SANTA MARGHERITA L. e la Guerra '15-'18

SANTA MARGHERITA

la guerra ’15 -‘18

<Santa Margherita è forse, in inverno, la stazione climatica che gli Inglesi e i Teutonici amano di preferenza affollare. Quando imperversa con la calura la torrida estate, non è italiano che non vi trascorra qualche giorno per tuffarsi nelle glauche acque del Tirreno. Si leva nel golfo di Rapallo come una ninfea voluttuosa, in una baia ridente, protetta da tutte le furie di Eolo. Santa Margherita accoglie oggidì nei suoi alberghi di primo ordine tutte le categorie degli errabondi che lasciano le nordiche case e si installano in questa riva magica che il dattero di oriente profuma, maturando >.

Trascrizione integrale nella quale é difficile ritrovarsi oggi, ma così appare nel volume <Liguria > della collana “Bellezze d’Italia” con tanto di dedica bene augurante, posta sotto il ritratto a tutta pagina in apertura del libro, firmata da Benito Mussolini; era il Gennaio del 1924.

In quegli anni, qualche italiano turista era possibile ci fosse; solo quei pochi che se lo potevano permettere erano accomunati ai nordici, compreso il brivido dell’avventura di <solcare i mari >, anche se in realtà si limitavano a circumnavigare i capi del golfo del Tigullio su motoscafi privati, gli unici che all’epoca facessero servizio a noleggio. Fino ai primi decenni del ‘900, quel golfo, com’è facile intuire, era meta di un turismo di élite, per altro anche l’unico in circolazione all’epoca, nonostante sia scritto <..non è italiano che..> nel libro menzionato.

Papà, giovanissimo appassionato di motori e di salsedine, comandava, guidava e manuteneva uno di quei battelli e accompagnava i clienti a vedere quelle che D’Annunzio, in “Elettra”, descrive come:

le rupi che nel mar di Liguria

si protendono come sfingi

coronate di fiori!

Il servizio di battelli che oggi trasportano masse di gitanti, non esisteva ancora, così come, lo abbiamo detto, non esistevano per altro neppure le “masse di gitanti” che potessero permettersi il lusso di esserne trasportati.

Ogni qual volta navigo in quelle acque, non posso dimenticare quanto mi raccontava, di quel poco che ha voluto dirci della sua vita, mio padre a proposito di una decisione, per lui giovinetto, importante.

Nel 1915, appena ventenne, decise di lasciare l’ottimo posto di lavoro che aveva presso gli stabilimenti Ansaldo per seguire, volontario, i suoi più anziani colleghi che, invece, erano stati chiamati alle armi per combattere nella “grande guerra”, già scoppiata; “grande” la si definì solo alla fine anche se, come per tutte le guerre, sarebbe stato più consono definirla “immane”.

Prese quella decisione perché aveva ritenuto ingiusto restare a casa, magari facendo pure carriera grazie alla loro assenza, anche se la Direzione dell'Ansaldo aveva per lui ottenuto l’esenzione dal servizio militare. Era ritenuto, per certe sue intuizioni migliorative della produzione, indispensabile, perché capace di risolvere problemi normalmente ovviabili solo dopo lunghi studi a tavolino; in tempo di guerra la velocità può rivelarsi decisiva.

Venuto a conoscenza che il figlio “dandy”, prediletto e viziato dalla madre, una nobildonna milanese sua assidua cliente ai tempi del cabotaggio, era stato chiamato alle armi, prese contatti con la signora stessa, ponendosi a sua disposizione.

All’epoca, per essere graduati, non era indispensabile un titolo di studio; si poteva ovviare portando in <dote > un’attrezzatura che fosse ritenuta utile per la patria in armi. Entro certi limiti, si aveva diritto ad un grado proporzionale all’apporto offerto; poteva essere valido già un cavallo, per poi salire ad una moto, un’auto, un camion, un motoscafo sino ad arrivare all’ambitissimo aeromobile, in quei tempi agli esordi.

La signora, conoscendo la serietà e le capacità tecniche di mio padre, acquistò per il figlio un motoscafo e lo equipaggiò anche con un pilota-meccanico di prim’ordine, in modo che potesse fungere da angelo custode al figlio e garantire, nello stesso tempo, un’efficiente manutenzione all’imbarcazione: papà, per l’appunto.

Subito il “signorino” fu nominato Ufficiale e aggregato al Comando della Marina a Venezia dove, libero dalla presenza vigilatrice della madre, si dette  alla bella vita con i “soldi di mammà”. Mio padre avrebbe dovuto fargli da attendente-pilota ma, una volta arrivati a destinazione e trovato per “l’armatore” una comoda sistemazione al Lido, noblesse oblige, domandò e ottenne di potersi aggregare, barca al seguito, a Chioggia, con compiti operativi. D’altro canto lui era lì per combattere, purché sul mare, e questo intendeva fare. All’epoca era in auge D’Annunzio con il suo dire:

Il mare è la mia patria, la patria dei liberi.

Era spesso inviato a risalire il Piave o l’Isonzo, per missioni di guerra; appena calata la notte doveva trasportare, oltre gli avamposti austriaci, gruppi di <arditi > assalitori con il compito di neutralizzare silenziosamente, usando solo pugnali e corti cavetti d’acciaio, gli occupanti di certe postazioni nemiche che, durante il giorno, avevano dato del "filo da torcere" agli alleati. Poi, prima del rischiarare dell’alba, in ora e sito stabilito, doveva recuperarli per riportarli alla base; moltissime volte, purtroppo, il motoscafo ritornò semivuoto. Normalmente, non appena rimbarcati i presenti all’appuntamento, sfruttando la corrente discendente del fiume per ridurre al minimo il rumore dei motori, a luci spente, iniziava il ritorno fra sponde infide.

Nel tentativo di far recuperare agli arditi le perdute e intirizzite energie, preparava sottocoperta delle spaghettate; a mano a mano che le missioni s’intensificavano, sempre più spesso quel pasto caldo serviva a sedare frequenti incontrollabili tremori. L’acqua per cuocere l’attingeva direttamente dal fiume e, raccontava che, in occasione della ritirata di Caporetto, era insolitamente rossastra tanto che era difficile trovare un’ansa dove l’acqua non fosse insanguinata.

Per il suo coraggio e la sua capacità lo addestrarono per partecipare alla <Beffa di Bucari > in qualità di riserva ma, alla fine, non venne chiamato.

Suo fratello, poco più anziano di lui, era anch’esso combattente ma “fantaccino pesta fango” sul Carso; quest’ultimo, uomo di tutt’altro carattere rispetto a quello di papà, pragmatico, disincantato e da sempre un mattacchione mai ligio alle norme, aveva avviato, in prima linea, un fiorente commercio d’alcolici, arrivando persino a barattarli con il nemico, facilitato in questo dalla sedentarietà prolungata delle reciproche postazioni, tanto che certuni, pur su fronti opposti, avevano installato fra loro un certo dialogare.

La bevanda più compravenduta era la grappa che, se fraudolentamente distribuita prima d’ogni assalto in misura leggermente inferiore al prescritto, gli permetteva di commerciarne il residuato surplus.

Un giorno papà decise di dedicare un permesso ottenuto, andando a trovarlo, così da poter poi mandare notizie alla loro madre che, in ansia e in preghiera, a casa attendeva. Partì per il Carso con lo stesso spirito, ho motivo di credere, con il quale oggi partiremmo per un fine settimana fuori porta; giunto in prima linea, non faticò molto a farsi indicare in quale trincea avrebbe potuto trovare il fratello, tanto il personaggio si era fatto conoscere. Stanco del viaggio e non trovandolo si accoccolò, per attenderlo, nella “tana” che il fratello si era ricavata fra le rocce  e, qui, si addormentò.

Lo svegliò un fastidioso raggio di sole che, all’improvviso, filtrò dal pezzo di sacco assurto a tenda d’ingresso; nello sbirciare, focalizzò contro luce, un Capitano che, scostata la tenda, stava entrando. L’abitudine lo fece balzare in piedi di scatto, ancorché semistordito dalla stanchezza e dal sonno, mentre tentava di qualificarsi perché si rendeva conto che, per quello, non era usuale incontrare un marinaio sul Carso senza adeguata giustificazione. Subito però riconobbe nei panni del graduato suo fratello che, con sottobraccio una botticella gli spiegò, con la più invidiabile naturalezza, che stava per l’appunto tornando da una missione “commerciale”.

Una volta dentro, si sfilò dal berretto cilindrico, tipico degli ufficiali di quella guerra e immortalato nelle foto di Vittorio Emanuele III, il re soldato, i galloni che erano formati da cerchi in passamaneria “coda di topo” dorata, tanti quanto il grado imponeva, e appendedoli ad un chiodo, tornò soldato semplice quale effettivamente era; spiegò, al sempre più trasognato e ligio fratello, che quelli gli erano indispensabili per poter liberamente circolare ad alimentare il suo commercio. Una volta appurato a quale grado apparteneva il comandante di giornata, s’infilata un cerchio in più di quanti non n’avesse l’altro, per non correre il rischio di essere ostacolato in una delle sue frequenti “missioni”.

Mentre il fratello raccontava queste “allucinanti” cose, papà avvertì crescenti fastidiosi spifferi d’aria che, all’arrivo lassù, non aveva accusato; si guardò e non potè che costatare che la sua logora divisa di panno da marina, era ormai tutta un buco, nemmeno fosse fatta di sottili fette di gruviera.  La spiegazione la scoprì ben presto; durante il sonno, i topi avevano banchettato, come da mesi non capitava loro, a base di panno intriso d’olio da motore frammisto a grasso per i supporti degli assi delle eliche. Rimediata una divisa, forse tolta a qualcuno che nell’ennesimo tentativo d’assalto non aveva avuto fortuna, rientrò a Chioggia, apparentemente arruolato in un’arma che non era la medesima di quando era partito.

Così i nostri padri accettarono o dovettero accettare di  mortificare i migliori anni della loro giovinezza nella speranza almeno, di contribuire a creare una Patria forte e in pace. Nel nome dello stesso ideale, altri combatterono poi in Africa ed in Spagna, non pensando che da lì a poco molti di loro, ormai non più giovani, si sarebbero trovati inspiegabilmente alleati con quelli che sino ad ieri avevano considerati nemici e, per di più, ora uniti in una nuova disperata avventura.


Renzo BAGNASCO

Rapallo, 28.12.2014





Incrociatore BOLZANO - Un recupero eccezionale

Incrociatore Pesante

BOLZANO

UN RECUPERO ECCEZIONALE

Sommergibile britannico UMBROKEN

disegno da warshipsww2.eu

La classe britannica U era originariamente stata ideata come una serie di semplici e piccoli battelli specificatamente ideati per fungere da bersagli per altri sottomarini durante addestramenti.

Le necessità di guerra videro tuttavia un interessante sviluppo del progetto per poi giungere ad una classe prodotta in gran numero che vide il culmine del suo servizio nel Mediterraneo (grazie alle modeste dimensioni e alla maneggevolezza).

La terza (ed ultima) variante della classe, di cui faceva parte anche Unbroken, aveva visto una serie di miglioramenti rispetto al progetto originale.

Molte unità di questa classe vennero poi cedute alle marine Alleate che necessitavano di rinforzare i propri ranghi: Le flotte libere in esilio di Olanda, Francia, Norvegia, Polonia, Grecia, ed infine la flotta Sovietica, ricevettero battelli in prestito.

V-2 ex-Unbroken: Questo sottomarino aveva visto un grande servizio nella Flotta Britannica, le sue vittime furono quasi tutte italiane e furono:

 

I mercantili Edda, Bologna, la nave-pilota F-20/Enrica, il dragamine ausiliario n°17/Milano, affondati. Danneggia inoltre il veliero Vale Formoso-II e il mercantile Titania (quest'ultimo poi finito dal sottomarino Safari).

Danneggia anche la petroliera tedesca Regina.

Il suo attacco più importante fu però ovviamente il doppio siluramento il 13 Agosto 1942 degli incrociatori italiani Bolzano e Muzio Attendolo che vennero entrambi pesantemente danneggiati.

Nelle sei fotografie che seguono appaiono, in tutta la loro drammaticità, le condizioni dell’incrociatore pesante italiano BOLZANO (12.000 tonnellate), silurato nelle Isole Egadi, il 13 agosto 1942, dal sommergibile britannico UNBROKEN. Il BOLZANO, colpito a centro nave e arrestatosi in fiamme, nonostante i locali allagatisi per l’acqua che entrava dalla falla causata dall’esplosione di un siluro, fu portato ad incagliare, con il cavo da rimorchio, dal cacciatorpediniere GENIERE nei bassi fondali di Lisca Bianca nell’Isola Panarea, e ci vollero due giorni prima che l’incendio fosse domato.

 

 

 

 

 

 

I lavori di recupero, iniziati sul BOLZANO il 18 agosto, e che si svolsero, durante cinque settimane, sotto il pericolo di attacchi di aerei e di sommergibili, furono diretti  dal Comitato Progetto Navi, e con personale specializzato e attrezzature fatte affluire dagli arsenali di Taranto, Palermo e Messina, che evidentemente sapevano come lavorare bene e rapidamente, senza perdere tempo.

Il 15 settembre la nave poté essere sollevata dal fondale, e avendo raggiunto l’assetto sufficiente per affrontare una navigazione a rimorchio, l’indomani fu portata a Napoli, ove arrivò alle ore 19.00 trainata dai rimorchiatori TITANO TESEO e SALVATORE I. La navigazione di trasferimento, senza essere disturbata da nessun aereo o sommergibile nemico, si svolse alla velocità media di cinque nodi e mezzo, con l’assistenza di due cacciatorpediniere, una torpediniera e quattro cacciasommergibili.

Visto questo capolavoro di velocissimo recupero, resto alquanto scettico per quanto tempo ci è voluto per risollevare e portare via la COSTA CONCORDIA.

I lavori per risollevare il BOLZANO vennero realizzati senza disporre di una ben minima parte della sofisticata e computerizzata organizzazione impiegata sulla C.CONCORDIA della Ditta addetta ai lavori, e senza e il clamore che ha accompagnato il recupero di questa grande nave, in cui hanno lavorato tecnici provenioenti da mezzo mondo, e che ha fatto gridare al “miracolo”.

Sorvolo sulle bischerate della pericolosità del relitto per  la tranquillità e gli  eventuali speronamenti di Cetacei, e per la reclame, ridicola a mio parere, che si è fatta  la allarmata Ministra francese, a bordo di una nave da guerra francese.

Francesco MATTESINI

 

 

webmaster Carlo GATTI

 

 

Rapallo, 12 Agosto 2014

 


 

 

 

 


CANAL DU MIDI

CANAL DU MIDI

NAVIGANDO CON IL RE SOLE...

La cartina mostra i canali navigabili che collegano il Mediterraneo all’Atlantico: Canal du Midi (241 Km) - Canal de Garonne (193 km) - L’estuario della Garonna che collega Castets-en Dorthe a Bordeaux (57 km)

Il Canal du Midi Costruito sotto il regno di Luigi XIV, dal 1666 al 1681, fu considerato il più moderno progetto idraulico del mondo che aprì la strada alla rivoluzione industriale. Nel 1996 fu inserito nell'elenco dei Patrimoni dell'Umanità dell'UNESCO.

Il Canale della Garonna é certamente il meno celebre dell’asse Mediterraneo-Atlantico, ma la scoperta della sua storia e del patrimonio delle regioni che attraversa, merita il viaggio. La sua costruzione risale al 1860.

La navigazione sull’estuario de la Garonne verso Bordeaux é affascinante, ma soggetta a maggiori difficoltà nautiche (venti, correnti e onde di marea). Occorre esperienza, prudenza e rispetto delle regole prescritte dall’Autorità.

Dal Mediterraneo all’Atlantico

 

Realizzare il sogno di collegare l'Atlantico al Mediterraneo...

Sin dall'antichità era stato elaborato un gran numero di progetti volti allo scavo di un canale di collegamento dei due Mari, ma per realizzarlo ci volle la fortuita combinazione dell’unione di tre personaggi formidabili: il Re Sole Luigi XIV, il suo ministro delle finanze Colbert* ed un ingegnere caparbio come il Riquet**.

L’opera idraulica avrebbe risparmiato ai francesi la circumnavigazione della nemica Spagna con un risparmio di 3.000 Km (circa un mese di navigazione).

Inizialmente il canale fu utilizzato prevalentemente da chiatte a vela di piccole dimensioni, con alberi facilmente abbassabili, per il commercio delle granaglie e del vino Bordeaux verso la riviera francese e l’Italia ed ebbe un incremento strepitoso. La nuova via d’acqua fu sfruttata anche per scopi militari da imbarcazioni che trasportavano truppe e armi. Verso la metà del XVIII secolo , furono utilizzati anche i cavalli per rimorchiare battelli da carico fino all'avvento dei mezzi a vapore che iniziarono nel 1834.

Nel 183 8 fu registrato il passaggio di 273 navi, sia per trasporto di merci, sia di quello passeggeri, e il suo utilizzo continuò fino all'avvento delle ferrovie nel 1857 .

 

L’architetto di quest'opera riuscì a coniugare la sua grande funzione tecnica con il rispetto del paesaggio. Una prodezza tecnica e un'opera d'arte integrata  nella grande varietà dei paesaggi attraversati.

La rapida evoluzione tecnica dei trasporti terrestri, marittimi e aerei, non incise affatto sul traffico commerciale sul Canal du Midi che durò fino al 1980. In seguito, a causa della persistente siccità della fine degli anni ’80, iniziò a diminuire per cause naturali, cessando quasi del tutto.

La frequentazione del canale, iniziata negli anni sessanta del XX secolo, registrò il suo boom nel decennio 1980-1990. Tra i principali siti attraversati citiamo i più famosi per la loro storia, arte antica e moderna: Tolosa, Castelnaudary, Carcassonne, Trèbes, Béziers, Narbonne, Sète, Agde…

Il canale, aperto da marzo a novembre, oggi è una delle mete principali del turismo fluviale e della possibilità di praticare numerosi sport: canottaggio, pesca, ciclismo e, naturalmente escursioni su chiatte di lusso come l'Anjodi. Gli ultimi dati stimano una media annua di 100.000 turisti che l’attraversano da un mare all’altro.

Canal du Midi - Escursioni all’ombra dei platani

Lungo il canale che collega Sète - Tolouse a Bordeaux L'alzaia *** funge da pista pedonale e ciclabile e. Le biciclette possono essere noleggiate presso diverse stazioni lungo il Canal du Midi. Inizialmente il canale era arricchito da filari di platani maestosi su ogni lato. I 42.000 alberi, che risalgono al 1830, furono piantati per stabilizzare le banchine. Nel 2006 un’infezione fece appassire e successivamente morire gli alberi. Circa 2.500 vennero distrutti a metà del 2011, dopo di che l’Amministrazione decise che l’intera piantagione sarebbe stata distrutta e sostituita nel giro di 20 anni.

Inizialmente, i 42.000 platani che costeggiavano le Canal du Midi, erano stati piantati per ridurre il movimento franoso e stabilizzare le sponde del canale.

L'allineamento di questi alberi, posti a 7-8 metri di distanza l'uno dall'altro, crea ancora, dopo 350 anni, l'effetto di un colonnato, dando così luogo a un “magnifico monumento paesaggistico”. I platani filtrano la luce e proteggono i turisti-naviganti dalla calura estiva del Sud della Francia.

Il ponte-canale di Cesse costituisce tuttora un’autentica ed audace invenzione d’architettura idraulica. Fu costruito dagli ingegneri Riquet e Vauban tra il 1689 e 1690. Misura 64 metri di lunghezza e 20 d’altezza.

Fonsèranes a Beziers - Le nove chiuse a sinistra e l’ascensore d’acqua a destra.

Le famose “Nove chiuse di Fonserannes” alle porte di Bezieres

Lungo il percorso che porta a Bezieres oltre alle chiuse vinciane multiple di Fonsèranes, si passerà il ponte-canale sull’Orb e il tunnel di Malpas qui fotografato.

Il Ponte-canale sull’Orb fu costruito nel 1854 per risolvere il problema dell’attraversamento del fiume Orb, assai capriccioso per le forti escursioni in altezza delle sue acque che non consentono un livello medio adatto alla navigazione.

 

Le Canal du Midi nei pressi di Carcassonne

Ma chi fu il vero ideatore del progetto?

Nel 1662, la proposta di Pierre-Paul Riquet, alto funzionario della regione della Linguadoca, suscitò l'attenzione di Luigi XIV che vide in essa molte opportunità economiche e soprattutto militari. A questa enorme operazione finanziaria diede il proprio contributo il Colbert (Ministro delle Finanze).

 

Con l'editto reale dell'ottobre del 1666 si diede avvio alla costruzione del canale la cui apertura alla navigazione avverrà il 15 maggio del 1682. L’opera  fu resa possibile grazie all’impiego di ben 12.000 operai e ad una precisa e scrupolosa organizzazione del lavoro.

Un'opera d'arte eccezionale, una sfida tecnica

Da Toulouse a Carcassonne. La cartina mostra la posizione del Bacino di San Ferreol rispetto al Canal du Midi.

La diga ha una lunghezza di 780 m, un'altezza massima di 32 m e uno spessore-base di oltre 140 m. L'acqua può essere prelevata dal bacino tramite un tunnel a volta di pietra posto alla base della diga, pertanto il limo può essere rimosso dal fondale del bacino attraverso il tunnel. Quando il livello si trova alla sua massima capacità, l’invaso contiene circa 680.000 metri cubi di acqua.

Il bacino di Saint-Ferréol constituisce la risorsa principale per l’alimentazione del Canal du Midi. Si tratta in effetti del luogo in cui Pierre-Paul RIQUET decise, nel 1667, di posare la prima pietra di una diga gigantesca che doveva sbarrare la vallata del Laudot e trattenere una immensa quantità d’acqua: più di 4,5 milioni di metri cubi che l’architetto Vauban aumenterà, qualche anno più tardi, ad una capacità di 6,5 milioni di metri cubi.

Il Bacino de Saint-Ferréol e la diga costruita appositamente per fornire acqua al Canale navigabile du Midi, costituirono l’opera di ingegneria civile più importante d’Europa.

Originariamente, il lago artificiale doveva essere alimentato dal solo fiume Laudot, ma quando questo fu ritenuto insufficiente, P.P. Riquet fece convogliare altri emissari in un unico canale chiamato "rigole de la montagne". Questo flusso raccolse in seguito le acque dei fiumi Alzau, Vernassone, Lampillon, Lampy e Rieutort e li confluì nella galleria di Cammazes; 132 m di lunghezza e 2,7 metri di diametro che si collega al bacino. Il tunnel è stato costruito dall'ingegnere militare Marshall Sebastien Vauban nel 1686-1687.

Il lago si trova nei tre comuni di Vaudreuille (Haute-Garonne), Les Brunels (Aude) e Sorèze (Tarn) .

Bassin de St-Ferrol

L'opera fu inaugurata ufficialmente il 15 maggio 1681 con il nome di Canal Royal de Languedoc. Pierre-Paul Riquet finì in bancarotta per gli ingenti costi da lui sostenuti in prima persona dopo che le casse di Luigi XIV non poterono più fornire il sostegno necessario e morì nel 1680, pochi mesi prima dell'apertura del canale alla navigazione.

Ancora qualche dato:

Il Canal du Midi ha 103 chiuse che servono a superare un dislivello totale di 190 metri. Considerando anche i ponti, le dighe, e un tunnel, il canale è costituito complessivamente da 328 strutture. La via d'acqua è lunga 240 chilometri, larga anche 15-20 metri e profonda 2.

Una curiosità: l’opera fu costruita grazie al lavoro di centinaia di donne che portarono canestri pieni di terra nel vasto cantiere.

Il progetto del canale prevedeva anche la costruzione del primo tunnel mai realizzato per permettere il passaggio di un canale, il tunnel de Malpas , una galleria lunga 173 metri, all'interno di una collina nei pressi di Nissan-lez-Enserune. Questo tunnel è considerato un simbolo dell'ostinazione di Pierre-Paul Riquet contro le avversità.

Note:

*Jean-Baptiste Colbert (Reims, 29 agosto 1619 - Parigi, 6 settembre 1683) è stato un politico ed economista francese .

La sua opera fu diretta principalmente ad accrescere la ricchezza del Paese, incoraggiandone lo sviluppo industriale e coloniale. Modernizzò le finanze pubbliche francesi, salvandole dalla bancarott a e facendo raggiungere il pareggio al Bilancio dello Stato , ma la sua opera risanatrice fu gravemente ostacolata dalle enormi spese belliche di Luigi XIV . Nel 1669 ottenne dal re la creazione del Ministero della Marina , carica di cui fu il primo titolare e che fece di lui il padre della moderna marina francese. La politica di Colbert è considerata una delle più genuine interpretazioni del mercantilismo.

** Pierre-Paul Riquet (Bèzieres, 29 giugno 1609 - Tolosa, 4 ottobre 1680) è stato un ingegnere francese, responsabile della costruzione del Camal du Midi.

Sin da ragazzo Riquet era interessato soltanto alla matematica e alla scienza. All'età di 19 anni ha sposato Catherine de Milhau. Era «fermier général» (colòno generale) della «Languedoc-Roussilon» con la qualifica di appaltatore d'imposte, cioè era responsabile della raccolta e dell'amministrazione della gabella in Linguadoca . Riquet divenne facoltoso e gli fu concesso dal re di imporre le proprie tasse. Ciò gli conferì una discreta ricchezza, che gli consentì di eseguire grandi progetti con competenza tecnica.

Riquet è l'ingegnere responsabile della costruzione del canale navigabile dalla lunghezza di 240 km che collega la costa meridionale della Francia alla baia di Biscay, una delle grandi opere ingegneristiche del XVII secolo. La logistica fu talmente immensa e complicata che gli antichi Romani ne discussero il progetto ma non lo realizzarono. Ciò nonostante re Luigi XIV fu propenso a realizzare il progetto, principalmente a causa dell'aumento delle spese e del pericolo per il trasporto marittimo delle merci attorno alla Spagna meridionale, dove i pirati erano comuni. La progettazione, il finanziamento e la costruzione del Canal du Midi assorbirono completamente Riquet dal 1665 in poi. Si presentarono numerosi problemi, compreso la navigazione intorno a molte colline e a un sistema per riempire il canale con l'acqua anche durante i mesi estivi. I miglioramenti nell'ingegneria delle chiuse e dighe del canale, e la creazione di un lago artificiale di 6 milioni di metri cubi permisero di risolverli. Il canale venne completato nel 1681, un anno dopo la morte di Riquet.

*** L'alzaia è la fune che serviva a tirare dalla riva di fiumi e canali chiatte e battelli controcorrente.

 

Carlo GATTI

Rapallo, 14 Luglio 2014

 

 

 


MUSEO STORICO dello Sbarco in Sicilia 1943-Catania

MUSEO STORICO DELLO SBARCO IN SICILIA 1943

CATANIA


Viale Africa, Piazzale Asia Le Ciminiere, Catania, Sicilia Italia

Il Museo occupa una superficie di circa 3000 mq, ha sede presso il complesso Le Ciminiere, di proprietà della Provincia Regionale di Catania.
Il complesso, è un sito di antiche zolfatare recuperate alla città di Catania ad opera dell’architetto Giacomo Leone che ha coniugato modernità architettonica e memoria storica dei luoghi. 
Questo esempio di archeologia industriale che sia affaccia sul mare oggi è centro non solo del museo dello Sbarco e del Cinema, ma di convegni ed iniziative culturali.

Tra i numerosi testi inerenti l’Operazione Husky da noi consultati, riteniamo che il presente compendio storico pubblicato dalla Direzione del Museo Storico dello Sbarco in Sicilia 1943 sia il più idoneo, completo ed aderente al contesto generale del materiale esposto nelle sale museali di questo ECCELLENTE Museo di cui non possiamo che parlarne e scriverne con grande ammirazione. Ringraziamo la Direzione per la gentile concessione.

 

Carlo GATTI

 

Presidente della Associazione Culturale

MARE NOSTRUM RAPALLO

 

https://www.marenostrumrapallo.it

 

La seconda guerra mondiale

 

Passati gli anni dell’unità d’Italia, le spedizioni in Africa, la guerra Italo – Turca e la prima guerra mondiale, l’evento più importante della storia contemporanea che riguarda la Sicilia e Messina è sicuramente la seconda guerra mondiale ed in particolare l’Operazione Husky ovvero lo sbarco in Sicilia che fu la più grande operazione anfibia del secondo conflitto mondiale in relazione al numero di divisioni (7 contro 5 dello sbarco in Normandia) sbarcate entro il primo giorno d’invasione.

 

Proprio dalla Sicilia infatti partì l’invasione dell’Italia da parte Angloamericana segnando l’inizio della liberazione dell’Italia ed il conseguente tracollo del dominio nazista in Europa.


 

 

Perchè la Sicilia?

 

Già nel 1941 era stato programmato dagli alleati uno piano d’invasione della Sicilia denominato Whipcord, con sbarchi da effettuarsi contemporaneamente a Palermo, Milazzo, Catania ed Augusta ma che fu nello stesso anno annullato in previsione del piano d’invasione del 1943.

 

La decisione dello sbarco nacque durante la conferenza di Casablanca nel febbraio del 1943 nell’incontro tra Churchill e Roosevelt. I due leaders notando che i loro stati maggiori non avevano piani strategici a lungo termine, mancavano cioè di un piano offensivo di largo respiro, un’operazione in grande stile tale sia da aprire un secondo fronte in Europa allo scopo di alleggerire lo sforzo delle truppe Sovietiche contro quelle Tedesche, sia da iniziare la liberazione dell’Italia. Ci si rese subito conto che per motivi strategici la Sicilia era la zona meglio indicata per uno sbarco, poiché la Sardegna e la Corsica, anche se più vicine alle coste Francesi, non erano un punto fondamentale per la distruzione del dominio nazifascista nella penisola, ovviamente la tesi Inglese sullo scelta della Sicilia era anche mossa da un certo interesse imperialistico nei confronti dell’isola, gli Americani infatti temevano che gli Inglesi potessero considerare la Sicilia come una seconda Malta. Nel frattempo mentre gli Italiani avevano in un certo senso previsto che esso sarebbe stato effettuato in Sicilia, i Tedeschi invece pensando erroneamente alla Sardegna e la Corsica (grazie alle azioni di depistaggio), bloccarono l’afflusso delle divisioni Tedesche verso l’isola cancellando forse così l’ultima possibilità di contrastare e rendere inefficace lo sbarco.

 

Il Depistaggio: l’Operazione Mincemeat

 

Nell’ autunno del 1942, quando l’invasione del nord Africa era in pieno svolgimento e procedeva verso il successo, gli strateghi Angloamericani stavano già pensando all’operazione successiva da compiere, fissando agli inizi del 43 come prossimo obiettivo la Sicilia.

 

Tuttavia l’invasione dell’isola poteva essere prevista dall’avversario. Si ideò quindi un piano diversivo con lo scopo di far credere al nemico che il prossimo sbarco non sarebbe avvenuto in Sicilia distogliendone così l’attenzione ma soprattutto le forze nemiche.

 

Nacque così l’Operazione Mincemeat che scattò il 30 aprile 1943.


 

Si decise di far ritrovare nelle acque della Spagna il cadavere di un finto giovane ufficiale Inglese caduto in mare con un aereo diretto in nord Africa (luogo in cui vi era il Comando Generale alleato), il 30nne maggiore William Martin, (vedi foto) con addosso documenti comprovanti che lo sbarco sarebbe avvenuto in Grecia o in un altro punto del Mediterraneo occidentale, ma non in Sicilia che invece era utilizzata come copertura per gli obiettivi reali.

 

L’operazione era molto rischiosa perché se qualcosa fosse andata storta, i Tedeschi avrebbero capito che lo sbarco sarebbe realmente avvenuto in Sicilia.

 

Invece tutto andò per il verso giusto, i Tedeschi recuperarono il cadavere del finto ufficiale e visionarono i documenti giudicandoli attendibili e credendo così che l’attacco alleato sarebbe avvenuto in Sardegna con uno sbarco sussidiario in Grecia.

 

Di conseguenza l’Alto Comando Tedesco trasferì un’intera divisione corazzata dalla Francia in Grecia, fece collocare campi di mine al largo della costa Greca, ed installare numerose batterie costiere.

 

Inoltre un intero gruppo di dragamine venne trasferito in Grecia dalla Sicilia, un’unità corazzata fu inviata in Corsica mentre furono rafforzate le difese sulla costa della Sicilia settentrionale dove lo sbarco non avvenne.

 

Tutti questi cambiamenti e scombussolamenti provocati dall’esito positivo dell’Operazione Mincemeat fece indebolire notevolmente le forze di difesa Tedesche presenti in Sicilia rendendone sicuramente più facile lo sbarco e probabilmente risparmiando la vita di migliaia di soldati .

 

In realtà, tale operazione non fu da sola determinante per la conquista della Sicilia, infatti gli stessi Tedeschi, nonostante tutto, non avevano nessuna intenzione di difendere ad oltranza le basi aeree e navali Siciliane, abbandonandole in caso di estremo pericolo allo scopo di salvare così uomini e mezzi da poter utilizzare in successive battaglie lungo lo stivale Italiano. E così accade.

 

 

La pianificazione dello sbarco

Il piano iniziò nel febbraio 1943 con uno staff di 15 persone dell’esercito chiamato ‘ forza 141 ’ con base ad Algeri.

I pianificatori della forza 141 si concentrarono sulla selezione di punti contro i quali sarebbero stati condotti i principali assalti.

I più importanti obiettivi immediati furono i porti, necessari per rifornire le forze di invasione, e i campi di volo, entrambi da togliere al nemico e per essere usati dalle forze aeree di sostegno alleate.

A Messina, sulla punta nordorientale dell’isola, vi era il porto più grande, ma un attacco diretto contro di essa fu sconsigliato a causa delle notevoli fortificazioni che si sapeva esistessero lungo lo stretto e perché era fuori dal reale raggio d’azione dei velivoli di combattimento aereo con base a Malta ed in Tunisia.

Gli altri porti principali erano Palermo, nel nord ovest, e Catania, Siracusa ed augusta nel sud est. Inizialmente si pensò di effettuare due distinti sbarchi sulle coste nordoccidentale e sudorientale, ma l’ipotesi venne scartata in quanto troppo distanti tra esse, si optò quindi per uno sbarco presso la costa sudorientale della Sicilia concentrando tutte le forze contro un’eventuale accanita difesa delle forze dell’Asse.

Fu scelto il giorno dell’evento, il 10 luglio 1943. L’operazione prevedeva lo sbarco simultaneo di 7 divisioni lungo un fronte complessivo di circa 160 km, ed il lancio di 2 divisioni aviotrasportate dietro le linee nemiche. L’ordine finale di battaglia e piano di attacco furono i seguenti:

 

Comandante supremo dell’operazione:

Gen. Dwight Eisenhower

 

Vice comandante:

Gen.Harold Alexander

 

Unità operativa orientale (Forza 545):

 

Ottava Armata Inglese:

Comandante:

Gen. Montgomery

 

Comandante Navale:

Ammiraglio B.H. Ramsay

 

Comandante dell’aviazione:

Vice Maresciallo H. Broadhurst

 

 

Composizione:

 

13 Corpi del Ten Gen. M. C. Dempsey, formata dalla 5a e 50a divisione e dalla 4a Brigata Armata, e dai ‘30 Corps’ del Ten Gen O. Leese, comprese la 1a e la 50a Divisione canadese, le Brigate Armate 231a Indipendente e la 23a.

 

Di riserva in nord Africa c’erano la 78a Divisione e la prima Brigata Armata Canadese

 

Obiettivo : Seguono le foto relative allo Sbarco Alleato a Gela

 

Navi Alleate sotto bombardamento dell'Asse

 

Navi Alleate entrano nel golfo di Gela

 

Inizia lo sbarco

Testa di ponte USA

Il generale Patton a Gela

 

Sbarcare con 4 divisioni, una brigata indipendente e unità di commando su cinque spiagge del golfo di Noto ed intorno alla penisola di Pachino per un raggio complessivo di 65 km, con la missione di catturare Siracusa ed Augusta e prendere i campi di volo orientali, prima di una rapida avanzata su Catania ed alla fine su Messina.

 

Per sostenere lo sbarco, la prima Brigata di atterraggio della Divisione trasporto truppe doveva prendere l’importante Ponte Grande, ponte a sud di Siracusa.

 

Unità operativa occidentale (Forza 343)

 

Settima Armata Statunitense

Comandante: Gen.Patton

 

Comandante Navale: Vice Ammiraglio H. K. Hewitt

 

Comandante Aereo: Maggior Generale E. J House

 

Composizione:

 

‘Cent Force’ (45a divisione), la “ Dime Force ” (prima divisione Statunitense, rinforzata da due battaglioni di Ranger truppe d’assalto, sotto il comando del Generale Maggiore O. N. Bradley, la “ Joss Force ”ovvero la 3a Divisione Statunitense con un battaglione di ‘ Ranger ’ ed il Comando di Combattimento A della 2a Divisione Armata Statunitense come riserva galleggiante.

 

Nella riserva della Settima Armata galleggiante c’erano il resto della Seconda Armata e la 18a Fanteria della 1a Divisione.

 

Come riserva in nord Africa c’erano il resto della 82a Divisione Aerea statunitense e la 9a divisione.

 

 

Obiettivo:

 

Sbarco di tre divisioni nel golfo di Gela, conquistarne i campi di volo insieme a quelli ubicati tra Comiso e Licata giungendo sino a 30 km nell’entroterra, per poi proseguire l’avanzata sino a Piazza Armerina per controllarne la rete stradale.

 

In totale le forze alleate impegnavano 160.00 uomini, 1475 navi da guerra e da trasporto, 1124 mezzi, 4000 aerei , 600 carri armati e 800 camion da sbarco.

 

L’avversario Italo-Tedesco

 

Sesta armata Italiana

Comandante: Gen.Guzzoni

 

Composizione: due corpi XII° e XVI°, comprese cinque divisioni costiere, due brigate costiere, un reggimento costiero e quattro divisioni regolari da campo:

 

la 4a Livorno

 

la 26a Assieta

 

la 28a Aosta

 

la 54a Napoli

 

Comandante delle forze Tedesche in Italia:

Maresciallo di campo: Albert Kesserling

 

Divisioni Tedesche:

Comandante: Tenente Generale Fridolin Von Senger und Etterlin

 

Composizione:

15a Divisione Panzergrenadier, Divisione Panzer Hermann Goering

 

In totale i tedeschi schieravano con le due divisioni 15.000 unità e 60 carri armati e 17.000 unità e circa 110 carri armati inclusi 17 pesanti PzKpfw VI Tigers appartenenti alla 2° compagnia del 504° Schwere Panzer Abteilung.

 

Nel complesso in Sicilia erano impegnati 170.000 Italiani con 100 carri e 325 aerei Italiani ( 200 combattenti ), più 32.000 tedeschi con 170 carri armati e 430 aerei Tedeschi (250 dei quali erano aerei da combattimento). Le truppe Italotedesche potevano contare anche su cinque porti e comandi di difesa di base navale, parecchie unità di difesa indipendenti dell’aerodromo e cinque gruppi mobili posizionati in punti chiave interni

 

L’imponente flotta navale Italiana che disponeva ancora di 4 corazzate, 7 incrociatori, 32 cacciatorpediniere, 48 sommergibili, ecc se fosse intervenuta avrebbe sicuramente inflitto notevoli danni all’avversario forse vanificando l’intera operazione, invece rimase rifugiata nei porti di Taranto e La Spezia.

 

 

Dislocazioni e Compiti

 

Nel D- Day le divisioni Aosta e Assieta e due terzi della 15° Panzergrenadier per ordine di Kesserling erano nella Sicilia occidentale a guardia di Palermo, le divisioni Livorno e Napoli insieme al grosso della divisione Hermannn Goering si trovavano nella parte centro e sud orientale dell’isola, pronte a contrastare una invasione da sud, mentre il battaglione Tedesco Kampfgruppe Schmaltz composto da una forza armata della H.Goering ed un reggimento di Panzergrenadier della Divisione Panzergrenadier, era posizionato nei pressi della costa orientale, proprio davanti Catania.

 

L’ORA H – IL GIORNO D.

 

Il D- Day fu programmato per sabato 10 luglio 1943 alle ore 2,45.

 

Gli Sbarchi

 

VIII ARMATA.

 

Truppe aviotrasportate su alianti

 

Dopo i disastrosi tentativi di paracadutare le truppe, alle 2.45 del mattino iniziarono gli sbarchi dal mare.

 

In generale, l’assalto fu un anti- climax. Molte unità sbarcarono successivamente e senza opposizione.

 

A causa del mare agitato ci fu un ritardo nelle posizioni del rilascio dei natanti.

 

Nella punta sud orientale dell’isola, 30 Corps sbarcarono su tutti e tre i lati della penisola di Pachino: la 231a Brigata Malta sulla spiaggia orientale, la 51a divisione Highland sulle spiagge intorno alla punta sud, e la 1a Divisione canadese nella baia ad est della punta.

 

I canadesi e gli Highlanders conquistarono rapidamente Pachino e i suoi campi di volo e spingevano verso l’interno. La 231a Brigata iniziò una marcia veloce verso il nord per unirsi con i 13 Corps a Noto .

 

Più a sud il settore 13 Corps, la 50a Divisione Northumbria attaccò con successo le spiagge a nord della cittadina marinara di Avola.

 

Più a nord, la 5a Divisione sbarcò a Cassibile senza trovare resistenza, entro le otto del mattino si erano assicurati la città.

 

Il primo squadrone speciale di incursione del secondo Reggimento SAS, atterrando prima della forza principale, neutralizzò una batteria costiera nelle vicinanze.

 

Sull’estremo fianco destro dell’Ottava Armata, Commando n.3 fece lo stesso con una batteria a Capo Murro di Porco.

 

Nel pomeriggio la 5a Divisione si avviò a nord per ricongiungersi con le truppe aeree a Ponte Grande, le quali erano state da allora duramente colpite dai contrattacchi italiani.

 

Gli ultimi sopravvissuti erano stati appena cacciati dal ponte quando arrivarono le forze di soccorso.

 

La 5a Divisione attaccò il ponte con le portaerei Bren, catturandolo nuovamente intatto e liberando le truppe aeree che erano state fatte prigioniere e prendendo il porto di Siracusa indenne.

 

VII ARMATA.

 

La Cent Force , 45esima Divisione si gettò sulle spiagge a destra e sinistra di Scoglitti e cercò di spingersi verso l’interno per circa sette miglia, in molti posti unendosi a piccoli gruppi di paracadutisti.

 

Più a ovest la Dime Force (prima Divisione), attaccò il settore di Gela. Mentre i Rangers attaccarono la città stessa, la principale forza della Divisione atterrò sulle spiagge tre miglia ad est. Presto gli Americani iniziarono a muoversi verso l’interno, verso gli obiettivi loro assegnati.

 

Sul fianco sinistro della Settima Armata, Joss Force arrivò sulla terraferma ad est ed ovest di Licata.

 

La terza Divisione prese il porto con un movimento a tenaglia e alla fine della giornata aveva preso tutti gli obiettivi previsti.

 

Le navi alleate si avvicinano alle coste Siciliane Mezzo anfibio Americano Sbarco della fanteria Americana.

 

La risposta dell’asse

 

La reazione dell’Asse agli sbarchi del nemico fu condotta in tre modi.

 

In primo luogo, non appena ne fu a conoscenza, il Generale Guzzoni ordinò un contrattacco contro la linea della spiaggia che egli riteneva più pericolosa, quella di Gela.

 

La Divisione Herman Goering dalle sue basi intorno Caltagirone, aveva il compito di attaccare da nord-est, assistito da due dei gruppi mobili Italiani che erano già più vicini alla costa, e la Divisione Livorno doveva fare lo stesso dal nord-ovest, l’attacco doveva essere forte e coordinato.

 

In secondo luogo egli ordinò che la 15a Panzergrenadier che aveva già completato uno spostamento verso la Sicilia occidentale, ritornasse sui propri passi e tornasse al centro dell’isola.

 

In terzo luogo, verso il tardi del D-Day, non appena ebbe saputo della perdita di Siracusa, egli ordinò al Kampfgruppe Schmaltz e alla Divisione Napoli di precipitarsi verso sud da Catania e riprendere il porto.

 

A causa delle cattive comunicazioni l’ampio fronte visualizzato e spinto verso Gela si trasformò in una serie di attacchi indipendenti e scoordinati provenienti da piccole unità in vari momenti e in vari posti lungo il centro del fronte americano.

 

Il primo attacco dal Gruppo Mobile – E – fu respinto dal fuoco navale Americano e fu fermato nei pressi di Piano Lupo da valorosi combattenti paracadutisti e successivamente dalle truppe della 1a Divisione, e a Gela dai Rangers di Darby.

 

L’attacco della Divisione Livorno fu furiosamente respinto anche dai Rangers. La Divisione Herman Goering uscendo da Caltagirone in due colonne, si muoveva molto lentamente e non attaccò fino alle due del pomeriggio.

 

La sua colonna occidentale fu fermata a Piano Lupo dal devastante fuoco navale; la sua colonna orientale ebbe uno scontro con la 45a Divisione e, dopo una battaglia dura, si disperse nel panico, così i contrattacchi dell’Asse nel D-Day fallirono del tutto.

 

Guzzoni il giorno successivo aveva rinnovato l’ordine di contrattacco, ma questa volta meglio coordinato.

 

Per tutto il giorno la battaglia infuriò sulla piana di Gela e sulle colline che la circondano.

 

Gli uomini del 33° e 34° Reggimento della Divisine Livorno, colpendo verso Gela da ovest, furono respinti dall’artiglieria navale e dal fuoco dei mortai. Quest’azione distrusse del tutto la Livorno come forza di combattimento.

 

La ritirata strategica

 

L’8 agosto, Kesselring, di sua iniziativa e senza attendere l’assenso di Hitler ordinò a Hube di iniziare l’evacuazione delle forze tedesche dalla Sicilia.

 

L’operazione era stata pianificata e preparata a lungo.

 

Oberst Ernst-Gunther Baade, era stato nominato Comandante per lo Stretto di Messina , incaricato di proteggere entrambi i lati dello stretto passaggio d’acqua contro gli attacchi aerei e marittimi.

 

Baade aveva ammassato circa 500 cannoni di ogni calibro, incluse 4 batterie di 280mm di cannoni costieri, due di170mm ed alcune tedesche di 88mm e Italiane di 90mm a doppia funzione.

 

Un ufficiale navale, Capitano di Fregata barone Gustav Von Liebenstein era stato nominato capo dei trasporti.

 

Von Liebenstein non avendo fiducia dei normali servizi di traghetto Italiani, organizzò una flotta propria di 7 Marine-Fahrprahme (chiatte di 80 tonnellate, con rampe d’accesso ognuna in grado di trasportare 3 ‘tanks’ o 5 camion ), 10 L-Boote ( pontoni landing boats che potevano contenere 2 camion ), 11 Siebel – ferries (a doppia entrata, costruiti per portare10 camion, 60 tonnellate di rifornimenti o 250 uomini) e 76 piccole imbarcazioni.

 

Egli organizzò anche 6 nuove rotte per i traghetti con 12 differenti punti di attracco su ogni lato dello Stretto.

 

Il 1 agosto Von Liebenstein cominciò alcune evacuazioni preliminari.

 

Il piano di evacuazione di Hube (nome in codice ‘ Lehrgang Ia 9), indicava esattamente 5 linee di resistenza convergenti su Messina, ognuna doveva essere mantenuta per un giorno.

 

Durante ogni notte, circa 8.000-10.000 uomini dovevano essere lasciati andare dalle 3 divisioni per dirigersi verso le barche.

 

Per prima sarebbe andata la 15a Panzergrenadier , seguita dalla H. Goering ed infine la 29° ‘Panzergrenadier’.

 

Quando arrivò l’ordine di Kesselring, Hube fissò il 10 agosto come ‘ X-Tag ’ il primo giorno del ritiro scadenzato e la notte dell’11 come la prima di 5 notti per trasportare le truppe al di là dello stretto.

 

L’attraversamento iniziò come previsto. All’inizio i traghetti operarono solo al buio. Il 13 agosto, dopo che Von Liebenstein aveva visto che le operazioni notturne erano non solo difficili, ma anche meno efficienti, e contrariamente alle aspettative, anche maggiormente ostacolate dagli attacchi aerei nemici di quelle diurne, egli ordinò che i traghetti continuassero anche durante il giorno.

 

L’evacuazione fu un successo al di là di ogni previsione che i Tedeschi potessero fare.

 

Tra l’altro, trattenendo una di queste linee più del previsto, Hube guadagnò un’altra notte ed un altro giorno per l’attraversamento.

 

Perfino gli storici ufficiali Alleati concordano che gli Alleati stessi non avrebbero dovuto consentire al nemico di fuggire in quella maniera. Forse lo sbaglio più grande fu il fatto che i comandi alleati fallirono del tutto nel coordinamento degli attacchi aerei e navali per prevenire l’evacuazione del nemico.

 

La Marina si rifiutò di ingaggiare una grande battaglia navale nello Stretto fino a quando le forze aeree non avessero messo a terra i cannoni costieri del nemico.

 

Durante tutto quel periodo, la Marina non rischiò di inviare qualcosa di più potente delle pattuglie leggere costiere e solo di notte. Le forze aeree fecero uno sforzo, ma esso iniziò troppo tardi, non fu forte abbastanza ed inoltre diretto contro obiettivi sbagliati e con tipi di aerei sbagliati.

 

Dal 29 luglio al 17 agosto tra bombardieri di media grandezza e bombardieri da combattimento, volarono 2.514 missioni contro la flotta nemica e le strutture navali dello Stretto.

 

Erano in funzione contro quella che era probabilmente la più pesante e più concentrata contraerea dell’intera guerra.

 

Circa 31 aeromobili andarono perduti, tuttavia, a dispetto dei raid aerei che continuavano giorno e notte, l’evacuazione procedeva come previsto. Grazie ai cannoni ammassati di Baade il bombardamento fu eseguito senza troppa cura e provocò pochi danni ai punti di imbarco.

 

Le perdite Tedesche furono poche, in tutto 15 vascelli furono affondati o distrutti, altri 5 danneggiati.

 

Solo un Tedesco rimase ucciso negli attacchi aerei alleati. Gli italiani persero un’imbarcazione e non ebbero alcuna vittima.

 

Sebbene gli Alleati conoscessero fin dai primi di agosto, dalle decriptazioni dei servizi segreti, che una evacuazione sarebbe stata imminente, e avessero acquisito chiare prove che questa era già in atto, le operazioni d’aria sullo Stretto non cominciarono che il 13 agosto.

 

Nuovamente essi attaccarono le imbarcazioni del nemico, jet, spiagge e strade d’accesso, ma poco della contraerea e dei cannoni sulle coste. Gli Alleati non fecero un uso completo delle capacità dei loro bombardieri.

 

C’erano 869 pesanti bombardieri disponibili e questi aerei avrebbero potuto operare fuori della portata della contraerea nemica. Tuttavia ai B-17 americani fecero ben poche missioni diurne contro Messina e tutte queste si svolsero tra il 5 e l’8 agosto, prima che l’evacuazione salpasse del tutto.

 

Il 13 agosto, la 9a Divisione Statunitense, spingendo verso est lungo la strada statale 120, verso Messina, prese la città di Randazzo, sul versante settentrionale dell’Etna, spremendo in tal modo i ’ 30 Corps ’ Inglesi che stavano combattendo intorno al lato occidentale del vulcano

 

Dopo la caduta di Catania, 13 Corps  continuarono verso nord sul fronte stretto tra la linea dell’Etna ed il mare.

 

L’avanzamento attraverso questa parte di Sicilia più densamente popolata, fu lento e costoso, Valverde, solo 6 miglia più avanti fu raggiunta l’8 agosto.

 

L’avanzata alleata verso Messina

 

Sulla strada costiera settentrionale, la 3a Divisione Statunitense il 1 agosto era venuta in soccorso della esausta 45a Divisione e si era avvicinata alla successiva linea/crinale Tedesca.

 

Detta la posizione San Fratello, era così formidabile che la 29a Panzergrenadier-Division respinse facilmente un attacco dopo l’altro della 3a Divisione.

 

Perfino il fuoco dei cannoni e l’uso di fumogeni non riuscì a sloggiarli.

 

Alla fine, il 6 di agosto, i generali Bradley e Truscott decisero di lanciare un anfibio ‘ end run ’ (fine corsa) per entrare nelle posizioni del nemico. Questa prima operazione a ‘salto di rana’ nella notte tra il 7 e l’8 agosto, fu un successo misto.

 

Utilizzando il Marina LST, con base a Palermo, Truscott mise in postazione il 2° Battaglione rinforzato della sua 30a Fanteria- ‘Task Force Bernard ’ che sbarcò, virtualmente senza trovare opposizione, a Sant’Agata, dietro la linea di San Fratello.

 

Aiutato da questo, la principale forza della 3a Divisione, dopo una fiera battaglia, irruppe nella linea e subito dopo soccorse la ‘task force’.

 

Comunque, poco prima dello sbarco, la 29° Panzergrenadier  del generale Fries aveva iniziato un ritiro ed il grosso del gruppo se ne era andato appena in tempo.

 

La seconda operazione anfibia ebbe luogo tre notti dopo e 25 miglia ad est e fu forzata su Bradley e Truscott da Patton il quale stava diventando sempre più impaziente di raggiungere Messina.

 

Fries aveva stabilito ancora un’altra linea di difesa, lungo il fiume Zappula, nella Penisola di Capo D’Orlando, e Patton voleva un altro sbarco della ‘ Task Force Bernard ’ a Brolo, dieci miglia dietro le linee nemiche.

 

La piccola forza del Tenente Colonnello L. A. Bernard sbarcò senza trovare opposizione, ma fu contrastata non appena si diresse verso il Monte Cipolla che sovrasta Brolo e pesantemente contrattaccata.

 

Quando la principale forza della 3a Divisione soccorse i propri commilitoni il 12 agosto, Bernard aveva perso 177 uomini ed il nemico era nuovamente fuggito.

 

Verso l’interno, la 9a Divisione aveva nel frattempo soccorso la 1a Divisione.

 

Per la prima volta operavano come un’unica cosa, la 9a spinse in avanti lungo la 120 e prese Cesarò il giorno 8, ma il giorno dopo Randazzo, un centro vitale per la ritirata tedesca, fu strenuamente difesa.

 

Per quanto fosse colpita dai bombardieri Alleati fino alla rovina totale, essa resistette per quattro giorni e la 9a Divisione vi poté entrare solo il 13 agosto.

 

Dopo la caduta di Adrano, i 30 ‘Corps’ dell’Ottava Armata avevano premuto verso nord, a ovest dell’Etna.

 

Tra i pendii senza sentieri del vulcano e la profonda gola dell’alto Simeto, c’era spazio per una sola divisione, la 78a.

 

Bronte cadde l’8 agosto, ma da quel momento in poi gli Inglesi incontrarono una forte resistenza Tedesca, così essi non presero Maletta, solo 4 miglia più a nord,  che il 12 agosto.

 

Il giorno seguente essi raggiunsero la strada statale 120 e aiutarono la 9a Divisione nella cattura di Randazzo, le truppe della  H. Goering , avevano bloccato le strade con crateri, mine, ponti saltati ed ogni altro ostacolo immaginabile.

 

La 50a Divisione ci mise una settimana per avanzare di 16 miglia da Catania a Riposto, in cui entrarono l’11 agosto.

 

Alla loro sinistra, avanzando sui fianchi dell’Etna c’era la 5a Divisione. Montgomery, nel decidere che un attacco di due divisioni attraverso la stretta gola avrebbe potuto rendere più veloce l’avanzata, il 9 agosto decise di coinvolgere nuovamente la 5a divisione. Il 12 essa fu soccorsa dalla 51a che era stata trasferita dai 30 ‘ Corps ’.

 

Il 14 agosto, la Herman Goering  aveva interrotto i contatti e la velocità di inseguimento era, adesso, governata dalla velocità con cui gli ingegneri potevano riaprire le strade interrotte. Il 15, la 50a Divisione raggiunse la famosa località turistica di Taormina, la 51a e la 78a Divisione completarono il circuito dell’Etna e si unirono alle forze vicino Linguaglossa. Nello stesso giorno, Montgomery decise anche di portare fuori un anfibio ‘end- run’.

 

Nella mattina del 16, i ‘ Currie Force ’ (Commando n.2 con alcuni ‘ tanks ’ della 4a Brigata Armata in tutto 400 uomini) sbarcarono 16 miglia a nord sulla costa, vicino a Scaletta.

 

Il nemico si era ritirato già dopo quel punto ed una retroguardia tedesca impedì una spinta su Messina.

 

Nel frattempo, sulla costa settentrionale, la 3a Divisione Statunitense aveva velocizzato i tempi di inseguimento

 

Entro il 15 agosto i contatti con il nemico erano virtualmente cessati.

 

Un piano per un lancio di truppe su Barcellona per tagliare le truppe tedesche in ritirata, fu cancellato allorché truppe di terra arrivarono lì per prime, su insistenza di Patton, una terza operazione anfibia proseguì.

 

Il 16 agosto, il 157° Reggimento ‘Combat Team’ sbarcò vicino al bivio Salica, a est di Capo Milazzo.

 

Comunque, prima che essi raggiungessero la spiaggia, la 3a Divisione, era avanzata nuovamente oltre il posto dello sbarco e truppe amiche salutarono la prima ondata dalla spiaggia.

 

Al contrario di quanto previsto dai piani, alle 6,30 del 17 agosto, fu la 3a Divisione Americana ad entrare per prima a Messina (dalla statale 113), seguita alle 10,30 dal Generale Patton, poco dopo una pattuglia di Commando dei ‘ Currie Force ’  Inglesi entrò in città da sud.

 

Gli Americani trovarono Messina vuota di truppe tedesche. Dopo 38 – 39 giorni di battaglia continua la campagna di Sicilia era terminata.

 

Poco prima il Generale Hube aveva attraversato lo Stretto con le sue ultime retroguardie, i Tedeschi avevano completato la loro evacuazione fino all’ultimo. Tra il 1° ed il 17 agosto i Tedeschi evacuarono truppe per un totale di 39.951 (inclusi 14.772 feriti), 9.789 veicoli, 51 tanks, 163 cannoni, 16.791 tonnellate di attrezzature e 1.874 di carburanti e munizioni.

 

Nello stesso tempo gli Italiani, utilizzando tre battelli a vapore, un traghetto per treni e 10 gommoni a motore, ritirarono anche circa 59.000 uomini, 227 veicoli, 41 cannoni e 12 carrelli.

 

Ciò che all’inizio era atteso come un disastro si rivelò un successo sbalorditivo, grazie alla riuscita operazione di traghettamento di uomini e mezzi in Calabria, i Tedeschi poterono rallentare l’avanzata alleata in Italia come accadde infatti a Salerno, Cassino, Anzio ecc

 

L’Operazione Husky vide combattere 60.000 tedeschi dei quali 20.000 morirono o furono fatti prigionieri, gli Italiani persero 130.000 uomini in gran parte catturati dagli Angloamericani i quali contarono 31.000 uomini tra morti e prigionieri.

 

E’ giusto ricordare in particolare come i soldati della divisione Livorno furono tra i miglior a contrattaccare il nemico sino all’ultimo uomo, mentre la divisione Napoli, dopo aver tentato invano di fermare l’avanzata alleata tra i 10 e 13 luglio subendo gravi perdite, si sacrificò quasi totalmente per permettere ai Tedeschi di ripiegare nel settore Caltagirone/Vizzini.

 

La Divisone Assieta contrastò duramente il nemico fino al 29 luglio a S.Fratello, dove unitasi ai reparti Tedeschi combattè duramente sino al 7 agosto, giorno in cui  i pochi soldati rimasti furono trasbordati in Calabria. La Divisone Aosta ubicata nella zona occidentale della Sicilia si portò  a piedi nella zona orientale decimandosi nei duri scontri e sotto il fuoco aereo nemico.

 

In ultimo si distinse particolarmente ilo 10° Reggimento bersaglieri che fu tra i migliori reparti di tutta la guerra.

 

Cronologia della conquista della Sicilia.

 

8 maggio 1943. Cominciano i bombardamenti alleati sull’isola di Pantelleria.

 

12 maggio 1943. La Tunisia cade completamente in mano Alleata. E’ la fine della Campagna d’Africa per le forze dell’Asse .

 

1 giugno 1943. Offensiva aerea alleata su Pantelleria.

 

6-10 giugno 1943. Su Pantelleria si intensifica l’attacco alleato contro le batterie costiere dell’isola, da parte di aerei e navi inglesi.

 

11 giugno 1943. Pantelleria si arrende agli alleati prima ancora di essere attaccata dalle forze di sbarco

 

12 giugno 1943. Anche il presidio di Lampedusa si arrende al nemico senza combattere. Continua senza soste l’azione dei bombardieri alleati che con successive incursioni su Catania e Palermo causano decine di morti e seri danni.

 

13-14 giugno 1943. Si arrendono i presidi delle isole di Linosa e Lampione.

 

18 giugno e 25 giugno 1943. Attacchi aerei e bombardamenti su Messina.

 

9-10 luglio 1943. Con l’Operazione Husky inizia lo sbarco in Sicilia: all’alba del 10 luglio, alle 4,45, la 7^ Armata Usa sbarca sulle spiagge di Gela e l’8^ Armata inglese su quelle di Pachino e Siracusa.

 

10-12 luglio 1943. Violento scontro tra la  7^ Armata Usa e le divisioni Tedesca Hermann Goring e Italiana Livorno, che si ritirano solo alle ore 14 del 12 luglio.

 

13 luglio 1943. Viene occupata Augusta.

 

15 luglio 1943. Il premier inglese Winston Churchill e il presidente americano Roosevelt lanciano un comune appello agli Italiani affinché decidano “se vogliono morire per Mussolini e Hitler oppure vivere per l’Italia e la civiltà”.

 

Il re incontra Badoglio per sondare la sua disponibilità a presiedere un nuovo governo.

 

17 luglio 1943. Gli Alleati conquistano Agrigento e il giorno dopo Caltanissetta.

 

19 luglio 1943. La notte è tristemente ricordata come “notte di san Lorenzo” per il primo bombardamento alleato su Roma. I danni sono immensi. Il quartiere di san Lorenzo è quasi completamente devastato; morti e feriti si contano a migliaia. Sul luogo si reca il pontefice.

 

22 luglio 1943. Gli Alleati conquistano Palermo.

 

25 luglio 1943. Il Gran Consiglio del Fascismo sfiducia Mussolini, il re ordina il suo arresto e affida a Badoglio l’incarico di guidare il nuovo governo.

 

27 luglio 1943. Il Gen. Alexander, comandante il XV Gruppo d’armate, sposta il suo Quartier Generale dall’Africa in Sicilia.

 

5 agosto 1943. Occupazione alleata di Catania.

 

17 agosto 1943. Alle 10,15 le truppe del Gen. Patton entrano a Messina, la conquista dell’isola è stata portata a termine in 39 giorni, i tedeschi tuttavia sono riusciti a trasbordare sul continente buona parte dei loro uomini con l’equipaggiamento, nonostante la supremazia aerea e navale alleata.

 

3 settembre 1943. Le truppe Alleate sbarcano in Calabria.

 

 

SECONDO CONFLITTO MONDIALE

 

LA GUERRA NEL RAGUSANO

 

Nella prime ore del l0 luglio 1943 due armate ” alleate ” VIII britannica e la VII americana iniziarono l’invasione della Sicilia che dopo trentotto giorni si concluderà con l’occupazione da parte dei ” 3° reggimento (7° divisione) del ten. col. Ben Barrel. Della città di Messina.

 

Si vedrà che l’unico territorio investito da entrambe le armate sarà costituita dalla provincia di Ragusa.

 

Le forze britanniche comandate dal Gen. Sir. Bernard Law Montgomery sarebbero sbarcate nella cuspide sud orientale dell’isola, quelle americane comandate dal Gen. George Patton sarebbero sbarcate su tre direzioni: Licata, Gela e Scoglitti.

Fase dello sbarco a Scoglitti

 

Tra le due armate vi era uno spazio di una cinquantina di chilometri, ma è ovvio che non si trattava di competenza territoriale e che gli occupanti comunque l’avrebbero colmato, tant’è che Scoglitti essendo considerata la più importante zona (anche per gli aeroporti di Biscari – Acate e Comiso) la “direttrice” di sbarco conosciuta in codice “Cent Force” impegnava 26.600 uomini, ossia 6.600 in più della “Dime Force” (Gela) e ciò perché nei compiti di occupazione era prevista l’aggancio con le forze canadesi dell’VIII Armata.

 

Occorre permettere che l’ora X per lo sbarco era stato fissato per le ore 02,45, ma i responsabili marittimi per sopravvenute difficoltà proposero di ritardare lo sbarco di un’ora trovando d’accordo il contrammiraglio Alan G. Kirk. Ordini e contrordini portarono a molta confusione ritenuto tra l’altro che dovevano essere richiamati alcuni mezzi partiti per l’assalto. Difficoltà furono create dalle coste e i molti scogli, sicché i primi soldati sbarcarono alle 04,45. Anche questo ritardo fu giustificato per gli attacchi di aerosiluranti italiani. Poi con le luci dell’alba sia per l’intervento dell’incrociatore “Philadelphia” che catapultò 4 aerei (uno fu abbattuto), che di altre navi da guerra, la situazione prese una piega favorevole per gli americani e da questo momento non vi è zona costiera che non sia nelle mani degli uomini dello Zio Sam.

 

Giova ricordare che la 45° divisione era giunta direttamente dagli Stati Uniti, ma alcune fonti d’informazioni affermano che per un breve periodo si esercitò ad Orano e Azzew (Algeria). L’unità aveva una consistenza numerica di 17.000 uomini, su 9 battaglioni, con armamento standard di 100 carri armati, 45 autoblinde, 100 cannoni da campagna, 350 cannoni controcarro. Più o meno uguale la consistenza di uomini e d’armamento delle divisioni inglesi.

 

Di contro le divisioni italiane erano costituite da Il.000 uomini su sei battaglioni, più due di Camicie Nere, 48 cannoni di campagna, 36 cannoni controcarro.

 

FORZE ITALIANE PREPOSTE ALLA DIFESA NELLA PROVINCIA DI RAGUSA – 206 DIVISIONE COSTIERA ­

 

L’unità fu costituita nel novembre 1941 e schierava 450 ufficiali e 9.600 sottufficiali e militari di truppa su otto battaglioni di fanteria, cinque gruppi di artiglieria e cinque nuclei antiparacadutisti; il tutto su tre reggimenti: 1460, 1220 e 1230.

 

Il l0 aprile 1943 si riorganizzò la difesa costiera dell’isola (1.400 chilometri comprese località dell’entroterra) e, sotto la stessa data si assegnò un ufficio di posta militare alle divisioni, mentre le brigate ed altri reparti avrebbero continuato ad appoggiarsi, in linea di massima, agli uffici di “concentramento”. Nelle stesso mese di aprile furono celebrate cerimonie di consegna dei “capisaldi” e si ordinò alle “costiere”, nell’eventuale sbarco di resistere ad oltranza sino a che non fossero intervenute le divisioni mobili. Eppure si sapeva che le “costiere”, formate da personale anziano, erano male armate e scaglionate in modo di non offrire alcuna garanzia: 36 uomini per ogni chilometro, 215 fucili mitragliatori, 474 mitragliatrici (3,6 per chilometro), 34 mortai da 81 (1 ogni 4 chilometri), 14 batterie (56 pezzi), ossia 4 pezzi per ogni 9 chilometri.

 

L’unità al comando del Gen. Achille D’ Havet, con sede a Modica si scaglionava lungo la cuspide dell’isola, subito dopo la base di Augusta-Siracusa, dipartendosi da Masseria Palma (contrada “Fanusa”) sino a Capo Passero e poi lungo la costa meridionale sino a Punta Braccetto per 132 chilometri. A disposizione del comando di divisione operava il 440 raggruppamento comandato dal Col. Romeo Escalar;

 

1460 reggimento – comandato Col. Felice Bartimmo Cancellara (sede a Noto), su tre battaglioni (430, 374, 437) che si estendeva su un fronte di 41 chilometri, da Masseria Palma a Isola Vendicari;

 

a) – 4300 battaglione, copriva la distanza di 18 chilometri sino a Punta Giorgi; il battaglione fu attaccato da 18 battaglioni del XIII Corpo d’Armata britannico;

 

b) – 3740 battaglione (comando ad Avola); scaglionato da Punta Giorgi a Isola Vendicari. Il reparto disponeva di una compagnia mitraglieri e delle batterie LXXX e LXXXI. Dirigeva il reparto il Magg. Umberto Fontemaggi;

 

c) – il 4370 battaglione fungeva di riserva in quel di Noto, ma il Gen. D’Havet venuto a conoscenza degli atterraggi di paracadutisti, né ordinò l’impiego. AI battaglione era aggregata la LXXIX batteria;

 

1220 reggimento – (con sede ad Ispica), comandato dal Ten. Col. Camillo Apollonio su due battaglioni (3750 e 2430) poteva disporre del CII gruppo e della 470 batteria. Il reggimento era scaglionato da isola Vendicari a Punta Regligione (55 chilometri);

 

a) 2430 battaglione, che disponeva di due compagnie mitraglieri, una compagnia del 5420 battaglione “bersaglieri costieri” (già del Gruppo Mobile “F” di Rosolini) e 4 batterie d’artiglieria.

 

Il battaglione si trovò a fronteggiare l’urto del XXX Corpo d’Armata inglese, compresi due “Commandos” (21 battaglioni);

 

a) 3750 battaglione dislocato da punta Castelluzzo a Punta Regligione (21

 

chilometri).

 

Il reparto ebbe il compito di rastrellare i paracadutisti e squadre di “Commandos” nemici;

 

1230 reggimento – (con sede a Scicli), comandato dal Col. Giuseppe Primaverile. Si ripartiva su tre battaglioni (542,383,381) e poteva disporre della CLXII gruppo da 149/35 (su cinque pezzi e della batteria LXXIV, nonché del XXVII gruppo artiglieria d’armata. Il 5420 battaglione bersaglieri costieri è privo della 20 compagnia che forma il Gruppo Mobile, difesa aeroporti, di Rosolini.

 

Il reggimento occupava un tratto di costa ove non si effettuò alcuno sbarco nemico (da Punta Religione alla foce del fiume Irminio, ma si trovò a fronteggiare i paracadutisti nemici. Il col. Primaverile fu chiamato al telefono ed invitato ad arrendersi. La voce era di un italo-americano e minacciava con le buone e con le cattive, lusingando il valore militare del comandante, che era meglio arrendersi. Il Primaverile, passò al contrattacco e catturò oltre cento paracadutisti che consegnò ai carabinieri di Scicli. L’episodio è ricordato da alcuni prigionieri che credevano di essere passati per le armi poiché la propaganda dei “liberatori” ci aveva dipinti come incivili !.

 

I due battaglioni 3810 (Noto) e 3830 (Santa Croce Camerina) si trovarono ad affrontare il 1570 reggimento della 450 divisione USA e la sopraggiungente IO divisione di fanteria canadese, nonché la 154 brigata scozzese. Il col. D’Apollonio fu costretto a ripiegare su Ispica.

 

Un episodio degno di essere ricordato riguarda le forze attaccate a Santa Croce Camerina, che furono sostenute da soldati il licenza e da civili del luogo. Nella battaglia si distinsero il Caporalmaggiore Rosario Granata, il Ten. Giuseppe Saja (del 1220 reggimento – medaglia d’argento al v.m. ad entrambi) e il Ten. Antonio De Francisc, medaglia di bronzo.

DIVISIONE “NAPOLI”

 

La divisione agli ordini del Gen. di Divisione Giulio Cesare Goffi Porcinari nel primo trimestre del 1942 viene stanziata nella regione centro meridionale della Sicilia (comando a Caltagirone). Il comandante della fanteria è il Gen. di Brigata Rosario Fiumara, capo di S.M. il Ten. Col. Tancredi Tucci. I reggimenti sono distribuiti: il 750 fanteria (comandato dal Col. Francesco Ronco) a Siracusa; il 760 fanteria (comandato dal Col. Giuseppe Salerno) a Caltagirone; il 540 reggimento artiglieria (comandato dal Col. Amedeo Moscato) a Piazza Armerina; la 1730 Legione Camicie Nere (comandata dal Console Giuseppe Busalacchi) a Ispica.

 

Tutti i reparti prenderanno parte alla battaglia. A Modica dopo una cruenta battaglia, fu preso prigioniero il Gen. D’Havet: le sue decorazioni stupirono il nemico e per il valore dimostrato gli fu concesso di tenere la pistola in dotazione. Il Gen. D’Havet, marchese Achille, giunse in Sicilia come comandante della 2060 Divisione Costiera, vantava una medaglia di bronzo nella guerra italo­ turca, due medaglie d’argento, Croce di guerra Militery Cross, Croiz de Guerre, Cavaliere della “Legion d’Bonore” (guerra 1915-18), Ordine Militare di Savoia.

 

Una menzione particolare va rivolta al Col. Ronco, sorpreso da un massiccio bombardamento da parte di trentasei superfortezze volanti che si abbatterono su Palazzo lo Acreide, causando alla colonna la perdita di duecento uomini e alla città un migliaio di morti. Il colonnello si precipitò in aiuto della popolazione civile, riprendendo poi la marcia. Un secondo attacco si abbattè su un reparto tedesco de “88″: i resti furono aggregati alla colonna del Ronco. Un ultimo attacco distrusse la colonna: il colonnello riuscì a sotterrare la bandiera del reggimento.

 

Alcuni mesi prima, ma il piano sarà attuato a fine giugno 1943, furono predisposti “Gruppi Tattici” (rinforzo alla Difesa costiera) e “Gruppi Mobili” con il compito di “rinforzo” difesa fissa aeroporti.

 

Il XVI Corpo d’Armata, a cui spettava la competenza territoriale della Sicilia Orientale aveva organizzato quattro Gruppi Tattici uno dei quali nel Ragusani che assunse la denominazione di “Comiso-Ispica” al comando del Console Busalacchi della 173° Legione CC.NN. e con i seguenti effettivi:

 

a) CLXXIII battaglione CC.NN., 174° Compagnia mitraglieri della stessa

 

Legione;

 

b) 2° compagnia morta del LIV battaglione “Napoli”;

 

c) 1° plotone controcarri 47/32 e dallo gruppo 100/17 del LIV artiglieria

 

“Napoli” .

 

A Comiso vi era dislocato il “Gruppo Mobile ‘G’ agli ordini del Tenente Colonnello Porcù, costituito dai:

 

a) CLXIX battaglione CC.NN. della 173° Legione; 3° compagnia del CII

 

battaglione controcarri;

 

b) 1 ° plotone della 2° compagnia CI battaglione carri R/35; 8° batteria 75/18

 

del II Gruppo del LIV art. Napoli.

 

In linea di massima la difesa aeroporti sarebbe dipesa da ufficiali dell’ Aeronautica. Ma sia i Gruppi Tattici che i Gruppi Mobili formalmente sarebbero dipesi dal Comando della VI Armata.

 

Un aeroporto qualificato era quello di Comiso, da dove partivano la maggior parte delle incursioni su Malta: 1’11 luglio il “Magliocco” fu occupato dagli americani dopo aver avuto ragione di un presidio di 150 tedeschi. L’occupazione fu così improvvisa che un “Junker 88″ atterrò non essendo stato preavvisato del combattimento di campo.

 

Da Punta Braccetto a Punta Due Rocche vi era dislocata la XVIII Brigata costiera agli ordini del Gen. di brigata Orazio Mariscalco (comando a Niscemi. La brigata era costituita da due reggimenti: 134° e 178°. Quest’ultime, al comando del Col. Sebastianello si ripartiva nei battaglioni, 134, 389 e 501 ed era dislocata in territorio regusano.

 

Il 389 “costiero” combatte ad ovest di Scoglitti anche contro gli americani della “DIME FORCE” diretti su Gela. Il 501° “costiero” il cui comando si trovava a Scoglitti, “Fattoria Randello”, difese l’ala sinistra della divisione “Goering” ma alle ore 12 del lO luglio, interamente circondato dalla “Forza X” del Ten. Col. William O. Darby dovette cedere.

 

Una pagina poco conosciuta di storia fu scritta dagli “arditi” del II battaglione del Maggiore Vito Marcianò dislocato in tutte le “zona calde” della Sicilia. La 113° compagnia al comando del Cap. Ciro Zuppetta era ubicata a Santa Croce Camerina e scaglionata nella regione iblo-aretusea.

 

Giova ricordare che gli “arditi” effettueranno azioni di “commandos” anche dopo l’occupazione (31 luglio – 1 agosto) pagando un alto tributo di sangue.

 

Ma anche durante la battaglia nel ragusano molti di loro caddero sotto il piombo nemico: Ardito Guido Giordano a Capo Vendicari; Ardito Vittorio Girono vivente, med. di bronzo (Ispica), Ten. Massimo Salemi, vivente, medaglia di bronzo (Santa Croce Camerina).

 

A cura del webmaster Carlo GATTI

 

Alcune recensioni:

 

- straordinari effetti scenografici, di grande impatto emozionale e ben documentato.

 

- L`esposizione, il percorso, il materiale originale in mostra sono solo alcuni elementi che rendono questo museo indimenticabile. Meriterebbe piu visibilita e pubblicita.

 

- Un museo molto ben organizzato e ricco di reperti, con un percorso obbligato che aiuta a conoscere e a riflettere.

 

- Le ricostruzioni del bunker, il rifugio antiaereo, la ricostruzione delle case..

 

- particolare è la ricostruzione di un villaggio pre e post bombardamento, con tanto d simulazione di rifugio anti aereo

 

- Ci sono molti cimeli e personaggi di cera. Importantissimo non dimenticate la mostra fotografica di Stern difronte al museo, un fotografo dell'esercito usa poi diventato un famoso fotografo dei divi di hollywood, il video del suo...

 

- Interattivo e adatto anche ai bambini soprattutto se in età scolare.

 

- Interessante, istruttivo. Da visitare per gli amanti della storia. Da far visitare alle scolaresche per far toccare con mano un periodo di storia recente. Da non perdere l'esperienza del rifugio antiaereo ( simile a quello del Museo della guerra di Londra) e le statue di cera dei personaggi storici dell'epoca.

ALBUM FOTOGRAFICO


L'armistizio di Cassibile (detto anche armistizio corto), fu un Armistizio siglato segretamente, nella cittadina di Cassibile , il 3 settembre del 1943, e l'atto con il quale il Regno d'Italia cessò le ostilità contro le forze Anglo-Americane Alleate, nell'ambito della Seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un Armistizio, ma di una vera e propria resa senza condizioni.

Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente citato come "8 settembre", data in cui, alle 18:30, fu reso noto prima dai microfoni de Radio Algeri d a parte del generale Swight Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19:42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell'EIAR.

 

Obice-cannone leggero: Ordonance Q.F. 25 lb.Mk2. Fabbricazione britannica. Introdotto nel 1939. (Cortile esterno Museo)

Interno Museo. Ricostruzione Casa Comunale

Le foto che seguono si riferiscono alle abitazioni sotto bombardamento animate con luci e suoni che creano perfettamente il clima di quei momenti tragici.

Casa distrutta dai bombardamenti

Bomba inesplosa


Rifugio antiaereo

Ospedale da campo italiano

Museo delle cere. Benito Mussolini

Stazione Radio

Tipologie di Bunker


Postazione mitragliere

Interno Bunker

Uniformi eserciti Alleati


Uniformi  del Terzo Reich

Copricapo Esercito Italiano

Emblemi della Gioventù Fascista

Moto DKW - Germania 1938

Moto Guzzi - ALCE - Italia 1936

Moto Guzzi SUPERALCE - Italia 1942

Cucina da campo - Germania 1943

Cannone antiaereo Bofors 40 mm.


Mitraglia antiaerea Oerlikon 40 mm.

CARLO GATTI

Rapallo, 20 giugno 2014


LO STRANO DESTINO DI PORT ROYAL (Giamaica)

 

LO STRANO DESTINO di PORT ROYAL  GIAMAICA

 

 

Nel XVII secolo, Port Royal era il principale centro di commercio della Giamaica. Era una città in continua espansione, costruita sull’estremo lembo di  tombolo che racchiude il Golfo di Kingston.

 

 

Fu fondata come fortificazione spagnola  ma nel 1655  divenne possedimento inglese. Gli Inglesi dell’epoca, veri signori dei mari, intuirono l’importanza del sito posizionato sulla rotta che dai caraibi portava oro in Europa. Quattro anni dopo il forte che sorvegliava l’imboccatura alla baia, era già circondato da duecento edifici  fra case, palazzi del potere, negozi e magazzini, a dimostrazione dello sviluppo enormemente rapido del sito. Gli Inglesi, sempre pragmatici, non disdegnavano i rapporti con i Pirati, che in seguito “istituzionalizzarono” in Corsari. Grazie alla massiccia presenza di questi predoni, la città esibiva ricchezza ed era già nota per i costumi dissoluti: pressoché tutti i piani a livello strada erano bettole o postriboli. E’ in quell’epoca che si fece la reputazione di essere <<la città più ricca e malfamata del mondo>>  Grazie a questa illimitata libertà, Pirati, Bucanieri e Corsari, vi investivano e spendevano tutti i loro averi. Intorno al 1660 la città si era guadagnata la fama di essere << la Sodoma del nuovo mondo>> dove la maggior parte dei residenti erano ogni sorta di pirati, tagliagole e prostitute. Dai pochi documenti salvati dal terribile terremoto, che più avanti vedremo la distrusse  nel1692, si è appurato che già nel 1661 vi era una osteria ogni dieci abitanti e furono rilasciate quaranta licenze per aprire nuove taverne. Erano operanti in città quattro orafi, quarantaquattro tavernieri, moltissimi artigiani e mercanti che esercitavano in duecento edifici occupanti una superficie complessiva di 200.000 mq. Nel 1688 sostarono nel porto ben duecentotredici navi  e il commercio si era evoluto dal primitivo scambio di beni a fronte di servizi, all’uso della più pratica moneta.

Quando Charles Leslie scrisse la storia della Giamaica, descrisse i pirati così: il vino e le donne prosciugano i loro averi ad un tale livello che alcuni tra loro sono costretti ad elemosinare. Sono diventati famosi per spendere due o tre mila pezzi da otto(moneta spagnola coniata in argento, poi diffusasi per secoli ovunque) in una sola notte; uno ne diede 500 ad una sgualdrina per vederla nuda. Era abitudine comprare una botte di vino, spostarla sulla strada ed obbligare chiunque passasse, a bere>>

In altre parole  la Città divenne il più ricco possedimento inglese nel Nuovo Mondo  grazie alla pirateria che poi continuò con il commercio del Rum ma soprattutto con la tratta degli schiavi prelevati dall’Africa occidentale. A seguito della nomina di Henry Morgan a Governatore ( il famoso inglese prima ammiraglio, poi pirata e in fine governatore; morì in disgrazia di cirrosi epatica), Port Royal iniziò a cambiare. Non c’era più la necessità di ricorrere all’aiuto dei pirati per difendersi dalle incursioni francesi e spagnole, nei momenti in cui gli inglesi avevano scarne guarnigioni. Il commercio degli schiavi, assunse maggior importanza mentre i cittadini più elevati, iniziarono ad essere stufi della nomea che la città si era fatta.

 

Nel 1687 la Giamaica approvò una legge antipirateria. Da “porto franco” per i pirati, Port Royal divenne famosa come luogo che non garantiva più asilo, anzi iniziarono le loro esecuzioni. Charles Vane e Calico Jack entrambi pirati britannici, furono fra i primi ad essere  impiccati ma, appena due anni dopo, in un solo mese ne salirono il patibolo ben 41.

 

Jolly Roger

 

 

Merita qui ricordare che proprio Calico Jack inventò quella destinata a divenire poi la bandiera ufficiale della pirateria: un teschio bianco con sotto due spade incrociate in campo nero, più nota come <Jolly Roger>.

Diverse caratteristiche della Città la resero ideale per gli scopi della pirateria.

 

 

Era situata, lo abbiamo visto, proprio sulle ricche rotte molto frequentate che univano Panama alla Spagna. La grande baia protetta di Kingston era sufficientemente vasta ma dallo stretto accesso facilmente controllabile, tanto da poter fornire protezione ai loro vascelli e, in fine, strategicamente posizionata da poter lanciare attacchi agli insediamenti spagnoli. Da lì partirono gli attacchi a Panama, Portobelo e Maracaibo. John Davis, Edward Mansveldt ed Henry Morgan utilizzarono Port Royal per organizzare le loro azioni piratesche.

 

 

Da parte loro gli Inglesi, in cambio di questa loro “interessata” tolleranza, incoraggiarono, quando addirittura non pagarono, i Bucanieri (i veri Fratelli della Costa) di stanza colà perché attaccassero le spedizioni navali Spagnole e Francesi. Nel periodo intercorrente fra la conquista Inglese dell’isola (1655() e il terremoto, Port Royal fu la capitale della Giamaica. Dopo tale data, non essendo rimasto pressoché più niente, il suo ruolo lo prese Spanish Town, l’insediamento più vicino e meno esposto. Solo nel 1872 il Governatorato fu trasferito definitivamente a Kingston.

 

 

Una bella mattina di Giugno, per la precisione Mercoledì 7 dell’anno del Signore 1692, il reverendo Emmanuel Heath, pastore anglicano della principale chiesa del Porto, passeggiava, come di consueto, nel piazzale antistante la Basilica recitando le giornaliere preghiere quando, improvvisamente un boato subito seguito da un tremare violento della terra, lo terrorizzò.

 

Fuggì di corsa salendo un po’ più in alto mentre il terreno scosso, stava sgretolandosi in mare  come se vi si sciogliesse. Infatti la lingua di terra o tombolo su cui era stata edificata la Città, era formata da sabbia e ghiaia fluviale, per uno spessore di 30 metri. Il materiale, scosso dalle ondate sismiche del 7° grado della scala Mercalli, scivolò in mare e in men che non si dica, il tombolo su cui poggiava la Città, sprofondò facilitato dal naturale declivio verso il mare mai consolidato. Questo insolito sconvolgimento, sprofondando senza “spaccarsi” perché il terreno non era roccioso, trascinò sul fondale, non più profondo di 15 metri, tutto il paese senza, di fatto, frantumarlo.  La base superficiale su cui era stato edificato, affondò come una zattera subito ricoperta da tutto quel turbinio di sabbia, limo e terra, sparendo alla vista. A completare lo scempio poi tre successive ondate (oggi lo chiameremmo “tsunami”, che regolarmente segue gli sconvolgimenti del fondo del mare a causa di un terremoto) spazzò via tutto quel poco che era rimasto.

 

Alla fine si contarono  oltre 2000 morti mentre, del fiorente porto, non emergevano che le parti più alte, ma ridotte in rovine. Naturalmente, come era nella cultura dell’epoca il Reverendo, scrivendo nel suo rendiconto per spiegare ai suoi Superiori come aveva perso la Chiesa, chiosò < spero che questo terribile giudizio di Dio induca i superstiti a cambiare vita, perché non penso che esistano persone altrettanto prive di timor di Dio sulla faccia della terra>. Questa volta però Dio non fu il feroce giustiziere immaginato dal Reverendo: semplicemente lui non sapeva che la Giamaica era, come è, zona sismica, purtroppo attiva ancor oggi, perché si trova lungo il margine della placca caraibica che si scontra con il bordo  più meridionale  della placca nord-americana, traslando di 20 mm all’anno.

 

Papa Francesco oggi ci ha fatto capire che Dio non è mai giustiziere, ma padre.

 

Come sempre accade, specie in zone in cui l’igiene non viene praticato, al disastro seguirono malattie che, in modo incontrollato, si diffusero portando a morte ulteriori 2000 persone. Quando la notizia si diffuse, nella mente dei contemporanei scattò giustificativa la pessima reputazione della Città, attribuendo la calamità alla giusta “punizione divina”.

 

Si tentò di ricostruirla iniziando da dove non era stato sommerso, ma avvennero altri disastri: nel 1703 un incendio la distrusse un’altra volta tanto che poi, nella prima metà del XVII secolo, Port Kinston eclissò definitivamente Port Royal.

 

Sulle carte, al posto del tratto finale di quella mitica lingua di terra, oggi è indicata un’isoletta staccata:  su di essa e il canale che la divide dalla terra ferma, c’era Port Royal.

 

Atlantide dei Caraibi

 

Solo e per caso nel 1959 due archeologi americani, scandagliando il basso fondale, scoprirono, sotto una coltre di limo e sabbia, una città pressoché intatta con case e negozi ancora perfettamente conservati, con all’interno tutto quello che contenevano quella mattina. Su di un ronfò scoprirono i resti di una tartaruga che doveva essere il pranzo di quel giorno. Poco più in là una bottega da falegname conserva ancora un letto così come lo stava costruendo e, in una farmacia, fanno bella mostra numerosi flaconi ancora allineati e contenenti medicamenti e albarelli da farmacia, perfettamente conservati. Altrove bottiglie e monili d’oro; in un “fondo” c’era una cassaforte semicorrosa, contenente oltre 1536 monete d’argento.

 

 

Come oggi giorno si usa, la scoperta di questa “Atlantide dei Caraibi” sta mettendo in moto la macchina del turismo. Intendono, in pochi anni, creare un parco sottomarino con tanto di alberghi e ristoranti < vista sul fondale>, in quanto lo stesso è veramente facilmente raggiungibile: non più di 15 metri.

 

 

RENZO BAGNASCO

 

Fratello della Costa

Foto di Carlo GATTI

Rapallo, 23 Maggio 2014



COSA MANGIAVANO I PIRATI?

Ma cosa davvero mangiavano i pirati ?

Avendo fatte ricerche, come appare in altra parte, sulla gastronomia caraibica ai tempi dei Bucanieri, i mitici Fratelli della Costa, non vi nascondo che la tentazione di riuscire a sapere cosa realmente ci fosse nei piatti di quei masnadieri, fu forte. Per saperlo con una certa qual certezza e non ricorrendo ai vari Salgari,  bisognava però fare delle ricerche, perché sino ad allora non ero mai incappato in qualcosa di attendibile. Persino nei romanzi ispirati a quelle imprese o nei rendiconto, non compaiono mai dei possibili “menu” anche se, ben inteso, non come oggi li conosciamo, cioè una sequenza di portate. Sarebbe stato sufficiente qualcosa che ci descrivesse, anche sommariamente, come erano composti i loro “manicaretti.

Ho fatto allora ricerche presso la prestigiosa Civica Biblioteca “Berio” di Genova, Città notoriamente sensibile alle cose di mare. Nulla. Ho coinvolto anche gli amici della <Fondazione B.IN.G – Bibliotèque Internationale de Gastronomie – Lugano> una delle due più complete raccolte di manoscritti e stampati delle opere di gastronomia dal  sec. XIV al XIX, esistenti al mondo: ricerche rivelatesi inutili.

 

Di cosa mangiavano nelle antiche marinerie “ufficiali” dell’epoca, conosciamo quasi tutto a cominciare dalle derrate imbarcate prima di partire, senza però poi sapere in che modo venissero preparate. Addirittura esiste un dettagliato elenco di cosa imbarcò Colombo prima di partire per la sua avventura; sappiamo persino delle lenze per la pesca segretamente occultate, così da poter essere eventualmente usate per pescare, nello sventurato caso che si esaurissero le scorte per l’imprevedibile non rispetto dei tempi di navigazione ipotizzati, visto che si andava verso l’ignoto; deprecata possibile ipotesi che però un precisino come lui (quella stessa“ostinata” precisione che lo portò poi alla rovina)  aveva, pur tenendosela per se, messa in conto.

 

Con il tempo e il migliorare dell’organizzazione dei vari Ammiragliati, si cominciò a studiare e prendere nota empiricamente della quantità di razioni che dovevano essere servite per sostenere le fatiche di ogni imbarcato (oggi le chiamiamo “calorie”), ma mai come lo si confezionasse. E’ però facile pensare che, mano a mano che le riserve imbarcate si avvicinavano al deterioramento, gli addetti alla cucina le rendessero commestibili in base alle loro personali esperienze e non secondo un menù precostituito: da qui il largo uso delle spezie. Per altro a bordo, data la configurazione dei quei velieri, è da escludere si preparassero zuppe o minestre o cibi liquidi o intingoli, troppo pericolosi su instabili vascelli non idonei, vuoi per la panciuta forma della chiglia che doveva contenere più merce possibile, vuoi per la esigua stazza degli stessi, (le mitiche caravelle oggi verrebbero classificate fra la nautica minore) non certo ideali per attenuare il rollio ed il beccheggio. La presenza del “fogon”, una sorta di armadio metallico per contenere il fuoco, non garantiva certo la stabilità di cosa vi si stesse cucinando. Il “mulo”, l’incaricato, doveva sempre stare attento a che le “pignatte” non volassero. Questa ipotesi trova conferma nel fatto che in tutti i porti sino agli inizi del ‘900, nell’ora di mezzogiorno, si accostassero sotto bordo, barche che vendevano fumanti zuppe o minestre di verdure, proibite a bordo.

 

 

Nel porto di Genova, il "cadrai", italianizzato in cadraio, era quel barcaiolo che portava cibi caldi o meno ai lavoratori delle chiatte o delle navi dalle quali non potevano scendere a terra. Il nome "cadrai" è corruzione dell'inglese "caterer", ossia il fornitore e-o organizzatore di mensa. Nel 1910-11 vi erano nel porto 40 "cadrai" La bellezza della cartolina stà comunque nella retrostante rappresentazione del bunkeraggio di una volta. Archivio P. Berti

A Genova si chiamavano “cadrai” e offrivano minestrone caldo, reso accattivante con l’aggiunta di  profumate foglie di basilico spezzettate (il pesto,dato il prezzo dei suoi componenti, era un lusso). Se ne deduce quindi che il mangiare di bordo fosse prevalentemente “asciutto”. So che non è bello auto-citarsi ma per non tediare ripetendo dettagliate informazioni, invito a leggere, a chi ne avesse voglia, ciò che descrivo ampiamente nel mio ultimo volume < LIGURIA amore mio> Mursia Editore.

 

E’ facile ipotizzare che in quell’ambiente piratesco le “mangiate” vere e proprie avvenissero nelle bettole di terra ferma; in mare era altra musica. Si può pensare che le orge sessual-gastronomiche, quella maramaglia che aveva piena coscienza che ogni volta che andava per mare poteva anche essere l’ultima, le riservasse a quando, venduta la merce rapinata sui velieri depredati, davano sfogo alla voglia di vivere una vita sgregolata che, certo, non offriva loro obiettive prospettive proiettabili a lungo termine. Infatti solo pochi poterono morire nel proprio letto; la maggior parte, se non fatti a pezzi negli arembaggi, finì appesa a un qualche pennone di bordo.

 

Proprio perché quella vita disagiata comportava sacrifici e rischi ma assicurava un pasto sicuro, da sempre tutti gli imbarcati, anche se semplici componenti la “bassa forza” e in qualunque marineria, venivano assai meglio retribuiti di chi, a terra, svolgeva analogo lavoro e non aveva la certezza di mangiare tutti i giorni.

 

Solo dei pranzi Regali abbiamo esatti rendiconto, portata per portata. Ma non era certo questo il caso dei “Nostri” presi in esami, la maggior parte dei quali frequentava quella vita, statisticamente ahimé, per un breve arco di anni. Quasi sempre i corsari, perché operanti per un qualche regnante, una volta catturati, finivano nelle galere di chi li aveva fatti prigionieri (meglio conservarli: si sa mai che poi li avrebbero potuti usare per il loro comodo ?) mentre ai pirati, da nessuno protetti, era riservata l’impiccagione.

 

Scartabellando inutilmente nei volumi riservati alle ricerche che mi stavano a cuore, ho dedotto che nelle Biblioteche italiane, non avrei mai trovato quello che cercavo perché, all’epoca, l’Italia, o meglio le marinerie dei vari Staterelli che la componevano, bazzicavano solo nel Mediterraneo: infatti di tutte queste ho già scritto cosa e quanto consumavano a bordo, a cominciare dalle galere. I Caraibi erano invece solcati da navi spagnole, francesi e inglesi. Queste ultime erano controllate dal più organizzato e puntiglioso Ammiragliato a cui non sarebbe sfuggito alcunché e, quello che conoscevano, lo mettevano per iscritto. Forse, in quel repertorio mitico inglese, ce ne sarà traccia.

 

Allora ho pensato che, anche se scientificamente non corretto, qualche scrittore anglosassone di avventure piratesche a cui era facile attingere a quel patrimonio, ne potesse aver scritto con la stessa dovizia di particolari che riservava al descrivere il resto di quel mondo.

La scelta non poteva che cadere su Robert Louis Stevenson che nell’800 ne scrisse nel suo famoso < Isola del tesoro > descrivendo nei dettagli gli ambienti degli angiporti e dei pirati del ‘700. Per capirci è lo stesso che ci ha tramandato quel macabro ritornello che tanto ci fece sognare e impaurire da ragazzi:

Quindici uomini sulla cassa del morto

 

Yo-ho-ho, e una bottiglia di rum!

Nelle 200 e più  pagine del romanzo, gli unici accenni al mangiare sono, nell’ordine: in una taverna <E così mi fu servito ad una piccola tavola un pasticcio di piccione e io cenai di gusto …> più avanti, a bordo  <Dopo di che, mangiato il nostro lardo e bevuto ciascuno un buon bicchiere  di ponce all’acquavite….> e ancora <<messomi a sedere, per attender che fosse buio, mangiai di gusto la mia galletta> in oltre, a terra <… un uomo ci chiamò perché la colazione era pronta, e tosto sedemmo sulla sabbia, intorno al fuoco, con davanti gallette e lardo fritto> e poi < … avevano sbarcato dall’Hispaniola  lardo, gallette e acquavite per il pasto di mezzogiorno > ed in fine < Che cena, quella sera, attorniato da tutti i miei amici; e che pasto, con carne di capra salata … parecchie ghiottonerie e una bottiglia di vino vecchio dell’Hispaniola ! > mentre del rum, farcito dalle bestemmie, ne parla ad ogni piè sospinto.

 

Da questi sommari accenni ai pasti consumati in navigazione, se ne può dedurre che non ci fossero grandi scelte e conseguenti “menù “: l’importante era sopravvivere. A proposito di rum, ad un certo punto venne “adottato” dalla marina inglese nel tentativo di combattere il micidiale sgorbuto.

 

Morale: i giovani marinai, con la scusa di prevenire, si sbronzavano e allora decisero di allungarlo con acqua. E’ nato così il noto “grog”

 

Ma torniamo a noi: anche se mi rendo conto di queste lacune e pur conoscendo cibi antichi, non intendo “inventarmi” manicaretti possibili tanto per accontentare la voglia di scrivere cose insolite, come la romanzata < Olla putrida> dall’etimologia del nome assai sospetta e “ruffiana”. I pirati saranno stati crudeli sanguinari assassini o, a seconda delle circostanze, pacchiani gentiluomini, ma per certo non erano fessi. Questa sorta di zuppa composta da legumi e carne, certamente liquida, è assai improbabile venisse servita a bordo, meno che meno rendendola più “esplosiva” da una “presa” di polvere da sparo, come si narra. E’ un classico esempio di piatto unico “antichizzato” che si presta ad essere romanzato; una analoga gustosissima minestra, ma con un nome meno rivoltante, la si gusta ancor oggi sui Pirenei nel Principato di Andorra.

Se mi capiterà mai di trovare traccia che appaghi questa curiosità, mi riservo di scriverne per colmare questa mia lacuna, della quale chiedo venia.

Mi rendo conto che appoggiarmi ad un romanzo per ragazzi, se pur famoso, non mi fa onore ma, quando l’acqua arriva alla gola, tutto può servire per stare a galla.

A questo punto, e per ora, getto la spugna.

 

Renzo Bagnasco

 

 

Ricerche a cura di Rosa Grazia Allaria

 

 

Foto a cura del webmaster Carlo Gatti

Rapallo, 11 Maggio 2014

 

 


BUCANIERI, FRATELLI DELLA COSTA E LA GASTRONOMIA "CRIOLLA"

 

I Bucanieri, i veri Fratelli della Costa

e la gastronomia “criolla”

 

 

 

Un bucaniere rappresentato sotto il titolo Buccaneer of the Caribbean nel libro di Howard Pyle, Howard Pyle's Book of Pirates.

 

 

Cominciamo con il dire che una gastronomia di bordo, all’epoca della quale parleremo, non esisteva. Gli unici a mangiare in modo adeguato erano il Comandante e gli Ufficiali;  la ciurma si nutriva male e in modo assolutamente inappropriato. Gli addetti alla cucina avevano, per dedicarvisi, tempi  risicati in quanto nessuno di loro rivestiva il solo ruolo di cuciniere, perché impegnati principalmente a fare i marinai. D’altra parte il fuoco a bordo non era ben visto: basti pensare a quando pioveva o il mare era mosso. Nel “fogon”, una sorta di armadio metallico per contenere il fuoco a che non surriscaldasse il legno, la pece, il cordame e i teloni di cui era piena la nave, lo si poteva utilizzare solo se le condizioni atmosferiche lo permettevano. Anche gli orari erano variabili; intanto si mangiava una sola volta al giorno, attacchi ed arrembaggi permettendo. Il migliore fra i vivandieri, abbiamo visto che erano tutti mozzi di bordo, si occupava del Quadrato degli Ufficiali i quali erano gli unici a “sedersi a tavola”; la ciurma per mangiare si appoggiava dove poteva e al rancio provvedevano i meno esperti. Con il passare dei giorni di navigazione, per rendere appetibili i cibi che inevitabilmente tendevano a deteriorasi, dovevano riempirli di aromi e spezie.

 

 

 

 

Per fortuna nella zona caraibica gli aromatici “insaporitori” non mancavano. Questo disordine alimentare imperava non solo fra i pirati che bazzicavano la zona del Centro America, ma anche fra tutti coloro che dovevano rimanere in mare a lungo. Era già problematico mantenere “commestibile” la carne dopo qualche giorno dalla macellazione. Non c’erano frigoriferi e il magazzinaggio delle derrate secche in chiglia, luogo deputato allo scopo, non le preservava dall’inumidirsi a causa del trasudare di acqua salmastra, attraverso il fasciame dell’opera viva sempre sconnesso perché, per quanto calafato con stoppa o, più spesso, con fibra di cocco, non restava “fermo” ai primi colpi di mare. Quel sito caldo e umido, non potendo contare su ricambi d’aria, favoriva il deteriorarsi rapido di quanto conteneva.

 

 

 

 

Stessa sorte colpiva anche i “Fratelli della Costa” consorteria di pirati più noti come <i bucanieri della Tortuga> dall’isola caraibica che elessero a loro rifugio nel 1640. Quasi tutti gli equipaggi erano formati principalmente da marinai francesi, inglesi e, in misura assai minore, olandesi. La “bassa manovalanza” era costituita invece da tutti quegli sbandati sopravissuti alle sconfitte nelle guerre, che nel frattempo, qua e la, venivano combattute. A loro risale il Tricorno, che fu adottato da Re Luigi XV che lo volle copricapo ufficiale delle divise militari, subito copiato da diversi eserciti. Quel copricapo non è “pomposo” come quello della Nobiltà e della Borghesia dell’epoca, caratterizzato da alte e divaricanti tese; è scarno, anch’esso in pesante feltro e ha le tre “ali” ripiegate sulla  “calotta” per non creare intralci nei combattimenti.  Nei mesi caldi veniva sostituto da uno di paglia.

Ma torniamo al tema: la gastronomia “criolla”, cioè creola. Va da se che i “nostri” riuscivano a mangiare come Dio comanda solo quando sbarcavano nei Caraibi; colà si potevano nutrire con cibi più appetitosi e variati, già in allora conosciuti, ma soprattutto di verdura e frutta, beni preziosi e rari a bordo.

 

 

 

Come non riprendere dai cassetti della memoria l’immagine legata indissolubilmente al castello poppiero di un romantico veliero o su di un rabberciato pontile di un porto sotto il sole tropicale, di uomini con il tricorno in testa, la sciabola in mano e gli alti stivali di cuoio?

 

La pirateria  moderna inizia nel XVII secolo nel Mar delle Antille ed in meno di cinquant’anni si estende in tutti i continenti; il Mar delle Antille rimane ad ogni modo il centro della pirateria, sia perché là i pirati riescono a godere di una serie di appoggi e favori sulla terraferma, sia perché le numerose isole presenti sono ricche di cibo e di anfratti, per di più circondate da bassi  fondali che impedivano eventuali inseguimenti da parte delle  lente e “pescose” navi da guerra; sia in fine perché in quei mari transitavano  navi cariche di imbarchi preziosi provenienti dalle appena scoperte Americhe. Tra le cause dello sviluppo della moderna pirateria non  va dimenticata l’azione della Francia e dell’Inghilterra che, per contrastare il dominio commerciale della Spagna nel Mar dei Caraibi, finanziarono vascelli corsari a che saccheggiassero i mercantili spagnoli. La concorrenza commerciale anche allora non andava tanto per il sottile. Successivamente, sia per il venir meno dell’appoggio anglo-francese, sia per una acquisita abitudine allo stile di vita libero ed indipendente, molti corsari divennero …. pirati.

 

Il potentissimo impero spagnolo, alla metà del diciassettesimo secolo aveva dichiarato il monopolio commerciale delle ricche Antille, tappa obbligatoria dell’oro centroamericano per arrivare nel vecchio continente, il tutto a seguito dell’approdo in loco di Cristoforo Colombo, nel 1493 a St. Croix. I coloni, spagnoli, francesi, inglesi ed olandesi vivevano quasi tutti sull’isola di Hispaniola ( tra l’attuale Haiti e Santo Domingo ). Si specializzarono nella produzione di alimenti a lunga conservazione, come carni essiccate o trattate, indispensabili per i lunghi viaggi in mare. Questo metodo sarebbe stato insegnato loro dagli Arawak, tribù di Santo Domingo. La capanna dove avveniva l’essicazione, su graticole fatte di sottili strisce di legno denominate barbicoa ( dal quale deriva l’attuale termine “barbecue” ) si chiamava boucan: da questo ne derivò il nome di “bucanieri”. Questi erano di diversa nazionalità e non servivano alcun paese anche se in certe occasioni potevano essere sollecitati e supportati. Formarono legami stretti con i coloni ai quali svendevano le merci saccheggiate e dai quali ricevevano la possibilità di entrare nelle città per ogni più varia necessità; queste pullulavano di pirati per via anche delle locande e degli altri “servizi” ad esse correlate. I bucanieri erano presenti nelle navi corsare o pirata anche perché famosi per la loro infallibile mira, allenata da quando erano stati cacciatori. La loro dieta quotidiana, a terra, consisteva in verdura e frutta, come papaia, patate dolci, guaiave e manioca. La mancanza della verdura e della frutta fresca a bordo, uniche fonti di vitamina C, procurava invece il devastante scorbuto. Solo nel 1747 il medico scozzese James Lind intuì sperimentandolo, che bastava mangiare agrumi a bordo per debellarlo. Che fosse poi la carenza di vitamina C, lo scoprirono dopo. Inizialmente la cottura della carne e del pesce avveniva in grandi vasi di un materiale simile alla  terracotta, facilmente trasportabile ed immagazzinabile.  Trasferitisi sull’isola di Tortuga e a Port Royal, nel 1640 fondarono la Fratellanza della Costa, ( tra di loro i pirati si autodefinivano< Fratelli della Costa> ) smisero di affumicare carne e depredare solo navi: si dedicarono alla predazione dei villaggi lungo le coste, dando vita a quella che noi oggi identifichiamo come “ pirateria”. Redassero un vero e proprio Codice Etico dei Pirati – ( Code of the Brethren States) che conteneva regole di massima che tutte le navi della “Fratellanza” erano impegnate ad onorare: a lui si è ispirato l’Ottalogo, il codice etico degli attuali Fratelli della Costa.

 

Nei viaggi che solcavano i mari, i pirati avevano a disposizione per lungo tempo solo carne affumicata e rum. Il resto, verdure, formaggi, uova deperiva velocemente ammuffendo e marcendo. Si aggiunsero quindi alla dotazione della dispensa legumi secchi o cibi conservati in salamoia; per i Comandanti anche frutta candita. Polli, ovini e mucche venivano tenuti in vita fino a quando l’approvvigionamento per mantenerli era sufficiente; dopo finivano macellati. Spesso l’impossibilità di conservazione delle carni per il  caldo umido dei tropici, ne favoriva la putrefazione. Tutto ciò rendeva carente la qualità e la varietà dell’alimentazione dei  viaggiatori del mare. Le erbe e le spezie usate in abbondanza coprivano in parte il sapore degli ingredienti viziati e spesso avariati. La fortunata cattura di una tartaruga marina era motivo di gioia perché fonte di un insperato prelibato pasto. Un caso limite ce lo testimonia Pigafetta nel suo diario di bordo redatto durante la traversata del Pacifico nel 1520,  dove si legge << Mangiavamo biscotto non più biscotto, ma polvere di quello con vermi a pugnate perché essi avevano mangiato il buono: puzzava grandemente di orina de sorci e bevevamo acqua gialla putrefatta per molti giorni e mangiavamo certe pelli de bove, che erano sopra l’antenna maggiore ( n.d.r.: strisce di cuoio che rifasciavano le scanalature di testata degli alberi, fungendo da carrucole così da consentire, con un minimo attrito, lo scorrervi delle sartie per issare le vele ) a ciò che l’antenna non rompesse la sartia …..e ancora assai volte segatura di asse. Li sorci si vendevano a mezzo ducato l’uno e se pur ne avessimo potuto avere …>>

 

Le spezie che trovarono abbondanti e rigogliose in loco, la facevano quindi da padrone. Salse di peperoncino, con l’aggiunta di limone e succo di lime marinavano carne e pesce. Alla cucina caraibica dobbiamo la realizzazione del primo pepatissimo stufato, altro che l’ungherese Gulasch! Oltretutto queste “droghe”un po’ camuffavano i cibi quando iniziavano ad alterarsi, rendendoli ancora appetibili. Così è nato pure il nostro livornese Cacciucco; reso forte per rendere appetibile quel pesce di ritorno, invenduto al mercato.  Non esistevano però precise ricette di bordo, in quanto di volta in volta si modificavano e aggiungevano nuovi ingredienti. Importante, lo abbiamo visto,  l’utilizzo  delle spezie locali, come il curry in polvere, sempre presente sulle carni, dello zafferano peyi , il pepe bianco e nero, il cumino e tutte le varietà di peperoncini.

 

 

I nativi della zona, gli Indiani Carib, hanno contribuito a caratterizzare con forte impatto la storia della zona dei  Caraibi, tanto che da quella tribù il sito prese nome.

 

 

Presto i Caraibi divennero il crocevia del mondo. Venduti dagli europei,  arrivarono i primi schiavi provenienti dall’Africa, e con essi nuove “contaminazioni” alimentari. La cucina caraibica si arricchì così con l’introduzione di torte di pesce, manioca, mango, ackee, budini e souse. Ma anche banane e farina di mais.

 

Gli uomini provenienti dal continente africano erano anch’essi cacciatori nelle loro terre e quindi spesso e per lunghi periodi lontani da casa. Sapevano cucinare carne di maiale piccante su carboni ardenti, e codesta tradizione si affinò maggiormente in Giamaica. Questa preparazione, oggi conosciuta come “jerk”, comporta un lungo processo di cottura della carne. Tutt’ora in molti piatti prelibati giamaicani troviamo ancora il pollo ed il maiale. Dai marinai portoghesi arrivò il baccalà: il riso e la senape, dalla Cina.

 

Il clima caldo ed in passato anche la scarsità di legname, fecero prediligere metodologie di cottura veloci, quale fritture e grigliate, molto raramente cotture in forno.

 

La maggior parte dei visitatori che si recano ai Caraibi mai immaginerebbe che gli alberi da frutta così familiari e rigogliosi in queste isole, siano stati introdotti invece dai primi esploratori spagnoli. Da quella nazione giunsero infatti arance, lime, zenzero, banane, fichi, palme da datteri, uva, tamarindi, noci di cocco e canna da zucchero.

 

Proprio da quest’ultima, si realizzò, attraverso un processo di distillazione, un liquore molto calorico e ad alta gradazione alcolica: il rum, l’indispensabile protagonista del rito finale che chiude sempre gli Zafarrancho (riunione conviviale) degli attuali Fratelli della Costa.

 

All’America dobbiamo l’introduzione di fagioli, mais, pomodori e patate. Dai Caraibi questi alimenti si diffusero poi nel resto del mondo. Una menzione va anche all’albero del pane dai frutti assai particolari, che ricorderemo presente nel film “Gli ammutinati del Bounty”.

 

L’elenco potrebbe continuare … Non c’e da meravigliarsi quindi se la Cucina Caraibica sia una commistione così ricca, colorata, creativa e variegata, coacervo di sapori provenienti da ogni dove: Africa, India, Cina, insieme alle influenze giunte  dalla Spagna, Portogallo, dalla Danimarca,  Francia e Gran Bretagna. I cibi caraibici sono stati influenzati dalle culture di tutto il mondo, ma ogni isola ha assunto ed aggiunto il suo particolare sapore e le proprie tecniche di cottura.

 

 

 

Qualche cenno specifico, luogo per luogo, in una sorta di aggiornato  itinerario gastronomico.

 

Partendo dagli aperitivi non possiamo non menzionare un bicchiere di punch al rum agricole , prezioso distillato e vera istituzione caraibica, parte integrante della cultura delle Antille. E’ considerato uno dei migliori del mondo, l’unico ad aver ottenuto il riconoscimento della DOC locale. Si consuma puro o mescolato a innumerevoli cocktails. Comparve per la prima volta nel 1635 alla “Mardinica”, l’isola dei fiori, antico nome della Martinica. Bevanda regina, possiede un proprio museo sito a Sainte-Marie, dove si può ripercorrere la sua lunga storia.

 

La cucina Dominicana è prevalentemente di ispirazione spagnola e africana. Molto simile a quella di altri paesi latino-americani, ma con nomi assai differenti. Il piatto-colazione è a base di uova e mangù, diffuso anche a Cuba e Puerto Rico. Può essere accompagnato da fritti di carne e formaggi. Il pranzo è in genere il pasto principale della giornata, e consiste in riso, carne di pollo o maiale, o pesce, fagioli e insalate. La bandera, uno dei piatti tipici, si compone di carne e fagioli rossi su riso bianco. Soncocho è uno stufato cucinato con ben sette varietà di carni. Molte pietanze si realizzano con sofrito, ampia miscela di erbe locali, che ne esaltano i sapori. Ricca la lista dei dolci, dalla torta dominicana ( bizcocho ) ai flan, dulce de leche e cana ( canna da zucchero ). Bevande diffuse birra, rum, batida ( frullato ) e jugos naturales, succhi di frutta appena spremuti.

 

In Guadalupa, seconda  consumatrice al mondo di pesce, troveremo ottime zuppe di vongole, aragoste alla griglia, fricassea di lambis, sorta di conchiglioni locali originari dell’Oceano Indiano. Da quasi 100 anni si rinnova nel mese di Agosto  un vero e proprio evento del patrimonio culturale della Guadalupa, la “festa delle cuoche”, ghiotta occasione per gustare prelibatezze preparate secondo ricette ancestrali.

 

Nel periodo pasquale in Martinica, imperdibili le Fiere dei granchi accompagnate da grandi frittelle ripiene di carne e verdure, o altre farcite con merluzzo e verdure, cuori di palma in insalata, e pollo alle spezie, prelibato ed entusiasmante concentrato della cucina creola. Frutta e verdura locale da scoprire nei variopinti mercati locali, dove si troveranno anche caffè e cacao.

 

Capitale gastronomica dei caraibi è però considerata Saint-Martin. Straordinari i lolos, sorta di punti di ristoro all’aperto in riva al mare dove è possibile gustare pesce, crostacei di ogni tipo, cucinati si improvvisate griglie e che fanno concorrenza ai tradizionali ristoranti che si incontrano nelle caratteristiche stradine. Imperdibili specialità sono il melone maturato a quel sole ed il caffè caraibico, come pure il “cibo degli Dei”, il cacao, sotto forma di praline e tavolette.

 

 

Concludendo questo “breve viaggio” nei paesi  sudamericani che si affacciano sul Mar dei Caraibi, dalla storia lunga, sofferta e gioiosa, la cucina caraibica ne esce come unica ed esprime la singolare ed immensa fusione di unione di sapori, colori e profumi che solo la gastronomia di tutti i popoli che vi hanno contribuito, ha saputo portare ad un risultato così stupefacentemente universale.

 

 

Un ultimo suggerimento ai possibili viaggiatori: diffidate sempre, se volete mangiare veramente creolo, dei locali che inalberano vistosi riferimenti ai pirati dei caraibi. Sono specchietti per le moderne allodole.

 

 

 

 

Renzo BAGNASCO

Ricerche a cura di Rosa Grazia ALLARIA

Foto a cura del webmaster Carlo GATTI

 

Rapallo, 11 Maggio 2014

 

 


GALERE GENOVESI: Vita di bordo

GALERE GENOVESI

VITA DI BORDO

 

 

 

Ciò nonostante imbarcarsi per molti voleva dire uscire dalla disperazione o fuggire dai rigori della giustizia. Fra loro cerano anche ex galeotti che, usciti a fine pena dalle patrie galere non avendo ancora pagato i debiti per i quali erano colà finiti comprese le spese processuali, con l’ingaggio si illudevano di potersi riscattare. Abbiamo detto che non erano incatenati ma ci sono documenti della Repubblica di Genova che puntualizzano << il buonavoglia a termini del suo contratto è esente di giorno dalla catena a differenza del forzato…..ma se commette mancanza può essere condannato per qualche tempo alla continua catena…>>

 

Circa poi la possibilità di contrarre debiti anche mentre vogavano e quindi impossibilitati a sbarcare sino a saldo effettuato, era abbastanza facile perché << il buonavoglia doveva pagarsi tutti gli extra dall’alimentazione al vestiario, dai medicinali ai debiti di gioco contratti durante le pause>> ad ognuno di questi debiti, di volta in volta, faceva fronte il Comandante che, alla fine, doveva però essere rimborsato; in caso di impossibilità, il disgraziato poteva estinguere l’impegno restando…… ancora a remare.

 

Come si vede questa gente rappresentavano la feccia dell’epoca; non si capisce come un gruppo di intellettuali di Genova, per dare una mano alla Città, si sia in questi ultimi tempi associato appropriandosi di quel nome. Che abbiano erroneamente interpretato quel tristo ricordo  come sinonimo di “spontanea buona volontà”, che è altra cosa?

 

L’altra volta abbiamo visto come le galere, per mole e carenatura, viaggiassero solo  da Marzo ad Ottobre quando il mare è relativamente calmo e le giornate di luce sono più lunghe, con la indispensabile necessità di ridossarsi ogni sera anche per rifornire la cambusa.

 

Durante gli altri mesi i galeotti venivano rinchiusi nelle apposite galere che all’epoca erano edificate su di uno scoglio nel porto: se condannati, scontavano lì i restanti giorni di pena. Erano però riscattabili “ pagandoli” 400 formaggette l’uno. Valevano ben poco.

 

 

Museo Galata Genova

 

A bordo, incatenati o no, tutti sedevano su dei banchi larghi 25 cm che di giorno fungevano da sedile e, di notte, da giaciglio o, più correttamente, da appoggio per tentare di dormire. Fra banco e banco c’era la “banchetta” ovvero una tavola parallela ai banchi su cui sedevano, ma più in basso di questi e sulla quale i vogatori appoggiavano un piede per puntellarvisi durante lo sforzo della voga.

 

 

Una fedele riproduzione di una di queste galere è oggi visitabile al Museo Navale “Galata”, nel porto di Genova.

 


 

 

La vita assolutamente disumana che a bordo conduceva la ciurma ci è ben descritta, anche se riferita a galere francesi, da Jean Marteille de Bergerac nobile colà condannato per le sue malefatte. Lo scrive nelle sue memorie edite in Rotterdam nel 1757: suo malgrado fu, all’inizio del ‘700, ospite di una di queste e così descrive la sua esperienza di galeotto << Si immaginino, se possibile, sei uomini incatenati seduti ai loro banchi; (la maniglia del) remo tra le mani, un piede è sulla banchetta, grossa sbarra di legno inchiodata alla panca (banco) e l’altro sul banco davanti. Il corpo allungato, le braccia rigide per spingere innanzi il remo fin sopra il dorso di quelli che sono dopo, intenti nel medesimo movimento (indispensabile rispettare il sincrono). Dopo aver così portato avanti il remo, lo si alza per tuffarlo in mare, e, contemporaneamente, ci si getta o meglio, si precipita indietro per ricadere sul proprio banco, il quale per attutire il colpo di questa pesante caduta, è coperto da un cuscinetto>> e prosegue << E’ vero che una galera non può attraversare i mari con questo sistema, e che ci vuole necessariamente una ciurma di schiavi, ed un còmito che eserciti la sua dura autorità per farli vogare non già per un’ora, né per due, ma persino per dieci, dodici ore  consecutive. Rammento di aver remato per ben ventiquattrore, senza un istante di tregua. In questi casi i còmiti e gli altri marinai ci nutrivano mettendoci in bocca un pezzo di galletta inzuppata nel vino e senza che noi togliessimo le mani dai tremi, perché non cadessimo svenuti>> Oggi sappiamo che in quei frangenti veniva somministrato anche dell’hashis e continua << E non si udivano che le urla degli infelici, intrisi di sangue sotto i colpi del flagello; lo schioccare delle corde sui dorsi dei miserabili, le ingiurie e le più atroci bestemmie dei còmiti schizzanti rabbia e minaccia quando la loro galera non andava come avrebbe dovuto o non navigava al pari delle altre>>

 

E’ vero che la vela ha soppiantato il remo come mezzo di sostentamento del moto, ma il trattamento alla ciurma non variò di molto.

 

 

 

Renzo BAGNASCO

Foto a cura del webmaster Carlo GATTI

Rapallo, 19 Aprile 2014

 

 


GALERE GENOVESI: Cosa si mangiava a bordo?

 

GALERE GENOVESI

COSA SI MANGIAVA A BORDO?

 

 

 

Galea trireme. Bastimento sottile, di circa 50 metri di lunghezza, largo circa 7, con due metri di pescaggio

 

 

Siamo nel XV° secolo su di una galera genovese non da guerra, del tutto paragonabile alle altre simili, battenti bandiere di altri Stati. Il nome di questa imbarcazione diventò, ed è tutt’ora, sinonimo di prigione. A bordo c’erano un Capitano, due Gentiluomini di poppa rappresentanti l’Armatore o chi ci aveva messo i soldi, uno scrivano, tre Sottufficiali ( i còmiti), un Pilota, un Chirurgo, un Aguzzino che sapeva ben usare lo staffilo, undici marinai per le vele, trenta marinai per le funzioni più varie, quattro addetti alla manutenzione, e duecentosessanta rematori ai ferri, la così detta “ciurma”.

 

 

Questa era composta da un  20/28 per cento di schiavi, 35/45% da forzati colpevoli di gravi reati e costì condannati e da un 30/50 % da buonavoglia, disperati che per una misera paga si assoggettavano volontariamente a quella vita d’inferno. Queste imbarcazioni navigavano da Marzo ad Ottobre e solo di giorno perché di notte doveva ridossarsi per dormire e ricaricare le derrate e l’acqua consumate durante il giorno. Barche non adatte a tenere il mare (avevano chiglia piatta) sottocoperta avevano sei gavoni così utilizzati: uno leggermente sopraelevato di poppa per il Capitano ed i Gentiluomini. Subito accanto lo “scandolaro” per contenere le armi, gli assi e i teloni da rapidamente montare per riparare dalle improvvise piogge i vogatori, poi la dispensa (detta “compagna”), il pagliolo, la camera di mezzo ed in fine il gavone per le vele. I sottufficiali e gli altri membri “liberi” dell’equipaggio si arrangiavano a dormire dove potevano;

 

 

 

i galeotti restavano in catene e sonnecchiavano sul posto “di lavoro”. Il ponte era tagliato in mezzeria da un camminamento che divideva per il lungo i due banchi dei rematori e su di esso camminava l’aguzzino; al centro il fogon per preparare il rancio, rigorosamente una volta al giorno all’imbrunire. I maligni dicono per non far veder cosa si mangiava.

 

Già, ma cosa si mangiava?

 

Gli unici ad avere pasti quasi normali erano il Comandante e i Gentiluomini, il restante equipaggio poteva contare su di un po’ di baccalà condito con un filo d’olio, a volte pasta o riso e un po’ di carne conservata essicata e una razione di vino.

 

 

 

Ai rematori invece era riservato  un po’ di “biscotto” le classiche gallette sia nei periodi di voga estivi che quando, d’inverno, erano rinchiusi nella loro galera. Venivano sbriciolate a formare una specie di puré; due volte al mese una minestra di fave, riso e olio e nelle solennità religiose, se non costretti a digiunare secondo il dettato di Santa Romana Chiesa per una specifica ricorrenza, una libbra di carne (300 gr circa) ed un boccale di vino (73 cl); spesso e volentieri, per nascondere il puzzo di “rancido” delle derrate mal conservate (da cui il nome “rancio”) veniva spruzzato con aceto. Questo a Genova.

 

Il “menù” della Marineria Pontificia invece prevedeva 850 gr di gallette e, tre volte alla settimana, una minestra che veniva però eliminata d’estate. I Veneziani  passavano 650 gr di gallette, 4 tazze di vino di “onesta misura”e una scodella di minestra; quattro volte alla settimana 240 gr di carne e tre volte 160 gr di formaggio. Il Mercoledì ed il Venerdì 2 sardelle.

 

Più parca la Marineria Toscana dava 500 gr di gallette e una minestra di cavoli, rape e fave mentre, solo nelle solennità annuali, era prevista della carne fresca pari a 340 gr  a testa, oltre a ½ litro di vino. Le fave saranno rimpiazzate poi dai fagioli portati da Colombo con il vantaggio di essere meno flatulenti e più nutritivi.

 

 

Nei momenti in cui era richiesto il massimo sforzo ai remi, è documentato che a volte erano costretti a remare anche per 24 ore consecutive, venivano imboccati dagli aguzzini. Recenti ricerche hanno rivelato che ai rematori, nei momenti sopra descritti, quando ne il vino ne le scudisciate riuscivano a garantire il ritmo infernale imposto, venivano ammannite dosi di hashish, con funzione di sovra alimentatore, un po’ come oggi fanno i turbo nei nostri motori.

 

E’ stato calcolato che le 3000/4000 calorie ingerite avrebbero potuto essere sufficienti se fossero state dispensate regolarmente. In realtà lo zelo maniacale dei Comandanti a far rispettare i digiuni prescritti dalla pratica religiosa, lo documentano i diari di bordo, era applicato con una meticolosità che è difficile oggi stabilire se per profonda fede o non piuttosto come scusa per risparmiare a proprio favore il <non speso>, rendeva la vita di quei poveri disgraziati, se possibile, ancor più grama.

 

Durante i turni massacranti ai remi, sotto i colpi delle sferze degli aguzzini, le bestemmie se le potevano permettere solo i vogatori delle galere che battessero bandiera di Stati non cattolici, perché per questi ultimi vigeva la norma << Chi biastamerà Dio over la sua Madre, et Santi et Sante, sel sarà huomo da remo sia frustato da poppa a prua; sel sarà huomo da poppa, dieba pagar soldi cento>>

 

 

Forse è per reazione a questo forzato silenzio repressivo del proprio sentire che i liberi marinai di Genova, una volta abolite le galere, poterono contare su di un particolare contratto di lavoro articolato su due diverse paghe che essi stessi potevano scegliere al momento dell’ingaggio per l’imbarco: paga più elevata se si rinunciava, durante il lavoro, al “mugugno” oppure paga sensibilmente più modesta ma con il diritto a “mugugnare”.

 

I genovesi preferivano, in genere, questa seconda. E poi non vogliamo sentirci dire che un po’ strani lo siamo.

Renzo BAGNASCO

Foto a cura del webmaster Carlo GATTI

Rapallo, 19 Aprile 2014



L'OPERAZIONE "GROG"

L’OPERAZIONE “GROG”

Il bombardamento navale di Genova del 9 febbraio 1941, effettuato dalle unità della “Forza H” al comando dell’amm. Somerville: l’interpretazione britannica del “command of the sea” nel Mediterraneo occidentale e le manchevolezze dello strumento aeronavale italiano poche settimane prima di Matapan.

Nel corso della seconda guerra mondiale, il Mar Ligure ha costituito un teatro operativo quasi di secondo piano: infatti, non sono molti gli eventi navali di rilievo che hanno avuto luogo nel Golfo di Genova e nelle acque limitrofe, e – tra il 1940 e il 1943 – le potenzialità industriali e cantieristiche della Liguria ebbero sicuramente preminenza rispetto ad aspetti più propriamente bellici ed operativi.

In realtà, il 14 giugno 1940, dopo soli quattro giorni dall’entrata in guerra dell’Italia, quattro incrociatori ed undici cacciatorpediniere francesi – usciti da Tolone – erano giunti di sorpresa di fronte alle zone industriali di Savona-Vado e Genova effettuando un breve bombardamento.  La pronta reazione delle batterie costiere, dei treni armati della Regia Marina e l’intervento della torpediniera Calatafimi costrinsero al ritiro la squadra francese che, sulla rotta di rientro, fu anche attaccata dai Mas della 13a Squadriglia (1).

L’armistizio tra l’Asse e la Francia, tuttavia, rese le acque liguri molto più tranquille e – nel contempo – la Regia Marina e la Royal Navy furono subito coinvolte nella protezione diretta e indiretta dei propri traffici convogliati, su rotte la cui natura rendeva inevitabile il confronto tra le due flotte nel Canale di Sicilia, nelle acque libiche, nella zona di Malta e nel Mar Ionio (2).

Se allo scontro di Punta Stilo la Regia Marina poteva allineare due sole corazzate (Giulio Cesare e Conte di Cavour), all’inizio dell’autunno del 1940 la squadra da battaglia italiana era forte di sei unità, con il rientro in servizio dell’Andrea Doria e del Caio Duilio successivo a un lungo periodo di lavori di rimodernamento, e la piena operatività delle nuove “35.000” Vittorio Veneto e Littorio.


Il Renown all’ancora a Scapa Flow, all’inizio del 1942. L’incrociatore da battaglia partecipò al bombardamento navale di Genova in questa configurazione di armamento; tuttavia, all’epoca, l’unità era ancora verniciata con il grigio scuro tipo “Home Fleet”, dato che la mimetizzazione fu applicata solamente verso l’estate del 1941,  (Foto imperial War Museum)

Questo consistente e omogeneo gruppo di unità maggiori costituiva una notevole fonte di preoccupazione per i vertici della Mediterranean Fleet: fu pertanto pianificato l’attacco contro la base di Taranto nel corso del quale, la notte sul 12 novembre 1940, gli aerosiluranti “Swordfish” della portaerei Illustrious danneggiarono le corazzate Littorio, Duilio e Cavour.  I lavori di riparazione del Littorio si svolsero presso l’Arsenale di Taranto, mentre il Duilio – rimesso in condizioni di galleggiabilità ai primi di gennaio 1941 – raggiunse Genova il 28 gennaio venendo subito immesso in bacino per il completamento del raddobbo.  Il Cavour, danneggiato molto più gravemente, fu trasferito a Trieste ma – all’atto della proclamazione dell’armistizio l’8 settembre 1943 – i lavori di ricostruzione erano ancora ben lontani dall’essere terminati (3).

Le tre restanti corazzate efficienti (Veneto, Doria e Cesare) furono dislocate prima a Napoli e poi alla Spezia, per allontanarle dalla minaccia costituita dall’aviazione navale inglese, ma i loro movimenti erano seguiti – sia pure con precisione non assoluta – dalla ricognizione e dai servizi informativi della Marina britannica.  Verso la fine di gennaio del 1941, difatti, la Royal Navy riteneva che a Genova si trovassero ai lavori il Littorio e il Cesare; in realtà si trattava invece del Duilio e del Cesare, ma quest’ultimo si trasferì alla Spezia ai primi di febbraio, raggiungendo colà il Veneto e il Doria.

Da qualche tempo, considerati gli ottimi risultati conseguiti nella “Taranto Night”, i Comandi della Royal Navy stavano meditando di realizzare una nuova azione di notevole effetto dimostrativo, oltre che militare, contro un obiettivo costiero italiano.

Nei comandi britannici iniziò quindi a maturare la convinzione che convenisse attaccare un porto nel Tirreno per dare l’impressione alla Regia Marina che neppure le nostre basi nella zona potessero essere ritenute sicure, e la città di Genova fu prescelta come obiettivo di un bombardamento navale per molteplici motivi.

La rotta seguita dalla “Forza H” nel corso dell’operazione “Grog”.  Linea continua: rotta di andata –  Linea tratteggiata: rotta di ritorno.

1 – Uscita da Gibilterra delle unità inglesi tra le 12.00 e le 17.00 del 6 febbraio 1941

2 – Posizione alle 19.25 del 7 febbraio

3 – Ore 02.00 dell’8 febbraio: i ct. Jupiter e Firedrake vengono distaccati presso le Baleari per effettuare trasmissioni r.t. aventi lo scopo di trarre in inganno le stazioni radiogoniometriche italiane

4 – Posizione alle 20.00 dell’8 febbraio

5 – Posizione alle 05.10 del 9 febbraio

6 – Azione di fuoco condotta tra le 08.14 e le 08.45 del 9 febbraio

7 – Posizione alle 20.00 del 9 febbraio

8 – Posizione alle 14.00 del 10 febbraio

9 – Rientro a Gibilterra della “Forza H” nel pomeriggio dell’11 febbraio 1941

Innanzitutto, le strutture industriali della città ne facevano un obiettivo di grande importanza dal punto di vista economico, militare e psicologico; le difese costiere di Genova risultavano di entità poco temibile e – in ultimo - i grandi fondali del Golfo Ligure, fin sotto la costa, avrebbero permesso alle navi di avvicinarsi a distanza utile di tiro, senza correre il rischio di incappare in campi minati.

La presenza a Genova di due corazzate italiane fu nota a Gibilterra solamente alla fine di gennaio (anche se, come abbiamo visto, dall’inizio di febbraio nel porto ligure si trovava il solo Duilio) e – a differenza di quanto affermato nel dopoguerra anche da una certa memorialistica britannica – non costituì l’elemento principale nella pianificazione di un’azione dalle preminenti valenze emozionali e strategiche, compresa una “dimostrazione di forza” nei confronti della Spagna franchista, allo scopo di farne perseverare la politica di neutralità.


La nave da battaglia Malaya nel 1931/32, probabilmente a Gibilterra, successivamente ai lavori di radicale ricostruzione svoltisi presso l’Arsenale di Portsmouth tra il settembre 1927 e il febbraio 1929.  Oltre al miglioramento della protezione e dell’apparato motore, una modifica estetica molto importante riguardò gli scarichi delle caldaie, riuniti in un unico fumaiolo di grandi dimensioni che rimpiazzò i due originari.  La Malaya è verniciata con il grigio scuro delle unità appartenenti alla Home Fleet; sullo sfondo, un incrociatore pesante tipo “County” (a sinistra) e – a destra – l’incrociatore pesante York.  (Coll. M. Brescia)

La “Forza H”


La portaerei Ark Royal, in una fotografia risalente ai primi mesi della seconda guerra mondiale.  L’unità è sorvolata da alcuni aerosiluranti Fairey “Swordfish” che – sebbene antiquati e dalle prestazioni non certo eccezionali – giocarono un ruolo fondamentale nell’attacco contro la base navale di Taranto (notte sul 12 novembre 1940), e nelle operazioni che portarono all’affondamento, in Atlantico, della corazzata tedesca Bismarck (maggio 1941).  (Coll. M. Brescia)

Durante la seconda guerra mondiale, e non soltanto per quanto riguarda il teatro del Mediterraneo, la Royal Navy identificò spesso i propri gruppi o “Forze” navali (“Forces”) secondo un metodo alfabetico.  Nel tempo, ad esempio, operarono la “Forza K” (da Malta), la “Forza Q”, la “Forza Z” (in Estremo Oriente), la “Forza A”, ecc.; la “Forza H” fu costituita a Gibilterra verso la fine di giugno del 1940 per colmare il “vuoto” navale venutosi a creare nel Mediterraneo occidentale in seguito all’armistizio tra la Francia e l’Asse.

Al vertice della “Forza H” fu destinato l’amm. Sir James Somerville al comando del quale, inizialmente, furono posti l’incrociatore da battaglia Hood, le corazzate Resolution e Valiant, la portaerei Ark Royal, incrociatori e cacciatorpediniere, tutte unità trasferite dalla Home Fleet.

Ancorché di base a Gibilterra (sede di un Comando Superiore navale), la “Forza H” era un reparto autonomo, e l’amm. Somerville dipendeva direttamente dall’Ammiragliato di Londra; questa peculiare situazione era dovuta alla natura strategica della “Forza H” che – per la particolare posizione di Gibilterra – poteva essere chiamata ad operare flessibilmente, come in effetti avvenne, tanto in Atlantico quanto nel Mediterraneo.

Una delle prime uscite operative della “Forza H” fu l’azione contro le navi francesi a Mers-el-Kebir (3/6 luglio 1940) (17).  Unità della “Forza H”, che avevano nel frattempo sostituito parte di quelle originarie,  furono presenti alla battaglia di Capo Teulada (27 novembre 1940), al bombardamento navale di Genova e alla ricerca della Bismarck (maggio 1941), andando inoltre a costituire la scorta di numerosi convogli in Atlantico e nel Mediterraneo tra il 1941 e il 1942.

La “Forza H” operò attivamente nel corso degli sbarchi in Nord Africa del novembre 1942 (operazione “Torch”) e degli sbarchi in Sicilia e a Salerno dell’estate 1943 (operazioni “Husky” e “Avalanche”).  Poco dopo l’armistizio fra l’Italia e gli alleati, venuta a cessare la minaccia costituita dalla flotta italiana, il Comando fu disciolto e le unità che ne facevano parte furono riassegnate alla Home Fleet ed alla Eastern Fleet della Royal Navy.

I preliminari e l’esecuzione di “Grog”

Un’immagine prebellica dell’incrociatore Sheffield, datata 24 giugno 1938, scattata a Portsmouth e proveniente dal noto archivio fotografico “Wright & Logan”.  Si noti la linea elegante – ancorché massiccia – dell’unità, con i due hangar razionalmente posizionati ai lati del fumaiolo prodiero.  Sui “Southampton”, per la prima volta a bordo di incrociatori britannici, l’armamento principale da 152 mm era sistemato in torri trinate.  (Foto Wright & Logan)

La nave da battaglia Vittorio Veneto, a bordo della quale imbarcò l’amm. Jachino durante l’infruttuosa ricerca delle unità inglesi che bombardarono Genova il 9 febbraio 1941.  Il Veneto è qui ripreso all’ormeggio alla boa, nel Mar Grande di Taranto, nella tarda estate del 1940.  (Coll. A. Fraccaroli)

Tra le unità facenti parte della ”Forza H” il 9 febbraio 1941 vi era anche il cacciatorpediniere Encounter, qui raffigurato nel luglio 1938, in uscita dalla base navale di Portsmouth.  Anche a distanza ravvicinata, soprattutto negli anni precedenti alla seconda guerra mondiale, era piuttosto difficile distinguere esternamente i caccia appartenenti alle classi dalla “A” alla “I”.  L’Encounter è verniciato con il grigio scuro delle unità facenti parte della “Home Fleet”.  (Foto Wright & Logan, g.c. Biblioteca “A. Maj”, Bergamo, Fondo “Occhini”)

L’ammiraglio Sir James Somerville a bordo del Renown

(D.S.O., K.C.B., K.B.E., G.C.B., G.B.E.)

Comandante della “Forza H” – luglio 1940 / marzo 1942

L’ammiraglio Sir James Somerville era preposto al comando della “Forza H” sin dalla sua costituzione nell’estate del 1940, e – a gennaio del 1941 – coordinò la pianificazione dell’operazione “Grog”, il bombardamento navale di Genova del 9 febbraio successivo.

James Somerville era nato a Weybridge, nel Surrey, il 17 luglio 1882; nel 1897 entrò a far parte – come cadetto – della Royal Navy raggiungendo, nel 1904, il grado di sottotenente di vascello.

Durante la prima guerra mondiale si specializzò nel campo delle radiotrasmissioni sino a diventare uno dei massimi esperti della Marina britannica in questa innovativa materia; capitano di fregata nel 1915, nel 1916 fu decorato con il Distinguished Service Order (D.S.O.) per il servizio prestato a Gallipoli e nei Dardanelli.

Nel 1921 giunse la promozione a capitano di vascello e – in questo grado – seguirono numerose destinazioni di servizio: direttore dell’Ufficio Segnalamenti dell’Ammiragliato, aiutante di bandiera dell’amm. John D. Kelly, istruttore all’Imperial Defence College e comandante dell’incrociatore HMS Norfolk.

Promosso commodoro nel 1932 e contrammiraglio (Vice Admiral) l’anno successivo, tra il 1935 e il 1938 fu il comandante delle Flottiglie ct. della Mediterranean Fleet.  Nel 1939, prima del suo ritiro dal servizio attivo (18), all’atto del quale fu decorato con la nomina a Cavaliere dell’Ordine del Bagno (K.C.B.), fu il C. in C. del settore navale delle Indie Orientali con il grado di ammiraglio di divisione (Rear Admiral).

Nel maggio del 1940 l’amm. Somerville fu richiamato in servizio, entrando inizialmente a far parte dello “staff” dell’amm. Bertram Ramsay che pianificò l’evacuazione del corpo di spedizione inglese da Dunkerque.  Successivamente – a luglio – con il grado di ammiraglio di squadra (Admiral) gli fu assegnato il comando della “Forza H”, appena costituita a Gibilterra.

In poco meno di due anni, Sir James Somerville portò più volte al combattimento la “Forza H”: Mers-el-Kebir (luglio 1940), Capo Teulada (novembre 1940), operazione “Excess” (rifornimento di Malta, gennaio 1941), bombardamento navale di Genova (febbraio 1941), caccia alla Bismarck (maggio 1941), operazione “Halberd” (un altro rifornimento di Malta, settembre 1941).  Per i risultati ottenuti, alla fine del 1941 fu decorato con il cavalierato dell’Ordine dell’Impero Britannico (K.B.E.).

A marzo del 1942 l’amm. Somerville passò al comando della Eastern Fleet della Royal Navy, la cui base principale si trovava a Trincomalee nell’isola di Ceylon: seguì un lungo periodo dedicato al rafforzamento delle strutture logistiche ed operative della Flotta seguito – tra marzo e luglio del 1944 – da numerose operazioni contro capisaldi giapponesi nella zona (Isole Cocos, Sabang, Soerabaya e Sumatra).

Ad agosto del 1944 fu rilevato al comando della Eastern Fleet dall’amm. Bruce Fraser e, nominato cavaliere di Gran Croce dell’Ordine del Bagno (G.C.B.), fu destinato a Washington con l’importante incarico di capo della Delegazione Navale inglese presso il Governo degli Stati Uniti.

A maggio del 1945 Sir James Somerville fu promosso al grado di “Admiral of the Fleet” e, al momento del suo definitivo congedo dal servizio (1946) ricevette il cavalierato di Gran Croce dell’Ordine dell’Impero Britannico (G.B.E.).

Ritiratosi a Dinder House (Wells) nel Somerset, morì il 19 marzo 1949.

I Preliminari e l’esecuzione di “GROG”

Malta, novembre 1937.  Un dettaglio della zona centrale di dritta della Malaya, recentemente rientrata in squadra dopo un periodo di lavori (ottobre 1934 / dicembre 1936) nel corso dei quali sono state imbarcate le sistemazioni aeronautiche ed è stato potenziato l’armamento antiaerei dell’unità.  Si notino, difatti, la catapulta trasversale e, ai lati del fumaiolo, gli hangar e l’impianto quadruplo per mg. da 40 mm tipo “pom-pom”. Sulla torre “B” è applicata la “fascia di neutralità” blu bianca e rossa che identificava le unità inglesi all’epoca della guerra civile spagnola.  (Foto Wright & Logan)

La “Forza H” (costituita dalla corazzata Malaya, dall’incrociatore da battaglia Renown, dall’incrociatore leggero Sheffield, dalla portaerei Ark Royal e da dieci cacciatorpediniere) lasciò Gibilterra il 31 gennaio 1941.  Il gruppo navale fece rotta a Sud delle Baleari, con il duplice obiettivo di un attacco alla diga del Tirso in Sardegna con bombardieri ed aerosiluranti (il mattino del 2 febbraio), e del bombardamento navale di Genova il giorno successivo.

Come previsto dal piano di operazioni, otto velivoli dell’Ark Royal attaccarono la diga del Tirso alle 08.00 del 2 febbraio (senza tuttavia conseguire risultati di rilievo), ma le condizioni meteo in forte peggioramento sconsigliarono il proseguimento della missione, e le unità britanniche – sempre transitando a Sud delle Baleari – fecero rientro a Gibilterra nella tarda serata del 3 febbraio.

L’Ammiragliato predispose, con partenza il 6 febbraio, la ripetizione della missione, denominandola  “Grog”, in accordo alla tradizione navale britannica che – durante la seconda guerra mondiale –  assegnava ad ogni operazione un nome in codice scelto tra un’onomastica quanto mai varia e differenziata (4).

L’operazione “Grog” fu studiata con modalità esecutive che ne garantissero quanto possibile la segretezza e, nella fattispecie, le unità della “Forza H” (le stesse che avevano preso parte all’azione contro la diga del Tirso) furono suddivise in tre gruppi, con finta partenza in ore diurne verso l’Atlantico, simulando la protezione di un convoglio diretto in Gran Bretagna che si stava riunendo a Gibilterra.  Tanto all’andata quanto al rientro era previsto il passaggio a Nord delle Baleari, con un itinerario del tutto nuovo e difficilmente presumibile da parte italiana; infine, il bombardamento navale di Genova avrebbe avuto la preminenza, con un attacco secondario degli aerei dell’Ark Royal sulla raffineria petrolifera di Livorno.

L’incrociatore da battaglia Renown nel 1919, poco dopo la fine della “Grande Guerra”.  Insieme al gemello Repulse furono le penultime unità di questo tipo immesse in servizio dalla Royal Navy: saranno seguite – nel 1920 – dall’HMS Hood, affondato dalla corazzata tedesca Bismarck a maggio del 1941.  (Coll. M. Brescia)


Un idro “Walrus” in decollo dalla catapulta di una nave britannica.


Una nota fotografia del Renown, datata 17 agosto 1943.  A fine mese, il primo ministro Winston Churchill e i più importanti capi militari britannici (reduci dalla conferenza di Quebec) imbarcheranno ad Halifax sul Renown, a bordo del quale rientreranno nel Regno Unito.  (Foto Imperial War Museum)

L’Ark Royal a marzo del 1939, in entrata a Portsmouth.  La struttura cilindrica in testa d’albero alloggia un radiofaro “Type 72” per la guida degli aerei imbarcati; I cavi delle antenne radio sono tesi tra gli alberi a traliccio posti ai lati del ponte di volo.  Tali strutture potevano essere abbattute verso l’esterno durante le operazioni di decollo e appontaggio dei velivoli.  (Foto Wright & Logan)

Il Duncan verso la metà del 1942, quando – ormai destinato in Atlantico – faceva parte del Western Approaches Command della Royal Navy.  Si notino le più significative modifiche apportate, nei primi anni di guerra, sui caccia di questo tipo: ribassamento del fumaiolo poppiero (per migliorare i campi di tiro delle armi antiaerei) e installazione di un radar per la scoperta di superficie tipo “271”, alloggiato nella struttura cilindrica che ha sostituito la d/t sul cielo della plancia. (Foto imperial War Museum A 20158, g.c. Biblioteca “A. Maj”, Bergamo, Fondo “Occhini”)

Le unità britanniche uscirono dalla base di Gibilterra nel pomeriggio del 6 febbraio 1941, apparentemente impegnate nella scorta di un convoglio effettivamente diretto in Inghilterra.

-       tra le 12.00 e le 14.00 lasciarono il porto i cacciatorpediniere del Gruppo 2: Fearless (capo squadriglia) (5), Foxhound, Foresight, Fury, Encounter e Jersey, che diressero verso levante come se avessero dovuto effettuare un’esercitazione  o un pattugliamento antisom

-       Alle 13.30 lasciò la rada il convoglio, composto da 16 mercantili e 9 siluranti, diretto in Inghilterra.

-       Alle 17.00 partirono il Renown, il Malaya, lo Sheffield e l’Ark Royal (Gruppo 1), insieme ai cacciatorpediniere del Gruppo 3 (Duncan, Isis, Firedrake e Jupiter).

I cacciatorpediniere del Gruppo 2, dopo aver effettuato una ricerca antisom nello stretto di Gibilterra, diressero verso il punto di riunione con le altre unità della “Forza H”, previsto a Nord di Maiorca per le 08.30 dell’8 febbraio.

Le unità dei Gruppi 1 e 3, una volta entrate in Atlantico, invertirono la rotta, ripassarono isolatamente lo stretto durante la notte e si riunirono circa 55 miglia a levante di Gibilterra verso le 04.00 del 7 febbraio.  Alle 19.25 dello stesso 7 febbraio accostarono verso Nord/Nord-Ovest per passare tra Ibiza e Maiorca riunendosi, nella mattinata dell’8 con il primo gruppo di ct.

I caccia Jupiter e Firedrake furono distaccati a levante di Maiorca con l’ordine di effettuare trasmissioni r.t. che, se intercettate e radiogonometrate, avrebbero potuto trarre in inganno i Comandi italiani sull’itinerario realmente seguito dalla “Forza H” (il che, peraltro, non avvenne).

Nelle prime ore dell’8 la “Forza H” accostò verso Nord-Est attraversando, con questa direttrice, il Golfo del Leone per trovarsi, alle 03.00 del 9 febbraio, una cinquantina di miglia a Sud di Hyeres.

Da qui, la rotta delle unità inglesi proseguì per 70° in modo da raggiungere, attorno alle 06.00, una zona a Sud-Ovest del punto medio della congiungente Capo Corso / Genova.

Alle 05.00 la portaerei Ark Royal (scortata dai ct. Duncan, Isis ed Encounter) iniziò a manovrare autonomamente e, alle 06.00 raggiunse un punto equidistante (70 miglia) dalla Spezia e da Livorno e procedette al lancio di 14 “Swordfish” che effettuarono il previsto bombardamento della raffineria di Livorno e il minamento degli accessi al Golfo della Spezia.

Il Renown, il Malaya e lo Sheffield, scortati dai cinque cacciatorpediniere residui, accostarono verso Nord in modo da trovarsi, alle 07.52, ad una dozzina di miglia a Sud del promontorio di Portofino.  Dopo aver fatto il punto, le navi ridussero la velocità a 18 nodi e accostarono per 290°.  Su questa rotta, tra le 08.14 e le 08.45 del 9 febbraio 1941, avvenne l’azione di fuoco: alcune variazioni di rotta fecero sì che il bombardamento iniziasse ad una distanza di 19.000 metri, terminando a 21.200 metri e passando per la distanza minima di 16.200 metri alla trentesima salva del Renown.

Contro Genova furono sparati 125 proietti da 381 mm e 400 da 114 mm dal Renown; la Malaya sparò 148 colpi da 381 mm (6), mentre 782 furono i proietti da 152 mm dello Sheffield.  In totale, circa 200 tonnellate di acciaio ed esplosivo si abbatterono sul capoluogo ligure.

Anche se, come già abbiamo avuto modo di rilevare, l’operazione “Grog” fu pianificata soprattutto con valenze strategiche riconducibili anche a situazioni di “guerra psicologica”, non va dimenticato che la città di Genova costituiva comunque una agglomerato rilevante di obiettivi molto importanti dal punto di vista portuale, cantieristico e industriale.

Innanzitutto lo stesso porto, da sempre fulcro dell’economia cittadina: alle calate ed agli accosti del “Porto Vecchio” e del “Bacino della Lanterna”, all’inizio degli anni Trenta era stato aggiunto il “Bacino di Sampierdarena”, protetto da una diga foranea di nuova costruzione e comprendente i Ponti Canepa, Libia, Somalia, Eritrea ed Etiopia.  Nel 1941, come del resto anche oggi, importanti installazioni nell’ambito portuale di levante erano costituite dai bacini nella zona del Molo Giano, dagli accosti petroliferi di Calata Canzio, e dalla centrale elettrica situata ai piedi della Lanterna.

A ponente della foce del Polcevera si trovavano l’area industriale ed i cantieri navali della Società Ansaldo anche se, abbastanza stranamente, questi ultimi non furono colpiti con continuità dal fuoco britannico.

Bombardamento navale di Genova (aree più scure: zone ove registrò una maggior concentrazione dei punti di caduta dei colpi britannici)

1 – Molo Principe Umberto (attuale “diga foranea”)

2 – Ponti Eritrea e Somalia

3- Ponte Parodi

4- Zona Bacini

5- Zona dell’Ospedale Galliera

6- Stazione Brignole

7- Stazione Principe

8- Zona industriale della Valpolcevera

9- Cantieri Navali Ansaldo

10- Batteria “Mameli”

Un’immagine rara ed eccezionale: il Renown, ripreso dall’interno del torrione di comando della corazzata Malaya, mentre apre il fuoco durante il bombardamento navale di Genova.  Si tratta, probabilmente, dell’unico documento fotografico raffigurante unità inglesi durante l’azione del 9 febbraio 1941.  La formazione era composta dal Renown (capofila e nave ammiraglia), seguito da Malaya e Sheffield, con due cacciatorpediniere di scorta sul lato dritto (verso terra) e tre su quello sinistro.  (Foto Imperial War Museum A4046, g.c. Biblioteca “A. Maj”, Bergamo, Fondo “Occhini”)

Uno “Swordfish” appartenente allo Squadron n° 818 e conservato in perfette condizioni di volo, ripreso recentemente in Inghilterra durante una manifestazione aerea.  Un “Walrus” e due “Swordfish”  osservarono e diressero il tiro delle navi britanniche durante il bombardamento navale di Genova.  (Archivio Fleet Air Arm)

Nelle ultime versioni Mk IV e Mk V il “Walrus” venne denominato “Seagull”; qui vediamo il Mk V conservato al museo della RAF a Hendon, nei pressi di Londra.  (Archivio Fleet Air Arm

Un  palazzo di Piazza Cavour colpito da un proietto da 381mm, in una foto scattata – probabilmente – nel primo pomeriggio del 9 febbraio 1941.  (g.c. Archivio !Il Secolo XIX”)

Infine, nella valle del Polcevera (tra Rivarolo e la foce del torrente) erano riunite numerose fabbriche, depositi petroliferi e di materiali, officine ed altre installazioni industriali che, di per se’, costituivano – dopo il porto – il gruppo di obiettivi più importanti dell’ambito genovese, e la concentrazione in una zona sostanzialmente ristretta di queste strutture facilitò sicuramente la conduzione e la direzione del tiro, contro di esse, da parte delle unità britanniche.

Poco meno del 50% dei proietti da 381 e 152 mm cadde in acqua; circa un terzo colpì la città, con particolare addensamento sulle zone del porto e della Val Polcevera.  I colpi da 114 mm del Renown furono invece diretti verso la zona del Molo Principe Umberto (7), ma la loro concentrazione nel breve periodo in cui il Renown si trovò a distanze intorno ai 16.000 metri (prossime alla gittata massima dei cannoni di questo calibro) impedì la corretta osservazione dei punti di caduta.

Il bombardamento non colpì obiettivi militari; in effetti, l’unico bersaglio di questo tipo era costituito dalla nave da battaglia Caio Duilio ai lavori nella zona bacini del porto, ma nessun proietto raggiunse questa unità.

I danni subiti dalle unità mercantili presenti in porto furono minimi.  Due colpi (di cui uno di grosso calibro) raggiunsero il piroscafo Salpi, che peraltro non affondò; un altro piroscafo – il Garibaldi – si trovava a secco in un bacino di carenaggio e riportò alcuni squarci nella carena; la nave scuola Garaventa (ex incrociatore-torpediniere Caprera del 1894), fu l’unica unità affondata durante il bombardamento navale.

In aggiunta alle industrie della Val Polcevera, nell’ambito portuale i proietti britannici raggiunsero soprattutto i ponti Somalia ed Eritrea, la darsena a levante di Ponte Parodi (attuale zona dell’Acquario), i Magazzini del Cotone e la zona dei bacini al Molo Giano.

Pressochè nulla la reazione delle difese costiere dell’area genovese, come ebbe modo di evidenziare anche l’amm. Somerville nella sua relazione sull’operazione “Grog” (8).

Un bombardamento effettuato in breve tempo, da una distanza non certo ravvicinata, e condotto più “per zone” che per obiettivi specifici non poteva non causare danni anche alle aree residenziali ed abitative della città.

Si dovettero registrare danni, anche gravi, in tutta la porzione del centro compresa tra la foce del Bisagno, la congiungente Brignole-Corvetto e la Stazione Principe;  anche Sampierdarena fu colpita, nella zona prospiciente l’attuale Lungomare Canepa.

Un proietto da 381 mm che colpì, senza esplodere, la cattedrale di San Lorenzo.  E’ tuttora conservato all’interno della chiesa, con a fianco una lapide commemorativa dell’evento.

Più nel dettaglio, subirono danni di varia natura la Cattedrale di S. Lorenzo, l’Ospedale Galliera e la Biblioteca “Berio”, Piazza Manin e Via Galata.  Circa 250 case furono distrutte, e tra la popolazione civile si dovettero registrare 144 morti, 272 feriti e circa 2.500 senzatetto.

Infine, come previsto dal piano britannico, gli aerei (soprattutto Fairey “Swordfish”) dell’Ark Royal attaccarono Livorno e La Spezia.  Nella città toscana fu colpita la locale raffineria petrolifera, ma due velivoli – per un errore di rotta – colpirono la stazione ferroviaria e l’aeroporto di Pisa.  I quattro aerei che attaccarono La Spezia sganciarono alcune mine nei pressi delle entrate del Golfo delimitate dai due estremi della diga foranea (9).

Terminata l’azione di fuoco, le navi inglesi diressero per 180° al fine di ricongiungersi con il gruppo dell’Ark Royal circa 35 miglia a Sud di Vesima.  Sin qui, i movimenti della “Forza H”  che – seguendo sostanzialmente la stessa rotta dell’andata ma passando a Nord di Ibiza – fece rientro a Gibilterra nel tardo pomeriggio dell’11 febbraio.

In precedenza, alle 10.15 del 10 febbraio, i ct. Jupiter e Firedrake – rimasti presso le Baleari – si erano riuniti alla squadra.

Tuttavia, l’uscita delle navi inglesi da Gibilterra il precedente 6 febbraio era stata subito comunicata a Roma dai nostri informatori nella zona (10), con l’esatta indicazione delle ore e dei nomi delle unità e, nonostante che le apparenze facessero prospettare una partenza verso l’Atlantico, Supermarina ritenne – correttamente – che durante la notte il grosso della “Forza H” avrebbe fatto rientro nel Mediterraneo.

L’Ufficio Piani e Operazioni di Supermarina diramò, pertanto, una serie di disposizioni che avrebbero consentito il dispiegamento di numerose unità per fronteggiare un’azione navale inglese, tanto rivolta a colpire obiettivi in Sardegna quanto, eventualmente, posti anche più a settentrione, nella zona del Mar Ligure.

Fu ordinata la partenza da Messina degli incrociatori della 3a Divisione (Trento, Trieste e Bolzano) agli ordini dell’amm. Sansonetti e le tre unità, scortate da altrettanti cacciatorpediniere, salparono alle 07.00 dell’8 febbraio.

La corazzata Andrea Doria a Trieste nel settembre 1940, al termine dei lavori di trasformazione svolti presso i Cantieri Riuniti dell'Adriatico.  (Foto E. Mioni, Trieste - collezione Maurizio Brescia.

Ancorché caratterizzato da un diverso disegno dello scafo e delle sovrastrutture, il Bolzano (qui fotografato alla fonda il 10 marzo 1938) replicava alcune caratteristiche negative dei “Trento”.  Costruito dopo gli “Zara” (sicuramente tra i migliori incrociatori tipo “Washington” realizzati dalle varie Marine nella prima metà degli anni Trenta), per via delle linee comunque eleganti ed armoniose fu definito, anche negli ambienti ufficiali, “un errore splendidamente riuscito”.  (Foto A. Fraccaroli)

Le volate dei pezzi da 320/44 delle torri prodiere della corazzata Andrea Doria, verso la metà del 1942. (Coll. M. Brescia.

Movimenti navali del 9 febbraio 1941

Linea puntinata: rotta della “Forza H” in allontanamento da Genova – Linea tratteggiata: rotta seguita dalla 3a Divisione in arrivo da Messina sino al punto di riunione con la 5a Divisione – Linea continua: rotta del gruppo navale italiano (5a Divisione dalla Spezia, 5a e 3a Divisione riunite a partire dal punto “2”) – Linea spezzata: rotta del convoglio francese.

1 – Uscita dalla Spezia delle corazzate della 5a Divisione (tardo pomeriggio dell’8 febbraio)

2 – Punto di riunione, a Nord dell’Asinara, tra le unità della 5a Divisione e quelle della 3a Divisione (ore 08.00 del 9 febbraio)

3 – Bombardamento navale di Genova, condotto dalla “Forza H” tra le 08.14 e le 08.45

4 – Lancio, tra le 08.55 e le 09.35, degli idroricognitori del Trento e del Bolzano, che effettueranno un’infruttuosa ricerca del nemico ad Ovest della Sardegna

5 – Posizione della squadra italiana alle 12.30; lancio dell’idroricognitore del Trieste che, volando verso Nord-Ovest, passerà a poche decine di miglia dalla “Forza H” senza avvistarla

6 – Ore 14.30: punto di minima distanza (30 miglia) tra le unità inglesi e quelle italiane

7 – Ore 15.50: identificato il convoglio dei mercantili francesi, le navi italiane accostano per 270° nel tentativo di raggiungere la “Forza H”, ma quest’ultima si trova ormai nel punto “8”, a Sud di Hyeres, ad una distanza troppo grande per essere interecettata

9 – Ore 19.00: le navi italiane dirigono per Est

Nella serata dello stesso giorno, le navi da battaglia Vittorio Veneto, Giulio Cesare e Andrea Doria della 5a Divisione (al comando dell’amm. Jachino, comandante superiore in mare)  lasciarono La Spezia scortate dai sette cacciatorpediniere della 10a e della 13a Squadriglia.

La Regia Aeronautica e il Comando Marina di Cagliari avevano nel frattempo predisposto, nel corso di tutta la giornata dell’8, una serie di ricognizioni aeree ad Ovest della Sardegna che – tuttavia – non consentirono l’individuazione della “Forza H” la quale, come abbiamo visto, si trovava in navigazione più a Nord.

In assenza di precise indicazioni sui movimenti della “Forza H”, le tre corazzate della 5a Divisione (uscite dalla Spezia) e gli incrociatori della 3a Divisione (provenienti da Messina) si riunirono – insieme a 10 cacciatorpediniere di scorta – a Nord dell’Asinara alle 08.00 del 9 febbraio 1941.

Ebbe inizio, a questo punto, una serie (sotto alcuni aspetti quasi incredibile) di avvenimenti, sfortunati ritardi e inconvenienti che – per i più svariati motivi – non rese possibile l’intercettazione della “Forza H” da parte delle unità italiane, precludendo così la possibilità di uno scontro che, vista la relatività delle forze in campo, avrebbe potuto avere esiti molto favorevoli per la Regia Marina.

Le ricognizioni aeree, innanzitutto, “coprirono” una zona posta più a Sud del Mar Ligure, nella presunzione che la “Forza H” si trovasse in mare per la protezione indiretta di un convoglio in navigazione tra Gibilterra a Malta (11).

Gli stessi idrovolanti del Trento e del Bolzano, lanciati tra le 08.55 e le 09.35 del 9 febbraio, effettuarono una ricognizione al largo della costa occidentale della Sardegna (ammarando poi a Cagliari al termine della missione), quindi completamente al di fuori della zona di operazioni delle navi inglesi.

Le prime notizie sulla presenza della “Forza H” davanti a Genova giunsero a Supermarina tra le 07.40 e le 08.32; alle 09.00 (quando il bombardamento era ormai cessato) il Comando del dipartimento della Spezia informò Roma che era in corso un’azione navale contro Genova.  Solamente alle 10.00 fu possibile far assumere rotta Nord al nostro gruppo navale (12) che – sino ad allora – aveva navigato verso ponente ritenendo, in assenza di informazioni, che le unità britanniche si trovassero ad Ovest della Sardegna.

Le navi italiane, giunte poco dopo le 13.00 a ponente della parte centrale della Corsica, accostarono per 30° (Nord/Nord-Est) in quanto alcune segnalazioni della ricognizione della Regia Aeronautica informavano sulla presenza di una portaerei e di altre unità maggiori nel Golfo Ligure indicando, peraltro, posizioni diverse (e nessuna delle quali sufficientemente precisa).

Ne consegue che i messaggi provenienti dalla Regia Aeronautica erano quanto mai contraddittori, e va inoltre considerato il fatto che i velivoli informavano via radio il proprio Comando il quale – a sua volta – “girava” il messaggio a Superaereo:  Superaereo informava quindi Supermarina che provvedeva, infine, a trasmettere l’informazione al Comando Superiore in mare.  Questo complesso giro di messaggi (per di più cifrati, talvolta sopracifrati, e da decrittare ad ogni passaggio) tra Forze Armate e Comandi diversi rendeva quindi intempestive le segnalazioni dei ricognitori.  Gli equipaggi dei velivoli, inoltre, non erano ancora stati addestrati per lo specifico compito della ricognizione marittima, manifestando di conseguenza gravi lacune nel riconoscimento delle unità (tanto nazionali quanto nemiche) e nel corretto apprezzamento dei loro elementi del moto (13).

Alcuni bombardieri Br.20, attorno alle 13.00, individuarono e attaccarono le navi inglesi (peraltro senza danneggiarle), ma l’amm. Jachino non fu informato tempestivamente di questa azione in quanto gli equipaggi degli apparecchi mantennero il silenzio radio ed informarono i propri Comandi solamente al rientro.  In precedenza (alle 11.40) un ricognitore CANT Z.506 della 287a Squadriglia aveva avvistato la “Forza H” una quarantina di miglia a Nord-Ovest di Capo Corso, ma era stato abbattuto subito dopo dalla caccia dell’Ark Royal e l’equipaggio, recuperato nel pomeriggio da una torpediniera, poté far pervenire un rapporto di scoperta solamente nella tarda serata, quando il gruppo navale dell’amm. Jachino non aveva più la possibilità di avvicinare le unità inglesi.

L’ultimo “colpo” a questa catena di manchevolezze, eventi negativi e sfortunate coincidenze fu assestato dalla presenza, in zona, di un convoglio mercantile francese diretto da Marsiglia a Biserta e la cui rotta lo avrebbe portato a passare a Nord e – successivamente – ad Est della Corsica.

Alle 15.24, una cinquantina di miglia a ponente di capo Corso, il Trieste avvistò le alberature delle navi da carico francesi e trasmise il segnale di scoperta alle altre unità italiane.  Lo scontro con la “Forza H” sembrava imminente, al punto che sul Veneto (ad una distanza di 32.000 metri) il Direttore del tiro diede l’ordine di caricare i pezzi dell’armamento principale.

Fu quindi grande la delusione degli equipaggi italiani quando – alle 15.48 – le unità francesi furono effettivamente identificate come tali (14): a nulla valse far accostare la squadra italiana per 270° dato che, a quell’ora, le navi britanniche, si trovavano ormai a grande distanza (molto al largo della costa francese, a Sud di Hyeres) e sarebbe stato impossibile raggiungerle, anche navigando alla massima velocità.

Alle 18.00 l’amm. Jachino diede ordine di assumere rotta Nord e, un’ora dopo, la squadra della Regia Marina diresse per Est riducendo la velocità.  Le navi italiane incrociarono nel Mar Ligure durante la notte; nel corso della mattinata del 10 febbraio, infine, Supermarina ordinò alle corazzate di far rotta su Napoli ed alla 3a Divisione di rientrare a Messina.

Si concluse così, con un “nulla di fatto”, una delle più limpide occasioni mai occorse alla Regia Marina, nel corso di tutto il conflitto, per dare battaglia alla Royal Navy in condizioni di netta superiorità.  Ai 14 pezzi da 381 mm e ai 24 da 152 mm (15) delle unità maggiori inglesi, si sarebbero difatti contrapposti 9 pezzi da 381 mm, 20 da 320 mm e 24 da 203 mm delle corazzate e degli incrociatori italiani; inoltre, considerati gli aspetti tattici dell’ipotetica azione di fuoco, la presenza dell’Ark Royal e dei suoi velivoli non sarebbe risultata – probabilmente – determinante.

Con il bombardamento navale di Genova del 9 febbraio 1941, la “Forza H” compì una delle più audaci azioni della guerra navale nel Mediterraneo, degna delle migliori tradizioni della Royal Navy.  Per le Forze Navali italiane si trattò, in buona sostanza, di una “occasione perduta” dovuta – in buona parte – alla scarsa cooperazione tra Marina e Aeronautica (per non parlare della mancanza di una vera e propria Aviazione di Marina), reale e più significativo “tallone d’Achille” di tutta la guerra navale italiana tra il 1940 e il 1943.

Tuttavia, va anche rilevato il comportamento non certo combattivo manifestato dalla squadra italiana, al di là delle giustificazioni addotte dall’amm. Jachino nel dopoguerra (19); tutto ciò quando erano ben note le critiche di scarsa propensione all’offensiva mosse da quest’ultimo al suo predecessore Campioni.  Peraltro, non bisogna disgiungere questi fatti dalle direttive che contraddistinsero tutta la nostra guerra navale, tese a preservare quanto più possibile l’integrità della squadra da battaglia – tanto per il mantenimento della “fleet in being” quanto essendo ben nota l’impossibilità di sostituire unità maggiori eventualmente perdute o anche solo danneggiate gravemente.

Forse, anche per questi motivi l’operazione “Grog” – a torto – è stata considerata, talvolta, un evento di secondo piano, ma ancora più rilevante sarebbe stato, nel breve, il prosieguo della contrapposizione tra la Regia Marina e la Royal Navy.

Poco meno di due mesi dopo, difatti, con rapporti di forza invertiti (e sulla base, va ricordato, di un’ “intelligence” nemica che aveva in “ULTRA” il suo punto focale) lo scontro di Matapan tra unità italiane e britanniche ebbe purtroppo esiti del tutto opposti, come testimoniato dal sacrificio dei 2.303 uomini del Pola, dello Zara, del Fiume, del Carducci e dell’Alfieri (16) che persero la vita nel corso di quel breve combattimento, nella notte tra il 28 e il 29 marzo 1941.

Maurizio Brescia

Vicepresidente Associazione Mare Nostrum

- L’articolo pubblicato sul n.161 (febbraio 2007) della rivista mensile “STORIA MILITARE” - (Albertelli Edizioni Speciali)

Note:

(1) Si veda: Hervieux, P.: Il bombardamento navale del 14 giugno 1940, in “STORIA Militare” n. 110 (novembre 2002)

(2) La Marina italiana si trovò infatti impegnata con direttrice Nord-Sud per il sostegno logistico del fronte libico, mentre l’attività della Marina britannica era indirizzata sul corso dei paralleli, con operazioni di rifornimento di Malta aventi come punti di partenza Alessandria o Gibilterra, e trasferimenti di unità navali tra queste due basi strategiche.

(3) Si veda: Bagnasco, E.: Perdita e recupero della R.N. Conte di Cavour, in “STORIA Militare” n. 26 (novembre 1995)

(4) Il “grog” è una sorta di “ponce” a base di rum, succo di limone ed acqua calda che a bordo delle navi britanniche – sino agli anni Settanta – costituiva uno dei generi di conforto più apprezzati dagli equipaggi.

(5) In effetti, il Fearless non era attrezzato come capo squadriglia (flotilla leader), ma come capo sezione (divisional leader).  Tuttavia, in mancanza di un’unità specificatamente equipaggiata per questo ruolo, operò come capo squadriglia nel corso dell’operazione “Grog”.

(6) Non è noto il numero dei colpi da 152 mm tirati dalla Malaya.

(7) Di fronte a Sampierdarena, ai giorni nostri semplicemente denominato “diga foranea”.

(8) “. . . Il solo contrasto incontrato dalle navi bombardanti fu quello del tiro di una batteria da 152 mm (si trattava della Batteria “Mameli”, posta sulle alture di Pegli – n.d.r.) e del tiro c.a. diretto contro il velivolo osservatore del tiro.  In entrambi i casi il tiro fu del tutto insufficiente.  Tuttavia, durante una parte del bombardamento, fu disposto che i due ct. posti dal lato della costa facessero fuoco, sia per controbattere il tiro da terra sia per mascherare la composizione della forza bombardante . . .”(da: Fioravanzo, G., Le azioni navali in Mediterraneo dal 10-VI-1940 al 31-III-1941, pagg. 361-363 – op. cit. in bibliografia). L’osservazione del tiro fu effettuata da un “Walrus” dello Sheffield e da due “Swordfish” in versione idro del Malaya e del Renown. Lo stesso Sheffield provvedette, al termine dell’azione di fuoco, al recupero del proprio velivolo nonché di quello del Malaya; lo “Swordfish” del Renown fu invece recuperato dalla portaerei Ark Royal. (Fonte: Macintyre, D., Fighting Admiral, pag. 111 – op. cit. in bibliografia). Il volume del Fioravanzo riporta invece che l’osservazione del tiro fu effettuata da uno “Swordfish” dell’Ark Royal che rientrò sulla portaerei al termine dell’azione di fuoco.  A sua volta, M.A. Bragadin (Il dramma della Marina Italiana – op.cit. in bibliografia, pag. 71) indica in tre il numero degli “Swordfish” della portaerei britannica che operarono su Genova durante il bombardamento. E’ tuttavia probabile che la storiografia italiana sia piuttosto imprecisa sull’argomento, dato che – all’epoca della pubblicazione – gli autori dei due volumi citati non avevano ancora potuto prendere visione della ricordata opera del Macintyre e di altra documentazione di fonte britannica.

(9) La maggior parte delle mine furono sganciate nei pressi dell’accesso di levante, anche se quello utilizzato all’epoca (come pure oggi) dalle unità in uscita era quello di ponente.  Tuttavia, come vedremo più avanti, per maggior sicurezza nell’attesa del dragaggio degli ordigni, al termine dell’infruttuosa ricerca del nemico fu ordinato alle tre corazzate di dirigersi su Napoli.

(10) Va ricordato che, per tutta la durata della guerra, nel territorio spagnolo confinante con Gibilterra fu attiva, con successo, una fitta rete di informatori e agenti della Regia Marina la cui opera – inoltre – fu particolarmente importante per il supporto di “intelligence” alle operazioni dei mezzi d’assalto italiani contro la base britannica. Si veda, in proposito: Pitacco, G.: La “X MAS” ad Algeciras e i mezzi “R”, in “STORIA Militare” n. 31 (aprile 1996).

(11) Una volta nota l’uscita della “Forza H” da Gibilterra, Supermarina allertò i corrispondenti comandi della R.A. e – tra l’8 e il 9 febbraio – consistenti gruppi di velivoli furono utilizzati per la ricerca delle unità britanniche. La Regia Aeronautica impiegò 32 idrovolanti della ricognizione marittima: 20 Cant Z. 501 e 12 trimotori Cant Z. 506; ad essi vanno aggiunti i tre idroricognitori Ro.43 lanciati dalle unità italiane durante l’infruttuosa ricerca del nemico. La Ia Squadra aerea (Comando a Milano) Impiegò nove bombardieri Br. 20 e 2 caccia; la IIIa Squadra aerea (Roma) utilizzò 15 bombardieri Cant Z. 1007, un apparecchio dello stesso tipo attrezzato come ricognitore e sette caccia. Il comando R.A. della Sardegna impiegò 30 bombardieri S.79 ed otto ricognitori (4 Cant Z. 506 e 4 S.79); a questi aerei vanno aggiunti due ricognitori S.79 della IIa Squadra aerea (Palermo). Il X° CAT (Corpo Aereo Tedesco), di base in Sicilia con Comando a Catania, impiegò – per l’occasione – 53 bombardieri, 14 ricognitori e 18 caccia che, nel corso delle operazioni, si appoggiarono  anche agli aeroporti della Sardegna.

(12) Con una certa tempestività, il Comando Marina di Genova segnalò a Supermarina l’inizio del bombardamento navale, ma l’informazione fu ricevuta a bordo del Veneto soltanto poco prima delle 10.00, quando le navi britanniche si stavano ormai allontanando dal Golfo di Genova.

(13) Sono purtroppo ben note le medesime manchevolezze che, a Punta Silo, portarono velivoli della R.A. ad attaccare unità navali nazionali, fortunatamente senza colpirle (è d’altro canto pensabile che il medesimo, scarso, risultato avrebbe potuto caratterizzare un attacco contro navi britanniche).

(14) La rotta del convoglio era nota alla commissione armistiziale italo-francese, ma – probabilmente per l’assenza di contatti diretti tra quest’ultima e Supermarina – il Comando superiore in mare non fu avvertito di questo importante elemento “perturbatore” dell’apprezzamento della situazione.

(15) Peraltro, è probabile che i 12 pezzi da 152 mm dell’armamento secondario della Malaya avrebbero avuto ben poche possibilità di essere utilizzati nel corso di un ipotetico scontro con le navi italiane.

(16) A queste vittime vanno aggiunti anche i tre caduti dell’Oriani, che – pur non affondando – ricevette alcuni colpi nella zona dell’apparato motore.

(17) Si veda, in proposito: Cernuschi, E., Mers-El-Kebir, 3 luglio 1940 (parti 1a e 2a), in “STORIA Militare” n. 80 e 81 (maggio e giugno 2000).

(18) Anche se per il “pensionamento” furono ufficialmente addotti motivi di salute, il collocamento a riposo fu forse dovuto anche ad un incidente “professionale” che, ad Aden, aveva visto l’HMS Norfolk, nave ammiraglia di Somerville, coinvolta in una collisione con una similare unità.

(19) Jachino, A.: Tramonto di una grande Marina (op. cit. in bibliografia)

Bibliografia

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Bragadin, M.A., Il dramma della Marina Italiana, Milano, Mondadori, 1982

Burt, R.A., British Battleships 1919-1939, Londra, Arms and Armour Press, 1993

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Cernuschi, E., Fuoco dal mare, supplemento alla “Rivista marittima”, maggio 2002

Clerici, C.A:, Le difese costiere italiane nelle due guerre mondiali, Parma, Albertelli Edizioni Speciali, 1996

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Fioravanzo, G., Le azioni navali in Mediterraneo dal 10-VI-1940 al 31-III-1941 (vol. IV della serie “La Marina Italiana nella seconda guerra mondiale), Roma, Uff. Storico della M.M., 1976

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Macintyre, D., Fighting Admiral, Londra, Evans Bros., 1961

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Rapallo, 28 Marzo 2014