OLTERRA-Un CAMOGLINO nella tana del lupo

UN MARINAIO CAMOGLINO

NELLA TANA DEL LUPO

GIBILTERRA 1940-1943

Un po’ di storia

Gibilterra è uno degli obiettivi principali per gli uomini dei mezzi d’assalto italiani. La base è il punto d’appoggio per le squadre navali che operano in Atlantico e nel Mediterraneo occidentale ed è anche il crocevia per i convogli in sosta e in formazione da e per l’Inghilterra e Malta.

SMG. SCIRE’

Questa unità, per la lunga e gloriosa attività svolta con i mezzi d’assalto e per la quale il suo stendardo fu decorato di Medaglia d’Oro al V.M. è un po’ il simbolo della categoria dei battelli “avvicinatori”. Queste le missioni compiute dallo Sciré come vettore di mezzi d’assalto:

Operazione “B.G.1”: obiettivo Gibilterra con 3 “S.L.C”.* (C.C. Borghese)-Iniziata il 24.01.1940 ed interrotta a 50 miglia dall’obiettivo per ordine di Supermarina in quanto la squadra inglese era uscita in mare.

Operazione “B.G.2”: obiettivo Gibilterra con 3 “S.L.C.” (C.C. Borghese)- Alle 02.19 del 10.10.1940. Rilascio dei mezzi a 3 miglia dall’entrata del porto. Per avarie agli apparecchi ed agli autorespiratori degli operatori i 3 “S.L.C.” non riescono a penetrare nel porto militare.

Operazione “B.G.3”: obiettivo Gibilterra con 3 “S.L.C.” (C.C Borghese)- Dopo aver imbarcato gli operatori a Cadice affiancandosi nottetempo alla cisterna italiana Fulgor, alle 23.58 del 26 maggio 1941, avviene il rilascio dei mezzi in fondo alla grande rada di Algeciras. Anche questa volta la missione fallisce per avaria agli apparecchi e cattivo funzionamento dei respiratori.

Operazione “B.G.4”: obiettivo Gibilterra con 3 “S.L.C.” (C.C. Borghese)-Alle ore 01.07 del 20 settembre 1941 nella rada di Algesiras. Primo successo dei mezzi subacquei con l’affondamento di due navi-cisterna ed una motonave.

*S.L.C.= Siluri a lenta Corsa

La petroliera OLTERRA

La Regia Marina, nell’intento di perfezionare i metodi d’attacco alle navi in rada a   Gibilterra, aveva intanto attrezzato come “base” per i mezzi d’assalto subacquei, la petroliera Olterra, internata sin dall’inizio del conflitto nel porto spagnolo di Algesiras, prospiciente la base inglese. Per la prima volta, tra l’altro, gli operatori dei “maiali” avrebbero avuto buone probabilità di evitare la prigionia, facendo ritorno a bordo dell’ Olterra dopo aver attaccato le unità nemiche.

Purtroppo, la prima missione così programmata:

Operazione “B.G.5 -7 dicembre 1942 - si concluse tragicamente con la morte di tre uomini, tra cui il T.V. Licio Visintini.

In seguito, gli attacchi portati con i “maiali” dell’ Olterra avrebbero ottenuto cospicui risultati l’8 maggio 1943 (con l’affondamento di tre mercantili alleati tra cui un “Liberty” e il 4 agosto 1943, azione nel corso della quale furono affondati un altro “Liberty”, una petroliera norvegese e un piroscafo da carico britannico. In entrambe le azioni, tutti gli operatori – tranne uno, fatto prigioniero nel corso della seconda missione – rientrarono a bordo dell’ Olterra senza essere stati individuati dalle sentinelle e dalle vedette portuali della Royal Navy.

LA BASE DI GIBILTERRA

A lanciare l’idea della base-Olterra fu Antonio Ramognino, un tecnico incorporato nella X flottiglia Mas ed esperto di mezzi d’assalto. Da tempo lo stratega studiava il progetto e nella primavera del 1942 fece una ricognizione nella rada di Algesiras per cercare il punto d’appoggio da cui partire all’attacco dei mercantili inglesi.

 

 

Ramognino sposò una giovane spagnola e prese in affitto una villa situata nelle vicinanze di Puenta Maiorga. In ottima posizione sopraelevata, era situata a poca distanza da “La Linea” e a 4000 metri da Gibilterra. Per non insospettire le autorità spagnole, il tecnico disse che la villa serviva a “ritemprare le forze di donna Conchita Ramognino, esaurita dalla permanenza d’alcuni mesi in Italia”. In realtà la villa – che dopo la guerra sarà battezzata “Villa Carmela” – divenne un osservatorio italiano per seguire costantemente i movimenti dei mercantili inglesi ancorati a una distanza dai 500 metri ai 2000 metri dalla spiaggia antistante la casa.

Ottenuto il punto d’appoggio, Ramognino studiò e poi scelse delle piccole imbarcazioni su cui sistemare  una carica esplosiva di tre quintali oppure otto cariche di tipo “mignatta”. Ma nell’attesa del loro arrivo, il comando della X-Mas decise di compiere un’operazione contro i mercantili alla fonda, in una notte del novilunio del luglio ‘42.

Durante la missione svolta nella primavera del 1942, Antonio Ramognino notò che la nave cisterna italiana Olterra di 4.995 tonn.  - di proprietà dell’armatore genovese Zanchi – era stata portata dal comandante Amoretti di Imperia, sui bassi fondali delle adiacenti acque territoriali spagnole e lì erano state aperte le valvole Kingston, per impedire che gli inglesi si impadronissero della nave con un “colpo di mano”. Il piroscafo era attraccato alla banchina orientale del porto di Algesiras, proprio di fronte a Gibilterra. Dalla roccaforte si poteva vedere la città, le case lungo la costa, il porto militare e delle navi in entrata ed in uscita, si poteva riconoscere il tipo, il tonnellaggio e quindi l’eventuale obiettivo. Algesiras era il posto ideale per osservare Gibilterra, ma dal posto d’ormeggio dell’ Olterra tutto era ancora più visibile.

Appena Ramognino rientrò in Italia lo fece presente al comando della Xa Flottiglia Mas. L’idea di sfruttare la petroliera italiana per far partire i mezzi d’assalto da un punto vicino alla Rocca era veramente allettante. La proposta fu accettata. Così il comando dei mezzi d’assalto iniziò subito le trattative con l’armatore dell’ Olterra, stabilendo che una ditta spagnola di recuperi marittimi fosse incaricata di riportare a galla il piroscafo. L’armatore ovviamente doveva restare all’oscuro di tutto.

A questo punto della “grande” storia, nota a tutti gli uomini di mare, introduciamo la figura del Direttore di macchina del piroscafo Olterra, Paolo Denegri di Camogli, un  eroe per caso,  e mai riconosciuto  come tale, dalle Autorità militari e civili, forse per l’infausta conclusione della guerra, o probabilmente a causa della morte in azione di chi l’aveva scelto ed apprezzato per le sue qualità umane e capacità professionali.

Denegri aveva acquisito una notevole esperienza professionale a bordo delle migliori navi dell’epoca, con il grado di Direttore di Macchina e quando l’Italia entrò in guerra accumulò sulla Olterra un incredibile periodo continuativo d’imbarco: 64 mesi, (5 anni e 4 mesi)- in pratica tutto il periodo bellico ed oltre… -  testimoniato peraltro dal  suo “Libretto di Navigazione”.

In quell’insolito frangente, Denegri ha recitato, senza il minimo dubbio, la parte dell’oscuro e sconosciuto personaggio che ha costruito le infrastrutture logistiche a bordo della sua nave, ed ha quindi permesso la realizzazione delle azioni insidiose dei nostri assaltatori delle quali,  in parte, abbiamo già accennato.

La documentazione che c’è pervenuta tramite i figli di Denegri, Raffaella e Angelo è quella ufficiale e burocratica e la riportiamo come Allegati al termine di questo saggio. Tuttavia questi Atti, pur  provando la sua fattiva collaborazione ed il suo geniale supporto tecnico, non danno che una pallida idea dell’immenso e pericoloso lavoro svolto dal D.M. Denegri dentro una tana di lupi affamati.

A distanza di oltre 60 anni da quegli avvenimenti, si rimane ancora increduli ed ammirati dinanzi al coraggio di quest’uomo costretto a chiudersi nel silenzio più totale e ad armarsi soltanto del proprio coraggio. Non è retorica! Denegri era sorretto soltanto dall’amor patrio e dalla sua scorza marinara di camoglino doc, che non era quella tipica di un militare per scelta, ma qualcos’altro d’indefinibile, nella quale tuttavia si era identificato, accettando di seguire le sorti della sua bandiera e della sua nave, nella condizione precaria del falso-militarizzato in zona nemica, per poter dare tutto se stesso alla Marina Italiana ed alla Patria.

All’epoca degli assalti alle navi anglo-americane nella rada di Gibilterra, Denegri aveva meno di 50 anni ed era nel pieno della sua maturità psicofisica. Non erano mancati in quegli anni i contatti con la sua famiglia residente a Camogli, ma nulla poteva trapelare della sua particolare missione fiancheggiatrice degli assaltatori. La sua famiglia, per tutta la durata del conflitto, è stata completamente all’oscuro dell’attività svolta da Paolo a Gibilterra e dei numerosi pericoli in cui si era volontariamente cacciato. Il T.V. Visentini, uomo d’assoluto valore ed abituato a pesare il valore degli uomini, aveva ponderato a lungo sulle  referenze professionali, umane e caratteriali di Denegri e infine aveva scelto l’uomo “giusto” per le sue imprese.

La nave aveva subito un volontario incaglio per non cadere in mani nemiche, ma non era  mai stata abbandonata dal suo Direttore di Macchina. L’armatore della nave si prestò subito a collaborare e fece le regolari pratiche con le Autorità spagnole, spiegando di voler mettere la nave in efficienza. Ciò era alla base di tutto. Con regolari permessi potevano, così, farsi i lavori di trasformazione, far arrivare i materiali, giocando su tutti gli inganni. Il problema degli uomini fu pure risolto con la graduale sostituzione dell’equipaggio mercantile rimasto sull’Olterra. Era logico, inoltre, che nell’operazione del “riarmo” dovessero essere chiamati altri marittimi e tecnici specializzati. I nuovi arrivati appartenevano alla Marina da guerra o erano militarizzati. Alcuni erano operai delle officine di San Bartolomeo alla Spezia. Ma il vero scopo della nave genovese, come abbiamo visto, non era quello di ritornare a solcare i mari, ma era ben altro: sprigionare nottetempo dal suo ventre “uomini rana armati di mignatte e maiali con la testata carica di tritolo. Questo era il vero segreto che univa Denegri alla Xa Flottiglia Mas.

Riprendiamo il racconto e c‘inoltriamo nelle viscere dell’ “Olterra” trasformata in un moderno “cavallo di Troia”. Paolo Denegri non era l’eroe omerico che aveva escogitato la strategia di questa fantastica impresa, ma era il Direttore di Macchina, il massimo esperto-tecnico di bordo.

Dell’ Olterra Denegri conosceva i disegni a memoria, il numero dei chiodi, i bulloni e le lamiere che la tenevano insieme. Paolo era a bordo della cisterna dal 1936 e n’era anche la memoria storica. Chi poteva fare a meno di lui sulla “nuova” Olterra? Chi era in grado di modificare le strutture della nave, e nasconderle nello stesso tempo al nemico e poi far funzionare quel congegno bellico micidiale? Paolo, navigante civile e uomo pacifico, si trovava in mezzo a valorosi guerrieri, vere macchine da guerra, addestrati per affondare naviglio e uccidere nemici, ma erano giovani armati fino ai denti che erano però assolutamente disarmati di fronte alla tecnica navale. Per fortuna, con i guerrieri della Decima erano giunti dall’Italia alcuni ottimi operai, che avevano fatto gruppo con il D.M. Denegri, unica mente dislocata in fondo a quella cisterna, che solo lui conosceva fino al punto di trasformarla in una piscina per le prove idrauliche dei “maiali”. Presto questo strano dott. Jekyl, direttore della più piccola orchestra del mondo, suonerà per gli inglesi al ritmo di testate al tritolo.

STORIA DELLA TRASFORMAZIONE DELL’ OLTERRA

IN UN OMERICO CAVALLO DI TROIA

Dopo sommarie riparazioni alla carena, logorata per l’usura del tempo e del mare, l’ Olterra, che da un anno e mezzo era ferma e sbandata sui bassi fondali, fu rimorchiata nel porto spagnolo e ormeggiata alla testata del molo esterno. A questo punto l’organizzazione entrò in azione.

Naturalmente non bisognava destare sospetti nelle autorità spagnole (fin dal 10 giugno 1940 un picchetto di carabineros alloggiava sulla cisterna internata a norma degli accordi internazionali) ma soprattutto occorreva stare con gli occhi aperti nei riguardi degli inglesi, e non si doveva dimenticare che l’ Olterra era ormeggiata proprio sotto le finestre dell’albergo Vittoria, sede del consolato britannico di Algesiras.

D’accordo con il T.V. L.Visintini – distaccato sull’ Olterra per appoggiare gli uomini rana che operano a villa Carmela – il comando della Xa- Flottiglia Mas stabilì di trasformare la petroliera in una base per i “nuotatori d’assalto” e per i “maiali”,

A partire dall’estate del 1942, tutti gli sforzi della flottiglia furono dedicati all’ Olterra. E ora che la nave era ormeggiata al molo di Algesiras, occorreva attrezzarla e poi imbarcarvi gli operai e i tecnici per ripristinare i macchinari. Soprattutto bisognava trovare il sistema di far salire a bordo i mezzi d’assalto smontati e imballati, gli operatori, gli attrezzi e gli utensili indispensabili per il montaggio degli ordigni.

Bisognava far tutto all’insaputa degli spagnoli e dei britannici. Si giocava d’astuzia. Così appena lo scafo fu riportato a galla, venne subito semi-affondato per far riemergere dall’acqua tutta la prora, dicendo che occorreva martellarla e ripulirla. Due uomini su una zattera ben coperta da un telone si infilarono sotto la prora e lavorarono, pulirono e batterono, finché aprirono un bel buco di un metro quadrato, chiudibile dall’interno con un pezzo di lamiera fissa come un portello. L’ Olterra venne rimessa in orizzontale quindi si passò alle caldaie. Si ottenne che dall’Italia arrivassero casse piene di tubi necessarie alle riparazioni.


L’officina di montaggio si poteva raggiungere solo dal ponte di coperta e per tre strade: o smontando la nave, o conoscendo bene la strada o dedicando all’impresa ore e ore, perché bisognava percorrere un intricato labirinto che non finiva mai, reso impraticabile da cunicoli, scalette ripide e buie, pertugi che si potevano varcare solo strisciando, inseguiti da topi grossi come gatti. L’ultimo “possibile” passaggio era costituito da una scaletta a pioli che perpendicolarmente scendeva da un buco aperto nel soffitto della stiva di prora. Lì in fondo lavoravano i sommozzatori.


A missione compiuta, il foro superiore della stiva sarebbe stato rinchiuso  con una lamiera, nascondendo il rifugio e sarebbe stato riaperto per il prossimo montaggio. Un’altra lamiera chiudeva anche l’ingresso della piscina, attraverso il quale erano messi in acqua, uno alla volta, i “maiali” che, da quel buco sotto la prora, entravano in mare cavalcati dai piloti. I “maiali” rimasti senza testa, dopo l’assalto agli obiettivi, venivano riappesi agli argani sopra la piscina, completamenti nascosti, in attesa di essere nuovamente riforniti della carica di tritolo.

L’estate del 1942 fu quindi spesa interamente per preparare la nave ai compiti di base segreta per l’attacco a Gibilterra con i “maiali”. Il comando della base avanzata costituito sulla Olterra fu affidato al T.V. L.Visintini e, dopo la sua morte in azione, al C.C. Notari.

Dalla Olterra la Xa-Flottiglia Mas effettuò tre azioni:

Operazione “B.G.5” – 7 dicembre 1942

Operazione “B.G.6” -  7 maggio   1943

Operazione “B.G.7” -  3 agosto     1943

L’organizzazione era diventata, nel frattempo, così perfetta che non soltanto gli spagnoli – i quali dopo la terza missione cominciarono a effettuarvi parecchie ispezioni -  ma neppure gli inglesi, che dopo l’8 settembre 1943 la rimorchiarono a Gibilterra e non scoprirono mai nulla. A nessuno venne  in mente che da lì erano partiti i mezzi d’assalto italiani violatori della piazzaforte britannica. Ma probabilmente la cosa più stupefacente della vicenda dell’ Olterra è che un presidio spagnolo di sei uomini, comandati da un sergente, sostava permanentemente a poppa con l’incarico di vigilare e garantire la neutralità della nave. C’era una vera e propria officina che lavorava a pieno ritmo e loro non hanno mai sentito e visto niente.

Da un vecchio libro: “Eroismo Italiano Sotto i Mari” di R.B.Nelli Editore  De Vecchi-1968

riportiamo una realistica descrizione della preparazione per un attacco degli uomini “gamma”.

“La spedizione è ostacolata da innumerevoli difficoltà. Però gli italiani ci riescono e ai primi di luglio, uomini e cose sono riuniti a Cadice. Gli operatori entrano in territorio spagnolo divisi in due gruppi; il primo viene spedito alla base sommergibili di Bordeaux, poi da San Jean de Luz prosegue a piedi per sentieri montani attraverso i Pirenei aiutati da agenti della marina italiana; il secondo raggiunge Barcellona a bordo del piroscafo Mauro Croce e gli operatori sbarcano come marittimi disertori. Poi tutti insieme, a gruppi di tre, vengono condotti a Cadice e alloggiati a bordo della cisterna Fulgor. Nei giorni 11 e 12 arrivano a Algesiras e salgono sulla Olterra ancora semiaffondata. Per giustificare la presenza di tanta gente su quella nave l’equipaggio inizia finti lavori di manutenzione e di raddobbo.

Alla spicciolata, gli uomini dei mezzi d’assalto salgono a villa Carmela all’alba del 13 luglio: Ramognino ha già preparato tutto, accoglie gli 11 uomini e li nasconde alla vista della polizia spagnola e degli agenti britannici. Dall’osservatorio della villa, nascosto con una gabbia di pappagalli, gli operatori possono studiare i bersagli e il tratto di spiaggia dal quale muoveranno all’attacco dei piroscafi.

Gli operatori portano tre “mignatte” a testa e la squadra dei “nuotatori d’assalto” è così composta: S.V. Agostino Straulino, S.V. Giorgio Baucer, i marinai Giovanni Lucchetti, Vago Giari,

il sottocapo palombaro Giuseppe Feroldi, il palombaro Bruno di Lorenzo (di Rapallo) ed il capo silurista Alfredo Schiavoni, il 2° capo cannoniere Alessandro Bianchini, il sottocapo Evideo Boscolo, il fuochista Rodolfo Lugano, il fuochista Carlo Bucovaz. Undici uomini in totale.

E nel pomeriggio viene dato il via alla operazione CG1. Alle 3 del 14 luglio gli operatori, in completo equipaggiamento d’attacco, escono dalla villa e raggiungono la spiaggia seguendo un itinerario studiato in precedenza. In mezz’ora, passando uno alla volta davanti ai poliziotti che percorrono la spiaggia nei due sensi, tutto il personale entra in acqua. Nuotando silenziosamente, gli 11 uomini dirigono al largo; motoscafi incrociano nella rada e lanciano piccole bombe di profondità a intervalli serrati. Gli italiani riescono a passare ma ogni tanto sono costretti alla più assoluta immobilità, anzi a scomparire sott’acqua quando la luce di un riflettore passa sulle loro teste. Avanzano piano, hanno paura che lo sciacquìo li tradisca”.

Il documento qui sopra riportato si riferisce all’Atto di Requisizione dell’Olterra dopo i fatti dell’8 settembre 1943 ed alla nomina di Denegri responsabile della nave in assenza del Comandante.

Per dovere di cronaca dobbiamo soltanto aggiungere che il D.M. Paolo Denegri riportò, dopo tanti anni d’esilio, la sua amata  Olterra a Genova e qualcuno a Camogli ricorda che l’intrepido D.M. sostituì il Comandante anche nella navigazione di rientro. Erano tempi veramente duri, ed il fatto non ci sorprende più di tanto, perchè i comandanti superstiti della guerra erano pochi e paragonabili a merce molto preziosa…

Alla cessazione delle ostilità, l’Olterra riprese di nuovo a navigare. Posta finalmente in disarmo, giunse nella rada di Vado (Savona) nei primi mesi del 1961 e poco dopo iniziò la sua demolizione. Nel Museo Navale di La Spezia sono esposte alcune vecchie lamiere che costituivano parte del coronamento di poppa della nave su cui, in grandi lettere bianche su fondo nero, si legge:

Olterra-Genova

Anche nel Museo Marinaro di Camogli esiste un cimelio della nave, si tratta di un salvagente anulare che porta stampigliato il glorioso nome dell’Olterra.

Paolo Denegri sbarcherà definitivamente dall’Olterra il 29.4.1947 e continuerà a navigare con le navi dell’armatore Costa fino al 10.9.1960, data dello sbarco dall’Enrico C.

Da quel giorno  iniziò il suo meritato retired”.

Paolo Denegri  si spense il 19 novembre 1962 all’età di 69 anni.

In quella terribile tempesta che fu la seconda guerra mondiale,

lapiccola Liguria vantò alcuni primati:

- Un terzo del naviglio civile italiano, perduto nel conflitto, faceva

parte del compartimento Genova.

- Il più alto numero di Medaglie d’Oro al Valore Militare e di Marina: 20

Delle 130 Medaglie d’Oro concesse dalla Marina in 5 anni di guerra per fatti d’arme aeronavali, 31 andarono agli uomini dell’assalto o a coloro che si erano resi partecipi delle stesse imprese.

X-Flottiglia M.A.S.

“Erede diretta delle glorie dei violatori di porti che stupirono

il mondo con le loro gesta nella prima guerra mondiale e det-

tero alla Marina Italiana un primato finora ineguagliato, la X

Flottiglia M.A.S. ho dimostrato che il seme gettato dagli eroi

nel passato ha fruttato buona messe. In numerose audacissime

imprese, sprezzante di ogni pericolo, fra difficoltà di ogni ge-

nere create, così, dalle difficili condizioni naturali, come nei

perfetti apprestamenti difensivi dei porti, gli arditi dei reparti

d’assalto della Regia Marina, plasmati e guidati dalla X Flot-

tiglia M.A.S. hanno saputo raggiungere il nemico nei più si-

curi recessi dei muniti porti, affondando due navi da battaglia,

due incrociatori, un cacciatorpediniere e numerosi piroscafi

per oltre 100.000 tonnellate.

“Fascio eletto di spiriti eroici, la X Flottiglia M.A.S. è rimasta

fedele al suo motto: “Per il Re e la Bandiera”.

(Mediterraneo, 1940-1943)

Lo storico navale Tullio Marcon ha provato statisticamente che la mortalità tra il personale incursore fu nettamente inferiore a quella registrata tra gli equipaggi caduti della Marina Militare Italiana, nel secondo conflitto mondiale:

Mezzo d’assalto

Tonn.Affond

O Dannegg.

Interventi

Operatori                                 Impiegati

Operatori       Morti

Operatori

Prigionieri

Maiale

184.861

14

101

4

33

Barchino

16.484

7

41

2

12

Motoscafo

11.050

31

80

3

-

Gamma

28.348

14

71

10

13

Totali

247.743

66

293

19

58

Da questa breve statistica di T.Marcon si rileva che: su 293 militari assaltatori (incluse le riserve),

impiegati in 66 azioni, i morti furono 19 (7%) – i prigionieri 58 (20%). Andando ora ai valori assoluti per i caduti, la citata percentuale del 7% sale al 10% se si considera che tra i 293 impiegati

sono inclusi diversi reimpieghi, valutabili in un centinaio circa. Si hanno quindi 19 caduti su circa 190 uomini. Ebbene se si rammenta che sulla forza di 190.000 uomini in servizio con la Regia Marina, dal 1940 al 1945 i morti furono quasi 29.000, ossia il 15% del totale in valore assoluto, si può concludere che per i Mezzi d’assalto la sopravvivenza fu nettamente superiore a quella di altre specialità.

ALLEGATO N.1

ALLEGATO N.2

ALLEGATO  N.3

ALLEGATO  N.4

ALLEGATO  N.5


ALLEGATO  N.6

Bibliografia

M.Brescia-E.Carta-C.Gatti   Il Tigullio Un Golfo di Eroi. Ed. Busco-Rapallo.-2002

S. Bertoldi Navi e Marinai Comp. Generale Editoriale

R.B. Nelli                            Eroismo Italiano Sotto I Mari De Vecchi Editore

M.Spertini-E.Bagnasco       I Mezzi D’Assalto della Albertelli Editore 3 ristampa

Xa Flottiglia Mas

J.V.Borghese                       Decima Flottiglia Mas

Virgilio Spigai                    Cento Uomini Contro Due Flotte

Ringraziamenti:

Si ringrazia il Socio Nino Casareto, genero del compianto Socio Paolo Denegri per averci segnalato l’inedita storia qui riportata.

Un ringraziamento particolare va rivolto alla Signora Raffaella ed al Signor Angelo, figli di Paolo per averci consentito, sia la visione dei documenti che la pubblicazione e diffusione degli stessi sul sito della Società Capitani e Macchinisti Navali di Camogli e Mare Nostrum Rapallo.

 

Carlo GATTI

Rapallo, 20.02.12


Navi LIBERTY:La Seconda SPEDIZIONE DEI MILLE

 

LA SECONDA SPEDIZIONE DEI MILLE

In una nostra precedente pubblicazione, definimmo i Liberty:

“Le navi che vinsero la guerra e poi la pace”

“L’operazione Liberty” prese il via il 27 Settembre 1941 con l’entrata in linea dell’ormai celebre “PATRICK HENRY”, e si concluse con la consegna dell’ultimo esemplare, il “RODA SEAM” del tipo “collier” (carboniero) il 13 Ottobre 1945 da parte del Cantiere “Delta” di New Orleans-Louisiana. Tra queste due date ne scesero in mare ben 2710.

Viaggio inaugurale di una nave Liberty

Queste carrette dei mari furono costruite per compiere una traversata oceanica durante la Seconda guerra mondiale, tra gli agguati dei sottomarini dell’Asse, che agivano negli Oceani adottando  la ben nota tattica  “a branco di lupi”. In seguito a queste azioni belliche, affondarono circa  200 Liberty.

Subito dopo la fine del conflitto “i brutti anatroccoli”, come li definì F. D. Roosvelt,  ripresero a navigare e i più longevi lo fecero dignitosamente per circa trent’anni, partecipando alla ricostruzione della flotta mercantile  di quasi tutti i paesi belligeranti.

Nel 1945 si concluse una tragica guerra che fu combattuta in cielo, in terra ed in mare, lasciando ovunque distruzione, miseria e rovina.

Soltanto poche cifre sono sufficienti per mettere a fuoco un quadro spaventoso:

-  nel 1939 la flotta mercantile italiana contava 3.3 milioni di tonnellate di stazza lorda per un totale di oltre 1200 navi.

- nel 1945 le navi superstiti erano ridotte ad un numero molto esiguo che non raggiungeva in totale le 200.000 tsl. Inoltre le strutture ed infrastrutture portuali erano distrutte ed inagibili, i fondali da sgomberare da centinaia di relitti e da bonificare per la presenza di migliaia di proiettili e bombe inesplose.

A questo punto cruciale della storia martoriata del nostro paese, era necessario reagire con fermezza alla pericolosa situazione di stallo, ed era oltremodo impellente chiamare a raccolta tutte le forze vive e disponibili sul territorio, per passare ad un rapido piano  di ricostruzione.

Il viaggio della Rinascita

La motonave Sestriere

Così fu definito il viaggio della M/n SESTRIERE, che trasferì a Baltimora-USA 50 equipaggi destinati ad imbarcare su 50 navi tipo-Liberty acquistati dai primi coraggiosi Armatori Italiani. Quel giorno a Genova, alla presenza del Capo dello Stato - non è facile retorica -  rinacque la Marina Mercantile Italiana. Con molta curiosità,  entriamo ora nel vivo del racconto della spedizione e ci poniamo all’ascolto della oral-story del comandante Giuseppe “Gio” Ferrari, classe 1918, uno fra i rari superstiti di quella prima singolare avventura. Il protagonista è il figlio dello storico camogliese Giò Bono Ferrari, personaggio amatissimo da tutti i liguri rivieraschi per i suoi accuratissimi libri di storia e tradizioni  che ci hanno fatto conoscere i segreti della nostra terra e del nostro mare.

Comandante Ferrari, sono passati 56 anni dal giorno della partenza del SESTRIERE da Genova. Erano tempi duri! Avevo 26 anni e partii col grado di 2° ufficiale di coperta. Oggi si direbbe che ero poco più di un ragazzo, ma in realtà ero già un reduce di guerra; quattro anni di guerra “vera” sui sottomarini della R.M. dove mi ritrovai imbarcato al  termine del corso effettuato  all’Accademia di Livorno. Poi venne l’8 Settembre ’43 ed ormeggiammo la nostra unità a Taranto, nella attesa del suo trasferimento a Malta per  consegnarla agli Inglesi. Nel febbraio del ’44 mi congedai dalla M.M. per seri motivi di salute e fu la mia fortuna!  Il mio equipaggio, comandato dal C.c. Scarpa affondò in Atlantico con il smg Settembrini, fuori Gibilterra. Terminato il conflitto eravamo tutti in “braghe di tela”, perché tutto era stato distrutto: navi, porti, cantieri navali, fabbriche, ferrovie, strade. Eravamo affamati e senza lavoro. Ma la voglia di  rimboccarci le maniche era tanta e a tutti i livelli; dovevamo ricostruirci un futuro, al più presto, soprattutto per dimenticare il passato. La grande occasione ce la diedero gli Americani su un piatto d’argento. Una parte della loro enorme flotta, composta di circa 2000 Liberty in disarmo nelle rade e nelle foci dei fiumi, fu messa in vendita sul mercato, nell’ambito del piano Marshall, per favorire una rapida ripresa dei  trasporti e dei commerci internazionali in un rinnovato clima di pace mondiale. I noli favorevoli e l’impellente richiesta di carbone, per avviare la produzione industriale Europea, impresse quella strana euforia che presto si tramutò in una frenetica attività imprenditoriale.

Il progetto c’era ed era concreto. La nostra speranza in seguito salì alle stelle  quando si sparse la voce dell’acquisto in blocco di 50 Liberty-Ships, che sarebbero state  ritirate, direttamente in America, da 50 equipaggi italiani. Alcuni nostri coraggiosi Armatori: Lauro, Costa, Ravano, Pittaluga, Marsano, la Soc. Italia, il Lloyd Triestino, la Cooperativa Garibaldi, la Soc. Citmar, l’Alta Italia, Gruppi Amatoriali Savonesi ed altri ancora avevano firmato il contratto con la garanzia del Governo Italiano. Si aprì immediatamente la caccia all’imbarco.

Ci parli della M/n SESTRIERE.

La M/nave da carico SESTRIERE meriterebbe un capitolo a parte, se non altro per le innumerevoli avventure di guerra in cui si trovò coinvolta. La bella motonave di 8652 t.s.l., apparteneva alla Società di Navigazione Italnavi di Genova,  era una delle pochissime superstiti della Seconda g.m. - Varata a Taranto nel 1942 fu trasformata, in occasione del nostro viaggio verso gli States, per il  trasporto di circa 800 emigranti in cameroni approntati nei corridoi delle cinque stive e provvisti di letti a castello per tre persone ciascuno.

Comandante, immagino che l’altissimo numero di passeggeri ammassati negli angusti corridoi delle stive del SESTRIERE vi abbia procurato dei disagi non solo logistici…

Ad essere sinceri eravamo consapevoli della portata storica dell’avvenimento e quindi della nostra condizione di privilegio, tuttavia ricordo che non mancarono i mugugni e le rimostranze. Ricordo soprattutto che ci venne a salutare lo stesso sindacalista Giulietti alla Stazione Marittima, il quale  nell’occasione ci  rassicurò sia per l’abitabilità della nave, che per la sicurezza del trasporto di quell’imponente e un po’ speciale carico umano, in quell’imminente  spedizione oltre oceano. Non ricordo esattamente, ma credo che  ci fecero imbarcare e poi sbarcare due o tre volte dalla nave, nello stesso giorno, per permettere alle squadre di bordo di stanare gli immancabili clandestini. Ne furono trovati alcuni, ma sette riuscirono ad arrivare in America. Era l’8 novembre 1946 quando, alla presenza del Capo dello Stato, lasciammo la banchina passeggeri di Ponte dei Mille fecendo rotta  per Baltimora-Stati Uniti. Al comando della spedizione c’erano due grandi Comandanti in fase d’avvicendamento: il camoglino C.l.c. Pastorino  e l’imperiese C.l.c. Arimondi. Il nostro gruppo, appartenente all’armatore Achille Lauro, fu sistemato nei corridoi della stiva n°4, a poppavia del cassero, in letti a castello da tre posti. Alcuni tavolacci per il consumo dei pasti erano stati approntati nei corridoi stessi, mentre per i servizi igienici ci dovemmo accontentare d’alcune tughe di legno costruite in coperta e fornite d’acqua di lavaggio in circolazione permanente, con scarico diretto in mare.   Chiunque può immaginare gli effetti di una tale situazione di promiscuità in un così esiguo  spazio vitale. Ma la fortuna ci diede una grossa mano. Considerando la stagione in corso, il tempo fu eccellente ed il viaggio durò soltanto 14 giorni.

Come siete stati accolti in America?

“Arrivati felicemente a Baltimora-Maryland iniziò un iter burocratico per noi tanto sorprendente quanto inatteso. Quasi subito  fummo trasferiti a Hampton Roads, nella Baia di Chesapeake-Virginia. Consegnati in stile militare al Reparto dell’Emigrazione fummo a lungo interrogati  sui nostri trascorsi bellici e politici, sulla  base del Crew’s List (Ruolino Equipaggio) che, spedito da Genova, era ovviamente giunto negli States prima di noi ed era già stato analizzato e verificato a dovere. Il pericolo da evitare, per le preposte Autorità della Virginia, era costituito dall’eventuale infiltrazione di comunisti nel tessuto sociale americano.

Ci presero le impronte digitali e ci rilasciarono un apposito tesserino che conservo ancora tra i mie cimeli di navigante. Alcuni medici ci visitarono accuratamente e diedero l’O.K. al nostro ingresso negli Stati Uniti. La sosta  fu breve e quasi subito fummo trasferiti via treno a New York per ritrovarci il giorno dopo nella famosa Ellis Island.


Che cosa rappresentava per voi Ellis Island?

La sua posizione isolata ed emarginata, situata alle porte  di quella enorme e pulsante megalopoli che è la città di New York, inizialmente ci evocò la “quarantena” dei nostri emigranti, la diffidenza e il sospetto, i lunghi periodi d’isolamento, i rimpatri forzati. Poi, da buoni italiani, e per il fatto d’essere emigranti provvisori, già in regola con tutte le formalità burocratiche, ci organizzammo la nostra vita privata ed il  tempo libero. In seguito, facendo visita ai nostri connazionali,  conoscemmo le loro realtà quotidiane  ed anche le loro alterne fortune. In quel magico limbo rimanemmo in attesa della sospirata chiamata. Ma il nostro Liberty non era ancora pronto per la consegna. Nel frattempo, con altri sette del mio equipaggio, trovai  anche la possibilità di guadagnare 35$ la settimana presso una fabbrica di dolci. Il proprietario era un camoglino “doc”,  e durante i ventidue giorni d’attesa, grazie al suo appoggio, incontrammo tanti altri connazionali che ci portarono a scoprire  quella affascinante città che era rimasta “estranea” alla guerra e che aveva galoppato velocemente verso una nuova era. Alcuni della “spedizione” non resistettero al fascino del “New World” e disertarono con l’aiuto di parenti già immigrati e regolarmente residenti. Tuttavia il gruppo d’Ellis Island si andava assottigliando ogni giorno, finché giunse anche per noi la convocazione ufficiale. La nostra nave si trovava presso la “Reserve Fleet” di Mobile-Alabama e quando fu stabilita la data di partenza, la raggiungemmo in treno. Il viaggio durò trentasei ore.

Reserve Fleet - Navi Liberty ormeggiate in massima sicurezza

Al primo impatto con quella baia ricoperta di centinaia di Liberty ancorati ed affiancati a rovescio, (prora con poppa), ci venne naturale riflettere su  quell’immensa produzione bellica ed alla presunzione di chi ci aveva governato per vent’anni e che non aveva minimamente stimato il patrimonio umano, la ricchezza, le capacità tecniche ed organizzative, di quella potenza economica che era l’America di quel tempo. E ci fu subito un’altra sorpresa: ci aspettavamo, dato il basso costo d’acquisto della nave, d’imbarcare s’un residuato bellico quasi da demolire. Al contrario ci trovammo su un Liberty perfettamente funzionante, in ottimo stato di conservazione, perché era visibile, in ogni suo angolo, l’opera di una manutenzione accurata ed eseguita  ogni  giorno durante la sosta alla fonda. La nave era  provvista di frigoriferi, ampie salette, cabine singole per gli ufficiali e doppie per la bassa forza. La strumentazione nautica: girobussola, radiogoniometro, eco-scandaglio, costituiva una novità assoluta per quell’epoca. Devo dire che tutto il  materiale a nostra disposizione sul Liberty era all’avanguardia per quei tempi.

Reserve Fleet: Navi "VIctory" - "T/2" ed altre ormeggiate sull'Hudson River

Presi dall’entusiasmo ci organizzammo a dovere e dopo qualche giorno partimmo per il nostro primo viaggio diretti a Pensacola-Florida. Ci attendeva un carico di carbone per Genova. “AIDA LAURO” era il suo nuovo nome che io stesso scrissi sulla poppa della nave.

Quel mio primo sospirato imbarco da civile  durò ben 36  mesi e fu il primo di una lunga serie che mi legarono fedelmente al mio Armatore Achille Lauro per tutta la vita. La mia carriera prese inizio in quei giorni fatidici, prima come Ufficiale e Comandante, in seguito  come Ispettore e Dirigente dislocato un po’ dappertutto nel mondo, inseguendo o precedendo, a seconda delle circostanze, sia  le navi da carico,  sia quelle più famose come l’Achille Lauro, l’Angelina L. il Napoli, la Surriento, la Roma, la Sidney ed altre. Comandante Ferrari, siamo giunti al termine di questa rievocazione storica e le assicuro che spesso ci siamo sentiti imbarcati al suo fianco. La ringraziamo per questa insolita emozione.

NOTE

1 – Il Liberty del com.te Ferrari si chiamava  “JOHN EINIG”. Impostata il 1.12.1943, fu varata il  14.1.1944 e consegnata il 31.1.44 dal Cantiere Navale St. Johns River di Jacksonville con il n.28. Durante la guerra  navigò nell’Oceano Pacifico. Per la cronaca fu demolita a La Spezia nel 1969 dopo una navigazione durata 25 anni in tutti i mari del mondo.

2PATRICK HENRY fu il primo Liberty a scendere in mare il 27 settembre 1941, e quel giorno diventò il LIBERTY FLEET DAY. Per la sua costruzione occorsero 245 giorni, un tempo che fu gradualmente ridotto. Fu proprio di Baltimora il Cantiere che lo costruì: Bethlehm Fairfield Shipyard.

3 - Nel 1946 furono offerte all’Armamento italiano importanti possibilità di rinnovamento e di ricostruzione: il provvedimento del Governo in data 20 Agosto 1946 concedeva in particolare agli Armatori di trattenere la valuta estera introitata perché fosse impiegata nell’acquisto di naviglio usato e lo Ship Act degli Stati Uniti consentiva la vendita all’estero di navi residuate di guerra a condizione di particolare favore. Per facilitare l’acquisto delle navi furono stipulati accordi tra il Governo degli Stati Uniti e quello Italiano, per cui il Governo Italiano provvide a comperare in proprio le navi dalla U.S. Marittime Commission e a rivenderle agli armatori secondo un criterio di preferenza in base alle perdite subite. Il prezzo medio di ogni Liberty si aggirava sui 225.000 $. Il Governo Italiano provvide, inoltre a fornire agli Armatori la valuta per il pagamento immediato del 25% del prezzo e al Governo degli Stati Uniti la garanzia per il pagamento del residuo 75% in 20 anni al tasso del 3,50%. Furono così acquisite alla bandiera italiana in tre lotti successivi 95 navi da carico del tipo “Liberty” o similare, di circa 7.600 t.s.l. e 10.800 t.p.l, 20 navi cisterna del tipo “T/2” di circa 10.400 t.s.l. e 16.600 t.p.l. e otto navi da carico del tipo “N3” di circa 2.000 t.s.l. e 2700 t.p.l.

4 – ELLIS ISLAND - New York con la sua gigantesca baia fu di gran lunga il punto d’arrivo principale delle correnti migratorie dall’Europa a partire dalla metà dell’ottocento. Nel 1892 il vecchio centro di raccolta di Castle Garden, sulla punta di Manhattan, era stato sostituito da Ellis Island, una delle isole della baia, che fu chiusa definitivamente all’inizio degli anni Cinquanta. (Soltanto da poco tempo è diventato un grande museo dell’immigrazione). Nel 1924, tra l’inaugurazione e l’approvazione di leggi molto restrittive sull’immigrazione, passarono da Ellis Island 24 milioni di persone. Nel solo 1907, anno record, un milione 200 mila. Tra il 1900 e il 1920 la media degli “arrivi” negli States, concentrati per la maggior parte su Ellis Island, fu di duemila al giorno.

Ellis Island richiamò gli Ebrei, gli Slavi, gli Italiani ed in pratica tutta l’immigrazione dell’ultima parte dell’ottocento e dei primi decenni del nostro secolo che non fosse né anglosassone, né scandinava; composta quindi d’uomini e donne in gran parte scuri di capelli, di religione cattolica oppure ortodossa, e comunque estranei al mondo protestante.

Esisteva un’invisibile ma significativa linea di demarcazione, una specie di frontiera religiosa  ben definita dal Luteranesimo ed ancor più rimarcata dai movimenti radicali Calvinisti che furono poi gli artefici di una nuova filosofia economica  Americana. L’industriale d’oltre oceano aveva bisogno, come non mai, delle loro braccia. L’atmosfera che li accoglieva era tuttavia assai più difficile e diffidente di quella che qualche decennio prima aveva accolto le precedenti ondate.

Carlo GATTI

Rapallo, 19.02.12

 

First, some general information and statistics:

 

According to the records available in Italy, a total of 2,490 Liberty ships were built during the period December 1941 / June 1945, at an average cost of US$ 1,782,192 and average production of 2 ships per day. The unit built in the least time, from keel laying to launching, was the Robert E. Peary that took 4 days, 15 hours, and 30 minutes, during the period 8 - 12 November 1942, at the Permanente Metal Works Yard 2, in Richmond, California. The average time of construction was about 17 days per ship....!

 

The first vessel to be launched was the Patrick Henry (December 1941, in Baltimore). The Stephen Hopckins, using her guns, allegedly sunk the German cruiser STIER (already damaged). The Charles. H. Cugle became, well after the end of the hostilities, the first

 

floating nuclear electric generating plant, under the name of STURGIS and operated by the Army Corps of Engineers.

 

Secondly, with specific reference to the Liberty ships given to Italian Companies, we have the following information:

 

128 ships were delivered in total. The attached tabled list 1 a) gives the original hull number, Shipyard, year of commission, Engine Manufacturer, original US name, year of registration under Italian flag, Italian name, Italian Owner, and home port.

 

List 1 b) shows the life of the 128 ships, with their US original name, the first Italian name, any subsequent names and flags, and finally, the year and place of scrapping.

 

Some additional interesting statistics concerning Liberty ships registered in Italy:

 

First Liberty ship registered under Italian flag: the MONTELLO (ex Harriet Monroe), in 1946, for the company Alta Italia of Genova.

 

Average life of the 128 ships registered in Italy: 24 years.

 

There were 9 ships that were re-engined with diesel engines (see table 2).

 

There were 3 ships converted to storage vessels.

 

Four vessels were cut in two, re-welded to another section and eventually resulting in 2 re-built ships (four halves were scrapped).

 

Four ships, all belonging to Italia di Navigazione, sailed for 27 year under Italian flag (30 and 31 years from commissioning).

 

Out of the total 128 ships, 5 were lost at sea under the original owner and Italian flag, 1 under Italian flag but different owner, 6 under different owner and flag.

 

Of the 128, 104 ships are known to  have been scrapped, 5 ships we do not know their final ending, 3 were converted to storage, 4 were cut in half and became 2, 12 were lost at sea.

 

One ship. the TITO CAMPANELLA, under the original US flag and name (SAMSYLARNA) was sunk by German torpedoes in 1944, in the east Mediterranean. Re-floated and acquired by the company Campanella in 1952, was later sold to Poland in 1961 and named HUTA AOSNOWIEC. Eventually she was scrapped in Bilbao, Spain in 1971.

 

 

Cesare Sorio

 

 

 

 

 

 

 


REX-CONTE DI SAVOIA-L'Epopea dei Levrieri

Anni ‘30

L’EPOPEA DEI LEVRIERI

REX - CONTE DI SAVOIA”

Con questi Giganti di linea, near sisters”, la genovesità entrò nell’olimpo delle grandi tradizioni marinare del mondo.

La loro perfetta armonia: esito felice di equilibrio, eleganza e tecnologia, ebbe il suo ambito riconoscimento con la conquista del prestigioso BLUE RIBBON.

Il REX con il Gran Pavese entra trionfante a New York – Lo attende il “Nastro Azzurro”

The REX arriving at New York – she won the “Blue Ribbon” for her services

Era il 16 agosto 1933. Il Nastro Azzurro fu assegnato al REX sulla distanza storica Gibilterra-New York (L.V. Ambrose): Il percorso di 3.181 miglia fu coperto in 4 giorni-13 ore e 58 minuti, alla velocità oraria di 28,92 nodi.

Il REX sullo scalo di costruzione nei Cantieri Navali di Sestri Ponente.

The REX on the shipyard’s slipway at Sestri Ponente (Genoa)

I dati tecnici delle due navi sono riportati nella parte tradotta in inglese alla fine dell'articolo.

 


Il CONTE DI SAVOIA in navigazione davanti alla Rocca di Gibilterra.

The CONTE DI SAVOIA in navigation off Gibraltar.


Il CONTE DI SAVOIA visto di poppa in navigazione

The CONTE DI SAVOIA seen by the stern in navigation

Per potersi adattare alle colossali misure dei due transatlantici, il porto di Genova dovette procedere alla demolizione del tratto terminale del Molo vecchio e dragare il canale d’attracco verso Ponte dei Mille. Fu progettata e realizzata la nuova Stazione Marittima di Ponte Andrea Doria ed infine fu realizzato un’ulteriore bacino di carenaggio della lunghezza di 261 metri.

Nuvole nere apparvero, in modo prematuro, all’orizzonte e presagirono tempeste su tutto il mondo. Presto

calerà il sipario sulla “stagione d’oro dei transatlantici” che lasceranno la scena ai nuovi barbari.

Un’altra bella immagine dell’elegante linea del CONTE DI SAVOIA

Gli eventi bellici della 2a guerra mondiale interruppero e conclusero la brillante e breve carriera del REX e CONTE di SAVOIA in modo molto tragico.

Nel 1939 sulle murate delle navi italiane vennero dipinte due grandi bandiere tricolori in segno di neutralità, per distinguerle dalle unità degli stati coinvolti nella 2a guerra mondiale.

8 Settembre 1944: il REX sotto i bombardamenti della R.A.F.

The REX under bombardment by the R.A.F. on the 8th September 1944

Il 25.5.1940 la Direzione della Società Italia di Navigazione annunciò la sospensione del servizio transatlantico di linea. REX e CONTE di SAVOIA furono destinate ad un lungo disarmo verso porti più sicuri di quello di Genova.

Il REX, dopo vari scali intermedi, ormeggiò al molo VI° di Trieste.

Il CONTE di SAVOIA trovò l’attracco a Venezia-Malamocco.


1947: il REX colpito a morte giace su un fianco in attesa della demolizione

1947: the REX overturned on her side awaiting demolition


L’11 settembre 1943, i tedeschi incendiarono il CONTE DI SAVOIA per impedirne la fuga e la consegna agli alleati. La nave bruciò completamente e affondò nella rada. Il 6 ottobre 1945 il relitto fu recuperato, ma per una serie di motivi tecnici e soprattutto economici, la decisione fu quella di demolirla nel 1950.

The CONTE DI SAVOIA set on fire by the Germans to prevent escape and possibility delivery to the Allies. She completely burnt out sunk in the roads. On 16th October 1945, the wreck was recuperated, but for a series of technical reasons and above all economical she was finally broken up in 1950.

L’armistizio segnò la fine di queste splendide unità che spaventate e ridotte ad un ammasso di ruggine, rappresentavano ormai l’ombra ed il rimpianto di un’epoca irripetibile.

Il 9 settembre 1943 i Tedeschi occuparono Trieste. Sul REX iniziarono subito le razzie di tutti i suoi preziosi arredamenti, tappeti, quadri, posaterie, porcellane ecc…

Il 13 marzo 1944 l’ex-ammiraglia cambiò bandiera e dal quel giorno fece compartimento Amburgo.

Il 10 giugno 1944 il REX si salvò miracolosamente da un terribile bombardamento a tappeto che colpì tragicamente Trieste.

Molte incursioni della RAF convinsero i Tedeschi a rimorchiare il REX nella rada di Capodistria. Il suo trasferimento non passò tuttavia inosservato agli Inglesi che il 9 settembre 1944 apparvero nuovamente a bassa quota con i temibili Beaufighters e la colpirono a morte, con ben 123 razzi incendiari.

Stessa tragica sorte era già toccata al CONTE di SAVOIA l’11 novembre del ’43 quando la più bella unità italiana fu ridotta ad un ammasso di lamiere fumanti, sotto i bombardamenti di una squadriglia d’aerei tedeschi.

Carlo GATTI

Rapallo, 18.02.12

Questo capitolo é stato estratto dal libro di Carlo Gatti

GENOVA:

STORIE DI NAVI E DI SALVATAGGI

GENOA:

HISTORY OF SHIPS EVENTS AND SALVAGE OPERATIONS

Edizione bilingue: Italiano – Inglese

Nuova Editrice Genovese 2003

 

THE 1930’S

THE GLOURIOUS EPOCA OF THE TRANSATLANTIC LINERS

“REXANDCONTE DI SAVOIA”

With these giants of the “near sisters”, the Genovese entered into the olympus of the great world marine tradition.

Their perfect harmony: the happy outcome of equilibrium, elegance and technology, earned an ambitious reward by being awarded the prestigious:

BLUE RIBBON

To the REX for the historic distance Gibraltar-New York (Ambrose). The voyage of 3.181 miles was done in 4 days, 13 hours and 58 minutes. At the speed of 28,92 knots. It was 16th August 1933.

To be able to accomadate the colossal size of these two transatlantic liners, Genoa port had to proceed to demolish the terminal part of the Old Pier, and deepen the channel towwards the main berth of the Ponte dei Mille Pier.

The new marine Station Andrea Doria Pier was projected and built another drydock of 261 metres.

The wartime events of the Second World War interrupted and concluded the brillant and unfortunately, short career of the liners “REX” and “CONTE DI SAVOIA”.

 

FEATURES

REX

CONTE DI SAVOIA

Type

Liner

Liner

Flag

Italian

Italian

Port of Registry

Genoa

Genoa

Ordered

2.12.29

28.12.29

Shipyard

Ansaldo-Genoa

S.Marco-Trieste

Owner

N.G.I

Lloyd Sabaudo

Launching

1.8.31

28.10.31

Gross Tonnage

51.062

48.502

Lenght O.A. (Mt.)

268

248

Max. Breadth (Mt.)

29.5

29

Draught (Mt.)

10.07

10.00

Engine

Turbine Parsons

Turbine Parsons

Daily consumption

700/800 tonn. Nafta

700/800 tonn. Nafta

Max. Power (H.P.)

142.000

130.000

Decks

12

11

Watertight bulkheads

14

14

Cruising speed

28

29.5

Max. speed

29

29.5

1st Class Passengers

604

500

2nd Class Passengers

378

366

Stearage Passengers

410

412

3rd Class Passengers

866

922

Crew

756

786

Architecture style

‘800

‘900

Inauguration

25.9.32

30.11.32

Maiden Voyage: Dep.Genoa

25.9.32

3011.32

Dates Arr. N.Y.

7.10.32

13.12.32

Captain

F.Tarabotto

A.Lena

Chief Engineer

A.Risso

 

 

Dark clouds overshadowed the world’s horizon like a storm. Only too soon the curtain closed the “golden era of the transatlantics” leaving the scenery to the new “barbarics”.

In 1939 two big tricolour flags were painted on the ships’ sides so as to distinguish them as a sign of neutrality and not involved with the Second World War.

On the 25.5.1940 the Directors of the Company, “Società Italia di Navigazione”, announced the suspension of service of the two liners. REX and CONTE DI SAVOIA, were sent to more secure ports to Genoa for a long lay-up.

The REX after diverse intermediate ports finally tied up at the 6th berth at Trieste. The CONTE DI SAVOIA finally berthed at Venice-Malamocco. The amnistice signalled the end of these splendid vessels which were now reduced to a mass of rusty ruins, representing only a shadow of their past beauty and a great mourning of an unrepeatable epoca.

On 9 September 1943 the Germans occupaied Trieste. Straight away they stripped the REX of all the precious furnishing, carpets, paintings, cutlery, crockery etc..

On the 13th March 1944 the vessels’ flag was changed to a Hamburg base flag. On 10th June 1944 the REX came miraculously through a terribile low flying bombardment which tragically struck Trieste.

The many RAF raids convinced the Germans to tow the REX into the Capodistria roads. Her transfer didn’t go unnoticed by the English who on 9th Novembre 1944 appeared again making low flying raids with those terrible Beaufighters and with mortal hit her with about 123 incendiary rockets.

The tragic event had happened to the CONTE DI SAVOIA on 11th Novembre 1943 when the mass of smoking iron under the bombardment of a German air squadron.


The TALL SHIPS' RACES 2007

THE TALL-SHIP RACE - 2007

MEDITERRANEA

 

L’uomo di mare del terzo millennio dispone di una tecnologia così avanzata che era impensabile immaginare soltanto qualche decennio fa. Tuttavia, l’ambiente in cui si muove il marinaio è sempre lo stesso: quello delle tempeste, delle onde anomale, delle guerre che oscurano i sistemi satellitari di navigazione ecc…. Sembra persino ovvio affermare che le navi moderne siano più “sicure” che in passato, ma nessuna è stata ancora definita inaffondabile; gli uomini di mare lo sanno e sono anche consapevoli che il loro bagaglio  pratico e culturale  deve ancora partire da lontano, dalle cosiddette Navi-scuola che tutte le nazioni marinare adottano per la formazione dei propri quadri naviganti.

Questi preziosi lasciti della Storia Navale, oggi si chiamano TALL SHIPS, ossia gli alti velieri che solcano silenziosi gli Oceani, carichi soltanto di ricordi e di giovani cadetti che portano ovunque la “nostalgia” di un’epopea millenaria e rappresentano ancora la prima vera scuola: “la palestra del vento” per tanti futuri capitani.

La prima Tall Ships Race fu corsa nel luglio del 1956 da Torbay, sulla costa meridionale inglese, a Lisbona, nel Portogallo; i partecipanti erano 20 e l’inglese Moyana, armato dalla Scuola di Navigazione di Southhampton, vinse nella Classe A, mentre l’Italia, con Artica II, si aggiudicò la Classe B. L’avvenimento ebbe luogo grazie, soprattutto, alla tenacia dell’inglese B.Morgan che lottò per il progetto di far rivivere l’epoca dei Grandi Velieri e riuscì ad assicurarsi il patrocinio dell’allora Primo Lord del mare all’Ammiragliato, Louis F. Maountbatten.

Oggi la maggior parte dei velieri di Classe A è impiegata come “nave-scuola”, ma fu proprio la prima Race ad offrire, sin dall’inizio, l’occasione di ammirare queste splendide imbarcazioni, fornendo un ottimo strumento pubblicitario per lo sviluppo della vela, ma anche di un’originale attrazione turistica.

 

Da allora, ad intervalli regolari, la flotta degli alti velieri ha continuato, a visitare, tra una Race e l’altra, decine e decine di tradizionali città marinare in tutto il mondo. Nella stagione 1984, la goletta Marques fu vittima dell’unico disastro verificatosi sino ad oggi nella storia delle Tall Ships. La flotta si riunì a St.Malo e regatò via Las Palmas, sino allle Bermuda, dove si unì alla flotta  americana, che aveva gareggiato con partenza da Portorico. Dalle Bermuda i concorrenti fecero rotta verso Halifax, nella Nuova Scozia. Purtroppo, quando si trovarono al largo della costa orientale canadese, alcune di loro incapparono in condizioni meteorologiche assai sfavorevoli. La goletta Marques fu travolta dalla tempesta ed affondò in due minuti; 19 uomini dell’equipaggio perirono e i soli nove superstiti furono tratti in salvo dalla concorrente polacca Zawisza Czarny.

Il 1992 fu l’anno del “Quinto Centenario” della Scoperta delle Americhe. Ad onorare il Grande Ammiraglio genovese, “colui che ampliò il mondo”, si presentò la Flotta delle Tall Ships in un’importante sfilata. Lo scenario, così denso di colori e silenzi, fu la sintesi di tanti ricordi, ma soprattutto rappresentò  il ponte ideale ed insieme reale che ci unì quel giorno alle nostre radici di marinai.

A nostro parere, questo legame con il passato si esalta ancora di più  nel raffronto squilibrato con le navi d’oggi, che a detta di molti, sono il prodotto di un esasperato gigantismo commerciale.  Ci riferiamo in particolare all’ultimo varo eccellente, la nave porta-contenitori Emma Maersk che è lunga esattamente quattro volte l’Amerigo Vespucci ed ha soltanto 13 persone d’equipaggio.

A questo punto potremmo intrattenervi sulla corsa sfrenata alla robotizzazione, sulla solitudine dei naviganti moderni, sui pericoli di una semplice influenza che potrebbe decimare un equipaggio  già  ridotto, ecc….ma possiamo soltanto dire  che le battaglie contro il progresso sono tanto dannose quanto inutili e quindi sono perse in partenza.

Per il momento non ci rimane che sognare ed aspettare l’evento tanto atteso che avrà luogo il prossimo mese di luglio:

La Regata Mediterranea delle TALL SHIPS organizzata da Sail Training International che prevede il seguente svolgimento:

Dal 4 al 7 luglio  RADUNO ad Alicante.

1a Gara: Il 7  Luglio   PARTENZA da Alicante  -  Il 12 Luglio ARRIVO a   Barcellona

Trasferimento da Barcellona a Tolone.

2a Gara: Il 15 Luglio  PARTENZA da Tolone    -   ARRIVO a GENOVA tra il 28-31 luglio

Sponsor della “Tall Ships Race-Mediterraneo” è la MSC-Crociere, il cui direttore si è così espresso: “La Compagnia ha una vocazione innata per la storia e le tradizioni del mare. Le nostre navi solcano rotte e toccano porti in tutto il mondo; è per noi un onore, oltre che motivo d’orgoglio, poter offrire a Genova, porto d’imbarco delle nostre crociere, la possibilità di ospitare uno degli eventi più sentiti nel mondo della vela”.

Noi siamo felici e fiduciosi che uomini di mare abbiano preso in mano il timone della Manifestazione e proprio a loro rivolgiamo il seguente appello:

“fateci rivivere quell’emozione!”

- Era la Pasqua del 1992. Pochi spettacoli sono stati più emozionanti dell’armoniosa bellezza di una flotta di grandi velieri che sono  scivolati via, silenziosi fuori del porto, lungo una linea sinuosa e policroma che avanzava e si estendeva sempre più verso la costa della Riviera di levante.

In quella splendida giornata d’antichi revival, oltre mezzo milione di turisti estasiati, si unì ai genovesi per ammirare l’immensa rada che improvvisamente si trasfigurò in un sogno vero. Il passato sembrava risorto nelle sembianze di una processione solenne che sgusciava lentamente, con la prora in direzione del santuario della tradizione: la Camogli dei mille bianchi velieri. -

Carlo GATTI

Rapallo, 17.02.12

 

 

 

 


Nascita di COPPA AMERICA

UN PILOTA DEL PORTO DI NEW YORK

FU IL PRIMO EROE DI COPPA AMERICA

Nel mondo della marineria esiste un personaggio ancora avvolto nella sua antica leggenda e dalla quale non è mai completamente uscito per integrarsi con la gente di terra tra la quale opera quotidianamente. Parliamo del pilota portuale che non solo incuriosisce le migliaia di passeggeri delle navi da crociera, quando si affacciano dalle murate per filmare l’acrobatica arrampicata di quell’omino in divisa che viene da terra per condurre la nave in banchina, ma turba anche gli abitanti della costa che spesso e volentieri confondono il suo ruolo con quello del comandante del rimorchiatore oppure con l’ufficiale di guardia sul ponte di comando e qualche volta anche con l’ormeggiatore portuale.

Il suo mestiere, antico come la prima nave, ha subito nell’arco della sua infinita storia pochi mutamenti, se pensate che tuttora per salire a bordo si serve di una semplicissima scala di corda a tarozzi di legno (biscaglina) in uso già da qualche millennio.

Una svolta, tuttavia, c’è stata all’inizio del ‘900, quando i legislatori decisero che era ora di porre fine alle pericolose gare tra singoli piloti a chi riusciva ad abbordare per primo la nave in arrivo ed acquisire quindi il diritto di prestare la propria opera. Erano vere e proprie battaglie navali ingaggiate per lavorare e sopravvivere; erano gare, tutt’altro che sportive, fra velocissimi cutters in Europa e tra shooners in America, condotte da piloti espertissimi e duri che, a similitudine dei corsari si servivono di tattiche, astuzie e cattiverie senza esclusioni di colpi e si raccontano di loro storie incredibili d’incidenti che procurarono feriti ed anche morti.

La dura scuola dei piloti portuali creò una fucina d’eccellenti skippers in tutto il mondo. Oggi salteremo l’Atlantico ed approderemo a New York per un motivo che presto scoprirete.

Si era all’inizio del 1851 e il Club Velico Reale di Londra (E.R.Y.S), saputo che il meno blasonato New York Y.C. stava costruendo una goletta (schooner) da competizione, invitò ufficialmente il sindacato americano del Club a Cowes (I. Wight) per tastare la nuova tecnologia d’oltremare. Occasione del race era la Great Exhibition organizzata dal principe Alberto, marito della regina Vittoria.

La goletta in costruzione, su specifica degli armatori, doveva essere velocissima, ma questa ambizione di primato portava il suo costo a 30.000 dollari. America era il suo nome ed era lunga 31 metri, larga 6,70, aveva gli alberi alti 24 metri e fu consegnata ai suoi armatori il 18 giugno 1851. Perse nel primo collaudo contro un’altra imbarcazione dello stesso Y.C. Forse fu un calcolo strategico che fece calare il prezzo a 20.000 $. Pochi giorni dopo lo schooner mise la prua in Atlantico e la puntò sull’Inghilterra. R. “Dick” Brown era il suo comandante che normalmente si guadagnava da vivere come Pilota portuale di Sandy Hook (N.Y.), ma la sua fama di miglior skipper del Nuovo Mondo se l’era guadagnata durante quelle regate di...lavoro, già descritte e che avevano luogo tra gli schooners dei singoli piloti, al largo del battello fanale di Ambrose, ogni volta che una nave arrivava a New York.

La traversata fu velocissima e Dick fece sapere che “America volava!” Ma gli Inglesi, chiusi nella loro idea di superiorità sui mari, definirono “scandalose e piratesche le linee della goletta…..in aperta violazione delle regole classiche dell’architettura navale”.

America, infatti, aveva gli alberi molto abbattuti verso poppa. La prima delusione per gli inglesi arrivò quando le mandarono incontro Laverock, la loro imbarcazione più veloce, per sondare le capacità dell’avversario. Il vento in prora costrinse i contendenti ad avanzare con bordi di bolina. America, con vele vecchie e appesantita dal carico, arrivò a Cowes con un vantaggio di 45 minuti. La reazione inglese all’umiliazione subita fu tale che America dovette fare bacino per dimostrare che non possedeva un’elica nascosta sotto lo scafo…

La febbre delle scommesse fece salire a 100 ghinee il valore della coppa in palio che diventò così la celebre R.Y.S. £100 Cup. 14 imbarcazioni presero il via su un circuito di 50 miglia intorno all’isola di Wight. America ebbe dei problemi e partì in ritardo, ma dopo circa un paio d’ore Dick sbaragliò il campo di regata. “Chi è in testa?” – chiese la Regina Vittoria – “America, Maestà”. “E chi è secondo?” “Non c’è secondo, Maestà”.

Cominciò così, 156 anni fa, con questo celebre motto, la leggendaria storia della Coppa America, che in questi giorni è in pieno svolgimento a Valencia. La nostra Riviera di Levante, sulla scia della sua millenaria tradizione marinara, è già in finale con due suoi grandi “figli del vento” che fanno parte del Team di Alinghi: il portofinese Francesco “Cico” Rapetti (mastman) ed il camogliese Claudio Celon (trimmer).

Carlo GATTI

Rapallo, 16.02.12

 

 

 

 

 

 

 


Le T/n MICHELANGELO e RAFFAELLO

LE T/N “MICHELANGELO” - “RAFFAELLO

LE ULTIME NAVI DI LINEA

Il gigantismo del Rex e del Conte di Savoia aveva già dimostrato quanto il prestigio internazionale avesse un costo notevole superiore ai ricavi d’esercizio. Tuttavia l’errore fu ripetuto con l’impostazione delle turbonavi Michelangelo e Raffaello l’otto novembre 1960.

Ciò avvenne nonostante alcuni segnali negativi avessero già indicato un calo di passeggeri sulla linea del Nord America, pari al 26%.

La T/n Michelangelo in arrivo a Genova

I due transatlantici rappresentarono, in ogni caso, l’espressione più avanzata della tecnologia applicata alle linee architettoniche interne ed esterne, ai modernissimi impianti e macchinari, alle strumentazioni nautiche e dotazioni varie; parametri che accreditarono la loro più alta classificazione in materia di sicurezza della navigazione.

Nave- Ship

Stazza L.-G.T

Lungh.-L.o.a.

Largh.-Bread

Potenza- H.P.

Pass.

Michelangelo

45.911

275,81 mt.

31,05 mt.

87.000 CV

1775

Raffaello

45.933

 

 

 

 

Le due grandi navi di linea s’incontravano spesso a Genova

I migliori artisti, arredatori, stilisti e decoratori italiani diedero, nel rispetto di una lunga tradizione, un espressivo contributo d’immagine all’arte itinerante del nostro Paese.

La Michelangelo, costruita a Genova, partì per il suo viaggio inaugurale il 12 maggio 1965, precedendo d’alcuni mesi la sua gemella Raffaello, costruita a Monfalcone e che fu pronta a partire il 25 luglio 1965, anch’essa sulla linea di New York.

Le due unità, nonostante il sostegno di un’imponente battage pubblicitario, furono ridimensionate da alcuni insuccessi che ebbero altrettanta enfasi sui media.

La Michelangelo, dopo alcune traversate oceaniche, dovette sostituire le eliche, causa d’intense vibrazioni e scarsa velocità.

Il 12 aprile 1966 fu il giorno della tristemente nota “onda anomala” che sfondò il ponte di comando della T/n Michelangelo, uccise due persone e ne ferì molte altre, tra cui il Comandante in 2a Claudio Cosulich di Trieste.

Il 31 ottobre 1965 la Raffaello subì un incendio in sala macchine e dovette rinunciare al viaggio. Il 17 ottobre 1966 subì una grave avaria ad una caldaia.

La T/n Raffaello in manovra d’ormeggio a Genova aiutata dai rimorchiatori Tripoli e Alghero.

Il 19 maggio 1970 entrò in collisione con una petroliera ad Algesiras (Gibilterra). Il 28 settembre 1973 dovette sospendere il viaggio per un’avaria all’apparato motore.

UNA FINE ANNUNCIATA

“1.600.000 PASSE,GGERI TRASPORTATI IN UN ANNO”

Fu il titolo del manifesto pubblicitario diffuso dalla Compagnia Aerea Americana Pan-Am., per l’esercizio ’70-71.

La Michelangelo e la Raffaello in disarmo alla fonda nella baia di Portovenere alla fine del 1975.

L’annuncio rappresentò l’irriverente necrologio per l’intero settore marittimo mondiale del trasporto di linea passeggeri.

Le costruzioni delle Michelangelo e Raffaello costarono circa 100 miliardi di lire e nel 1973 le perdite di gestione ammontarono a 30 miliardi.

I due transatlantici furono fermati, disarmati, rimorchiati ed ormeggiati nella baia di Portovenere alla fine del 1975, nell’attesa di compratori.

Nel 1977 furono acquistate dal Governo dello Shah di Persia.

La Michelangelo funzionò da caserma militare nel porto di Bandar Abbas e terminò la sua esistenza nel 1991 in un Cantiere di demolizione pachistano.

La Raffaello, adibita anch’essa a struttura militare, affondò nel febbraio 1983 sotto i bombardamenti aerei iracheni.

THE LAST LINERS

THE T/S “MICHELANGELO” - “RAFFAELLO

The giant liners M/v “REX” and “CONTE di SAVOIA” had already demontrated how international prestige involved considerable higher costs to what they derived from incomes.

However, the same error was repeated with the bringing into service of the turbo vessels Michelangelo and Raffaello on 8 November 1960.

This took place even though there had been negative signals in the reduction of passengers by some 26%, on the North American line.

The two transatlantic liners represented anyway, a more advanced technical expression applied to the architectural lines both inside and out, to the very modern plants and machines, to the nautical instruments and various equipments, and parameters which gave credit to the highest classification regarding navigational security matters.

The best italian artist, interior designers, stylists and decorators, in respect of their long traditions, contributed an expressive and imaginative interpretation artwise, which is part of our country.

The Michelangelo built in Genoa, sailed on her maiden voyage on 12 May1965, to New York followed by the sister vessel Raffaello, built at Monfalcone. Her maiden voyage to New York was on 25th July 1965. Both liners covered the North American Line.

The two units, even starting with the support of an impressive mass of publicity, due to some unsuccessful events, saw their popularity diminished as they were over emphasized by the mass media.

The Michelangelo after a few transatlantic voyages, had to replace the propellers, caused by intense vibration and a scarse speed. On the 12 April 1966 was the day much publicised anomalous wave,

which shattered the command bridge, killing two persons and injuring many others.

The Raffaello on 31 October 1965, had a fire in the Engine Room and had to renounce the voyage. On 17 October 1966 she underwent bad damage to a boiler. On the 19 May 1973 she had a collision with a petrol tanker at Algesiras, Gibraltar. On the 28th September 1973 she had to suspend a voyage due to damages to the engine’s pumps.

THE ANNOUNCED CLIMAX

1.600.000 passengers transported in one year, was the contents of the publicity circulated by the American Airways PAN AM for the year 1970-71. The announcement represented, the irriverent obituary for the entire world maritime transport section of the passenger liners.

The contruction costs of the Michelangelo and Raffaello came to about 100 miliards of lires and in 1973 the management costs amounted to 30 miliards.

At the end of 1975 the two transatlantic liners were withdrawn from service, dismantled and towed to Portovenere Bay (La Spezia) where they were put into lay-up awaiting potential buyers.

In 1977 they were bought by the Government of the Shah of Persia. The Michelangelo was used a military base in the Bandar Abbas port. Her existence terminated in 1991 when a Pakistan shipyard bought her for demolition and broke her up.

In February 1983 the Raffaello which had also been adapted for militarry use, was sunk during an Iraq air bombardment.

Carlo GATTI

Rapallo, 12.02.12


USHUAIA - Italiani alla Fine del Mondo

USHUAIA

(Patagonia del Sud-Argentina)

ITALIANI ALLA FINE DEL MONDO

Una Storia dimenticata

Nell'immediato dopoguerra una nave, un'impresa italiana e tanta mano d'opera specializzata in cerca di lavoro e fortuna partono per la Terra del Fuoco, regione inospitale, difficile e senza strutture.


Ushuaia si trova 140 km a NW di Capo Horn - Cile.

Ushuaia è la città più australe del mondo e si trova sulla costa meridionale della Terra del Fuoco, in un paesaggio circondato da montagne che dominano il Canale Beagle (Ushi = al fondo, Waia=baia). Baia al fondo, alla fine. È così che gli indigeni Yamanas, da oltre seimila anni, chiamano il loro mondo: la "fine del mondo".

Nell’immediato dopoguerra, la decisione del governo argentino di costruire la capitale Ushuaia nella Terra del Fuoco fu presa per riaffermare la sovranità del paese sull'isola Grande, all'epoca oggetto di aspre dispute con il confinante Cile. Siamo nel 1947 e le imprese italiane ricevono l’incarico di costruire opere pubbliche. L’unica struttura presente sull’isola è un vecchio penitenziario ormai fatiscente. Occorre partire da zero: case, strade, ospedale, scuola, centrale idroelettrica. Ad organizzare la spedizione è Carlo Borsari, imprenditore edile bolognese e proprietario di una fabbrica di mobili che convince il governo argentino di saper operare con le sue maestranze anche in climi molto rigidi. Nella primavera del 1948 il presidente Peròn firma il decreto che attribuisce all'imprenditore italiano la commessa di lavoro. Il 26 settembre 1948 salpa dal porto di Genova la prima nave che, guarda caso, si chiama “GENOVA”, con a bordo, 506 uomini e 113 donne, per un totale di 619 lavoratori.

La M/n GENOVA della Co.Ge.Da. è in partenza da Ponte dei Mille per la Terra del Fuoco. Questa rara fotografia è una preziosa testimonianza di quella grande spedizione.

Durante il lungo viaggio della nave, le autorità argentine vietano di scalare i soliti porti intermedi per evitare defezioni. La paga dei lavoratori è di circa 3,5 pesos, superiore rispetto ad altri luoghi in Argentina e permette di mandare soldi alle famiglie in Italia.

Il 28 ottobre 1948, dopo 32 giorni di oceano, la M/n Genova giunge ad Ushuaia con un carico umano colmo di speranze e con le stive stracolme di materiale. Ad accoglierla c’è il ministro della Marina argentina dell'epoca. La stagione è la più favorevole per iniziare i lavori. Per i primi mesi una parte degli operai è sistemata nei locali dell'ex penitenziario, il rimanente alloggia a bordo di una nave militare del governo.

La mano d'opera è soprattutto emiliana, ma non mancano piccole comunità di veneti, friulani e croati. Nelle ampie stive della nave c’è tutto l’occorrente per la costruzione ed il montaggio di un paese moderno. Del carico fanno parte 7.000 tonnellate di materiale per allestire una fornace e la centrale idroelettrica, vi sono mezzi di trasporto leggeri e pesanti, gru, scavatrici, case prefabbricate, generatori, l’attrezzatura per la costruzione di una fabbrica di legno compensato e persino le stoviglie per la mensa dei dipendenti. L’inventario della merce trasportata comprende tutto il necessario alla comunità per essere autosufficiente ed il suo valore attuale corrisponde a venti milioni di euro che il governo argentino, ha pagato all'impresa Borsari che li aveva anticipati.

Agli emigranti provenienti dal nord Italia, le montagne alle spalle di Ushuaia ricordano le Alpi, e per tutti loro la nuova terra significa un futuro migliore per se stessi e per i propri figli. I primi due anni pattuiti con Borsari sono veramente duri per il freddo, la neve, l’oscurità e con le difficoltà di costruire opere murarie e idrauliche. Onorato il contratto, in molti decidono di stabilirsi definitivamente in questa città che hanno creato dal nulla e che sentono ormai propria. Grazie al lavoro di un nucleo di avventurieri italiani, si assiste ad un fenomeno di migrazione di massa unico al mondo. Ushuaia cresce, si popola e si trasforma in una città viva, speciale per varietà di razze e culture.

La M/n Giovanna C. degli armatori Costa di Rapallo

Restano i ricordi. Lo sforzo per l’ambientamento climatico fu sostenuto dagli emigranti grazie anche al promesso ricongiungimento con le famiglie, che fu rispettato e si concretizzò con l’arrivo di una seconda nave italiana, la M/n "Giovanna C." che giunse a Ushuaia il 6 settembre 1949 con mogli e figli. Quel giorno la comunità italiana raggiunse le 1300 unità.

Gino Borsani aveva promesso due anni di lavoro ben pagato, terre e case ai suoi uomini. “Alcuni di noi non sapevano neppure dove erano diretti” - dice Elena Medeot 78 anni, nata a Zara – “In Italia c'era il mito dell' Argentina, ma quando siamo arrivati qui, dopo un mese di navigazione, abbiamo scoperto la verità. Per scaldarsi, in un posto dove in piena estate la temperatura raramente supera i 10 gradi, si doveva risalire la montagna per fare un po’ di legna. Le promesse del bolognese svanirono in pochi mesi, così come il sogno di tutti, mettere da parte un po' di soldi e tornare a casa.

L’emigrante Dante Buiatti

“Però si mangiava carne tutti i giorni e questo già sembrava un miracolo”. Ricorda Dante Buiatti nato a Torreano di Martignacco. “Nel 1923 Avevo un lavoro in Friuli, ma era più importante dimenticare la guerra e a casa non ce la facevo”.

Dante fu uno dei pochi pionieri, arrivati ad Ushuaia con la ditta Borsari, che scelse di restare in quella terra al confine del mondo. La maggioranza, infatti, rincorse orizzonti più caldi, spostandosi in altre province “più ospitali” dell’Argentina.
Buiatti s’impegnò nell’attività commerciale del paese, che oggi continua con sua figlia Laura; mentre Leonardo, il figlio minore, gestisce un albergo.
 Sempre col cuore rivolto alla sua cittadina natale, Dante Buiatti fu uno dei principali animatori dell’associazionismo friulano e italiano nella Terra del Fuoco. Fino al giorno della sua morte è stato il principale punto di riferimento per gli studiosi dei processi migratori, per la collettività italiana, per i giovani della comunità friulana di Argentina ed Uruguay e, fondamentalmente per i suoi cinque nipoti.

Franco Borsari, figlio dell'imprenditore, ricorda ancora lo stacco del padre dalla banchina del porto di Genova. Nel 1948 aveva solo 5 anni e La lontananza terminò nel 1953 quando, insieme alla madre e le due sorelline, raggiunse suo padre a Buenos Aires per rimanervi fino agli anni Sessanta.

Marco David fu il primo figlio di italiani a nascere ad Ushuaia. I genitori erano tra coloro che vissero per qualche tempo su una nave militare del governo argentino, fino alla costruzione delle prime baracche. Il padre era responsabile tecnico del cantiere e ricorda: “C’era solo abbondanza di carne di pecora, tutto il resto doveva arrivare via nave, e d'inverno lo sbarco non era mai assicurato a causa del cattivo tempo”. La famiglia rimase ad Ushuaia fino al 1964.

Anna Maria Floriani, 85 anni, insieme al marito Osvaldo Tartarini, carrozziere, e la figlioletta Claudia di sedici mesi, fece parte del primo gruppo della M/n Genova. Di quell'impresa ricorda soprattutto il freddo dei primi tempi: “Fummo alloggiati nell'ex penitenziario, in una stanza di due metri e mezzo per due, senza cibo fresco, schiacciati dal peso della nostalgia e della solitudine. Ci sentivamo abbandonati dal mondo”. Ricorda infine le parole del marito che, arrivati nello stretto di Magellano e vedendo un cimitero di navi affiorare qua e là disse con le lacrime agli occhi: “Dove sto portando la mia famiglia?”

Mentre l'Italia si rimboccava le maniche nella ricostruzione dopo la tempesta del secondo conflitto mondiale, quella piccola, dimenticata spedizione diventò per molti di loro un’occasione di benessere e tranquillità economica.

La M/n GENOVA

ARRIVA A USHUAIA

Oggi Ushuaia è una meta turistica per crocieristi, un'isola relativamente felice nel disastro economico e sociale in cui vive l'Argentina.

Per molti anni i suoi disagiati abitanti hanno ricevuto stipendi superiori alla media nazionale, grazie anche al suo “porto franco” che diventò una ghiotta occasione per rilanciare piccole industrie e commerci. Oggi il suo centro è costellato di negozi che traboccano merce importata, e non sembra affatto una città posta ai confini del mondo. Gli italiani che hanno resistito alla tentazione di ritornare in patria non si lamentano più e si sono perfettamente ambientati come i loro figli argentini. Qualcuno è diventato persino benestante, come l'imprenditore Luciano Preto, scomparso l'anno scorso.

Certo, Ushuaia resta pur sempre la fin del mundo e i contatti con l'Italia, per mezzo secolo, sono stati davvero pochi. Dante Buiatti e Elena Medeot ci sono tornati solo una volta, con la nave, trent' anni fa. Gli eventi legati alla patria furono pochi ma indimenticabili, come la visita di Maria Beatrice di Savoia, nel 1961, l'arrivo della rivista di fotoromanzi, Grand Hotel, che le donne si passavano di mano in mano per mesi. Poi, negli anni Settanta, le feste a bordo delle navi da crociera Costa (Eugenio C. e, in seguito la Costa Allegra) che si fermavano alla fonda nella baia.La memoria muove molte emozioni e ogni 28 ottobre si consuma un rito. A USHUAIA, nella gelida Terra del Fuoco (Argentina), quindici reduci della M/nave Genova, da cinquantatré anni issano la bandiera italiana nel vento gelido che soffia dall' Antartide. Si contano di nascosto per vedere se manca qualcuno, si abbracciano con qualche lacrima e non dimenticano di rendere omaggio anche alla loro seconda bandiera, quella bianca e azzurra dell' Argentina. Figli e nipoti si stringono tutti gli anni attorno ai loro nonnos, come chiamano indistintamente i quindici vecchietti, e cercano a fatica di conservarne la storia e le tradizioni. Quindici sono i sopravvissuti di una delle più straordinarie storie dell'emigrazione italiana nel mondo.

Fa tenerezza la tenacia della piccola comunità italiana, che vuole ricordare, conservare la storia, non far sparire tutto davanti al tempo che inevitabilmente si porterà via i protagonisti della grande avventura.

ULTIMA ORA

10.12 2010 - CRUISE SHIP HORROR

Per fortuna è solo un pessimo ricordo l’odissea vissuta in alto mare, qualche giorno fa, nelle gelide acque dell’oceano Antartico, per i 166 passeggeri (16.000 $ a persona) della nave da crociera di lusso Clelia II, battente bandiera maltese. La love-boat si è trovata per ore in balia di altissime onde nello Stretto di Drake mentre proveniva dall’Antartide con un motore in avaria, il radar fuori uso e molti danni alle sovrastrutture. La Marina Militare Argentina ha reso noto che la CLELIA II ha potuto raggiungere il porto di USHUAIA scortata dalla nave polare Explorer, inviata in suo soccorso.

Carlo GATTI

Rapallo, 11.02.12

 


La Storia della ANDREA DORIA

T/N “ANDREA DORIA”

LA BELLA E SFORTUNATA SIGNORA DEI MARI

La Grand Dame of the Sea sfila davanti ai grattacieli di Manhattan

Un po’ di Storia: La Riorganizzazione Postbellica.

Strutture ed infrastrutture portuali distrutte e inagibili. Fondali da bonificare e sgomberare da centinaia di relitti. La flotta italiana ridotta ad un’esigua entità.

Questa era in sintesi la drammatica situazione dell’Italia marinara l’8.5.1945.

L’Italia aveva perso l’88% delle navi passeggeri o miste.

Lo sforzo riorganizzativo compiuto dal Governo italiano dell’epoca per avviare una rapida ripresa fu intrapreso in molte direzioni:

- Costituzione del Comitato Gestione Navi (Co.Ge.Na.)

- Concessioni di contributi sulle spese per il recupero ed il ripristino di circa 2000 navi e per la ripresa della cantieristica.

- Creazione del Ministero della Marina Mercantile che fu suddiviso in quattro Direzioni Generali ed in tre Ispettorati.

- Furono stipulati accordi con il Governo degli Stati Uniti per l’acquisto di:

95 navi del tipo Liberty,

20 petroliere del tipo T/2,

8 navi da carico del tipo N/3.

- Nel 1947 si conclusero le trattative per la restituzione ed il rientro in patria dagli USA di 14 prede belliche tra cui il Conte Biancamano il Conte Grande, il Vulcania ed il Saturnia.

Nel frattempo cresceva vertiginosamente la domanda per il trasporto dei reduci, smobilitati, persone compromesse con il regime, rifugiati politici, apolidi ed in particolare emigranti italiani.

In questa fase delicata della nostra storia recente, si attivarono ancora una volta gli Armamenti Privati Genovesi: Co.Ge.Dar. – Costa – Fassio – Italnavi – Marsano – Messina – Sidarma – Sitmar - Zanchi ed altri che seppero far fronte alle richieste, adattando ed adibendo le loro unità alle linee del Plata, Brasile e successivamente dell’Australia.

Grazie al loro coraggio, la bandiera italiana poté ancora solcare i mari in un frangente in cui molti la davano per spacciata.

Al centro della ripresa dei traffici si trovarono le Società del Gruppo FINMARE che in pochi anni riuscirono a ripristinare i collegamenti con tutte le sponde nazionali ed internazionali del periodo anteguerra.

Verso una Rinascita ricca di prestigio.

Intorno agli anni ’50, un’ulteriore serie cospicua di provvedimenti legislativi favorirono la rinascita della flotta italiana. Dai Cantieri Navali nazionali uscirono, in quel periodo, navi passeggeri e da carico che furono le protagoniste nella Storia dei Trasporti Marittimi per molti decenni.

Per la Società Tirrenia, nei primi anni ’50, furono varate cinque navi motonavi gemelle della classe “Regioni”: SiciliaSardegnaCampania FelixCalabriaLazio, che s’aggiunsero alle 21 unità esistenti, ma di vecchia concezione tecnologica.

Per la Società Adriatica il 5 gennaio 1952 la M/n Enotria partì per il suo viaggio inaugurale sulla linea Italia-Egitto a fianco della M/n Esperia. Alla fine dello stesso anno la M/n Messapia entrò in servizio sulla linea Italia-Grecia-Cipro-Israele.

Per il Lloyd Triestino scesero in mare: le navi da carico UdineVicenza e le navi passeggeri AusoniaBernina.

Per la Società Italia, l’8 maggio 1950, scese in mare la Giulio Cesare, mentre l’Augustus il 19 novembre 1950. Le due prestigiose unità furono le prime navi passeggeri ad entrare in linea nel dopoguerra.

La polivalenza della serie Navigatori giocò un ruolo molto importante per i collegamenti commerciali ed il trasporto degli emigranti europei diretti verso il Sud-Pacifico (Cile e Perù).

La seconda fase della rinascita delle attività marittime si ebbe il 19.12.1952 con la consegna della splendida e sfortunata Andrea Doria e della gemella Cristoforo Colombo che avvenne il 2 luglio 1954. Entrambe le navi furono costruite dal Cantiere Ansaldo di Sestri Ponente.

Il Varo. La T/n Andrea Doria fu varata il 16 giugno 1951. Erano le 10.30 e scese in mare senza una scossa, dolcemente, docile ed esatta lungo un binario dello scalo. La bottiglia di spumante si era appena infranta sul fianco destro della prora e il nastro tricolore che fasciava il vetro non era ancora ricaduto a terra, che già lo scafo, sciolto da ogni impaccio, scivolava rapido verso il mare.

 

Al momento del varo il suo scafo pesava circa 10.000 tonnellate. Il costo finale del transatlantico fu di 14 miliardi di lire.

 

Le due foto (in alto) si riferiscono a due fasi dell’allestimento del transatlantico che durò circa due anni e si concluse negli ultimi mesi del 1952.

Le Prove di macchina dell’Andrea Doria.

Le qualità nautiche della nave: potenza, velocità, manovrabilità, stabilità, sensibilità ai comandi strumentali ecc…erano emerse molto positivamente nei giorni delle “prove in mare” che precedettero il viaggio inaugurale, nel gennaio del ’53. Nel Golfo Ligure, inanellando giri su giri in un circuito fisso tra Genova e Sestri Levante, con le macchine a tutta forza, l’Andrea Doria doveva raggiungere il limite massimo di velocità fissato dal contratto. La nave spinta gradualmente fino al massimo dei giri delle turbine, tesa in quello sforzo estremo di sollecitazioni e vibrazioni, Superò tutte le prove. I cronometristi, ad ogni passaggio davanti alle basi misurate, segnate sul monte di Portofino, comunicavano i tempi; 20 nodi, 21, 23 e poi l’annuncio, festoso, come lo sciogliersi di un incubo: “25,30 nodi, la velocità massima”.

L’Andrea Doria esce dal porto di Genova per le attese “ prove di macchina” che saranno realizzate tra le “basi misurate” posizionate tra le colline della Riviera di Levante. La foto si riferisce alla seconda uscita della nave avvenuta l’1.12.1952.

Il viaggio inaugurale dell’Andrea Doria.

LAndrea Doria partì per il Viaggio Inaugurale il 14 gennaio 1953 ed arrivò a New York nove giorni più tardi. Vicino alle coste americane il transatlantico incappò in una forte depressione con onde montagnose che la sottoposero a violente sollecitazioni allo scafo con sbandate che arrivarono a 28°. Il nuovo liner fu quindi sottoposto ad un severo test che procurò anche venti feriti tra i 794 passeggeri imbarcati. L’Andrea Doria coprì la distanza di 4.737 miglia da Genova a New York ad una velocità media di 22.97 nodi, nonostante la forzata riduzione a 18 nodi, causata dallo storm atlantico. L’Andrea Doria era stabilmente adibita alla linea espresso Genova-Cannes-Napoli-Gibilterra-New York e aveva ottenuto un grande successo nel pubblico internazionale, specialmente fra gli americani. La nave viaggiava sempre completa.

Le due foto (sopra), si riferiscono all’entrata in linea dell’Andrea Doria che avvenne nel gennaio del 1953. La partenza da Genova fu accompagnata dai fischi e le sirene di tutti i mezzi portuali e delle navi ormeggiate in porto. La bella nave, ripresa di poppa e di prora, sta lasciando- con il Gran Pavese del Maiden Voyage - la Stazione Marittima di Ponte dei Mille. Poteva trasportare 1241 passeggeri e 575 uomini d’equipaggio. Era lussuosa sin nel minimo dettaglio delle sue strutture ed era considerata l’ammiraglia della Società Italia di Navigazione.

I Passeggeri americani lanciano una nuova moda.

Con l’Andrea Doria viaggiava il jet set dell’epoca che amava l’Italian Style e soprattutto l’atmosfera di bordo. L’oggetto del desiderio, per molti VIP, non era quello di raggiungere l’una o l’altra sponda dell’Oceano Atlantico, ma il vivere “la nave”, per molte traversate, secondo una nuova moda lanciata da loro stessi.

Celebrità dello mondo dello spettacolo, (dall’alto verso il basso), le attrici: Kim Novak, Gracie Fields, Cristine Jorgensen.

Tecnica d’avanguardia installata sull’ammiraglia della flotta italiana.

L’Andrea Doria aveva in dotazione un elevato numero di lance di salvataggio, quattordici, che potevano trasportare oltre duemila persone. Un sistema antincendio sofisticatissimo ed era equipaggiata di un radar Raytheon (USA), di un secondo radar Decca (U.K.) nonché della strumentazione più moderna dell’epoca: solcometro elettrico, radiogoniometro, bussola giroscopica ed giropilota, nonché l’impianto Sprinkler per la segnalazione e lo spegnimento automatico degli incendi. Il condizionamento dell’aria era assicurato in tutta la nave da un sistema composto di ben cinquantotto apparecchi condizionatori a regolazione automatica a mezzo di termostati. Innumerevoli ventilatori ed estrattori d’aria avevano una portata complessiva oraria di ben 1.126.500 metri cubi. Le condotte di ventilazione ed estrazione avevano uno sviluppo complessivo di oltre quindici chilometri. I condizionatori assorbivano, in regime di raffreddamento, circa tre milioni di frigorie l’ora, e in fase di riscaldamento, un massimo di 4.500.000 calorie orarie. La centrale frigorifera era una delle più potenti, installate su navi passeggeri, con un impianto della potenza di 1500 CV. La cambusa per le provviste di bordo aveva un volume di circa 1450 metri cubi, di cui 850 in celle isolate e refrigerate. Le casse per l’acqua di lavanda avevano una portata di circa 3300 tonnellate; altre ne contenevano 370 tonnellate per l’acqua potabile. I depositi di nafta avevano una capacità di 4300 metri cubi, sufficiente per consentire alla nave un viaggio completo d’andata e ritorno.

Il Primo Arrivo dell’ Andrea Doria al Pier-84 di New York.

L’Andrea Doria è stato il primo grande transatlantico italiano che avesse ripreso le rotte oceaniche nel dopoguerra. Le tre foto sotto ricordano il suo primo arrivo a New York.

(Foto in alto) Si vedono due Erie Railroad ferries, l’Empire States Building e a sinistra l’Upper Hudson. (Foto sopra) si vede la famosa New York City skyline con il Woolworth Building a sinistra.

La traversata oceanica s’interrompe bruscamente con la stupenda visione dei grattacieli di New York e con i docks portuali destinati ad accogliere le più grandi navi di linea dell’epoca. Il pilota e i rimorchiatori delle Società McAllister e Moran assistono il comandante dell’Andrea Doria in manovra. Nella foto (sopra) gli uffici della Società Italia sono addobbati con disegni artistici e locandine commemorative del grande evento.

In questa affascinante rappresentazione dei Piers-passeggeri del porto di New York, si notano: la Queen Elizabeth in navigazione sul fiume Hudson e in basso da sinistra: la Costitution, l’Andrea Doria, la United States e l’Olimpia.

Attrazioni, conforts e impianti moderni a disposizione dei passeggeri.

In tre classi, l’Andrea Doria poteva trasportare complessivamente 1241 passeggeri, oltre a 575 uomini d’equipaggio. La nave disponeva di tre piscine, di quindici sale pubbliche, di ampie passeggiate coperte e scoperte, di quattro impianti cinematografici e di tutte le attrezzature e impianti tipici dei grandi liners dell’epoca, fra cui l’aria condizionata in ogni ambiente e in ogni classe. Ma la novità assoluta era forse l’installazione del radiotelefono intercontinentale a disposizione dei passeggeri.

Foto in alto: La piscina di prima classe ed il comandante P.Calamai a destra sul ponte superiore.

Al centro la piscina e il lido-bar della classe cabina. In basso la stessa pool vista dall’alto.

Un museo perduto in fondo al mare.

Con l’Andrea Doria la Marina Mercantile italiana non perdette soltanto una magnifica unità dal punto di vista della tecnica, ma anche un gioiello di architettura, di arredamento, di decorazione navale. In questo campo la flotta italiana raggiunse in quegli anni ciò che presto si chiamò in tutto il mondo “The Italian Style”.

 

Il salone di prima classe era l’elegantissimo locale d’incontro e di relax informale, ma soprattutto l’ideale passerella per le eleganti signore nelle feste di gala.

Così come nella serie dei “Conti”, lo stile italiano realizzò sontuosamente l’idea dell’albergo galleggiante, nella serie dei “Navigatori” concretizzò l’idea della casa accogliente e, soprattutto, personale, per quanto poté essere “personale” un ambiente destinato alla collettività. Il filo conduttore di questo progetto architettonico navale, imitato invano dalla concorrenza, fu l’arte, l’opera d’arte che raggiunse i livelli più apprezzati con le gemelle Andrea Doria e Cristoforo Colombo. Sopra il livello dell’artigianato, eccellente e caratteristico di ogni cosa di “gusto italiano” e che si rivelava attraverso l’accostamento delle tinte, delle materie, delle linee attraverso l’amore della bella forma evidente nelle poltrone dei saloni come nelle rubinetterie dei bagni, spiccava, sulle navi italiane la presenza dell’arte.

 

Numerosi famosi architetti: Zoncada, Pulitzer, Ratti ed il più importante Gio Ponti lavorarono agli interni dell’Andrea Doria. In questa foto si vede l’imponente statua dell’ammiraglio Andrea Doria di guardia… al salone principale della prima classe.

Si diceva….“Galleria d’arte, Museo galleggiante”…anche e specialmente dell’Andrea Doria. La Flotta Mercantile italiana nella sua spola continua attraverso gli oceani portava con sé il paesaggio dell’arte italiana. Pittori, scultori, ceramisti, disegnatori mosaicisti, vetrai italiani avevano creato questo “paesaggio” permanente sui mari, primo saluto del tradizionale paese dell’arte al viaggiatore straniero che veniva a conoscerlo. Le loro opere rendevano armoniose le lente giornate del navigare. Campigli, Mirko, Music, Sironi, Felicita Frai, Spilimbergo, Meli, Venini, E. Luzzati e tanti altri che adesso non vengono in mente, sono i nomi più illustri che hanno lasciato sulla “bella nave”, il sigillo della loro arte. Il vestibolo di prima classe, portava la firma degli architetti Cassi, Rossi e Parenti, realizzatori inoltre delle grandi scalee, delle gallerie, dei negozi e degli uffici che si affacciavano sul vestibolo, nonché delle sale da pranzo di prima classe e della classe cabina. Vi erano quattro appartamenti di lusso realizzati nella loro particolari caratteristiche di arredamento e decorative, dagli architetti Ponti, Zoncada, Minoletti e Pouchain. Attraverso grandi portoni di cristallo si accedeva alla sala da pranzo di prima classe, il cui pavimento era in gomma color pervinca. Le pareti, ornate da due grandi tarsie a soggetto allegorico, erano di radica di mirto e noce. La parte centrale della parete poppiera era interamente rivestita di pergamena. I tavoli erano in noce francese e le poltrone imbottite di gomma piuma e rivestite di seta. La saletta dei bambini aveva le pareti di frassino bianco patinato e laccato con decorazioni policrome. Anche la sala da pranzo della classe cabina era assai elegante con i suoi toni sfumati di grigio e pareti di legno “citronnier” con parti massicce in frassino d’Ungheria. La sala da pranzo della classe turistica, realizzata dagli archittetti del gruppo Anua di Genova, aveva rivestimenti di frassino e rovere di Slavonia. Sul ponte superiore erano sistemate numerose cabine di prima e seconda classe, mentre a poppa, progettate dall’architetto Ratti, spiccavano la sala delle feste, il bar, le sale di soggiorno, da gioco, di lettura, le passeggiate coperte e scoperte. La sala delle feste, in rovere di Slavonia chiaro con due grandi vetrate, era particolarmente lussuosa.


I passeggeri di prima classe spesso s’intrattenevano nelle loro lussuose ed ampie suites. Erano anche incoraggiate le nuotate sotto le stelle prima del ritiro notturno.

A prua si trovava il giardino d’inverno, opera degli architetti Ponti e Zoncada. Vi erano inoltre verande belvedere, tre piscine, sale elioterapiche e attrezzate palestre.


Il personale di un moderno salone assiste una giovane coppia nel gioco del “ horse racing”.

Sull’Andrea Doria, la decorazione della sala di soggiorno di prima classe era una delle realizzazioni più felici per estro pittorico e movimento plastico. Salvatore Fiume, che si rivelò come uno dei migliori scenografi italiani, l’aveva immaginata e decorata come una scatola magica a sorpresa. Una scena unica e multipla sulla quale era ininterrottamente interpretata la commedia dell’arte italiana; anticipo, o souvenir, di un bel viaggio nel paese della fantasia. Tra quinte e prospettive, il mondo delle immagini e dei personaggi del Carpaccio e di Tiziano, del Giorgione e di Raffaello, del Boccaccio e di Goldoni appariva e scompariva, allusivo e ridente, carico di ammiccamenti e di proposte. Il fondo del mare ha raccolto quella scena, e avrà stinto un poco alla volta la sua accensione fantastica, la scioglierà poco a poco; e spenderà, con il “grande banchetto di Nettuno”, dipinto con ritmo modernissimo da Pietro Zuffi; anche gli arazzi finissimi di Raclis, la gioiosa decorazione della stanza dei bambini, e i cento particolari preziosi nei quali, dalle stanze da letto alla Cappella di bordo, era impresso un segno della nostra immagine artistica. Ma gli artisti poterono ricominciare, e ogni cosa poté ricominciare all’indomani; anzi il giorno stesso…


La tradizionale scuola italiana di gastronomica internazionale non aveva rivali e quando tramontò l’era delle navi di linea, la diaspora dei nostri cuochi, chefs e maestri di casa andò ad arricchire le marinerie straniere. Nella foto i passeggeri stanno per gustare il buffet di mezzanotte.

Sull’Andrea Doria tutto era vivo e perfetto. Nelle grandi cucine elettriche si affaccendavano cuochi e pasticceri, dai forni usciva pane fresco e fragrante, nelle lavanderie entravano ed uscivano chilometri di biancheria, i tasti delle lynotipe battevano nella tipografia per comporre il giornale di bordo, le bobine dei film si svolgevano nelle macchine da proiezione dei cinematografi, gli impiegati ricevevano i passeggeri agli sportelli degli uffici turistici e bancari, i medici nel piccolo ospedale visitavano gli ammalati, mentre gli ufficiali e i marinai governavano la nave. Era un mondo che riproduceva, in piccola scala, tutti gli aspetti di quello grande e reale: un piccolo mondo che bastava a se stesso, per giorni e giorni, nell’immensità del mare.


Nella foto due belle signore s’intrattengono dinanzi al negozio dei regali (gift shop).

Cinquanta anni fa con un fianco squarciato l’ANDREA DORIA sparì negli abissi


Cinquanta anni fa, il 26 luglio 1956, al largo del faro americano di Nantucket (USA) che dista 180 miglia da New York, affondava la T/n Andrea Doria, speronata dal transatlantico svedese Stockholm, dopo undici interminabili ore d’agonia.


L’agonia di una nave è lunga: non tanto per il tempo contato in ore, quanto per la dolorosa tensione che l’accompagna. L’agonia dell’Andrea Doria è durata undici ore; colpita dallo Stockholm alle 23.11 del 25 luglio, è affondata alle 10.08 del 26 luglio su un fondale di 80 metri.

Il ricordo di quell’immane disastro che costò cinquantun vite umane è ancora vivissimo nella memoria dei liguri e Genova, in quei terribili giorni, fu colpita nel suo orgoglio di grande porto e maestra nella cantieristica navale. Il disastro segnò la fine repentina e luttuosa del mito del liner più bello e moderno del mondo.

In quel secondo dopoguerra, si entrò nella splendida fase della rinascita delle attività marittime proprio con la consegna della Andrea Doria soprannominata la:

La Grand Dame of the Sea

La T/n Andrea Doria varata il 16 giugno 1951, entrò in linea nel 1953. Poteva trasportare 1241 passeggeri e 575 uomini di equipaggio. Era lussuosa sin nel minimo dettaglio delle sue strutture ed era considerata la portabandiera della Società Italia di Navigazione. Con essa viaggiava il jet set dell’epoca che amava l’Italian Style e soprattutto l’atmosfera di bordo. L’oggetto del desiderio, per molti VIP, non era quello di raggiungere l’una o l’altra sponda dell’Oceano Atlantico, ma il vivere “la nave”, viaggiando con essa, per molte traversate, secondo una nuova moda lanciata da loro stessi.

Costruita secondo le prescrizioni e sotto la speciale sorveglianza tecnica del Registro Italiano Navale, del Lloyd Register of Shipping e dell’American Bureau of Shipping, l’Andrea Doria aveva una stazza di 29.700 tonnellate, una lunghezza fuori tutta di 212,50 metri, una larghezza fuori ossatura di 27,40 metri, una altezza dello scafo fino al ponte di coperta di metri 15,20; con un apparato motore a turbine della potenza normale di 35.000 CV, sviluppava una velocità di servizio di 23 nodi.

Lo scafo, oltre ad avere un doppio fondo cellulare completo, era suddiviso nella sua lunghezza da 11 paratie stagne trasversali limitate in alto dal ponte di compartimentazione (corrispondente al Ponte A, al di sotto cioè del Ponte di coperta).


Paurosamente inclinata sul fianco destro. La turbonave Andrea Doria, già abbandonata dai passeggeri e dall’equipaggio, sta per affondare.

Ma nessuna norma poteva – né potrà mai – garantire la salvezza di uno scafo colpito con la violenza con la quale la nave svedese speronò la nostra. La prua della Stockholm penetrò nello scafo dell’Andrea Doria per oltre 12 metri e aprì una falla di circa 20 metri di lunghezza – dal doppio fondo al ponte superiore – di gran lunga maggiore di quella ipotizzata nei calcoli di compartimentazione.

 

Questa foto scattata dall’autore durante l’ultima sosta dell’Andrea Doria a Genova, mostra il punto esatto in cui la nave sarà colpita dalla prora dello Stockholm.

Inoltre si può pensare che la prua contorta e accartocciata della Stockholm nel liberarsi dall’incastro nello scafo della Doria, abbia agganciato delle lamiere staccando addirittura un corso del fasciame esterno.

Comandava l’Andrea Doria il capitano Pietro Calamai, genovese: 42 anni di navigazione, volontario sul mare a diciannove anni nella Prima Guerra Mondiale, capitano di corvetta e ufficiale di rotta della corazzata Duilio nella Seconda Guerra Mondiale.


Non appena”, dichiarò il comandante Calamai in un suo rapporto a New York, “incontrammo la nebbia si provvide a chiudere le porte stagne e si cominciò ad emettere regolari segnali di nebbia e vennero prese le altre normali precauzioni.

Passato il battello-fanale di Nantucket, su scala 20 miglia, il nostro radar rilevava a considerevole distanza l’ubicazione di una nave che risultò essere la Stockholm. Siccome la nave si avvicinava e aumentava anche il rilevamento, ordinai il cambio di rotta a sinistra per garantire all’Andrea Doria il maggior spazio possibile.

“La nave che si avvicinava era costantemente osservata e, non appena uscì dalla nebbia e potemmo vederla a occhio nudo, virò verso di noi e venendoci incontro a grande velocità ci colpì sul nostro fianco destro, malgrado il mio tentativo di evitare la collisione avendo ordinato il timone tutto a sinistra, operazione che feci procedere da due fischi di sirena…”

Lo Stockholm in navigazione, con i propri mezzi, verso New York. Nelle lamiere divelte della prora, in quel momento, si trovavano ancora i corpi di alcune vittime della collisione.

La Commissione d’indagine del Ministero della Marina Mercantile consegnò i suoi rapporti che presto finirono archiviati da qualche parte. Gli atti del procedimento informativo, iniziato davanti alla Federal District Court di New York. Le Società Armatrici delle due navi si misero d’accordo per chiudere la pratica rapidamente, coprendosi con i pagamenti della stessa compagnia assicuratrice: i Lloyds di Londra. Da un preciso e chiarificatore articolo dello storico Silvio Bertoldi, apparso sul “Corriere della sera” il 16.7. 96 riportiamo alcuni stralci:

Il comandante P. Calamai fu collocato in pensione, sebbene gli mancassero due anni al limite della carriera. Era come dire che la colpa era stata sua. Specie se si tiene conto del diverso comportamento della Swedish Am. Line che promosse il capitano G.Nordenson della Stockholm. Al comando della sua flotta……

Il comandante della Stockholm Nordensson ed il suo giovane ufficiale E.Carstens, che era solo di guardia sul ponte di comando, in navigazione con la nebbia, nel momento della collisione.

Al momento della sciagura Calamai si trovava in plancia, mentre Nordenson dormiva in cabina e la sua nave era affidata al 3° ufficiale E. Carstens di 26 anni. Costui aveva calcolato male sul radar la distanza della nave italiana e quando si era reso conto di andarle addosso aveva ordinato “in extremis” una temeraria accostata di 23° a dritta che aveva costretto Calamai a scappare a sinistra per sfuggire all’ormai inevitabile collisione. Per salvare l’onore di Calamai, morto a 75 anni, dopo una lunga ed ingiusta emarginazione, sarebbe dovuto intervenire, nel 1980, un esperto della Marina USA, John Carrothers, con uno studio finalmente rivelatore della verità. Carrothers indagò sui grafici dei registratori di rotta e li rapportò alle varie scale delle distanze del radar. La sua spiegazione fu la seguente: al momento dell’avvistamento, la Stockholm aveva il radar funzionante sulla portata delle 5 miglia, mentre Carstens credeva di averlo sulla portata di 15 e si comportò di conseguenza. Riteneva così che la Andrea Doria si trovasse a 12 miglia di distanza mentre si trovava a quattro. La credeva a 6 miglia, quando era a 2 ed allora ordinò l’accostata a dritta 23° e portò la Stockholm in rotta di collisione con la nave italiana”.

Concludiamo questa breve rievocazione affermando che, quanto magistralmente riportato da S. Bertoldi è anche la versione ufficiale che viene tuttora insegnata dal Capitano Robert Meurn, docente di Navigazione all’Accademia Americana di New York ai futuri Capitani di lungo corso americani.

Il più grande salvataggio in mare della storia.

Alle 23h 22m l’Andrea Doria lanciò l’S.O.S. che diede il via ad una grande gara di solidarietà tra le navi che giunsero in zona numerose e al massimo della velocità. Le operazioni di salvataggio furono condotte in tempi relativamente brevi e con perizia da manuale.

In risposta alle tante domande cui fu sottoposto, il comandante P.Calamai precisò:

ho fatto mettere in mare le otto lance del lato destro della nave, cioè la metà di tutte le imbarcazioni di cui disponeva il transatlantico, essendo impossibile far calare in acqua quelle del lato sinistro e che comunque, precisò, erano state sufficienti.”

Navi partecipanti al salvataggio:

- Ile de France che raccolse il maggior numero di naufraghi (10 lance) e proseguì poi per New York alle 05.00, dove venne accolta al Pier n.80 con entusiasmo e tanta tristezza. Quel giorno l’intero settore dei Trasporti Marittimi ne uscì sconfitto.


Il transatlantico francese Ile de France, 43.000 tonn. Fu varato nel 1926 e restò a lungo sugli oceani, come una delle navi più famose e sicure. Fu la nave che portò maggior soccorso all’Andrea Doria.

Celebre divenne la testimonianza del comandante Raoul de Baudéan e riportato da alcuni testi dedicati al tragico avvenimento:

Ed ecco il minuto straziante dell’addio. Passiamo a trecento metri dal relitto deserto. All’intorno incrociano delle scialuppe di salvataggio contenenti una parte dell’equipaggio rimasta agli ordini del comandante. Delle navi, attirate dall’immensità del disastro, sono ferme nei dintorni. Il commissario dell’Andrea Doria, uno dei rari ufficiali che hanno potuto seguire la sorte dei loro passeggeri, sale sul ponte di comando. Faccio fare il saluto con la bandiera e con tre fischi prolungati di sirena. Più di settecento paia di occhi guardano allontanarsi la loro dimora gloriosa, il quadro moribondo della felicità di una settimana o di un anno, l’oggetto del loro orgoglio o del loro dispiacere. In molti di quegli occhi dovevano esserci lacrime. Ma un silenzio di piombo rende più eloquente il dolore e l’emozione. I miei uomini scrutano il mare dove galleggiano dei rottami, credendo di potervi scoprire un nuotatore ritardatario o un cadavere. Due miglia più lontano, lo Stockholm esce dalla nebbia con la sua atroce ferita. La prua della bianca nave non è più che una massa di ferraglia contorta dove, delle macchie chiare, evocano dei corpi nudi e probabilmente mutilati. Non oso avvicinarmi, temendo una reazione irrazionale della folla dei miei superstiti”.

- La stessa Stockholm che prese a bordo 425 passeggeri dell’Andrea Doria.

- Il cargo Cap Ann recuperò 4 lance.


La nave da carico “Cap Ann”, qui illustrata, contribuì con molta perizia alle operazioni di salvataggio.

- Il cargo militare William Thomas recuperò 3 lance.

- La petroliera R.E.Hopkins recuperò 1 lancia.

-Infine le numerose medie e piccole imbarcazioni che diedero anch’esse un preziosissimo contributo illuminando la zona del sinistro, facendo spola tra le navi ed assistendo le lance nei loro tragitti verso il recupero dei naufraghi.

 

NAVE

Tipo

Scialuppe

recuperate

Persone

salvate

Passeggeri

salvati

Equipaggio

salvato

* Ile de France

N.Passeggeri

11

753

576

177

* Cape Ann

Cargo

4

129

91

38

* Pvt.Wm.Thomas

Cargo

3

158

112

46

** R.E.Hopkins

n.cisterna

1

1

1

0

# Ed.H.Allen

n.militare

0

77

0

77

Stockholm

n.Passeggeri

7

542

425

234

 

 

 

 

 

 

T O T A L E

 

30

1660

1088

572

* =Insignita della Gallant Ship Award

**=Lettera Encomio

#= Recupera tre mezzi di salvataggio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Alcune statistiche interessanti

Categoria

Passeggeri

Morti

Totale

Andrea Doria (passeggeri)

1088

46

1134

Andrea Doria (equipaggio)

572

0

572

Stockholm (passeggeri)

534

0

534

Stockholm (equipaggio)

208

5

213

 

 

 

T O T A L E

2402

51

2453

Un resoconto degli eventi del giorno della collisione:

11.31 O.L. La Stockholm lascia il molo di New York Harbor

22.20 La Andrea Doria passa al largo del battello-fanale di Natucket

22.40 La Andrea Doria localizza la Stockholm sul radar- distanza 17 miglia

22.48 La Stockholm localizza l’Andrea Doria sul radar – distanza 12 miglia

22.50 La Stockholm cambia direzione per Rotta Vera 091°

23.05 La Andrea Doria cambia direzione per Rotta Vera 264°

23.07 La Stockholm accosta 20° a dritta

23.08 La Andrea Doria accosta a sinistra nel tentativo di evitare la Stockholm

23.09 O.L. La Stockholm accosta a dritta nel tentativo di evitare la Andrea Doria

23.11 La prua rinforzata della Stockholm penetra nella fiancata dell’Andrea D.

23.22 La Andrea Doria lancia “S.O.S…necessitiamo immediata assistenza”

23.54 L’Ile de France (Cap. Beaudean) risponde all’S.O.S. e dirige sul posto

00.30 Il primo naufrago dell’Andrea Doria arriva sullo Stockholm

00.45 La fregata Cap Ann è la prima nave ad arrivare in soccorso sul posto

01.23 Il cargo William Thomas arriva e getta in mare due lance di salvataggio

02.00 La n.passeggeri Ile de France arriva e getta in mare numerose lance di salvataggio ed altri mezzi necessari al recupero dei naufraghi.

Il secondo ufficiale di macchina G.Cordera raccontò: “Ci prodigammo per rallentare l’affondamento, riuscimmo a non far mancare la corrente elettrica e ciò valse a salvare centinaia di vite. La nave colò a picco con le pompe in funzione e le luci accese. Eppure la centrale elettrica era fuori uso, allagata”.

04.30 O.L. L’ultimo passeggero, R. Hudson viene recuperato dalla R.E.Hopkins

05.30 Il comandante dell’Andrea Doria P.Calamai ed i suoi ufficiali lasciano la nave che sta affondando

06.15 Messi in salvo tutti i passeggeri la Ile de France saluta l’Andrea Doria e ritorna a New York

08.06 La Evergreen arriva sulla scena per dirigere le operaz. di salvataggio

10.08 L’Andrea Doria, piegandosi definitivamente su di un fianco affonda tra i flutti.


Ferita a morte, l’Andrea Doria sta per affondare.Tra poco il mare si rinchiuderà su quella che era la più bella e grande nave italiana della sua epoca.

Epilogo

Alle otto, anche gran parte dell’equipaggio aveva lasciato la nave: a bordo era rimasto soltanto il comandante Pietro Calamai con dieci uomini d’equipaggio.

Alle nove, anche il comandante, con gli ultimi suoi uomini, ha abbandonato la nave dopo averne ricevuto l’ordine direttamente dal Ministro della Marina Mercantile italiano on. Cassiani. Il comandante del guardacoste USA Evergreen sarebbe venuto per l’ultima volta sottobordo. La nave aveva ormai preso una paurosa inclinazione sulla dritta: un altro mezzo grado e il comandante dell’Andrea Doria non ce l’avrebbe più fatta. Calamai ed i suoi uomini hanno dovuto buttarsi in mare e sono stati tratti in salvo da un mezzo costiero e poi da un elicottero. Subito dopo i mezzi di salvataggio della Coast Guard hanno “allargato” di quel tanto che era necessario per evitare gli effetti del risucchio: poi la nave è colata a picco. E’ andata giù di prua ed anche l’ultimo atto è stato più lento di quanto si possa immaginare, è durato soltanto una decina di minuti. E’ un testimone oculare che parla:

l’acqua lambiva il ponte principale mentre la “passeggiata” di terza classe era già sotto il livello di almeno quattro metri e la nave sbandava sempre più a dritta, il fianco che l’aguzzo e brunito sperone dello Stockholm aveva squarciato nel cuore della notte, erano le 10.08 quando la prua del magnifico transatlantico si immerse, senza un sussulto nell’oceano. Prima la poppa è uscita dall’acqua con le sue due eliche ormai inerti, col suo lungo timone piegato, ha pencolato così, forse ancora un minuto, forse pochi secondi in più. Non guardai l’orologio perché i miei occhi erano fissi su quella parte sempre più piccola della mia nave che affondava. Poi pian piano tutto venne ingoiato dalle acque e in ultimo si alzò a perpendicolo la poppa, sulla quale la luce fece rifulgere un’ultima volta le lettere d’oro del nome:

Andrea Doria

Risucchio, schiuma, qualche fumata di vapore, qualche relitto dei ricchi addobbi delle prime classi, qualche relitto dei modesti bagagli della “turistica”, qualche scialuppa che l’ Andrea Doria non era riuscita a mettere in mare e che all’ultimo momento si era staccata dai paranchi e galleggiava. Si chiudeva così, con questo scenario squallido e spettrale uno dei più drammatici disastri del mare.

Alle 10.08 la nave italiana “ANDREA DORIA” affondò in 225 piedi d’acqua (75metri di profondità) in posizione: Latitudine: 40° 29’.4 N - Longitudine: 60° 50’.5 W

Assicurazioni: L’Andrea Doria era totalmente ricoperta da assicurazione. Il cinquanta per cento della perdita ricadde sul mercato inglese, presso cui le Compagnie italiane si erano contro-assicurate. Secondo l’agenzia “Italia” la nave era assicurata presso varie compagnie italiane per 16,5 miliardi di dollari, pari a 10 miliardi e 230 milioni di lire dell’epoca. Le percentuali di assicurazioni erano le seguenti: 20% Mutua Marittima Nazionale; 18,75% Assicurazioni Generali; 11,20% Sicurtà tra Armatori; 11% Assicurazioni Italia; 10% Adriatica Sicurtà; 8,40% Levante; 8% Fiumeter; 3% Unione Mediterranea; il resto da 2,50% a 0,25% a Compagnie minori. Il 50% era assicurato sul mercato inglese. Il costo per la costruzione e l’allestimento della nave era stato di 15 miliardi di lire, di cui due miliardi e mezzo già ammortizzati. Assicurazioni complementari, avevano tuttavia coperto i corredi, il bagaglio e macchinari speciali per oltre due miliardi. Il contributo dello Stato era stato di quattro miliardi. La collisione dell’Andrea Doria ed il suo successivo affondamento fu una delle più importanti notizie dell’anno 1956 e fece dimenticare per un po’ di mesi gli altri grandi avvenimenti del periodo: la crisi del Canale di Suez, la rivolta d’Ungheria, la guerra d’Algeria e la rielezione del presidente Dwight D. Eisenhower.

Carlo GATTI

Rapallo, 09.02.12


Santuario di Montallegro. VELIERI nella Tempesta

 

VELIERI NELLA TEMPESTA

E negli Ex voto del Santuario di Montallegro

Pro Schiaffino, da oltre 30 anni è il direttore del Museo Marinaro di Camogli.

- “Comandante, nel presentare questa rubrica dedicata alla devozione mariana, ci siamo spesso imbattuti in avventure sofferte da equipaggi di Camogli e di Chiavari. Le due città rivierasche, così diverse tra loro, hanno avuto un passato marinaro di prima grandezza”.

“Camogli è stata una grande flotta mercantile. Chiavari un intero settore mercantile. Camogli, racchiusa tra i monti, priva di strade e di retroterra aveva riversato tutta l’attività della sua gente sul mare e sui velieri. Si era espansa nel mondo al seguito dei suoi velieri ed aveva Agenzie e Provveditorati, ma erano solo al servizio dei capitani e degli armatori. Tali punti di riferimento erano appendici di Camogli, ma avulsi dal commercio del paese.

Chiavari no! Gli esponenti di Chiavari erano commercianti che portavano le loro capacità produttive ed i loro prodotti nel mondo, e per farlo si servivano delle navi costruite da loro stessi secondo le proprie esigenze. Da ciò si deduce, per esempio, che in America e in Australia, non c’erano soltanto i loro rappresentanti, ma c’erano mercanti capaci di cercare nuovi spazi e clienti. Va da sé che quando le navi si convertirono al motore, quando cioè fu necessaria una capacità esclusiva nel costruirle, lasciarono ad altri il compito ed anche gestione”.

La marineria di Chiavari è presente nel Santuario di Montallegro con due ex-voto di gran pregio.

Si tratta del brigantino a palo “Francisca”, 683 tonn. di Stazza lorda, dell’Armatore Dall’Orso che fu costruito a Chiavari dai Cantieri di Matteo Tappani nel 1873.

Il dipinto dell’artista Fred Wettening rappresenta il veliero in balia della tempesta con vele stracciate ed una trinchettina di fortuna per mantenersi alla cappa (con la prua al mare) per non essere travolto dalle onde. In alto a sinistra è finemente stilizzata l’icona venerata della Dormizione della Vergine.

Uragano sofferto dal “Francisca” nell’Oceano Indiano, 22.2.1874-Tempera su carta di Fred Wettening.

Nave a palo Francisca, 1874. Lamina d’argento sbalzata.

Lo stesso avvenimento è ancora ricordato con una lamina d’argento sbalzata che raffigura il veliero che naviga a gonfie vele verso il suo destino. I due doni esprimono un contrasto: lo splendore, la velocità e la ricchezza di un veliero oceanico spinto da un buon vento, contro la caducità della vita, del rapido cambiamento del destino sottoposto alla spietata legge della natura avversa. In questi frangenti, rivolgersi alla Vergine significa, per il marinaio, aggrapparsi ad un’ancora di salvezza, simulacro di croce, la speranza di continuare a vivere.

Il brigantino affonderà nel 1887 probabilmente sotto i colpi del terribile monsone di SW che spesso arriva sul Capo di Buona Speranza con la massima forza della scala Beaufort. Il veliero proveniva dall’estremo oriente con un carico di riso.

Il secondo ex-voto è riferito ad un altro brigantino a palo, il “Confidenza”, costruito nel 1872 per lo stesso Armatore Dall’Orso di Chiavari. Lo scampato naufragio si riferisce al ciclone incontrato al largo di Filadelfia il 9 settembre 1889 che fu così riassunto dal suo capitano Giuseppe Lagomarsino ….”conoscendo l’eminente pericolo della perdita del bastimento e vita fece voto a M.S.S. di Monte Allegro e per la grazia ottenuta fece del presente quadro a questo Santuario in memoria eterna”.

Brigantino a palo “Confidenza”. E’ un barco chiavarese per la navigazione atlantica. Dipinto su carta 78x57 cm. Secolo XIX.

In questa rappresentazione di gran pregio, la parte riservata all’iconografia sacra che riproduce l’apparizione della Vergine al veggente G. Chichizola è notevole e molto dettagliata.

Quasi tutti i velieri sin qui riportati, sono registrati negli elenchi dei barchi che hanno superato indenni, più volte, il famigerato Capo Horn, un nome bestemmiato da generazioni di marinai, un mito nella storia della vela oceanica mercantile, un ricordo indelebile di disperate rimonte, un immenso e sinistro cimitero di navi, il simbolo del coraggio e dell’ardimento umano.

L’ex-voto del Narcissus, che abbiamo già ammirato, si riferiva alla sua più sofferta delle tante “rimonte” di Capo Horn.

Joseph Conrad li definì così: Marinai di Capo Horn: “ Una razza scontrosa e fedele, vigorosa e fiera, capace di ogni rinuncia e dedizione, con i suoi riti, i suoi usi, il suo coraggio e la sua fede…”

A questo punto consentiteci di ricordare il Capitano Fortunato Schiaffino di Camogli che, in 21 rimonte di Capo Horn, effettuò sei salvataggi meritandosi medaglie ed encomi da governi stranieri.

Carlo GATTI

Rapallo, 16.02.12



FRANCESCO TARABOTTO, il Comandante del REX

Tarabotto, il Comandante del REX,

sfollato a Rapallo  nella Seconda guerra mondiale

Diciamolo subito: il leggendario Rex era l’emblema della sfida lanciata da Mussolini a tedeschi e inglesi per la supremazia sui mari. Va da sé che fino al 1991, esaltare il Rex, in molti ambienti del nostro Paese, era  interpretato come apologia del fascismo.

La caduta del muro di Berlino non solo ha tolto il paravento a tante  ipocrisie, ma ha avuto il pregio di trascinare con sé quel radicalismo ideologico che, per almeno cinque decenni, aveva contrastato l’idea di commemorare certi “primati” che avevano fatto entrare, di diritto, l’Italia nella storia mondiale della navigazione.

In questo senso vanno interpretati i vuoti di memoria esistenti tuttora nei nostri musei navali, all’interno dei quali, ancora oggi, si prova la strana sensazione d’immergersi nella lettura di  un vecchio e pregiato libro, al quale sono state strappate le pagine più belle!

Questo gap storico, purtroppo, diventa lapalissiano se osiamo paragonare la produzione bibliografica  nazionale a quella di provenienza anglosassone. Lo stesso discorso vale per la presenza qualitativa e quantitativa dei siti internet di questo settore.

Dopo questa necessaria premessa, possiamo finalmente ricordare che il transatlantico Rex fu ordinato il 2.12.1929, la sua chiglia venne impostata il 27 aprile 1930 e fu varato nei Cantieri Ansaldo di Sestri Ponente (Ge) il 1° agosto 1931 per conto della N.G.I. (Navigazione Generale Ita-liana).

2.12.1929 - Il REX nel giorno del varo

Proprio così: sono passati 83 anni del varo della nave, di quel pomeriggio in cui il REX scivolò in mare, alla presenza del Re Vittorio Emanuele III, della Regina Elena e di settantamila spettatori. Il Rex diventò la nave ammiraglia della flotta italiana.

Il magnifico transatlantico portava con sé le cifre più alte, mai scritte nel Registro Navale Italiano: stazzava 51.062 tonnellate ed aveva una lunghezza di 268 metri, una larghezza massima di 31 metri ed un pescaggio di 10.07 metri; 142.000 cavalli di potenza gli consentirono di sviluppare alle prove di macchina, sulle basi misurate della Riviera ligure, una velocità massima di 29,5 miglia orarie. Aveva un equipaggio di 756 persone. Poteva trasportare 604 passeggeri di 1° classe, 378 di 2° classe, 410 in classe turistica, 866 in 3° classe.


Il REX con il Gran Pavese entra trionfante a New York – Lo attende il Nastro Azzurro

Il REX è ancora oggi la nave più rappresentativa nella storia dei “primati navali” del nostro Paese e qui ci piace inserire un’inedita veduta aerea, che ritrae la nave sullo scalo prima del varo. La peculiarità dell’immagine sta nel delineare la lunghezza dello scafo del transatlantico che arriva a lambire il bagnasciuga del Cantiere.

A proposito di record,  riportiamo quello che a noi pare il più curioso: nella consuetudine, è la nave che sceglie il porto adattandosi alle sue strutture. Nel caso del Rex, al contrario, fu il porto di Genova che, per potersi adeguare alle colossali misure della nave, dovette procedere alla demolizione del tratto terminale del Molo Vecchio e dragare il canale d’attracco verso Ponte dei Mille. Fu poi progettata e realizzata la nuova Stazione Marittima di Ponte Andrea Doria, destinata a provvedere alle operazioni d’imbarco e sbarco dei passeggeri; infine fu realizzato un ulteriore bacino di carenaggio della lunghezza di 261 metri che fosse in grado d’accogliere la nave per le periodiche manutenzioni e riparazioni. Il Rex entrò in servizio sulla linea celere del Nord America il 27 settembre 1932. Durante la sua costruzione, la compagnia armatrice mutò nome. Il 2 gennaio 1932 avvenne la fusione tra la N.G.I. di Genova, il Lloyd Sabaudo di Torino e la Compagnia Cosu-lich di Trieste, compagnie tutte che già operavano nel servizio transatlantico collegando i porti del Mediterraneo con il Nord America. I colori sociali delle unità delle tre flotte furono unificati.


REX e CONTE DI SAVOIA ormeggiati nel Porto Vecchio di Genova

La nuova Compagnia di Navigazione Italia Flotte Riunite si ritrovò sugli scali di costruzione, proprio in quegli anni, oltre al Rex, anche un altro bellissimo transatlantico, il Conte di Savoia che fu costruito nei Cantieri S.Marco di Trieste. Con questi “Giganti di linea”, (near sisters), simili ma non gemelli, l’arte della costruzione navale italiana, entrò di diritto nell’olimpo delle grandi tradizioni marinare. La loro perfetta armonia, esito felice d’eleganza e tecnica avanzata, ebbe l’ambito riconoscimento da parte della più qualificata clientela dell’epoca, che li scelse dinnanzi alle più celebrate “signore dei mari” che collegavano già da tempo le due sponde dell’Oceano Atlantico.

Il Rex, dotato di una potenza di macchina da far invidia alle navi da crociera moderne, era in grado d’esprimere una velocità altissima, che gli consentì di passare alla storia con l’impresa più affascinante della sua pur breve vita: la conquista del prestigioso Nastro Azzurro.

Il 10 agosto il Rex, al comando del capitano Francesco Tarabotto di Lerici, partiva da Genova alle 11.30 diretto a New York. Arrivò a Gibilterra il giorno successivo alle 17.30 e ne ripartì dopo un’ora. Nei giorni 13 - 14 incontrò mare agitato e venti contrari da ovest e sud ovest e il 16, alle ore 4.40 era al traverso del battello-fanale di Ambrose. La distanza da Gibilterra a New York, di 3.181 miglia, venne coperta in 4 giorni, 13 ore e 58 minuti, alla velocità media di 28,92 nodi. Il massimo percorso effettuato in un giorno fu di 736 miglia alla velocità di 29,61.

Il Rex strappò il Nastro Azzurro al transatlantico tedesco Bremen e dovette consegnarlo, due anni più tardi, al mastodontico liner francese Normandie.

Il dott. Lodola, all’epoca noto farmacista rapallese, aveva affittato il piano terra della sua villa alla famiglia del comandante del Rex. Gli anziani di Via Aschieri non hanno mai dimenticato l’austera figura di Francesco Tarabotto.


Francesco Tarabotto, il Comandante del REX

“Un uomo di poche parole” – racconta la signora Lola Lodola ved. Barbiroglio –  “e il suo atteggiamento severo ci metteva in soggezione. Aveva un pizzetto curatissimo e gli occhi piccoli e neri che ti fissavano soltanto per dare degli ordini. Sembrava che indossasse la divisa anche quando curava i fiori in giardino; era l’epoca che dopo Dio c’era il comandante della nave. Io credo che Tarabotto sia stato in gara anche con il Padreterno per avere il comando assoluto sia in mare che in terra. Devo dire che i tempi erano difficili per tutti, specialmente per gli sfollati come il comandante e la sua famiglia, che avevano lasciato tutto al loro paese, nell’attesa di ritornarvi dopo la tempesta della guerra. Io ero ragazzina e non capivo veramente nulla dell’importanza di quella personalità che avevamo in casa. Ricordo, in ogni modo, che gli anziani di quegli anni parlavano di lui come una persona molto seria e onesta perchè era  un buon pagatore…”!

Nuvole nere apparvero tuttavia all’orizzonte e presagirono tempeste su tutto il mondo. Presto calò il sipario sulla stagione d’oro dei transatlantici che dovettero lasciare la scena alla calata dei nuovi barbari. Gli eventi bellici della seconda guerra mondiale interruppero e terminarono la brillante e breve carriera del Rex e del Conte di Savoia in modo tragico.

Nel 1939 sulle murate delle due navi italiane furono dipinte due grandi bandiere tricolori in segno di neutralità, per distinguerle dalle unità degli stati coinvolti nella guerra. Il 25.5.1940 la Direzione della Società Italia di Navigazione annunciò la sospensione del servizio transatlantico di linea. Rex e Conte di Savoia furono destinate ad un lungo disarmo verso porti più sicuri di quello di Genova.


Il REX colpito a morte dagli aerei della R.A.F. giace morente su un fianco

Il Rex, dopo vari scali intermedi, ormeggiò al molo VI° di Trieste. Il Conte di Savoia trovò l’attracco a Venezia-Malamocco. L’armistizio se-gnò la fine di queste splendide unità che, abbandonate e ridotte ad un ammasso di ruggine, rappresentavano ormai l’ombra ed il rimpianto di un’epoca irrepetibile.

Il 9 settembre 1943 i Tedeschi occuparono Trieste. Sul Rex iniziarono subito le razzie di tutti i suoi preziosi arredamenti, tappeti, quadri, posaterie, porcellane ecc…Il 13 marzo 1944 l’ex-ammiraglia cambiò bandiera e dal quel giorno fece compartimento Amburgo. Il 10 giugno 1944 il Rex si salvò miracolosamente da un terribile bombardamento a tappeto che colpì tragicamente Trieste. Molte incursioni della RAF convinsero i Tedeschi a rimorchiare il Rex nella rada di Capodistria. Il suo trasferimento non passò, tuttavia, inosservato agli Inglesi che il 9 settembre 1944 apparvero nuovamente a bassa quota con i temibili Beaufighters e colpirono a morte la nave, con ben 123 razzi incendiari. Stessa tragica sorte era toccata al Conte di Savoia l’11 novembre del ’43, quando la più bella unità italiana fu ridotta ad un ammasso di lamiere fumanti, sotto i bombardamenti di una squadriglia d’aerei tedeschi.

Carlo GATTI

Rapallo, 18.02.12