MOBY PRINCE

Un’altra Ustica?

Foto n.1 – La Moby Prince in navigazione

Quella fatale coincidenza

Abbiamo già avuto occasione di occuparci della tragedia del traghetto MOBY PRINCE della Soc. Navarma, ma solo per rimarcare la fatale coincidenza con un’altra catastrofe del mare: l’incendio e il successivo affondamento della petroliera HAVEN davanti alle acque di Arenzano. Tredici ore separarono la collisione del traghetto italiano dall’esplosione della petroliera cipriota e tutto avvenne a sole 75 miglia nautiche di distanza.

Porto di Livorno. Alle 22,25 del 10 aprile 1991, il traghetto Moby Prince si staccò dalla banchina e sbarcò il pilota con le stesse modalità compiute centinaia di volte in precedenza. Navigò per un breve tratto di canale e poco dopo s’infilò nella fiancata della petroliera Agip Abruzzo prendendo fuoco: 140 vittime, un solo sopravvissuto. Fu la più grave sciagura della marineria civile italiana.

Sono passati quasi  vent’anni, ma nell’immaginario collettivo è sempre vivo  l’ignobile cliché diffuso ad arte sui media il giorno successivo l’incidente:

“Fitta nebbia, un comandante distratto dalla partita di calcio, una rotta sbagliata, tragica fatalità”. D’altra parte, questa “verità” fu il risultato delle Commissioni d’Inchiesta della Capitaneria di Porto di Livorno e del Ministero della Marina Mercantile. Chissà! Forse era la spiegazione più semplice… Ma oggi, sotto la spinta della:

“Associazione 10 Aprile – Familiari delle vittime del Moby Prince” www.MobyPrince.it

è stato compiuto un impressionante percorso di riscoperta degli atti, delle carte e dei documenti, che erano già fin troppo chiari, ma occorreva leggerli ed interpretarli con onestà e consapevolezza. Purtroppo altre prove e testimonianze sono venute alla luce quando la traccia era ormai segnata, quando l’inchiesta sommaria e i successivi due gradi del processo si erano ormai incanalati  verso “la tragica fatalità”. Oggi, improvvisamente il vento è cambiato, sia per la lotta e l’amore della citata Associazione, sia per la determinazione e il coraggio dimostrato da alcuni onesti professionisti dell’informazione.

Una Indagine Provvidenziale

La vicenda del traghetto-passeggeri è tornata alla ribalta in questi ultimi anni per la tenace ricerca di Enrico Fedrighini, milanese, già consigliere presso il Comune e la Provincia di Milano che ha dato il primo colpo di piccone alle sentenze della magistratura, con il suo libro “Moby Prince. Un caso ancora aperto”. Quattro anni è durato l’impegno dell’autore per analizzare faldoni processuali, relazioni, inchieste amministrative e perizie. «Ebbene, c’è tutto nelle carte. Occorreva metterle insieme. Nell’impressionante mole di documenti c’è quanto basta per dire che quella verità è fasulla e che nella rada del porto di Livorno è accaduto ben altro. Qualcosa che abbiamo il diritto di sapere. Perché è una brutta storia, una storia che fa paura». Ha dichiarato recentemente l’autore.

Ma in occasione dell’anniversario del disastro, scende in campo anche Giovanni Minoli, direttore di Rai Educational, riportando l’attenzione degli italiani sul “Moby Prince” diventato ormai un “CASO”. «Questa indagine giornalistica alla fine lascia grande angoscia», dice Minoli. «Emergono grosse novità rispetto alla verità ufficiale”  – e aggiunge – Il “Moby Prince” è un’altra Ustica, di cui non erano conosciuti, finora, i contorni inquietanti. Il mio auspicio è che, alla luce di queste novità, presto ci si occupi del caso con una commissione d’inchiesta».

Lo scrupoloso giornalista della RAI ce lo ha raccontato un mese fa in TV  sottoponendoci carte nautiche della rada di Livorno; proponendo numerose registrazioni di conversazioni radio di operatori portuali in servizio quella notte; nuove prove satellitari emerse dopo le conclusioni delle inchieste. Proviamo ora a calarci nel merito di queste nuove analisi sintetizzandone i contenuti:

Non è stata trovata traccia di apparati televisivi sul ponte di comando della M.P. che avrebbero accusato di negligenza il comandante Ugo Chessa ed il suo equipaggio – Vedi Nota

L’Avvisatore Marittimo (di guardia in porto H-24) e molti altri testimoni hanno testimoniato che la rotta percorsa dal traghetto era giusta e prudente e non corrispondente a quella ipotizzata nelle inchieste. Purtroppo la testimonianza di questo “antico” servizio portuale non è mai stato  richiesto.

– La Agip Abruzzo quella sera aveva cambiato diverse volte la posizione d’ancoraggio senza avvisare le Autorità e  dai tracciati radar risulta, inoltre, che la petroliera si trovava ancorata in zona proibita, all’interno del canale d’uscita del porto di Livorno. Questa tesi è confermata dalle registrazioni di conversazione e degli ordini impartiti dal comandante Superina della Agip A.

– Il Centro Meteo dell’aeronautica di Pratica di Mare e la Criminalpol documentano la mancanza di nebbia al momento dell’impatto.  Probabilmente questo elemento e l’accusa d’imprudenza nei confronti di chi non può più difendersi, serviva a nascondere un’altra realtà.

F.2 – La petroliera Agip Abruzzo in fiamme

– Si è anche udita – molto nitidamente – la voce registrata dell’unico superstite del traghetto, il mozzo Barnard, affermare alla radio degli ormeggiatori che lo avevano raccolto a bordo, che c’erano ancora superstiti vivi sulla Moby Prince. Ma nessuno si preoccupò di rintracciare la nave alla deriva nella rada, con il suo carico umano che stava lentamente soffocando.

– Ci fu poi l’episodio del cadavere sul ponte. In un filmato girato da un elicottero dei Carabinieri all’alba dell’11 aprile, si è visto chiaramente un cadavere disteso sulla schiena a poppa, sulle lamiere bruciate. Al momento delle riprese aeree, si è potuto notare come l’uomo non fosse bruciato (indossava una maglia rossa n.d.r.), ma, al contrario, si mostrasse stranamente integro pur trovandosi sul ponte distrutto dalle fiamme. Successivamente, nei video girati dai Vigili del fuoco, lo stesso uomo è apparso completamente carbonizzato, avvalorando cosi la nuova ipotesi secondo cui parte dei passeggeri non morì in breve tempo per effetto  del monossido di carbonio sprigionato dall’incendio. L’ipotesi smentita in fase processuale da alcune perizie, ma accettata da altre, è quella che il passeggero, sopravvissuto durante la notte all’incendio e ai fumi tossici, sia uscito alle prime luci dell’alba per raggiungere i soccorritori, ma a causa dell’enorme calore ancora sprigionato dalle lamiere del ponte, sia morto in un secondo tempo.

– Nel settembre del 1992, venne trasmesso dai telegiornali un video amatoriale girato da un passeggero nei minuti precedenti la collisione. Il fatto che la cassetta trovata in una borsa nel salone De Lux, abbia resistito all’incendio, dimostrerebbe che, almeno in quella zona della nave, non c’erano temperature elevatissime e che una parte di passeggeri/equipaggio abbia potuto resistere a lungo in quelle circostanze.

Foto n.3- Il traghetto il giorno dopo

I soccorsi partiti immediatamente si sono diretti tutti sulla Agip Abruzzo. Nessuno verso la Moby Prince che venne lasciata in fiamme, alla deriva con il suo carico umano che, diligentemente, aspettava di essere salvato. Moriranno dopo ore di paura, angoscia e disperazione. Eppure la Moby era ben visibile in rada, come dimostra l’episodio dei due bravi ormeggiatori che, con la loro imbarcazione portuale, accorsero  spontaneamente a prestare soccorso e trassero in salvo l’unico sopravvissuto: il mozzo Barnard, e proprio da loro partì la comunicazione alla Capitaneria di Porto che indicava la posizione del traghetto e la necessità di soccorrere altri passeggeri ancora in vita. Le Autorità rimasero silenti, nonostante la presenza del Comandante del porto di Livorno a bordo di una motovedetta di servizio. Chi aveva il compito di coordinare le operazioni di salvataggio, tacque per più di 5 ore. I soccorritori aspettarono invano le  istruzioni, mentre sulla Moby Prince si moriva.

– Le persone a bordo del Moby Prince non sono morte in pochi minuti, ma dopo ore come hanno dimostrato i referti delle autopsie.

L’impatto non è stato improvviso. Tutti i passeggeri erano nel salone De Lux (stanza provvista di porte tagliafuoco) con bagagli e giubbotti di salvataggio.

Ciò significa che erano stati rigorosamente radunati là, dove sono stati trovati. Nessun corpo presentava traumi. Difficile quindi conciliare tutto ciò con l’impatto improvviso causato, per di più, dalla negligenza del personale che guardava la partita in TV.

Soccorsi impossibili?  I responsabili della sicurezza sostennero che, data la temperatura delle lamiere, era impossibile salire sul Moby Prince. Nulla di più falso. In quella maledetta notte, alle ore 3.30 un coraggioso marinaio, Giovanni Veneruso, senza alcun tipo d’indumento ignifugo, con il suo rimorchiatore privato decise di avvicinarsi al traghetto ed agganciarlo, mentre le motovedette della Capitaneria osservavano immobili a distanza. Il giovane toccò le lamiere senza problemi, salì a bordo, si guardò in giro e subito gli giunse l’ordine perentorio di abbandonare la nave. Perché?- Sono emerse testimonianze circa la presenza di “strane” imbarcazioni che si sarebbero avvicinate al traghetto con l’intenzione d’abbordarlo e che improvvisamente scomparvero dalla scena del disastro. Cosa cercavano?


Foto n.4 – Base USA di Camp Darby

A questo punto ricordiamo che l’Alto Tirreno è una delle zone più presidiate da impianti di telecomunicazioni militari. La base americana di Camp Darby è molto vicina a Livorno e La Spezia, che insieme formano un sistema integrato di controllo. Tuttavia le anomalie “fuori controllo” furono davvero numerose e tutte senza ragionevoli spiegazioni: – Testimoni non ascoltati – responsabili in servizio, quella notte, non interrogati – Tracciati radar non acquisiti, negati, distrutti – Posizioni delle navi in rada non accertate – Fascicoli scomparsi dalla Procura – Relazioni sparite – Scatole nere distrutte – Giornali di bordo dimenticati – Manomissioni e sabotaggi operati sul relitto del Moby Prince – Tracce di esplosivo militare a bordo del Moby mai presi in esame – Nastri registrati scomparsi – Cassette VHS manomesse – L’elicottero militare che sorvolava la zona al momento della collisione, ignorato e dimenticato – Navi “fantasma“ che si allontanano dal luogo dell’impatto velocemente – Presenza di pescherecci italo-somali i cui nomi compaiono, forse non a caso, nell’omicidio di Ilaria Alpi – Ufficiali che quella sera vedono e relazionano su movimentazioni di materiale bellico tra navi nel porto di Livorno, ma i cui rapporti scompaiono – Alcuni importanti documenti confermano che nella rada di Livorno era in corso una operazione destinata a rimanere “coperta” e che coinvolgeva un numero imprecisato di imbarcazioni – Operazione che doveva restare segreta: 5 navi militari americane cariche di armi provenienti dal Golfo Persico, dove si era appena conclusa l’operazione Desert Storm, erano presenti in zona e sembra ormai accertato che stessero sbarcando materiale bellico destinato alla base di Darby su chiatte a rimorchio e senza luci di posizione.

Il relitto della Moby Prince fu fatto demolire in fretta, lontano dall’Italia, in Turchia, ad Allaga, località tristemente nota, come più volte denunciato da Greenpeace, perché specializzata nel togliere di mezzo navi sospette e pericolose.

Tutto questo porta a ritenere che, quella sera, la zona del porto di Livorno doveva essere tra le più sorvegliate d’Italia da tutti gli operatori civili e militari, Servizi Segreti compresi.

“Quella del 10 aprile è una bella sera di primavera. Il mare è calmo, la visibilità è di 5-6 miglia. Una leggera brezza salmastra mischiata ai vapori della ciminiera della nave penetra nelle narici e accarezza i volti dei pochi passeggeri rimasti sul ponte esterno del traghetto a osservare le luci della città”, scrive Fedrighini. “Sono le 22,03 quando la nave passeggeri molla gli ormeggi e si allontana scivolando sulle acque scure e oleose. Destinazione Olbia. I passeggeri vengono accolti a bordo dalle note musicali di una canzone degli anni ’60, “Quando, quando, quando”. Accadono le solite cose: c’è chi si prepara per la notte, chi chiacchiera, chi beve una birra al bar. Non si tratta di una sceneggiatura, purtroppo”, aggiunge Fedrighini. “Quelle piccole cose banali che ogni persona compie rappresentano gli ultimi istanti di un’intera vita. Centoquaranta persone stanno scrivendo le ultime parole sulle pagine di un libro che per loro è destinato a interrompersi di lì a pochi minuti”. Il “dopo”, ossia questi 19 anni in cui i familiari delle vittime hanno chiesto verità, è la parte più inquietante della vicenda: un’inchiesta amministrativa conclusa a tempo di record (11 giorni); questa e molte altre “stranezze” scovate da Fedrighini e Minoli fanno di questa dimenticata strage italiana, la più inquietante. L’ennesimo mistero d’Italia. Con Ustica successe la stessa cosa. Ricordate? Anche in quel caso la Commissione di inchiesta stabilì che l’aereo Itavia era caduto per un cedimento strutturale. Non a caso la strage del Moby Prince viene chiamata l’Ustica del mare. Per sapere la verità sulla tragedia del Moby Prince non si deve fare chissà quali ipotesi fantasiose, non si deve aderire a strampalate ipotesi degli amanti dei complotti o altro, è sufficiente leggere gli atti, i documenti, le testimonianze…… E, a questo proposito, vi segnaliamo l’Atto di Opposizione  (http://www.mobyprince.it/files/OPPOSIZIONE-ALLA-RICHIESTA-DI-ARCHIVIAZIONE-17.05.2010-definitiva) prodotto dall’avv. Carlo Palermo a difesa dei signori Angelo e Luchino Chessa (figli del comandante del M.P.) e Maurizio Giardini, parti offese nel proc.pen. N….. relativo al decesso di 140 persone nell’incidente del M.P.

NotaComandanti e piloti  sono sempre sotto esami, perchè la manovra è la parte più difficile del viaggio e tra questi due personaggi spesso si saldano vincoli di amicizia e di stima che si perpetuano oltre il “retire”. Ugo Chessa, comandante del Moby Prince non arrivò alla pensione perchè morì tragicamente in servizio, nonostante fosse considerato nell’ambiente il miglior comandante di traghetti in quegli anni e sono più che certo che nessuno di noi ha mai creduto, neppure per un istante, all’infamia e al disonore  di cui fu vittima questo “grande marinaio”.

Carlo GATTI

Rapallo, 28.05.11