con il suo incedere lento e sicuro, è arrivato quasi a destinazione e procede compatto, in parallelo rispetto al litorale tunisino.
E’ partito nel pomeriggio di due giorni fa da Napoli e oggi – 3 giugno – sta solcando, via canale di Sicilia, le acque del Mediterraneo meridionale, diretto a Tripoli. Come sempre in queste missioni, la formazione è stata a lungo studiata dallo stato maggiore della Marina. Il convoglio è composto dai piroscafi Aquitania, Caffaro, Nirvo, Beatrice Costa, Montello e dalla cisterna Poza Rica. A scortarli, quattro cacciatorpediniere (Aviere, Camicia Nera, Geniere, Dardo) e la torpediniera Missori. La protezione a distanza è fornita dalla VIII Divisione Navale, rappresentata dagli incrociatori ABRUZZI E GARIBALDI. Un apparato di sicurezza imponente, con un compito preciso: scortare la spedizione e tenere alla larga possibili pericoli. Il carico più vulnerabile e prezioso procede in mezzo: tra questi c’è il “MONTELLO”, stipato all’inverosimile, nelle sue stive, di benzina, munizioni ed esplosivi. Carburante e proiettili ed esplosivi. Carburante e proiettili – in tutto, 4.500 tonnellate – sono destinati alle nostre truppe impegnate nel teatro d’operazioni libico. E’ la primavera del 1941 e l’Italia intera è mobilitata nel tentativo di assecondare le ambizioni imperialiste del suo duce. In questo periodo, le sempre più pressanti richieste di rifornimento di combustibili e munizioni per il fronte libico si intensificano, se possibile, ancor più. E a giugno il valore dei materiali trasportati raggiunge una delle cifre più alte di tutta la guerra, 100 mila tonnellate, con perdite nell’ordine del 6 per cento dei quantitativi partiti.
Accade, così, che non solo i soldati abili e arruolati, ma anche i civili in grado di servire alla bisogna vengano militarizzati e spediti a far la loro parte per assicurare alla patria un posto al sole e – soprattutto – un invito al banchetto dei grandi d’Europa che si preparano a spartirsi il mondo. Anche le navi, come gli uomini, subiscono la stessa sorte. E’ un regio decreto del 13 luglio 1939 a permetterlo e in base a questa legge cambia lo status giuridico delle unità navali, che da navigli mercantili si trasformano in unità belliche. Il “Montello” non costituisce un’eccezione. Viene requisito dal ministero della Marina e militarizzato con tutto il suo equipaggio. Il piroscafo è stato costruito a Riva Trigoso e varato il 17 dicembre 1926 su ordine della compagnia di navigazione “Alta Italia” di Genova (poi diventerà Nai) la società armatrice. Il Montello non è una nave attrezzata per operazioni belliche: è solo un mercantile. Lungo 116 metri, largo 16,6 nel punto massimo, alto al ponte di coperta 8,26, ha una stazza di 6.117. Prima dell’entrata in guerra dell’Italia è sempre stato utilizzato per movimentare merci da e per il porto di Genova, sulle rotte del Mediterraneo.
E anche in seguito, dopo la sua militarizzazione, ha fatto la spola tra le sponde del grande mare per trasferire derrate alimentari e apparecchiature a chi combatteva sul “bel suol” africano. Ma questa volta è diverso. Stavolta non si tratta di un viaggio come gli altri: la plancia della nave è satura di liquido altamente infiammabile ed esplosivi e tutti e 33 gli uomini che il piroscafo ha imbarcato per questa missione sono perfettamente consapevoli che la spedizione è ad altissimo rischio. Per questo il piroscafo ha una scorta così robusta, anche se le misure di sicurezza rischiano di attirare il nemico. Non si è faticato, comunque, a mettere insieme l’equipaggio da imbarcare: c’è la guerra e ci sono madri, mogli e figli, a casa, che aspettano lo stipendio per tirare avanti. Quando si ha chiara la percezione del pericolo che si corre, ogni minuto “pesa” come un’ora e ogni ora come un giorno. Ma adesso, a bordo, la tensione inizia a stemperarsi. La costa tunisina è in vista già da tempo e il secondo di coperta ha appena dato l’ordine all’equipaggio di sfilare i giubbotti di salvataggio.
“Nostromo, dove ci troviamo esattamente?”. “Secche di Kerkennah”. Tripoli, il porto, la salvezza ormai sono lì, a portata di mano. Un gabbiano in volo radente va a posarsi sul castello di prua. Un marinaio lo osserva e scruta l’orizzonte. Sta pensando a casa. Grazie Signore, forse è davvero finita, forse l’abbiamo fatta. Intanto il suo sguardo abbraccia Kerkennah (Cercara, in italiano), un gruppo di isole pianeggianti – l’altitudine massima è 12 metri – fra le Pelagie e la costa orientale tunisina, davanti a Sfax, abitate in origine da popolazioni libico-berbere. Proprio un bel posto per vivere. Quel marinaio non sa, non può sapere che un ricognitore inglese ha avvistato il convoglio nelle ore antimeridiane a sud di Pantelleria e ha allertato una squadriglia di cinque bombardieri che, nel frattempo, si è già alzata in volo da Malta. La squadriglia avvista il convoglio intorno alle 14 grazie anche alla bassa velocità (8 nodi) dei piroscafi. In un primo momento gli aerei alleati si tengono a distanza, perché sopra il convoglio incrociano due Cr-42. Alle 14.30 gli apparecchi da caccia si allontanano lasciando nel cielo solo un Cant Z501 che segue a prora le navi in ricognizione antisommergibile. Alle 14.54 gli aerei inglesi entrano in azione. Vengono avvistati a una distanza di circa 4 mila metri, a dritta, poco lontani dalla direzione del sole. Sono cinque, in formazione a triangolo e volano bassissimi, a una quota di circa 50 metri sul mare. Il comandante della flottiglia di scorta al convoglio - che si trova in latitudine 35° 25’ 30” Nord, longitudine 11° 57’ 30” Est – dà l’allarme e chiede l’intervento degli aerei da caccia, mentre tutte le unità e i piroscafi aprono il fuoco con le mitragliere. Ma il loro tiro è difficoltoso perché gli apparecchi arrivano controsole e volando a una quota così bassa, sono seminascosti dagli scafi delle unità navali. Un rombo di motori e gli aerei piombano sulla verticale dei piroscafi. Sganciano il loro carico di morte e un attimo si scatena l’inferno. Il “MONTELLO” è centrato in pieno da una bomba. Terrificante la testimonianza di un guardiamarina imbarcato sulla Missori, una delle cinque torpediniere di scorta:
“Uno scoppio terribile, un’enorme fiammata e il “MONTELLO” è scomparso in una palla di fuoco. Una visione che rivedremo poi nel fungo dell’atomica a Hiroshima e Nagasaki. L’esplosione improvvisa delle munizioni di cui era carica la nave è stata così violenta da causare la caduta di uno degli aerei inglesi, risucchiato dal vortice di calore, e di una miriade di schegge di ogni forma e dimensione che hanno seppellite – colpendole – le navi del convoglio. Tutti siamo rimasti attoniti e sconvolti: la nave è sparita in meno di dieci secondi, letteralmente dissolta in aria. E con la nave tutto il povero equipaggio”.
Storditi da quanto è appena avvenuto, i marinai della torpediniera trovano comunque il modo di ripescare e portare in salvo i due aviatori inglesi dell’apparecchio abbattuto.
Per i 33 marinai del “MONTELLO” (marittimi e militari addetti alla mitragliera) non c’è scampo. Alcuni abitano nel Tigullio. Uno di loro si è trasferito qualche anno prima con la moglie e i tre figli a Lavagna da Marciana Marina (Isola d’Elba) per essere più vicina a Genova e agli imbarchi. Al lavoro, al pane. Si chiama Guido Casabruna, ha 37 anni, è fuochista addetto alla caldaia a carbone del “Montello”.
Guido Casabruna era mio nonno: il nonno che non ho mai conosciuto, il nonno che si è dissolto in una palla di fuoco, il nonno che si è fatto sole sopra le secche di Kerkennah. Oggi, settant’anni dopo quel giorno, il fiore che idealmente le famiglie dei 33 uomini del “Montello” affideranno al mare, perché le onde lo cullino dolcemente fino a Kerkennah, è il fiore del ricordo, che è più forte del tempo e dello spazio. Della guerra, della morte. Il ricordo è il messaggio in bottiglia destinato ai 33 uomini del “Montello”, mandati a morire in acque lontane per un assurdo sogno di conquista. Dice semplicemente no, nessuno di voi è stato dimenticato.
pettinaroli@il secoloXIX.it
IL SECOLO XIX
Venerdì 3 giugno 2011
Roberto Pettinaroli è nato a Lavagna (Genova) il 16 luglio 1962. Sposato, una figlia, è giornalista professionista dal 1988. A 16 anni ha iniziato a collaborare con il quotidiano genovese “Il Lavoro”. Nel 1982 è passato al “Secolo XIX” di Genova, della cui redazione di Chiavari è stato per 13 anni (dal 1992 al 2005) vice responsabile. Attualmente lavora nella redazione genovese come caposervizio dello staff di Cronaca.
ALBUM FOTOGRAFICO
A cura di Carlo Gatti
IL “MONTELLO” sullo scalo del cantiere di Riva Trigoso.
(Archivio Carlo Gatti)
La cartina mostra una rotta tipica dei convogli italiani destinati in Tunisia. In essa viene mostrata la posizione di KERKENNAH
Incrociatore RN GARIBALDI
FIAT C.R.42 Falco
CANT Z 501
Cacciatorpediniere AVIERE – CAMICIA NERA – GENIERE
Classe Soldati 1° serie
Cacciatorpediniere DARDO
ROBERTO PETTINAROLI è nato a Lavagna (Genova) il 16 luglio 1962. Sposato, una figlia, è giornalista professionista dal 1988. A 16 anni ha iniziato a collaborare con il quotidiano genovese “Il Lavoro”. Nel 1982 è passato al “Secolo XIX” di Genova, della cui redazione di Chiavari è stato per 13 anni (dal 1992 al 2005) vice responsabile. Attualmente lavora nella redazione genovese come caposervizio dello staff di Cronaca.
A cura di Carlo GATTI
Rapallo, martedì 5 Aprile 2022
IL VIAGGIO DELLA R.M.S. LACONIA VERSO L'INFERNO
IL VIAGGIO DELLA R.M.S. LACONIA VERSO L’INFERNO
UN PO’ DI STORIA
IL 1942 – L’ANNO DELLA SVOLTA
Sul fronte russo - Il quarto anno di guerra fu quello decisivo; le potenze dell’Asse erano come un proiettile lanciato che compie la sua parabola ascendente, rallenta e inizia la parabola discendente, deflagra e finisce la sua corsa.
L’offensiva tedesca arrestata dall’inverno riprese l’8 maggio con una serie di poderosi colpi: furono occupate Sebastopoli, Voronesc, Rostov e fu raggiunta (ma non conquistata) Stalingrado. Ma erano gli ultimi sforzi: l’esercito sovietico, riavutosi dai tremendi colpi iniziali, preparava la sua riscossa.
Sul fronte africano
Gli Italo-Tedeschi il 27 maggio partirono all’attacco e dopo tre mesi raggiunsero El Alamein, a 100 chilometri da Alessandria d’Egitto. Questo fu il punto massimo raggiunto dall’avanzata delle forze dell’Asse.
Il 23 ottobre l’ottava armata inglese scatenò la controffensiva: superiore per uomini e armi, essa riuscì a sfondare dopo dieci giorni il fronte italo-tedesco. Entro l’anno, tutta la Libia era in mano degli Inglesi.
El Alamein, un nome che riporta la mente a due importanti battaglie.
La prima è datata:
1 luglio–27 luglio 1942
la seconda:
23 ottobre–4 novembre 1942.
Nella prima battaglia di El Alamein. Gli alleati fanno molti prigionieri dell’ASSE che vanno portati altrove.
Da questa situazione nasce la tragica storia della LACONIA.
1800 prigionieri italiani pagarono il prezzo più alto
QUEL DISASTRO NAVALE FU NASCOSTO PER MOLTISSIMI ANNI
Per ragioni di opportunità? Non è stato mai chiarito! Ma sappiamo che a guerra finita cambiarono i rapporti geo-politici internazionali: chi era nemico diventò amico e viceversa, per cui certi “massacri” terrestri e navali furono chiusi a lungo negli armadi della vergogna …
Armadio della vergogna è un’espressione del giornalismo italiano usata per la prima volta dal cronista Franco Giustolisi in alcune inchieste per il settimanale l’ESPRESSO.
Essa fa riferimento a un armadio rinvenuto nel 1994 in un locale di Palazzo Cesi-Gaddi in via degli Acquasparta nella città di Roma, nel quale erano contenuti fascicoli d’inchiesta riguardanti il periodo della Seconda Guerra mondiale. Si trattava di 695 dossier e un Registro Generale riportante 2.274 notizie di reato, raccolte dalla Procura generale del Tribunale supremo militare, relative a CRIMINI DI GUERRA commessi sul territorio italiano durante la Campagna d’Italia (1943-1945) dalle truppe nazifasciste – MA NON SOLO!
Bur Tewfik adiacente al porto di Suez-In basso nella cartina
Nel luglio 1942 la nave LACONIA, salpando da Port Tewfik, adiacente al porto di Suez, iniziò un viaggio per rimpatriare in Inghilterra: 463 ufficiali e uomini dell’equipaggio, 268 soldati britannici in qualità di passeggeri, 103 soldati polacchi destinati al servizio di guardia e 80 tra donne e bambini.
Nel frattempo, mediante zattere erano stati fatti convergere a Port Tewfik 1.800 prigionieri italiani, reduci dalla battaglia di El-Alamein, che furono imbarcati sulla LACONIA e stipati nelle stive, di dimensioni insufficienti in quanto potevano contenere solamente la metà dei prigionieri bloccati da sbarre stile prigione all’interno del ventre della nave, con razioni minime di cibo e acqua e sorvegliati dai carcerieri polacchi.
La cartina mostra la posizione del siluramento della LACONIA
La nave fece tappa nei porti di Aden, Mombasa, Durban e Città del Capo, da dove, invece che proseguire per l’Inghilterra fece rotta per l’Atlantico, allontanandosi dalle coste africane dove erano presenti numerosi sommergibili nemici in servizio di pattugliamento.
Nella notte del 12 settembre 1942 la Laconia navigava a luci spente nell’oscurità seguendo una rotta a zig-zag per evitare attacchi di sommergibili.
Alle ore 20,10 – 130 miglia a nord-nord est dall’Isola di Ascensione, la nave venne colpita a dritta da un siluro lanciato dal sottomarino tedesco U-BOOTE 156. L’esplosione interessò la stiva dove erano presenti molti prigionieri italiani.
Dobbiamo subito dire che durante le fasi dell’affondamento, le guardie polacche chiusero tutti i boccaporti delle stive dove erano tenuti prigionieri gli Italiani: molti di loro morirono affogati nel ventre d’acciaio della nave. Alcuni dei sopravvissuti, inoltre, affermeranno che i Polacchi di guardia, pur di non fare fuggire i prigionieri, fecero uso delle loro armi in dotazione e aprirono il fuoco.
Per la verità sono parecchi i siti trovati sul web che riportano queste orribili testimonianze e ne segnaleremo alcuni.
La Laconia affondò di poppa innalzando la prua quasi in verticale, come mostra l’impressione pittorica riportata sotto. I naufraghi in acqua e sulle scialuppe si trovarono a dover fronteggiare gli squali, in mare aperto in pieno Atlantico, con poche probabilità di sopravvivenza.
L’affondamento del Laconia. Ecco dunque la ricostruzione sommaria della triste vicenda.
La notte del 12 settembre del 1942, nei pressi dell’isola di Ascensione un sottomarino tedesco, l’U-156 al comando del tenente di vascello Werner Hartenstein, inquadrò e colpì la Laconia, un transatlantico varato nel 1922 da circa 20.000 tonnellate convertito dagli inglesi in mercantile armato per il trasporto delle truppe (v. disegno più sotto).
Il sommergibile tedesco emerse ed il suo comandante si accorse che tra i naufraghi c’erano numerosi soldati alleati italiani. Appresa la composizione dei passeggeri informò immediatamente il Comando navale tedesco. Il viceammiraglio Dönitz acconsentì al salvataggio dei naufraghi, ordinando allo stesso tempo ad altre unità navali, tedesche ed italiane, di far rotta verso il luogo del disastro.
Dai primi racconti dei naufraghi italiani risultò subito una realtà inquietante, che fu annotata nel giornale di bordo del comandante Hartenstein: «00 h 7722 – SO. 3. 4. Visibilità media. Mare calmo. Cielo molto nuvoloso. Secondo le informazioni degli italiani, gli inglesi, dopo esser stati silurati, hanno chiuso le stive dove si trovavano i prigionieri. Hanno respinto con armi coloro che tentavano di raggiungere le lance di salvataggio…».
In sostanza le guardie polacche avevano ricevuto l’ordine di lasciare i 1800 prigionieri di guerra italiani chiusi nelle stive, condannati di fatto ad una morte orribile per affogamento. Le testimonianze su quei tragici momenti apparivano agghiaccianti, qualcuno dei prigionieri pare avesse tentato addirittura di suicidarsi battendo la testa contro le pareti del lo scafo. Con la forza della disperazione i reduci del deserto si erano scagliati contro i cancelli sbarrati, davanti alle guardie che non esitavano a respingerli a colpi di baionetta o a sparare a bruciapelo. L’orrore era poi proseguito sul ponte della nave, dove si era sparato sugli italiani che cercavano posto nelle scialuppe e ad alcuni erano anche stati recisi i polsi affinché non potessero più arrampicarsi.
L’emersione del sommergibile aveva posto fine alla barbarie, ma si è potuto calcolare che ben oltre un migliaio di italiani fossero già morti direttamente nelle stive e in quelle prime ore disperate.
Capitano di Vascello Werner Hartenstein era al comando dell’U-Boote 156
Le operazioni di salvataggio, che durarono alcuni giorni, consentirono al comandante Hartenstein di salvare sul suo, e sugli altri U-Boote, centinaia di naufraghi, in attesa dell’arrivo di una nave francese di soccorso, un incrociatore della classe Gloire partito da Dakar.
Il comandante dell’U-156
FAMIGLIA CRISTIANA ha pubblicato:
“L’affondamento del Laconia”, film Tv in onda domenica 2 ottobre alle 21.30 su Canale 5, racconta un evento realmente accaduto ma mai approfondito, perché il Governo italiano del dopoguerra non chiese spiegazioni. Dodici settembre 1942, Oceano Atlantico. Il transatlantico Laconia naviga tranquillo al largo delle coste della Sierra Leone: trasporta principalmente civili britannici e militari inglesi e polacchi, ma nella stiva ci sono oltre 1.800 prigionieri italiani. Sopravvivere in circa mezzo metro quadrato di spazio è dura: la situazione precipita quando l’imbarcazione viene colpita da tre siluri. A lanciarli, per errore, un sottomarino tedesco: la Laconia era stato scambiato per una nave da guerra. Le falle che si aprono nella chiglia trasformano la stiva in una trappola mortale, mentre la spinta disperata degli italiani nella stiva serve ad abbattere le sbarre di una sola delle tre gabbie in cui sono rinchiusi.
Mentre in superficie i tedeschi si adoperano in un’operazione di salvataggio dell’equipaggio, circa seicento prigionieri superstiti, guidati dal tenente Vincenzo Di Giovanni (Ludovico Fremont), provano a risalire: ma ad attenderli trovano i fucili dei soldati polacchi rimasti a bordo. Nonostante le avversità, gli italiani riescono a raggiungere il ponte prima che la Laconia affondi, ma non trovano più scialuppe disponibili. Il film, grazie alle testimonianze dei sopravvissuti e di alcuni militari inglesi e tedeschi, racconta una tragedia che poteva, se non altro, essere contenuta nelle proporzioni. I primi naufraghi italiani furono portati in salvo il 16 settembre: sopravvissero solo 400 uomini, molti morirono sbranati dagli squali”.
B TERRITORI 8 febbraio 2017 – ha pubblicato:
Si è spento il reduce Nino - Era l’ultimo della Laconia
Nino era l’ultimo superstite dell’affondamento del transatlantico «Laconia», un tragico fatto che racchiude in sé tutte le contraddizioni, il dolore e l’orrore della guerra.
Da quel naufragio sopravvissero solo 380 dei 1840 italiani imbarcati come prigionieri sulla nave inglese, silurata il 12 settembre 1942 da un sommergibile tedesco.
Il figlio Gianfranco 68enne ex vigile in pensione, abita invece a Gardone Riviera ed è l’unico ad aver raccolto nel corso degli anni qualche scarna testimonianza.
Per un racconto completo, anche il figlio dovette attendere l’ottobre del 2011, quando Canale 5 trasmise in un’unica serata la miniserie cinematografica ispirata da dall’evento storico: «Rimase a guardare in silenzio – ricorda Gianfranco – ma non fu soddisfatto perché secondo lui il racconto era troppo romanzato. Poi raccontò».
Giovanni Bigoloni apparteneva al 7° reggimento bersaglieri e dopo la prima battaglia di El Alamein venne fatto prigioniero dagli inglesi. Condotto al campo di prigionia di Suez, vi rimase fino al 29 luglio e poi fu imbarcato sulla Laconia, insieme a 463 marinai dell’equipaggio, 286 militari inglesi, 1840 prigionieri di guerra italiani, 103 guardie polacche». Dopo 45 giorni di navigazione, nella notte del 12 settembre, due siluri lanciati dal sommergibile tedesco U-156 affondarono la nave, in pieno oceano atlantico, al largo dell’Africa occidentale.
«IL PAPÀ si legò a un salvagente e rimase in acqua due giorni e mezzo. Fu poi raccolto con altri pochi naufraghi sul sommergibile Cappellini, della Regia Marina italiana. Sbarcato dopo un mese a Dakar, venne in seguito smistato a combattere in Jugoslavia e dopo l’armistizio tornò a casa con mezzi di fortuna».
Giovanni Bigoloni trovò poi lavoro a Roè facendo come macellaio allo spaccio del cotonificio «De Angeli Frua» e poi, fino alla pensione, intraprese con un piccolo autocarro l’attività di trasportatore. Adesso, Giovanni riposa accanto alla moglie Angela nel cimitero di Salò. L.SCA.
Scialuppa di salvataggio affiancata all’U-156
Werner Hartenstein
La tragedia sembrava giunta alla fine, ma in realtà le sorprese non erano finite.
In quelle difficili condizioni, il 16 settembre, alle ore 11,25, fu avvistato un bombardiere americano del modello B-24 Liberator, comandato dal tenente pilota James D. Harden. Dall’aereo si potevano osservare i sommergibili e vedere sopra coperta, come da convenzione internazionale, i teli bianchi con la croce rossa, indicanti prigionieri a bordo. Di più: Hartenstein chiese ad uno degli ufficiali inglesi che si trovavano sul suo U-Boot di trasmettere – in inglese – all’aereo il seguente messaggio: «Qui ufficiale Raf a bordo del sommergibile tedesco. Ci sono i naufraghi della Laconia, soldati, civili, donne e bambini».
Il Liberator non rispose e si allontanò. Il tenente pilota Harden telegrafò però al suo punto di appoggio che si trovava sull’isola di Asuncion, da dove il comandante in capo, il colonnello Robert C. Richardson III, impartì l’ordine chiaro «Sink sub».
Il Liberator tornò alle 12h e 32m per bombardare i sommergibili. Caddero cinque bombe, di cui una centrò una scialuppa ed una colpì l’U-Boot causando avarie agli accumulatori ed al periscopio. Hartenstein a quel punto fece tagliare le cime con le scialuppe e si immerse.
I superstiti (700 inglesi, 373 italiani e 72 polacchi) furono poi presi a bordo dalla nave francese di soccorso e giunsero a Dakar il 27 settembre.
Dönitz diventò ammiraglio alla fine di quell’estate e dispose che i sommergibili non avrebbero più raccolto naufraghi delle navi affondate e questo fu uno dei capi di imputazione sulla sua testa al processo di Norimberga, il 9 maggio 1946. Dönitz, che fu poi condannato a 10 anni di prigione, si difese proprio citando il bombardamento dei sommergibili dopo l’affondamento del Laconia.
Dei 1800 italiani, circa 1400 morirono annegati, in gran parte intrappolati nella stiva della nave. Fra essi anche il nostro compaesano, il filese ventinovenne Felloni Selvino.
Una tragedia di guerra, la guerra come tragedia. Di questa vicenda si è parlato con parsimonia nel dopoguerra e ben pochi si sono occupati di quei poveri morti. Per gli annegati della Laconia, dunque, c’è sempre stato solo il dolore privato delle famiglie e qualche sommesso quanto rispettoso ricordo, come questo modesto scritto, a tanti anni da quei fatti. Poche, e poco autorevoli le ammissioni di colpa da parte degli anglo americani che, a quanto si legge, hanno sempre per lo più ignorato, nel dopoguerra, l’avvenimento.
E’, quella della Laconia, comunque la si interpreti, una pagina ben poco onorevole, ma è anche uno dei tanti misfatti di una guerra insensata, in cui ci portò colpevolmente un regime autoritario e liberticida, responsabile di aver arrecato all’Italia, oltre ai tanti lutti famigliari, una rovina morale e materiale dalla quale ci si è potuti sollevare soltanto con grande sacrificio ed unità di popolo.
Sia allora questo piccolo ricordo del filese Selvino, disperso coi suoi tanti compagni all’altra parte del mondo, ingoiato dall’Oceano al largo dell’Africa nella più sconvolgente delle tragedie, un monito e una preghiera contro la pazzia della guerra, contro l’odio insensato ed il disprezzo per la vita, quasi sempre fomentato dal nazionalismo più becero, e sia un accorato appello contro quella violenza, prepotenza e sopraffazione che possono fare dell’uomo, ancora
SEGUONO I LINK DI ALTRE TESTATE E SITI STORICI
MADRE RUSSIA – Luca D’Agostini 28 febbraio 2020
MILES FORUM
https://miles.forumcommunity.net/?t=58503500&st=15
http://wernerhartenstein.tripod.com/italiano01.htm
Centro Studi La Runa – MOZZARE LE MANI AI NAUFRAGHI Da leggere
https://www.centrostudilaruna.it/mozzare-le-mani-ai-naufraghi.html
NOTE TECNICHE E STORICHE DELLA NAVE RMS LACONIA
Il transatlantico inglese RMS Laconia fu varato nel 1921 ed acquistato dalla Cunard Line. Fu la seconda nave di questa famosa Compagnia Line con questo nome: la precedente fu un altro transatlantico varato nel 1911 ed affondato durante la Prima guerra mondiale, nel 1917. Analogamente al suo predecessore, il Laconia fu affondato nella notte del 12 settembre 1942 da un siluro lanciato dall’U-Boot U-156, che diede poi luogo al salvataggio dei passeggeri e dell’equipaggio con un’eroica azione condotta dal Capitano di vascello Warner Hartenstein. Per dare supporto nel salvataggio venne fatto intervenire anche un altro U-Boot.
Caratteristiche tecniche La Laconia fu costruito dai cantieri Swan, Hunter & Wigham Richardson a Tyne and Wear. Varato il 9 aprile 1921, il transatlantico venne completato nel gennaio 1922. L’apparato propulsivo consisteva in sei turbine a vapore con doppio riduttore costruite dalla Wallsend Slipway Co Ltd di Newcastle upon Tyne, che muovevano due eliche. Oltre ai locali per i passeggeri, la nave era dotata di sei celle frigorifere per una capienza totale di 15.307.
Codice: KLWT
Primi anni di servizio - Immatricolata nella Marina Mercantile inglese con il numero 145925 ed il Laconia fece servizio anche per la Royal Mail, come testimonia la corona dorata presente nel Crest della nave. Fu stabilito come porto di residenza Liverpool.
Il Laconia salpò per la crociera inaugurale il 22 maggio 1922 sulla rotta Southampton-New York. Nel gennaio 1923 ebbe inizio la sua prima crociera internazionale che durò 130 giorni con 22 porti di attracco. Nel 1934 il suo codice in lettere venne cambiato in GJCD. Il 24 settembre dello stesso anno, a causa della fitta nebbia, la nave ebbe una collisione con la nave cargo americana Pan Royal al largo delle coste degli Stati Uniti, mentre era in navigazione da Boston per New York. Entrambe le navi furono gravemente danneggiate ma riuscirono entrambe a salvarsi. Il Laconia proseguì per New York dove venne riparata. In seguito riprese la navigazione nel 1935.
Trasformazione in cargo incrociatore Nel 1939 la nave venne requisita dalla Royal Navy e obici da 762 mm. Dopo le prove in mare eseguite nelle acque dell’Isola di Wight, la Laconia imbarcò un carico di lingotti d’oro e salpò, il 23 gennaio dello stesso anno, con destinazione Portland, Maine e Halifax, in Nuova Scozia. I mesi seguenti la nave fu impegnata in servizi di scorta ai convogli diretti alle Bermuda. Il 9 giugno la nave fu vittima di un incagliamento nel bacino del Bedford, ad Halifax, che causò gravi danni. Mandata in riparazione, tornò in navigazione a fine luglio. Nell’ottobre 1940 la nave fu sottoposta ad altri lavori con lo smantellamento delle zone destinate ai passeggeri; alcuni locali, svuotati dal mobilio, vennero riempiti di fusti di olio per aiutare la spinta di galleggiamento in caso di siluramento. Nel giugno 1941 la Laconia venne ricoverato a Saint John nel New Brunswick, in Canada, per lavori di ripristino. Tornato a Liverpool, venne da quel momento utilizzato come nave trasporto truppe, sino al suo affondamento. Il 12 settembre 1941 la nave attraccò a Bidston Dock, nel Birkenhead, e fu presa in consegna dalla società Cammell Laird and Company per essere convertita in mercantile armato. Nei primi giorni del 1942 fu completata a conversione e per i successivi sei mesi la nave fece numerose traversate per il Medio Oriente.
Tiriamo le somme con:
SOCRATE
“Tutte le guerre sono combattute per denaro.”
JEAN-PAUL SARTRE
“Quando i ricchi si fanno la guerra tra loro, sono i poveri a morire.”
EZRA POUND
“Il vero guaio della guerra moderna è che non dà a nessuno l’opportunità di uccidere la gente giusta.”
Carlo GATTI
Rapallo, giovedì 3 Febbraio 2022
IL DISASTRO DELLA COSTA CONCORDIA IN 18 IMMAGINI
A DIECI ANNI DALLA TRAGEDIA
“SIAMO ANCORA SENZA PAROLE”
IL DISASTRO DELLA COSTA CONCORDIA IN 18 IMMAGINI
Itinerario della nave
L'ultima rotta della Costa Concordia
Il profilo del fondale marino al largo della costa dell'isola con la posizione del relitto e il punto approssimativo di impatto.
Le due zattere rimaste bloccate a prora sinistra. Sono visibili soccorritori impegnati nel salvataggio di persone rimaste intrappolate.
Naufraghi della Costa Concordia in attesa di lasciare l'Isola a bordo del traghetto Isola del Giglio.
La zattera rimasta bloccata a poppa sinistra e la biscaglina usata per l'evacuazione dei passeggeri rimasti a poppa, in una foto dei giorni immediatamente successivi al disastro.
Ricerche sul relitto nelle prime ore del 14 gennaio.
Naufraghi della Costa Concordia sbarcati a Porto Santo Stefano.
Lance e zattere della Costa Concordia a Giglio Porto.
Vista di prora del relitto.
Il pontone Meloria, accostato alla Costa Concordia, porta le attrezzature necessarie allo svuotamento dei serbatoi della nave.
Il relitto con i cassoni montati, nel luglio 2013.
Le sommità delle torrette sostengono i martinetti idraulici (strand jacks) necessari a tirare i cavi di acciaio per ribaltare e rimettere in asse il relitto.
Rotazione conclusa.
Il lato rimasto sotto il livello del mare visibilmente danneggiato e corroso dalla salsedine. Si notano due rientranze prodotte dallo schiacciamento dei balconi contro il fondale marino irregolare.
Vista frontale della Costa Concordia durante il rigalleggiamento.
La Costa Concordia mentre viene ormeggiata nel porto di Pra', vista dalla passeggiata di Genova/Pegli
Per Non Dimenticare
Riporto qui di seguito gli articoli del Sito di Mare Nostrum Rapallo rivolti in quei giorni alla difesa del nostro carissimo Amico e socio Com.te Mario Terenzio Palombo che fu “gratuitamente” coinvolto in quella tragica storia che gli procurò solo DOLORE e GRANDE TENSIONE EMOTIVA. Ero e sono nel dubbio se “riaprire quella ferita”, ma sono sicuro che i nostri Soci, Amici e Followers abbiano la sensibilità ed anche il DOVERE di ricordare quella immane OFFESA alla nostra MARINERIA nel ricordo, soprattutto di quelle 32 vittime innocenti e allo SHOCK, provato e si pensa mai superato, dalle migliaia di superstiti del naufragio.
Va pure ricordato che la “Battaglia di Mare Nostrum Rapallo”, condotta al fianco del suo prestigioso socio, fu condotta anche sui MEDIA dell’Isola del Giglio e non solo.
L’IRRAZIONALE MANOVRA DELLA COSTA CONCORDIA
“ IN MARE NON CI SONO TAVERNE “
https://www.marenostrumrapallo.it/taverne/
MARIO TERENZIO PALOMBO
Un COMANDANTE NELLA “TEMPESTA MEDIATICA”
https://www.marenostrumrapallo.it/palombo-2/
Il destino ha voluto che l’ultimo “delicato” atto della vita del relitto CONCORDIA sia stato compiuto da un nostro socio: Com.te John Gatti il quale, in veste di Capo Pilota del Porto di Genova, ha avuto il compito, brillantemente riuscito, di trasferirla dal Bacino di Voltri al Bacino di carenaggio di Genova per essere demolita.
COSTA CONCORDIA - UN INCUBO DA RICORDARE....
https://www.marenostrumrapallo.it/costa-concordia/
Carlo GATTI
Rapallo 19 Gennaio 2022
LE VERITA' CHE MOLTI NON SANNO. LA TRAGICA NOTTE DELLA COSTA CONCORDIA. COM.TE M.T.PALOMBO
Comandante Mario Terenzio PALOMBO
13 Gennaio 2012
NAUFRAGIO DELLA COSTA CONCORDIA
“Le verità che molti non sanno. La tragica notte che ha segnato la mia vita”!
Premessa:
Dopo la tragedia della Costa Concordia, parlando con molte persone dell’argomento, tutte erano convinte che io fossi stato il comandante che aveva preceduto Schettino al comando di questa bella nave da crociera.
Non è così! Io sbarcai, per infarto, il giorno 11 settembre 2006 dalla Costa Fortuna, in navigazione da Savona a Napoli. La Costa Concordia era stata inaugurata ed entrata in servizio proprio lo stesso anno 2006.
COSTA CONCORDIA
Durante la notte dell’11 settembre 2006 avvertii i primi disturbi al cuore, avvisai l’ufficiale di guardia sul Ponte di Comando, affidai subito il comando al valido Comandante in seconda Antonio Arcoleo, che procedette a tutta forza verso il porto. Il bravo medico di bordo, nel frattempo, provvedeva a farmi assumere alcuni farmaci per cercare di stabilizzarmi. Informai la Società del mio grave problema e all’arrivo della nave mandarono subito a bordo un cardiologo che, dopo la visita, decise immediatamente di ospedalizzarmi, con ambulanza, per sottopormi ad intervento di angio-plastica.
Il Comandante Mario Terenzio Palombo con la moglie, signora Giovanna. Sullo sfondo il mitico CONTE DI SAVOIA.
C’era anche mia moglie a bordo, che era salita a Savona, la vedevo, vicino a me piangente e molto preoccupata. Cercavo di tranquillizzarla dicendole che sarebbe andato tutto bene. Lasciare la nave in quel modo mi provocava una morsa al cuore terribile. Mi salutarono con tre fischi lunghi di sirena. L’intervento riuscì perfettamente, mi sentivo pian, piano in forze, e dopo una settimana di degenza in ospedale rientrammo a Grosseto.
Dopo qualche mese di convalescenza ero completamente ristabilito e non avevo ancora deciso se tornare a bordo o ritirarmi definitivamente. La Società aveva lasciato a me questa importante decisione. Il 19 maggio 2007, con mia moglie Giovanna, venimmo invitati al battesimo della Costa Serena. In questa occasione ebbi il piacere di incontrare il Presidente della Carnival Corporation, Micky Arison. Lo conoscevo da tempo, aveva una grande stima in me. Dopo un abbraccio commosso e caloroso mi disse seriamente queste parole:
“Captain, capisco il tuo stato d’animo e la tua indecisione, ma ora devi pensare solo alla tua salute alla tua famiglia. Ci mancherai molto”!
Subito pensai: in base alla mia esperienza, avrei potuto rientrare e assumere nuovamente il comando, ma mi domandavo: sarei stato in grado di affrontare qualsiasi emergenza che poteva capitarmi, come avrebbe reagito il mio cuore? Decisi quindi di ritirarmi e il 30 giugno 2007, di comune accordo con la Direzione dell’Ufficio marittimo Costa Crociere, venni cancellato dal ruolo dei Comandanti della Società. Non avrei voluto finire la mia carriera in questo modo.
Avevo quasi 65 anni, avrei avuto intenzione di continuare ancora per qualche anno, navigando solo qualche mese in estate sulle nuove costruzioni, seguire le prove in mare e rilevare i Comandanti subito dopo l’entrata in servizio delle navi. Ma avevo preso la giusta decisione!
Io credo, sicuramente, che questo fatto aveva scombinato i programmi degli imbarchi dei Comandanti e chi ne aveva tratto vantaggio fu proprio Schettino che, in seguito, venne promosso al comando. Essendo io in pensione, non interpellato in proposito e non avendo più voce in capitolo, non potei far nulla per evitare o cercare di ritardare la sua promozione.
I protagonisti di questo tragico incidente sono:
Francesco Schettino e Antonello Tievoli.
F. Schettino:
COSTA VICTORIA
Ho conosciuto Schettino il 15 novembre 2002 in occasione del suo primo imbarco con la “Costa Crociere”, in qualità di Comandante in seconda. La nave era la “Costa Victoria”, in partenza da Genova per i Caraibi. La direzione dell’ufficio marittimo ha voluto che fossi io il suo primo comandante, con lo scopo di aiutarlo ad integrarsi con il nuovo ambiente, in quanto proveniente da navi passeggeri di piccolo tonnellaggio ed essendo al suo primo imbarco con la Compagnia Costa.
Apparentemente mi era sembrato un bravo giovane, ma dopo alcuni giorni mi sono accorto, con mio disappunto, che aveva la tendenza a non dire la verità. Il rapporto tra Comandante e Comandante in Seconda deve essere basato sulla fiducia, ma questo, purtroppo, è mancato sin dall’inizio. Più passavano i giorni e più mi rendevo conto che Schettino, mentre aveva delle buone qualità professionali, proprio per i suoi problemi caratteriali, sul lavoro mentiva spudoratamente cercando sempre di scaricare la colpa delle sue dimenticanze o inadempienze sugli altri. Interrogavo anche quelli che lui indicava come colpevoli, i quali mi giuravano di non essere a conoscenza di quanto da lui asserito. I miei Ufficiali e il Nostromo mi dicevano che c’era un certo malcontento nei suoi confronti.
Dopo 3 mesi di miei continui richiami, ho riferito alla Direzione Costa questo serio problema, invitandola a farlo trasbordare su altra nave, ma la risposta è stata che dovevo essere io a completare la valutazione sino al termine del suo imbarco. Dopo varie mancanze e menzogne anche serie, chiamai Schettino e gli ordinai di comportarsi come un Comandante in seconda e non come un allievo inadempiente, sempre pronto a scagionarsi e a scaricare le colpe su altri. Al termine di ogni colloquio Schettino mi prometteva di cambiare. Comunque io, oltre a dovermi occupare della nave, dell’itinerario e dell’equipaggio, dovevo cercare di seguire quello che lui stava facendo. A un certo punto sembrava che avesse capito la lezione, e le mie serie intenzioni nei suoi confronti lo avevano un po' calmato.
All’arrivo a Genova, il 18 maggio 2003, al momento del mio sbarco, lo salutai molto freddamente, facendo trasparire tutto il mio disappunto e la mia delusione maturati nei suoi confronti nel corso dell’imbarco e pregai vivamente la Direzione del personale Costa di non assegnarlo più alle navi sotto il mio comando e consegnai la scheda di valutazione della quale riporto la parte più importante del contenuto:
“Costa Victoria, Genova, 18.05.03. Oggetto: Valutazione Com.te 2nda Francesco SCHETTINO (dal 15 nov. 2002 al 18 maggio 2003).
In questi mesi ho avuto modo di valutare attentamente le capacità professionali del Sig. F. Schettino. Posso dire che, mentre professionalmente è valido, tuttavia, ha manifestato alcune lacune relative alla gestione del Personale e Disciplina di bordo. Ho notato, sin dall’inizio, un Suo notevole impegno nel conoscere la nave e nel dedicarsi ai vari problemi tecnici e di manutenzione. Non c’è stato inizialmente con Me un buon rapporto in quanto, per orgoglio professionale o per Suoi motivi caratteriali il Sig. Schettino, in molti casi, preferiva mentirmi piuttosto che ammettere di aver sbagliato. Questo fatto, naturalmente, aveva causato una perdita della mia fiducia sino a quando, dopo il Nostro terzo serio colloquio, cominciava a capire come doveva comportarsi……omissis……...
Firmato: Comandante Mario Terenzio PALOMBO
A.Tievoli:
Conoscevo Tievoli in quanto i suoi genitori erano amici di famiglia. Egli era intenzionato ad imbarcarsi sulle navi Costa e aveva presentato domanda di assunzione inviando il suo CV. Quando venne chiamato per il colloquio gli avevo suggerito come presentarsi e di far capire, a chi lo stava interrogando, oltre alle sue esperienze professionali, anche le sue serie intenzioni di voler far parte della Costa Crociere. Il colloquio andò bene e dopo qualche mese venne imbarcato come Primo Cameriere. Dimostrate le sue capacità, dopo qualche imbarco, venne promosso Restaurant Manager. Ad ogni suo sbarco mi telefonava per salutarmi ed aggiornarmi riguardo al lavoro.
La collisione:
Ogni anno la mia famiglia si trasferisce all’Isola del Giglio, da metà giugno a metà settembre, per poi rientrare a Grosseto. La sera del 13 gennaio, intorno alle 21.35, mentre stavo guardando la TV nella mia casa di Grosseto, venivo contattato da Tievoli. Sul display del mio cellulare, apparendo un numero sconosciuto, chiesi chi fosse l’interlocutore. Mi disse che era Antonello e si trovava al traverso del Giglio. Gli risposi che cosa ci facesse lì e lui mi precisò di essere sul Ponte di Comando della “Costa Concordia” e che il comandante era intenzionato a deviare la rotta per passare vicino al Giglio.
Gli feci subito notare che a quell’ora avrebbe dovuto trovarsi in servizio in sala da pranzo e che non c’era alcun motivo di passare vicino all’isola in inverno. Mi passò al telefono Schettino, che con sfacciataggine, si permetteva di disturbarmi senza alcun motivo, ben sapendo che i nostri rapporti erano stati tutt’altro che buoni e non ci eravamo più sentiti.
Il comandante mi disse che voleva accontentare Tievoli passando ad una distanza di circa 0,3 – 0,4 miglia dall’isola e mi chiese come erano i fondali. Gli feci presente che i fondali a quella distanza erano buoni, ma anche a lui ripetevo che non c’era motivo di avvicinarsi troppo in quanto, essendo inverno, l’isola era deserta. Gli consigliai di limitarsi ad un saluto, girando al largo, ma purtroppo, non mi diede ascolto!
Dopo qualche minuto venivo chiamato da alcuni amici del Giglio, i quali mi comunicavano che c’era una nave passeggeri nelle vicinanze dello scoglio della Gabbianara e sentivano dall’ altoparlante della nave alcuni incomprensibili annunci. Facevo loro presente che si trattava della “Costa Concordia” e che se la nave era ferma probabilmente era successo qualcosa. Poco dopo venivo contattato da Tievoli che, con voce molto turbata, mi diceva di sentirsi in colpa, avendo la nave urtato contro lo scoglietto de “Le Scole”. Non sapeva se la collisione avesse interessato il timone, le eliche o la carena. Cercai di calmarlo, ma lui continuava a dire che era sul Ponte come ospite e non pensava che il comandante passasse così vicino agli scogli. Finì la concitata conversazione dicendomi che doveva correre al suo posto.
Questa notizia mi turbò molto, sentii il dovere di chiamare Ferrarini (responsabile dell’unità di crisi “Costa Crociere”), il quale mi confermò l’incidente, ma lo sentivo molto adirato nei miei confronti, soprattutto per i passaggi che non si sarebbero dovuti fare. Mi chiese il numero di cellulare del Sindaco del Giglio, per organizzare l’emergenza. Il giorno dopo, però lo stesso Ferrarini, che era corso al Giglio, si scusava con me in quanto aveva pensato che io fossi sull’isola a vedere il passaggio mentre ero a Grosseto ed ero del tutto estraneo a quanto era accaduto.
Il Comandante Mario Terenzio Palombo sulla nave “Costa Fortuna”
Passai la notte molto turbato, credevo mi venisse un altro infarto in quanto ero sbarcato il giorno 11 settembre 2006 dalla “Costa Fortuna” proprio per infarto.
Nei giorni successivi venni convocato presso la Procura di Grosseto come “persona informata sui fatti” e poi fui attaccato e denigrato senza motivo da giornalisti cinici e senza scrupoli più interessati a colpevolizzare piuttosto che accertare la verità dei fatti.
Nessuno riusciva a spiegarmi quale sarebbe stata la mia colpa e quale relazione avrebbe avuto con me questa tragedia che aveva causato 32 morti ed era stata una grave onta per la Marina Italiana, per l’immagine di una Società rispettabile e per la categoria dei Comandanti. Ho pensato ai passeggeri morti durante quella che doveva essere una vacanza e ai parenti disperati, alcuni dei quali erano in attesa del ritrovamento dei dispersi.
Per molti giorni ho avuto giornalisti sotto casa, telefonate continue e proposte di partecipazione in TV a varie trasmissioni. Non mi davo pace, non meritavo che capitasse tutto questo a me che nel corso della mia carriera avevo sempre agito con massima trasparenza e professionalità e con un grande senso di responsabilità nei confronti dei passeggeri, delle mie navi e soprattutto forte di un infinito rispetto del mare. Ho avuto un grande supporto e comprensione dai miei concittadini gigliesi che hanno alzato la voce prendendo le mie difese di fronte a bieche speculazioni giornalistiche.
Per due anni, finché la “Costa Concordia” è rimasta adagiata sullo scoglio della Gabbianara, non ho messo più piede sull’isola. Mi sentivo il cuore ferito, proprio come quella nave e come le anime di tutte le persone che in quel tragico venerdì notte avevano perso i propri cari.
Ho cominciato ad avere dei disturbi cardiaci specialmente la notte. Dagli esami risultavano essere fibrillazioni atriali parossistiche. Il disturbo mi veniva sempre più spesso e improvvisamente, prima ogni due o tre mesi, poi ogni mese e poi continuamente. Sono stato sottoposto per due volte alla cardioversione che ha eliminato il problema solo per alcuni giorni. Finalmente il giorno 8 giugno 2021 l’intervento di ablazione eseguito con successo, ha eliminato il problema e sino ad oggi non ho più avuto recidive.
Sono rimasto amareggiato e turbato dalle dichiarazioni di Schettino e di Tievoli nei miei confronti. Subito dopo l’impatto con lo scoglietto, Schettino diceva al telefono a Ferrarini, per scagionarsi: “Roberto, non mi dire niente, sono al Giglio, c’è stato il com.te Palombo, che mi ha detto passa sotto, passa sotto…”
Qualche giorno dopo, sentendo queste parole di Schettino trasmesse anche alla TV non riuscivo a calmarmi per l’amarezza e l’inquietudine che sentivo dentro di me. Che falsità! Ho letto negli atti del processo, che già a Civitavecchia Schettino adduceva, come scusa, di aver tracciato la rotta vicino al Giglio in quanto mi aveva promesso che sarebbe passato di lì per omaggiarmi. Altra menzogna!
In realtà, sicuramente, non voleva far sapere agli Ufficiali che il “passaggio” era dedicato al Restaurant Manager Tievoli. Conoscendolo posso capire che per lui mentire è una consuetudine.
Tievoli è stato veramente un vile nei miei confronti. Quando Schettino gli aveva chiesto, in prossimità dell’isola, di chiamarmi, avrebbe dovuto dirgli che io non c’ero, ma che ero a Grosseto, invece non lo ha fatto. Mi domando se, in quel momento, avesse avuto il timore che forse Schettino avrebbe rinunciato. Inoltre Tievoli, più volte, interpellato dai giornalisti, avrebbe detto vigliaccamente:
“l’inchino non era per me!”
La cosa mi aveva molto amareggiato, tanto che gli avevo fatto sapere di non chiamarmi più e di stare alla larga da me.
Ora, a distanza di dieci anni sono più sereno, ma ancora oggi quando vengo presentato da alcuni amici ad altre persone c’è sempre quello che sgarbatamente e con ironia pungente mi dice: “Ah lei è il Commodoro, quello della tragedia della Concordia”.
Certo che dopo 44 anni di vita vissuta in mare con 24 anni di comando di navi passeggeri prestigiose, non meriterei certe insinuazioni.
Mi conforta il fatto che la mia coscienza è senza macchia, i miei amici e chi mi conosce lo sanno e di questo vado fiero!
Webmaster : CARLO GATTI
Rapallo,17 Gennaio 2022
IL NAUFRAGIO DELLA NAVE PASSEGGERI INGLESE TRANSYLVANIA
Questo rimane ancora oggi l’affondamento più tragico mai avvenuto nell’Alto Tirreno. Il ritrovamento del relitto: Il 7 ottobre 2011, dopo 94 anni dall’affondamento, i sommozzatori del Centro Carabinieri Subacquei di Genova, coadiuvati dalla ditta Gaymarine di Lomazzo hanno ritrovato il relitto, al largo di Bergeggi, adagiato ad una profondità di 630 metri.
La sera del 3 maggio 1917 la nave era partita da Marsiglia, al comando di Samuell Breuell, diretta al fronte turco della Palestina. A bordo circa 3000 fanti inglesi di diversi reggimenti: ussari, Royal Engineers, Royal West Surrey, Suffolk, Royal Irish, Royal Welsh, Cheshire, Essex, fanteria leggera del Duk of Cornwalls, Royal North Lancashire ed altre famose formazioni. Inoltre 64 crocerossine della British Red Cross Society e un numeroso equipaggio. In tutto 3500 uomini. La meta era Alessandria d’Egitto, la velocità di 16 miglia.
La nave pax UK TRANSILVANIA aveva messo la prora su Genova, procedeva a 16 nodi di velocità ed era preceduta da due cacciatorpediniere Giapponesi di scorta: “Matsu” e “Sakaki” – Costruz. 1915 che appartenevano all’11a flottiglia di cacciatorpediniere della classe “Kaba”.
On May 4, the destroyers «Sakaki» and «Matsu» took part in the escort of the British ship used to transport troops, the «Transylvania» -. However, the ship was sunk, it was torpedoed by the German U-63 commanded by Otto Schulze. The Transylvania sank with 3000 people on board that were rescued by the Japanese destroyers. Only 413 people lost their lives. However, the actions of the Japanese sailors were positively evaluated by the allied command:
Il giorno dopo, il 4 maggio 1917, intorno alle 10.45 il vento di grecale spazzava la costa increspando le onde, la gente di mare del ponente stava per assistere alla più grande tragedia mai vista da quelle parti.
La nave stava procedendo a zig zag per evitare l’agguato degli U-BOOT tedeschi che il giorno prima avevano silurato il piroscafo inglese WASHINGTON.
https://portofino.it/italy/il-relitto-del-washington-a-portofino/
Sicuramente l’U-Boot tedesco, U-63. Era ancora in zona. A bordo, molti passeggeri avevano indossato il giubbotto di salvataggio.
Ma ora entriamo in cronaca diretta riassumendo e integrando la puntuali descrizioni dei seguenti siti:
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Uomini in guerra – Campionari di parole e umori: Transylvania la nave che visse due volte – Azione Mare –
Alle 11.17, mentre la Transylvania naviga sottocosta tra il promontorio di Varigotti e quello di Bergeggi, due miglia a sud di Capo Vado, viene colpita dal primo siluro lanciato, da 1.000 mt di distanza, dal sottomarino tedesco U-63. La nave è colpita sulla fiancata sinistra all’altezza della sala macchine. Alle 11,39, ventidue minuti dopo, mentre è in corso l’improvvisata opera di salvataggio, e le sirene del Transylvania lanciano ininterrottamente angoscianti richiami di soccorso, la scia di un secondo siluro, lanciato da 350 metri di distanza, si dirige verso la nave. Il Matsu retrocede a tutta forza strappando gli ormeggi che lo legano al Transylvania, che viene colpito dal siluro sulla fiancata sinistra, a prua.
Alle ore 12.20 il transatlantico, ormai agonizzante per il colpo di grazia, comincia lentamente ad affondare assistito dai due caccia, impegnati nel recupero dei naufraghi, reso molto difficile a causa del mare agitato. Alle ore 12.30, dopo un’ora e 13 minuti dal primo siluramento, la Transylvania, secondo il rapporto del comandante del sottomarino tedesco, che nel frattempo è risalito a quota periscopica, per constatare l’epilogo della sua azione e perché, allora, i sottomarini potevano navigare sott’acqua solo per un tempo limitato.
Per i testimoni oculari e la documentazione fotografica la nave cola a picco alle ore 12.35 adagiandosi su un fondale al momento ignoto, a 2 miglia al largo di Bergeggi.
Latitudine 44°14’ N., longitudine 8°30’ O. Il vapore affonda sul dritto di poppa. Per il mare mosso lo scarico della truppa fu difficile. Esso fu notevolmente disturbato dal secondo siluramento che non permise più al caccia di procedere accostato. Una gran parte della truppa annegò sicuramente.
Affondata la preda, compiuto il suo dovere militare, l’U-63 si allontana senza infierire sui caccia impegnati nella raccolta dei naufraghi: un atto di umanità –non frequente e non sempre ricambiato- nella disumanità della guerra.
La nave agonizzante tentò di dirigersi verso terra per arenarsi a Sud dell’isola di Bergeggi.
I due cacciatorpediniere di scorta iniziarono subito le operazioni di soccorso, ma la corrente marina che sale dal Tirreno e ritorna a Gibilterra, era molto forte in direzione sud-ovest e disperse i naufraghi, molti dei quali infatti vennero tratti in salvo dai pescatori al largo di Finale Ligure e soprattutto Noli.
La più grande tragedia del Mar Ligure si era quindi consumata al largo di Spotorno. Davanti alla cittadina storica di Noli (Savona) dove, ancora oggi si trova inviolato il relitto del transatlantico Transylvania di 14.000 tonnellate.
Le vittime accertate furono 414, molte di queste furono sepolte nel cimitero di Zinola, quartiere di Savona. Il relitto fu ritrovato il 7 ottobre 2011 dalla marina militare italiana dei carabinieri a 630 metri di profondità.
Molti lettori a questo punto si chiederanno: “non si potevano evitare queste stragi di uomini e mezzi vittime, peraltro, di un facile tiro al bersaglio?” - Una possibile risposta si può dare facendo alcuni passi indietro accennando alla “guerra sottomarina” di cui la Germania fece, nella I G.M., ampio uso.
UN PO’ DI STORIA
Guerra sotto i mari 1
La rotta delle navi inglesi verso est e le aree di agguato degli u-boot tedeschi
IL CORRIERE DELLA SERA scrive:
Fu una guerra micidiale alla quale le forze dell'Intesa non erano preparate: 540.000 ton. di naviglio affondate nel febbraio del 1917, 585.000 in marzo, 880.000 in aprile. Di fronte a questi successi, l’Intesa reagì anche definendo “corsari” e “pirati” i tedeschi, anche se la guerra sottomarina era la reazione al blocco navale ed economico imposto alla Germania. Anche in quell’occasione, come in altre più vicine a noi, può essere interessante osservare i metodi di propaganda, informazione o controinformazione utilizzati: c'è per esempio un'interessante copertina della Domenica del Corriere del 1915.
In essa si vede un “sommergibile tedesco che nel mar d’Irlanda affonda parecchi piroscafi inglesi accordando 10 minuti di tempo per salvarsi”. Il commento del giornale è:
“Questo è un gesto da corsari. E poiché l’intento dell’Inghilterra di affamare la Germania pare cominci a produrre effetti tangibili (le famiglie tedesche hanno ormai il pane a razione) la Germania ha dichiarato campo di guerra tutti i mari che bagnano l’Inghilterra”.
Come dire che affondare navi concedendo 10 minuti agli equipaggi per salvarsi è un atto da corsari, mentre affamare famiglie di civili è un nobile modo di condurre la guerra. Basta esserne convinti. Notiamo che alla data del giornale (Febbraio’15) l’Italia era ancora, almeno formalmente, alleata della triplice Alleanza e ancora neutrale. Da qui il tono tutto sommato soft del commento.
Per meglio comprendere la scelta delle rotte navali studiate ed impiegate in quella fase della Prima guerra mondiale, riportiamo quanto segue:
L'intensa attività degli U-Boot tedeschi nel Mediterraneo obbligò gli alleati a contromisure costose e pesanti: fino a metà del '17 la principale linea di comunicazione fra Inghilterra, Francia, Italia e le truppe alleate (=inglesi) impegnate sul fronte turco fra Salonicco (o Tessalonica) e la Palestina era via mare: da Marsiglia la rotta si dirigeva verso l'Italia, passava tra la Corsica e la Liguria, scendeva lungo le coste italiane fino al canale di Sicilia oltre il quale puntava su Alessandria (per le truppe dirette in medio oriente) o sul Pelopponeso, fino oltre Corinto da dove le truppe proseguivano via ferrovia in direzione di Salonicco. Lungo la rotta erano attese dai sommergibili in agguato (in gran parte partenti dalla principale base tedesca di Cattaro, nel Montenegro) principalmente in tre zone: fra Marsiglia e Genova, lungo tutto il tratto costiero italiano fra le isole maggiori e la costa, fra la Calabria e la Grecia. A metà del '17 le perdite fra le navi alleate erano diventate così alte che fu deciso l'abbandono della "longer sea route", la rotta marittima" lunga a favore della short, la corta: le truppe arrivavano in ferrovia (via Milano-Faenza-Rimini- Bari) fino a Taranto da dove erano imbarcate per la Grecia, con un viaggio più lento e costoso, specie in per quanto riguarda i volumi trasportati, ma più sicuro. Ma per il Transylvania era ormai troppo tardi.
U-63 – Il sottomarino che affondò la TRANSYLVANIA con due siluri
Questo sommergibile apparteneva alla Ia Flotilla Mittelmeer tedesca formata da 12 imbarcazioni operanti dalla base austriaca di Pola, nell’alto Adriatico.
Impostato nel maggio del '15 nei cantieri Germaniawerft di Kiel era stato varato l'11 marzo del 1916. Largo 6,30 metri (ma solo 4,15 lo scafo resistente) e lungo 68, dislocava 810 tonn in emersione e 1160 in immersione a pieno carico. Disponeva di motori eroganti 2200 hp in superficie e 1200 in immersione, con i quali poteva raggiungere una velocità di 16,5 nodi in emersione e 9 in immersione. Dotato di 4 tubi lanciasiluri e un cannone da 88 mm. con 276 colpi aveva un equipaggio di 36 uomini ed un'autonomia di 9170 miglia a 8 nodi in superficie e 60 miglia a 5 nodi immerso. Poteva raggiungere una profondità massima di 50 m.
Comandato dal tenente di vascello Otto Schulze dal varo al 27 agosto del '17, quando passò al comando di Heinrich Metzer, ritornò sotto la guida di Schultze dal 15 ottobre alla vigilia di Natale del '17, giorno in cui arrivò a bordo il suo ultimo comandante, Kurt Hartwig mentre Otto fu promosso 1° Ammiraglio nel Comando Sottomarini del Mediterraneo, incarico che mantenne fino all'armistizio.
Otto Scultze, il Comandante dell’U-63
IL BOTTINO DI GUERRA DELL’U-63
Era in missione già da diverse settimane, prima nelle acque del Mediterraneo orientale, poi, attraversato lo stretto di Messina, in quelle del golfo di Genova. Si era trattato di una crociera pericolosa, audace e fruttuosa: il 25 Marzo, davanti ad Alessandria, aveva affondato con siluri e cannone il vapore armato inglese Bollore, proveniente da Glascow e diretto ad Alessandria con 7000 tonn. di carbone: il capitano e il capo macchinista erano stati presi prigionieri. Il 26 tra Alessandria e Porto Said aveva fermato e fatto saltare il veliero egiziano Rahmanich di 79 ton. Dopo una digressione e una sosta di poche ore a Beirut per rifornirsi di armi e carburante, il 1 Aprile è di nuovo davanti ad Alessandria, dove affonda il vapore armato inglese Zambeli di 3.759 ton., il 4 aprile è la volta del vapore armato Margit di 2490 ton., affondato malgrado la scorta di due pescherecci armati, il 5 tocca al vapore norvegese Goldstad, in rotta verso l’Italia con 6400 ton. di grano australiano, affondato con siluri e cannonate. Nei giorni successivi il sommergibile tedesco si sposta verso lo stretto di Messina e l’Italia: il 28, nello stretto, affonda con siluro il vapore armato inglese Karonga di 4665 ton., il 28 i velieri italiani Carmelo padre (74 ton.), I due fratelli (100 ton.), Giuseppina G. (100 ton.), Natale B. (55 ton.), S. Francesco da Paola (41 ton.), Giuseppe Padre (102 ton.): una vera strage senza sprecare un siluro, solo col fuoco di artiglieria o fatti saltare. Il 3 maggio, infine (e siamo al giorno precedente il colpo grosso), l’ultima preda, il già ricordato vapore inglese Washington, solo e senza scorta.
Dopo la Transylvania toccherà ancora al Talawa (3834 ton.), al Crownof (3391 ton.) e, ormai sulla strada del ritorno, al Volga (4404 ton.), tutti vapori armati colpiti e fatti arenare sulla costa. Come si vede una crociera micidiale.
R.M.S.TRANSYLVANIA
ULTIMO CAPITOLO
Nel 2011 un nuovo capitolo della tragedia viene scritto con il ritrovamento del relitto da parte dei Carabinieri del Centro Subacquei di Genova con il fondamentale aiuto dell’Ing. Guido Gay, creatore del robot Pluto Palla che ha permesso di trovare il punto dove riposa la Transylvania e realizzare le suggestive immagini e video che potete visualizzare sul sito www.affondamentodeltransylvania.it.
Nel 2016, grazie all’impulso dell’amministrazione Comunale di Noli, è stato creato il Comitato per le Celebrazioni del Centenario dell’Affondamento della Transylvania, presieduto da Carlo Gambetta, ex Sindaco di Noli, che si è prodigato per far si che questo evento venga degnamente ricordato.
“E’ una storia che viene raccontata di generazione in generazione, una vicenda che ormai ci appartiene – racconta Vaccarezza – l’entusiasmo del sindaco di Noli, Pino Nicoli, nel raccontare i preparativi per l’importante giornata di commemorazione è lo stesso dei nolesi, orgogliosi protagonisti di questa vicenda avvenuta durante il primo conflitto bellico. La Regione Liguria farà la sua parte per essere presente e partecipe delle celebrazioni”.
“I pescatori nolesi non esitarono a salire sulle loro barche, sfidare il vento contrario e le onde grosse per andare a salvare quei soldati che stavano annegando – dice ancora il Presidente del Gruppo consiliare Forza Italia.
“Questo grande gesto di altruismo fa parte della tradizione ligure, ci chi sin dalla nascita respira l’aria del mare. Sarà una celebrazione importante, che servirà anche a mantenere vivo il ricordo dei cittadini del borgo di Noli che accolsero i superstiti con sincero dolore per la loro sorte e li ospitarono prima che ripartissero per il fronte” - Conclude Vaccarezza.
Durante l’affondamento della Transylvania morirono molti soldati britannici: 414 le vittime su circa tremila persone facenti parte dell’equipaggio tra militari, marinai e crocerossine.
96 salme furono recuperate sulle spiagge di Vado Ligure, Noli, Spotorno, Pietra Ligure, fino a Bordighera. Altre 34 salme trasportate dalle correnti furono raccolte sulle coste della Francia e della Spagna. 284 vittime furono considerate disperse.
Le 85 vittime recuperate sulle spiagge del Savonese riposano, da allora, nel Cimitero di Zinola (nella foto) a Savona.
Oggi nel Cimitero di Zinola sono sepolte una parte delle vittime di quella tragedia, in quello che è comunemente chiamato “il campo degli inglesi”. Qui le candide lapidi contornano un’alta croce in marmo bianco, su cui sono incisi i nomi dei dispersi. In una nicchia, posta nel muretto che racchiude l’area, è presente uno sportellino. Aprendolo si trova un registro dove, chi lo vuole, può lasciare un pensiero.
Sul promontorio posto di fronte all’Isola di Bergeggi è invece posta una croce commemorativa, sulla cui lapide si legge: “A circa due miglia E.S.E. da questo punto, il quattro maggio 1917 il trasporto britannico Transylvania venne affondato dal comune nemico”.
La lapide esposta sul lungomare di Spotorno, al “Giardino degli Inglesi”, un angolo che unisce la cittadina ligure alla Gran Bretagna (foto di Silvia Morosi)
Carlo GATTI
Rapallo, martedì 4 Gennaio 2022
IL NAUFRAGIO DEL TRAGHETTO NORDICO ESTONIA
IL NAUFRAGIO DEL TRAGHETTO NORDICO
ESTONIA
Avvenne nella notte del 28 settembre 1994
Si riapre il caso
Sono trascorsi 27 anni dal giorno in cui la nave-traghetto ESTONIA affondò nel mar Baltico, causando la morte di 852 passeggeri. Le persone a bordo erano 989, 137 vennero tratte in salvo.
L’isola di UTÖ è la più bassa nella cartina
Alla una e ventiquattro della mattina del 28 settembre 1994 un accorato Mayday veniva lanciato sul canale 16 dall’operatore radio del traghetto Estonia, di proprietà della compagnia Estline, in rotta tra Tallin e Stoccolma. Nelle gelide acque del mar Baltico, al largo dell’isola di UTÖ, si stava già inesorabilmente consumando una delle più colossali tragedie del mare.
Ecco l’ultima concitata conversazione registrata da una stazione locale e riportata in seguito sul web:
MAYDAY - MAYDAY - State lanciando un Mayday? Estonia, cosa sta succedendo? Potete rispondere? – Qui Estonia. Chi c'è laggiù? - Estonia, qui è la Silja Europa. – Parlate finlandese? - Sì, parlo finlandese. – Abbiamo un problema. Ci stiamo piegando in maniera preoccupante sul lato di dritta, probabilmente di oltre 20 o 30°. Potete inviare assistenza e contattare la Viking Line? - La Viking Line non è lontana da noi e probabilmente a quest'ora ha già appreso la notizia. Comunicatemi la vostra posizione. – Abbiamo un blackout e noi… io non posso dire quale sia la nostra posizione in questo momento... - OK, cercheremo di fare qualcosa. – State venendo in nostro soccorso? - Sì. Puoi darci la tua posizione esatta? - Adesso non è possibile. Abbiamo un blackout a bordo. Gli strumenti sono spenti - OK, proviamo noi a rintracciare la vostra posizione. Solo un momento. Faremo del nostro meglio per venire in vostro soccorso ma dobbiamo prima calcolare la vostra posizione. – Adesso posso darvela. – Bene! Vai! - Latitudine 58, solo un momento. - OK. - 22 - OK, 22°, arriviamo. – Volevo dire 59, latitudine 59 e 22'. - 59° 22′. La longitudine? - 21° 40′ Est. - 21° 40′ Est, OK. – Qui si sta mettendo male. Si sta mettendo davvero male adesso!!!
Si tratta del più grave naufragio avvenuto in Europa in tempo di pace.
M/S Estonia, memorial, at Ersta nursing home, Södermalm, Stockholm
All’epoca si lessero molte versioni sul tragico naufragio:
“Si è ipotizzato un’esplosione a bordo, forse legata al trasporto di materiale bellico, in particolare tecnologia militare russa contrabbandata in Occidente: misteriosi sabotatori si sarebbero mossi piazzando una carica esplosiva. Era lo strano «bang» udito da uno dei marinai poco prima dell’allarme? Si è anche parlato di una collisione con un sottomarino o all’impatto con una mina, un residuato di guerra. Scenari sui quali – come per tanti misteri navali e aeronautici – si sono aggiunte speculazioni, tesi cospirative, compresa la sparizione di alcuni superstiti. Molta la diffidenza verso gli inquirenti che non avrebbero fatto bene il loro lavoro, non verificando ogni aspetto possibile. In qualche modo si è cercato di chiudere il caso: dunque hanno rinunciato a recuperare il relitto (con i corpi) diventato poi un sacrario. Da rispettare!”
Una doverosa spiegazione: La celata di prua è una caratteristica di alcune navi, in particolare Traghetti Roll-on/Roll-off e traghetti ferroviari, che permette alla parte superiore della prua di articolare su e giù, fornendo l'accesso alla rampa di carico e al garage che è lungo quanto la lunghezza della nave, nelle navi moderne possono esserci anche 3 piani-auto.
Nel corso degli ultimi 25 anni le celate di prua sono state progressivamente soppiantate dai portelloni di prua che agiscono come le valve di una conchiglia e si ritengono essere più sicuri delle celate prodiere. In una celata di prua, le forze che agiscono su di essa in seguito all'impatto del moto ondoso, vengono assorbite dalle cerniere e dalle serrature che possono cedere in seguito a sollecitazioni particolarmente intense. Con i portelloni di prua, la forza delle onde vengono assorbite dalla circostante sovrastruttura di prua.
Il relitto fu ispezionato con un ROV già pochi giorni dopo il naufragio dalla Rockwater A/S. Il rapporto ufficiale sostenne, ed è valido ancora oggi, che il disastro dell’ESTONIA fu causato dal cedimento della celata di prua che, staccandosi completamente permise al mare di invadere l’enorme garage della nave, ormai senza protezione, causando dapprima un forte sbandamento a dritta e, nel giro di pochi attimi, il suo rovesciamento con tutto il suo carico di vite umane, per poi inabissarsi su un fondale di circa 80 metri.
Come si può vedere nella prima foto della nave (inizio articolo), la prora non è proprio visibile dal Ponte di comando, e l'equipaggio non si sarebbe reso conto dell’apertura e repentino stacco della celata che, secondo alcune testimonianze, non sarebbe stata neppure segnalata dai sensori di sicurezza posti su di essa.
Tra gli innumerevoli contributi che si trovano in rete, la breve video-simulazione mostrerebbe che poco più di 30 minuti sarebbero trascorsi tra lo stacco della celata ed il naufragio. Ma è andata veramente così?
Simulazione di una notte di terrore
SONO PASSATI 27 ANNI - SI RIAPRE IL CASO
Il 28 settembre 2020 diversi quotidiani hanno riportato la scoperta di un taglio di 4 x 1,2 metri nello scafo dell'Estonia. La falla riscontrata riaprirebbe un ventaglio di altre possibili indizi che avrebbero potuto causare l'affondamento della nave.
Lo si deve a due ricercatori: Henrik Evertsson e Bendik Mondal che, sfidando tutti i divieti, hanno ispezionato il relitto a circa 80 metri di profondità e prodotto fotografie che sono state presentate in un documentario per Discovery Networks.
Due uomini coraggiosi e determinati sono balzati all’attenzione del mondo marinaro mondiale! Si deve a loro se oggi gli inquirenti sono in grado di istruire un PROCESSO su basi nuove, con la speranza che le 852 vittime possano avere finalmente giustizia. Lo squarcio lungo la fiancata costituisce una prova reale, irrefutabile, ma anche allarmante comunque la si voglia esaminare.
A questo punto è facile immaginare il riemergere di tutte quelle ipotesi che a suo tempo erano state scartate:
- contrabbando di materiale bellico sull'Estonia da parte degli occidentali!
- La reiterata presenza di un “sottomarino fantasma” sulla scia di fatti riscontrati nel periodo post guerra fredda.
Il fatto poi che negli ultimi anni le Autorità locali abbiano posto il divieto di avvicinamento al relitto prendendo a pretesto la sacralità del “cimitero sottomarino”, ha alimentato sospetti, diffidenze e critiche da più parti.
I tre STATI maggiormente coinvolti (Svezia, Estonia, Finlandia) hanno recentemente deciso di riaprire l'inchiesta.
ESTONIA Ormeggiata nel porto di Tallin
(Foto dell’autore)
Chi scrive ha avuto l’occasione di viaggiare più volte sul traghetto ESTONIA impiegato fin dall’inizio della sua carriera sulla rotta Stoccolma-Tallin, e ricorda di averne decantato ogni volta, sia la modernità che la puntualità e l’efficienza.
In particolare posso affermare di conoscere molto bene il modo di navigare dei Nordici e le acque difficili in cui operano, per cui posso affermare di non aver mai creduto alla versione ufficiale che avrebbe causato quel disastro. Dirò di più: nell’ambiente svedese dei Piloti portuali e Comandanti amici di vecchia data, la teoria dello stacco della celata fu considerata una versione “accomodante” per mettere un velo pietoso su una dinamica da “guerra fredda” che doveva rimanere segreta per ragioni di Stato.
Per comprendere meglio la permanente tensione tra gli Stati sulle sponde del BALTICO, dall’epoca della GUERRA FREDDA, vi segnalo un mio scritto di 10 anni fa in cui racconto la storia dell’ammutinamento di una fregata sovietica (1975).
L’ammutinamento della fregata STOROZHEVOY Ispirò il film ‘Caccia a Ottobre Rosso’ <- vai all'articolo
L’episodio della fregata Sovietica rimase avvolto nel mistero per decenni e venne alla luce dopo la caduta dell’Unione Sovietica ma la Svezia, in particolare, ne fu sempre al corrente perché vi un intenso traffico radio appena la nave militare sovietica mise la prora in direzione della costa svedese.
Nel 1981, un sottomarino sovietico si incagliò sulla costa meridionale della Svezia, a 10 chilometri da una importante base navale svedese. I sovietici affermarono di essere stati costretti a entrare nel territorio, mentre la Svezia, dopo aver rilevato la presenza di uranio-23 all'interno del sottomarino, credeva che il sottomarino li volesse attaccare.
Alla fine, dopo giorni di forte tensione, il sottomarino sovietico ritornò nelle acque internazionali e la Svezia rimase vigile, ma “silenziosa” … per molti mesi successivi.
Nel 1982, molti sottomarini, imbarcazioni specializzate ed elicotteri svedesi andarono a caccia di una di queste imbarcazioni non identificate per un mese intero, solo per arrivare - ogni volta - a mani vuote.
Il 19 ottobre 2014: “Intrigo a Stoccolma, sui fondali della Svezia è caccia a un sottomarino russo. Ma Mosca smentisce”.
2020 - I Paesi della regione hanno ripetutamente denunciato l'intensificarsi delle attività militari russe ai loro confini: nel mese di settembre, la Svezia aveva protestato formalmente con Mosca dopo che due aerei militari russi avevano violato il suo spazio aereo.
L’ombra di una grande superpotenza sull’altra sponda del Baltico, che controlla senza tregua le proprie acque territoriali per contrastare possibili sconfinamenti ed intrusioni straniere nelle proprie acque territoriali ha ormai, come abbiamo appena visto, una sua diffusa letteratura.
La geo-politica internazionale, sulla quale occorre naturalmente vigilare, esige comportamenti di grande prudenza! Come si dice in termini marinareschi, i Paesi piccoli sono costretti ogni volta, ad “abbozzare” per non peggiorare la situazione da cui potrebbero solo rimetterci su molti piani! Questo, in estrema sintesi, è il pensiero dominante della gente del Nord che guarda ad Est con una certa comprensibile ansia.
Il confronto tra NATO - PATTO DI VARSAVIA si gioca su quella striscia di mare che si chiama Baltico.
Da questa presa di coscienza nasce la convinzione popolare svedese e non solo, che il traghetto ESTONIA sia entrata in collisione con un sottomarino di nazionalità sconosciuta, ma non tanto… che avrebbe procurato la falla da cui sarebbe entrato quel flusso d’acqua di mare che la fece sbandare e poi affondare.
Carlo GATTI
Rapallo, 20 Novembre 2021
L'ODISSEA DELLA SAINT LOUIS
L’ODISSEA DELLA ST. LOUIS
13 Maggio 1939
LA NAVE CARICA DI EBREI IN FUGA DALL’EUROPA E’ RESPINTA DA CUBA E DAL NORD AMERICA
17 giugno del 1939
LA NAVE RIENTRA IN EUROPA (ANVERSA)….
LA SAINT LOUIS IN PARTENZA DA AMBURGO
Abbiamo preso in prestito la copertina di questo libro, perché assolutamente ricca di significati allegorici ed emblematica di una vergognosa pagina storica che merita di essere conosciuta, ricordata, raccontata e tramandata a tutte le generazioni affinché non sia dimenticata.
«Un uccello non ha bisogno di passaporto, né di biglietto, né di visto — e un uomo invece viene messo in galera se non è in possesso di uno solo di questi tre pezzi di carta?» così scrive Joseph Roth nel 1937 nella premessa alla nuova, programmata edizione del breve, appassionato saggio Ebrei erranti, giungendo all’amara conclusione che «i torturatori degli animali vengono puniti mentre quelli degli esseri umani sono insigniti di importanti onorificenze».
QUADRO STORICO
Quando il nazismo sale al potere, la persecuzione dei dissidenti e dei ‘non ariani’ determina un esodo di massa dalla Germania che, in un periodo di grave crisi economica, è guardato con preoccupazione dai governi europei: questi istituiscono dispositivi per controllarlo o contenerlo, stabilendo quote di immigrazione sul modello di quelle già poste in essere dagli Stati Uniti, che in nessun modo e per nessuna ragione è possibile superare. Che donne e uomini appartenenti alla cosiddetta ‘razza ebraica’ cerchino rifugio e protezione per salvare le proprie vite in Francia, Belgio, Svizzera, o altrove, è ininfluente: per l’Alto Commissario per i Profughi dalla Germania nominato dalla Società delle Nazioni nel 1936, per assicurare ai ‘non-ariani’ e agli oppositori del regime nazista la “possibilità di reinsediamento in Europa o oltremare”, il compito è arduo. E anche la Conferenza internazionale di Évian, indetta dal presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt nel luglio 1938, per una soluzione condivisa al problema dei profughi dalla Germania, si conclude con un nulla di fatto: soltanto la Repubblica Dominicana è disponibile ad alzare la propria quota di immigrati (accoglie infatti circa centomila profughi ebrei) e soltanto la città internazionale di Shangai non ha ancora introdotto il visto di ingresso (e nell’ultimo anno prima della guerra dà asilo ad altri ventimila rifugiati ‘non ariani’ in fuga dalla Germania). Fuggire? Dove? “Iniziare una nuova vita? Quale?” si chiede lo scrittore tedesco Fred Uhlman, esule in Francia, in Storia di un uomo (1960).
L’Olocausto ebbe luogo all’interno del più ampio contesto della Seconda Guerra Mondiale, il più esteso e distruttivo conflitto della Storia. Attraverso la realizzazione di un vasto e moderno Impero nell’Europa Orientale, Adolf Hitler e il regime nazista volevano creare nuovo “spazio vitale” (Lebensraum) per la Germania; un piano che prevedeva l’eliminazione delle popolazioni locali. L’obiettivo nazista di rafforzare la razza superiore tedesca portò alla persecuzione e l'assassinio degli Ebrei e di molti altri.
GERMANIA - Il 15 settembre 1935 vennero promulgate le leggi di Norimberga. Nel corso del 1936 gli ebrei vennero banditi da tutte le professioni: in tal modo, fu loro efficacemente impedito di esercitare una qualche influenza in politica, nella scuola e nell'industria.
ITALIA - 17 novembre 1938 vennero approvate le leggi razziali in Italia. I provvedimenti antisemiti non arrivano come un fulmine a ciel sereno. Da tempo il regime fascista si serve infatti del razzismo sia per sostenere l’espansione coloniale, sia per scaricare le responsabilità dei fallimenti su alcuni capri espiatori.
EUROPA - Il primo settembre 1939.
La Germania diede inizio alla Seconda Guerra Mondiale con l'invasione della Polonia, Negli anni successivi, i Tedeschi invasero altri undici paesi. La maggior parte degli Ebrei europei viveva in paesi che la Germania nazista avrebbe occupato o con cui si sarebbe alleata durante la guerra.
AGLI EBREI NON RIMANE CHE LA FUGA OLTRE L’OCEANO ATLANTICO DOVE SI RESPIRA ANCORA ARIA DI LIBERTA’
SARA VERO’?
Il 13 maggio del 1939 il transatlantico tedesco ST.LOUIS parte da Amburgo e fa rotta per Cuba. A bordo ci sono 937 ebrei in fuga dalla follia nazista. Siamo alla vigilia della guerra più sanguinosa nella storia della umanità.
Il capitano del Saint Louis, Gustav Schröder
(1855-1959)
Inviato a Calcutta nel 1913, aveva provato sulla sua pelle l’esperienza della prigionia
La speranza nella patria della Libertà e della Democrazia alimenta le speranze dei passeggeri pur sapendo che negli States il partito dei NON INTERVENTISTI è fortissimo e Franklin Delano Roosevelt non vuole deludere nessuno, anche se è noto che la sua influentissima consorte Eleonora è di tutt’altra idea! Per cui una certa prospettiva di sblocco della situazione si fa largo nei loro cuori disperati.
Viene inviata una richiesta di aiuto direttamente al presidente Franklin D. Roosevelt, una richiesta che non avrà mai risposta. Se non una. Il Dipartimento di Stato invia un telegramma agli esuli: "I passeggeri dovranno iscriversi e aspettare il loro turno nella lista di attesa per ottenere il visto, solo allora potranno entrare negli Stati Uniti".
Al comando di quella nave c’è Gustav Schröder un comandante tedesco non ebreo che fa la differenza. Un uomo che si vergogna profondamente di Hitler e di tutto ciò di esecrabile che sta facendo al suo stesso Paese e all’Europa intera. Ma sulla nave di bandiera tedesca è lui che comanda anche se gli è chiaro che gli ebrei in Germania hanno già perso tutti i diritti, ma il COMANDANTE è un vero “uomo giusto” e ha già messo in conto che se andrà male, farà il giro dell’Oceano Atlantico e tornerà indietro con lo stesso carico umano.
A Cuba le cose non vanno come sperato, gli ebrei non possono sbarcare se non dietro il pagamento di una tassa. Di che si tratta? A metà gennaio del 1939, il governo aveva emanato il decreto n° 55 secondo il quale ciascun “rifugiato”, avrebbe dovuto versare una somma di 500 dollari per il visto d’ingresso. Il ministro dell’immigrazione, Manuel Benitez, decide di sfruttare questa situazione definendo i passeggeri a bordo della St. Louis come turisti e mettendo in vendita dei “permessi di sbarco” per una somma “non ufficiale” di 150 dollari ciascuno. Ma succede un fatto imprevisto, un ordine che forse viene da lontano!
Il presidente cubano Federico Laredo Brú ordina di far applicare il decreto n° 937 (correttivo del n° 55) che obbliga, di fatto, al pagamento dei 500 dollari a ciascun passeggero della St. Louis. Soltanto 29 passeggeri riescono sbarcare a Cuba, per gli altri la somma è irraggiungibile.
Gustav Schröder si rende conto che Cuba è solo l’inizio del calvario, ma non desiste, non è il tipo che si arrende senza combattere, a bordo lo sanno tutti e forse la speranza è riposta in lui più che su i sedicenti “democratici” della terraferma: sanno infatti, ormai da tempo, che se la Germania odia gli ebrei, le civili nazioni europee (e con esse gli Stati Uniti) non li amano, tant’è che si guardano bene dall’accoglierli! Il Comandante sa che gli rimangono poche opzioni sulle rotte del NORD: poche tenui speranze, ma non lascerà nulla d’intentato.
MIAMI – USA
Il 2 giugno la Saint Louis salpa da L’Avana: “Il governo cubano ci sta costringendo a lasciare il porto. – ha dichiarato due giorni prima in un comunicato stampa Gustav Schröder – Ci hanno permesso di rimanere qui fino all’alba di venerdì, poi dovremo levare le ancore. La partenza non è frutto dell’interruzione dei negoziati, ma espressa volontà delle autorità cubane. Io e l’armatore rimarremo in contatto con tutte le organizzazioni ebraiche e con qualunque ufficio governativo che sia disposto a collaborare per addivenire a una soluzione favorevole per i passeggeri. Per il momento costeggeremo le coste degli Stati Uniti”.
Il 4 giugno gli Stati Uniti chiudono formalmente i propri porti al transatlantico:
“I rifugiati tedeschi sono in attesa del loro turno per accedere negli Stati Uniti”. – dichiara il Direttore della Sezione visti del Dipartimento di Stato –
“Del resto la quota di immigrati ammessi per quest’anno è già stata raggiunta”.
La S.Louis fa rotta per Miami.
La speranza nella patria della Libertà e della Democrazia alimenta le speranze dei passeggeri per cui una certa prospettiva di sblocco della situazione si fa largo nei loro cuori disperati.
Viene inviata una richiesta di aiuto direttamente al presidente Franklin D. Roosevelt, una richiesta che non avrà mai risposta. Se non una: Il Dipartimento di Stato invia un telegramma agli esuli: "I passeggeri dovranno iscriversi e aspettare il loro turno nella lista di attesa per ottenere il visto, solo allora potranno entrare negli Stati Uniti".
Ma è il presidente Roosevelt a dire la parola definitiva, a fronte della campagna di stampa del “New York Times”, degli appelli del capitano della Saint Louis, della disponibilità all’accoglienza del Governatore delle Isole Vergini degli Stati Uniti: ed è no!
Il 6 giugno la nave si lascia di poppa il porto di New York City e nella scia l’illusoria promessa della Statua della Libertà che affonda nella propria ipocrisia.
La storia della St.Louis fa il giro del mondo. Molti giornali cominciano a parlare di queste persone in fuga dal nazismo, ma solo pochi giornalisti statunitensi suggeriscono di accoglierli in America.
CANADA – OTTAWA
Anche Ottawa-Canada rifiutò di soccorrere la nave, e così altri paesi del Sudamerica.
La stampa internazionale diffonde la notizia della nave che non trova un modo per far sbarcare i passeggeri, ma non organizza una vera campagna mediatica a sostegno dei passeggeri. Sono pochi i giornalisti statunitensi che suggerirono di accoglierli in America.
Il 7 giugno 1939 il transatlantico tedesco St.Louis è costretto ad allontanarsi dalle coste del Nord America per tornare in Europa.
VERSO L’EUROPA
A comandante Schröder non resta che tornare in Europa, ma non in Germania. Decide di non consegnare la nave agli armatori senza garanzia per i suoi passeggeri. La nave arriva ad Anversa e i passeggeri sbarcano sperando nelle nazioni ospitanti: Belgio, Olanda, Gran Bretagna e Francia. Ma la Germania nazista si prepara ad invadere l’Europa e l’epilogo sarà devastante anche per molti di quei passeggeri.
Il ritorno a casa - (Le statistiche dei profughi).
Dopo numerose peregrinazioni, il 17 giugno del 1939 la nave riesce a tornare ad Anversa: il Regno Unito accetta di accogliere 288 passeggeri, mentre i restanti rifugiano in Francia, Belgio e Paesi Bassi. Secondo Scott Miller e Sarah Ogilvie (qui un estratto del libro):
“dei 620 passeggeri della St. Louis che tornarono nel continente Europeo, (…) 87 furono in grado di emigrare prima che la Germania iniziasse l’invasione dell’Europa occidentale il 10 maggio 1940. 254 passeggeri in Belgio, Francia e Paesi Bassi morirono dopo quella data durante l’Olocausto. Molte di queste persone furono assassinate ad Auschwitz e Sobibór; i restanti morirono in campi di internamento o nel tentativo di nascondersi o eludere i nazisti. 365 dei 620 passeggeri che ritornarono nel continente Europeo sopravvissero alla guerra”.
L’avventura della St. Louis ha ispirato racconti, libri e anche un film (Il viaggio dei dannati di Stuart Rosenberg, 1976).
L’odissea dei passeggeri della Saint Louis è un’ulteriore testimonianza che tutto il mondo sapeva cosa la Germania nazista stesse perpetrando nei confronti del popolo ebraico, così come oggi l’Europa è perfettamente a conoscenza dell’Olocausto dei migranti.
IL DESTINO DEI PASSEGGERI
Al capitano Gustav Schrö der, che dopo la guerra, fu insignito dell’Ordine al Merito della Germania e nel 1993 come Giusto fra le nazioni, non restò che tornare in Europa e prospettare l’avaria della nave o l’affondamento volontario della St. Louis lungo la costa dell’Inghilterra (ci sono due versioni), per costringere gli Inglesi, il Belgio, la Francia, l’Olanda ad accettare i profughi ebrei rimasti a bordo.
Utilizzando il tasso di sopravvivenza degli ebrei in diversi paesi, Gordon Thomas e Max Morgan-Witts, autori del libro Voyage of the Damned: A Shocking True Story of Hope, Betrayal, and Nazi Terror, stimarono che circa 180 passeggeri della St. Louis rifugiati in Francia, più 152 di quelli rifugiati in Belgio e 60 di quelli rifugiati nei Paesi Bassi sopravvissero all’Olocausto. Degli originali 936 rifugiati, stimarono un totale di circa 709 sopravvissuti e 227 uccisi. Successive ricerche da parte di Scott Miller e Sarah Ogilvie del United States Holocaust Memorial Museum danno un più preciso ed alto numero di deceduti, per un totale di 254 morti.
PERIODO BELLICO
1940/1944 - La St.LOUIS divenne “nave-alloggio” della marina tedesca.
30 agosto 1944 – Fu pesantemente danneggiata da un bombardamento alleato a Kiel.
DOPOGUERRA
1946 - Fu riparata e usata come nave-Hotel ad Amburgo.
1952 -La nave fu messa fuori servizio nel 1952.
Corsi e Ricorsi Storici - (G.B.V) …..
E’ stato scritto: “Perseguitati in patria, indesiderati all'estero. Ieri gli ebrei, oggi i cosiddetti migranti. Tre volte vittime: dell’odio in patria e contemporaneamente del rifiuto di accoglienza degli Stati, della indifferenza e dell’egoismo della maggioranza della gente, che sa e volge la testa dall’altra parte”.
ALBUM FOTOGRAFICO
DELLA ST. LOUIS E DEI SUOI PROFUGHI
La Saint Louis nel porto de L’Avana (fine maggio 1939)
La partenza della Saint Louis da Amburgo, il 13 maggio 1939: i profughi ebrei gioiscono nel lasciare la Germania
Due giovanissime profughe affacciate a un oblò della Saint Louis, nel porto de L’Avana (fine maggio 1939)
Il gruppo della famiglia Heilbrun a bordo della Saint Louis (maggio 1939)
ST. LOUIS
Dati nave:
Data varo: 2 Agosto 1928
Cantiere di Costruzione: Bremer Vulkan (Brema)
Armatore: HAPAG
Stazza lorda: 16.732 t.
Lunghezza: 174,90 mt
Larghezza: 22,10 mt
Pescaggio: 8,66 mt
Equipaggio: 670
Motore: 4 doppeltwirkende MAN-Sechszylinder-Zweittakt-Dieselmotoren
Potenza: 12.600 PSe
Eliche: 2
Velocità: 16,5 Kn
Trasporto Passeggeri: I.Klasse, 270 – II Klasse, 287 – Touristenklasse, 413
Bibliografia:
Fonti: I libri di riferimento sono citati nel testo
Immagini ed altri dati: Siti web Tedeschi-Inglesi-Italiani
Carlo GATTI
Rapallo, 1 Novembre 2021