USS CONSTITUTION - Una leggenda

 

USS CONSTITUTION

Una Leggenda

La USS Constitution, detta "Old Ironsides" è una fregata pesante a tre alberi, in legno, della United States Navy. Battezzata in omaggio alla Costituzione degli Stati Uniti d'America, è la più vecchia nave al mondo ancora galleggiante (la HMS Victory è più vecchia di trent'anni, ma è stata tirata permanentemente in secca).

La Constitution fu una delle sei fregate originali autorizzate alla costruzione dall'Atto Navale del 1794. Joshua Humphreys le progettò per essere le navi capitali della marina e quindi la Constitution e le sue sorelle furono più grandi e meglio armate delle fregate standard dell'epoca. Per un certo periodo alla Constitution venne assegnato il numero di classificazione di scafo IX-21 ("IX" significa "Miscellanea non classificata"), ma venne riclassificata "nessuna" il 1 settembre 1975

La Constitution abbatte l'albero di mezzana della Guerriere. La Constitution venne costruita nel cantiere navale di Edmund Hart a Boston, Massachusetts con assi di quercia virginiana spesse fino a 178 mm. Fu varata il 21 ottobre 1797 ed entrò in servizio il 22 luglio 1798. Il suo primo servizio fu il pattugliamento delle coste sudorientali degli Stati Uniti durante la guerra non dichiarata con la Francia del 1798-1800.

Nel 1803 venne designata come nave ammiraglia dello squadrone del mare Mediterraneo sotto il comando del capitano Edward Preble e servì nel corso della prima guerra barbaresca contro gli Stati barbareschi del Nordafrica che chiedevano il pagamento di tributi dagli Stati Uniti, in cambio del permesso dell'accesso delle navi mercantili ai porti mediterranei. Preble iniziò una campagna aggressiva contro Tripoli bloccando i porti e bombardando fortificazioni. Infine Tripoli, Tunisia e Algeria accettarono di firmare un trattato di pace.

La Constitution pattugliò la costa del Nordafrica per due anni dopo il termine della guerra, per far rispettare i termini del trattato.

Ritornò a Boston nel 1807 per due anni di raddobbi. La nave venne rimessa in servizio come nave ammiraglia dello squadrone del Nord Atlantico nel 1809 al comando del commodoro John Rodgers.

All'inizio del 1812 le relazioni con il Regno Unito si erano deteriorate e la Marina iniziò a prepararsi per la guerra che venne dichiarata il 20 giugno. Il capitano Isaac Hull che era stato nominato ufficiale comandante della Constitution nel 1810 prese il mare il 12 luglio per prevenire il blocco dei porti. La sua intenzione era di unirsi alle cinque navi dello squadrone di Rodgers.

Il 17 luglio la Constitution avvistò cinque navi al largo di Egg Harbor nel New Jersey. Il mattino seguente le vedette avevano determinato che si trattava di uno squadrone britannico che aveva a sua volta avvistato la Constitution e che si era messa al suo inseguimento. Trovandosi in bonaccia, Hull e il suo equipaggio misero in mare le barche per trainarla fuori tiro. Tonneggiando tenendosi sull'ancorotto (tecnica per trainare o far virare una nave usando l'ancorotto) e bagnando le vele per sfruttare ogni alito di vento la Constitution iniziò a guadagnare lentamente vantaggio contro i britannici. Dopo due giorni e due notti di incessante lavoro sfuggì infine ai suoi inseguitori.

Un mese più tardi, il 19 agosto incontrò la fregata HMS Guerriere al largo della Nuova Scozia e ingaggiò battaglia, riducendola dopo 20 minuti ad uno scafo privo d'alberi, così gravemente danneggiata da non valere la pena di essere trainata in porto. Hull usò efficacemente le sue bordate più pesanti e la superiore capacità di manovra della sua nave, mentre i britannici assistettero sgomenti alle loro bordate che rimbalzavano apparentemente senza effetto dalle fiancate della Constitution, che si guadagnò così il soprannome di Old Ironsides ("vecchia corazzata").

Nel dicembre, al comando di William Bainbridge, affrontò la HMS Java, un'altra fregata britannica. Dopo tre ore di scontro la Java era così danneggiata da essere irreparabile e venne data alle fiamme. Le vittorie della Constitution furono di grande sostegno al morale americano.

Nonostante abbia dovuto trascorrere molti mesi in porto, o a causa di riparazioni o a causa di blocchi navali, al comando di Charles Stewart la Constitution catturò altre otto navi prima della dichiarazione della pace nel 1815, inclusi una fregata ed uno sloop britannici che navigavano insieme e che combatté simultaneamente. Dopo sei anni di estensive riparazioni ritornò in servizio come nave ammiraglia dello squadrone del Mediterraneo. Ritornò in porto a Boston nel 1828.

Nel 1830 venne giudicata non in grado di navigare, ma l'indignazione pubblica alla raccomandazione che venisse smantellata (specialmente dopo la pubblicazione del poema Old Ironsides di Oliver Wendell Holmes), spinse il congresso a decidere di ricostruirla e nel 1835 rientrò in servizio. Servì come nave ammiraglia nel Mediterraneo e nel Sud Pacifico e compì un viaggio di 30 mesi intorno al mondo nel marzo 1844.

Negli anni 1850 pattugliò la costa africana in cerca di schiavisti e durante la Guerra di secessione americana servì come nave scuola per gli allievi dell'Accademia navale.

Dopo un altro periodo di ricostruzioni, nel 1871 trasportò beni per l'Esposizione Universale di Parigi del 1877 e servì nuovamente come nave scuola. Venne ritirata dal servizio nel 1882 e servì come nave ricevimenti a Portsmouth nel New Hampshire. Ritornò a Boston per celebrare il suo centennale nel 1897.

Nel 1905 l'opinione popolare la salvò nuovamente dalla demolizione; nel 1925 venne restaurata grazie alle donazioni di scuole e gruppi patriottici. Rimessa in servizio il 1 luglio 1931 venne trainata in un tour di 90 città portuali lungo la costa atlantica e pacifica degli Stati Uniti. Dal 1920 al 1923 venne rinominata Old Constitution, per liberare il suo nome per un nuovo incrociatore da battaglia in corso di costruzione, ma che non venne mai completato.

Più di 4.600.000 persone la visitarono durante il suo viaggio durato tre anni. Essendo ormai un'icona americana ritornò al suo porto di Boston. Nel 1941 venne messa in servizio permanente e nel 1954 un atto del Congresso rese il Segretario della Marina responsabile del suo mantenimento. Attualmente è ancorata nel vecchio cantiere navale di Charlestown a Boston. È aperta al pubblico per visite (per maggiori informazioni vedi il sito indicato sotto).

Dal 1992 al 1995 venne raddobbata e revisionata e riportata alla piena capacità di navigare. La revisione fu molto meno intensiva di quella della Constellation, dato che la Constitution era in forma migliore.

Il 21 luglio 1997 durante le celebrazioni per il suo duecentesimo compleanno la Constitution riprese il mare per la prima volta in oltre un secolo. Venne trainata dal suo ormeggio fino a Marblehead, quindi innalzò sei vele (fiocchi, vele di gabbia e driver) e si mosse senza assistenza per un'ora sparando 21 salve.

Ormeggiata a Boston, il ruolo moderno della Constitution è quello di "nave di Stato". Incaricata di promuovere la marina, viene visitata annualmente da milioni di visitatori. Il suo equipaggio di 55 marinai partecipa a cerimonie, programmi educativi ed eventi speciali, mantenendo la nave aperta la pubblico ed organizzando giri guidati. È ancora un vascello in servizio attivo della US Navy. L'equipaggio è composto da marinai in servizio attivo e l'assegnamento a questa nave viene considerato un incarico speciale nella marina. Tradizionalmente il titolo di capitano viene assegnato ad un capitano in servizio attivo della marina.

Caratteristiche e armamento

Dislocamento: 2.250 ton

Lunghezza: 204 piedi, 175 al galleggiamento

Larghezza: 43 piedi e 6 pollici

Pescaggio: 19 piedi e 2 pollici di prua, 22 piedi e 9 pollici di poppa

Alberi: Maestra 220 piedi, Trinchetta 198, Mezzana 172 e 6 pollici,

Superfice velica: 3967,89 mq con 36 vele; 1135,74 mq con 6 vele nel 1997

Equipaggio: nel 1797 – 23 ufficiali, 273 marinai, 60 marines nel 1821 – 40 ufficiali, 395 marinai, 60 marines

Disegnatore: Joshua Humphreys

Costruttore: George Claghorne

Costruita a: Hartt Shipyard, Boston, Massachusetts

Varata: 21 ottobre 1797 alle 12,15

Prima navigazione: 22 luglio 1798 alle 20,00

Velocità: Record per 1 ora – 14.0 nodi. Record in 24 ore – 10.3 nodi.

Record in 72 ore – 9.2 nodi

Armamento: 1798 – 30 cannoni da 24 libbre, 16 da 18 libbre e 14 da 12 libbre 1812 – 30 cannoni da 24 libbre, 1 da 18 libbre, 24 carronate da 32 libbre

Date essenziali

21 ottobre 1797 varo della USS Constitution al cantiere Edmond Hartt’s Shipyard di Boston;

Agosto 1798 in azione nella “Quasi guerra” con la Francia; 1803–1806 nave ammiraglia della flotta del Mediterraneo nella guerra contro Tripoli;

18 agosto 1812 vittoria contro la HMS Guerrière da cui il soprannome Old Ironsides;

29 dicembre 1812 battaglia contro la fregata Java e altri cinque vascelli inglesi;

Marzo 1844 viaggio intorno al mondo, della durata di 30 mesi; 1931-1934 viaggio che la conduce a toccare 90 città statunitensi e ritorno a Boston;

1996-1997 sottoposta a un restauro della durata di 44 mesi, con uscita in mare nel luglio 1997;

21 ottobre 1997 compie 200 anni.

ENTRATA IN BACINO USS CONSTITUTION

La nave USS Constitution è entrata martedì scorso nel bacino della CHARLESTON NAVY YARD BOSTON NATIONAL HISTORICAL PARK per un programmato lavoro di restauro del costo di diversi milioni di dollari. La USS Constitution è la più vecchia al mondo tra le navi militari tuttora in servizio. Essa è stata consegnata alla US NAVY  il  21 ottobre 1797. Tuttavia dal 1907 la nave è stata utilizzata come simbolo per preservare la storia della Marina Americana. Il restauro prevede un costo tra i 12 e 15 milioni di dollari, durerà più di due anni e sarà la prima volta che la Constitution viene tirata in secco dal 1992. Il lavoro prevederà: la sostituzione della parte inferiore  del fasciame della carena;  la rimozione delle 1995 piastre di rame sostituendole con 3400 fogli di rame nuovo che proteggeranno lo scafo sotto la linea di galleggiamento;  la sostituzione dei bagli della coperta; la manutenzione ed eventuale sostituzione della parte superiore degli alberi e del sartiame.  Durante il periodo di carenaggio la nave resterà aperta alle visite del pubblico.

ALBUM FOTOGRAFICO




Testo a cura di CARLO GATTI

Album fotografico

A cura di PINO SORIO

Rapallo, 22 Maggio 2015



LUSITANIA, affondava 100 anni fa.

 

Cento Anni fa

AFFONDAVA IL LUSITANIA

E L'AMERICA ENTRO' NELLA PRIMA GUERRA MONDIALE

Il 7 maggio del 1915, l'U-boot U-20 tedesco affondò il transatlantico inglese RMS Lusitania (Cunard Line) presso la costa irlandese. Delle 1.195 vittime, 123 erano civili americani. Nessuna tragedia dei mari e nessun episodio di guerra navale ebbero mai una risonanza e delle conseguenze mondiali per l’intera umanità. Intorno alla fine di questo transatlantico, enorme e lussuoso, chiamato "il levriere dei mari", divamparono le polemiche e si addensarono i misteri. Questo evento fece rivolgere l'opinione pubblica americana contro la Germania, e fu uno dei fattori principali dell'entrata in guerra degli Stati Uniti a fianco degli alleati durante la Grande Guerra, intervento che fu decisivo per la sconfitta della Germania.

L’avviso premonitore che non fu ascoltato...

Nel 1915 la Germania aveva disposto un blocco navale attorno alle coste del paese nemico: la Gran Bretagna. Gli Stati Uniti, all'epoca, erano neutrali e mentre il Lusitania era ormeggiato nel porto di New York, nell’attesa di partire per l’ultimo viaggio, l'ambasciata tedesca fece pubblicare il seguente avviso sulla stampa statunitense:

«Ai viaggiatori che intendono intraprendere la traversata atlantica si ricorda che tra la Germania e la Gran Bretagna esiste uno Stato di guerra. Si ricorda che la zona di guerra comprende le acque adiacenti alla Gran Bretagna e che, in conformità di un preavviso formale da parte del Governo Tedesco, le imbarcazioni battenti la bandiera della Gran Bretagna o di uno qualsiasi dei suoi alleati sono passabili di distruzione una volta entrati in quelle stesse acque.»

Rimase celebre la risposta del Comandante Turner: “Questa é la più bella battuta che abbia sentito da anni”.

Alle 12,30 del mattino del 1° maggio 1915, il transatlantico Lusitania, orgoglio della marina civile inglese, lasciò il Pier 54 di New York con a bordo milletrecento passeggeri, di cui centocinquantanove americani che, si disse allora, fossero una “garanzia” contro un attacco tedesco. Nulla di più erroneo.

Mentre la Lusitania salpava per l’Inghilterra, il sottomarino U-20 lasciava la base in Germania per la sua più celebre missione. Le due rotte erano destinate ad incontrarsi.

Soltanto un sottomarino doveva colpire il bersaglio, benché gli ordini diramati dalla Kriegsmarine prevedevano la presenza di numerosi U-Boot in agguato in prossimità dei porti britannici e lungo le rotte più battute dell’Atlantico e del Mare del Nord.

Un certo numero di mercantili britannici erano già stati affondati dagli U-Boot, tuttavia, l’annuncio germanico apparso sulla stampa non produsse particolare effetto. Era diffusa la convinzione che nessuna nazione civile avrebbe agito piratescamente contro una nave di linea e che, soprattutto, la Germania non avrebbe corso il rischio di provocare l’intervento in guerra degli Stati Uniti.

Il Comandante inglese Turner

Con questi ottimistici pensieri i passeggeri americani e inglesi, sfidando il destino della nave, mantennero le loro prenotazioni e partirono per l’Inghilterra. Pur non viaggiando alla massima velocità di crociera, il transatlantico si avvicinò rapidamente alle acque europee con calma piatta. All’alba del 7 maggio il comandante Turner del Lusitania, pur sentendo il profumo di casa, era molto teso, ma anche deluso dall’assenza di navi militari di sua Maestà durante l’atterraggio verso l’Europa, come gli era stato promesso alla partenza. I sottomarini tedeschi operativi in quel settore, tra cui l’U-20, conoscevano esattamente la rotta del Lusitania, ma ci fu un imprevisto: giunto in prossimità della costa alle 11 del mattino, la nave incappò in un banco di nebbia che la costrinse a diminuire la velocità a 18 nodi, ma anche a farsi scudo dalle insidie del nemico. A dire il vero, l’Ammiragliato Inglese non si fece vivo con le navi militari di copertura promesse, ma lo fece con un messaggio crittografico con cui si rendeva nota la presenza nella zona di un sottomarino tedesco. Poche ore dopo un altro messaggio raggiunse il Capitano segnalando nuovamente la presenza di un sottomarino. Cap. Turner ritenne di essere ancora lontano dalla zona di agguato dell’U-Boot e, superato l’Hold Head of Kinsale, si preparò a raggiungere rapidamente Liverpool senza prendere particolari precauzioni.

Nello stesso tempo, il comandante del sottomarino tedesco U-20 Walther Schwieger, in agguato proprio nella zona del Kinsale (Mare Celtico), avvistò una nave che procedeva alla velocità di 22 nodi, aveva quattro fumaioli e non poteva che essere il Lusitania, indicata nell’annuario navale come mercantile armato. L’U-Boot modificò la propria rotta per intercettare la nave ed attaccarla.

Alle 14,10 di venerdì 7 maggio 1915, un siluro lanciato dall’U-Boot 20 colpì senza preavviso il Lusitania e quasi subito si udirono due forti esplosioni in successione. Il transatlantico sbandò sulla dritta ingavonandosi di prora. Con questo assetto innaturale e precario proseguì la sua corsa per un breve tratto con le macchine ancora in moto. L’equipaggio, malgrado la confusione provocata dal terrore e dalla disperazione dei passeggeri presenti a bordo, lanciò l’S.O.S e fece il possibile per ammainare le scialuppe di salvataggio ma, nel corso della difficile operazione, parte di queste si capovolsero. Dopo circa 18 minuti il Lusitania s’inabissò di prora.

La poppa del transatlantico emerse per qualche istante sopra il livello del mare, quindi scomparve in un gorgo immenso nel quale, fra rottami e cadaveri, si dibatteva qualche sventurato.

462 passeggeri e 302 marinai furono i superstiti, per un totale di 764 rimasti miracolosamente sulle scialuppe, mentre le vittime inermi ed innocenti del disastro furono 1200. Tra i 123 cittadini americani deceduti, perse la vita il famoso filantropico Alfredo Vanderbilt affogato dopo aver cercato di trarre in salvo molti bambini presenti a bordo. Le operazioni di salvataggio e di recupero dei superstiti iniziarono con l’invio di navi da guerra e civili non appena la richiesta di soccorso del Lusitania fu ricevuta dall’Ammiragliato. Nella giornata successiva un altro gruppo di unità navali fu inviato per il ritrovamento ed il successivo trasporto a terra delle salme dei deceduti. L’U-20 riuscì a rientrare alla sua base senza aver subito danni. Il comandante dell’U-Boot tedesco Walther von Schwieger racconto: Il bastimento stava affondando con velocità incredibile. Il terrore regnava in coperta. Le imbarcazioni gremite, quasi strappate dalle loro gruette, piombavano in mare... Uomini e donne saltavano nell' acqua e cercavano di raggiungere a nuoto le imbarcazioni capovolte... Non potevo prestare nessun aiuto. Tutt' al più avrei potuto salvare una dozzina di tutta quella gente... Quella vista era troppo atroce: ordinai che ci immergessimo e ce ne andammo via”. Quelle rivelazioni sulle colpe tedesche squalificarono Berlino agli occhi del mondo.

Alle attività di soccorso seguì un’inchiesta per accertare la dinamica dell’affondamento nonché eventuali responsabilità del capitano Turner, sopravvissuto e salvato dopo aver passato più di tre ore in acqua. Secondo la successiva versione dell’ammiragliato britannico, il Lusitania sarebbe stato colpito a 14 miglia al largo della costa irlandese da due siluri. Molti testimoni confermarono la duplicità delle esplosioni, ma dalla lettura del diario di bordo dell’U-20, considerato attendibile e non contraffatto, emerse che il siluro lanciato fu uno solo. Secondo alcune ipotesi, la seconda deflagrazione che provocò come diretta conseguenza il rapido inabissamento del piroscafo fu dovuta allo scoppio successivo e quasi contemporaneo di circa 5.000 proiettili di artiglieria immagazzinati di contrabbando nelle stive della nave.

L’annuncio della perdita del Lusitania giunto sia a Londra sia a New York, produsse orrore, cordoglio ed indignazione impegnando con le notizie del disastro le prime pagine dei giornali. Accuse durissime furono lanciate dall’opinione pubblica contro la Germania per il fatto di aver affondato senza alcun preavviso una nave civile totalmente indifesa e per essere conseguentemente responsabile di una condotta bellica barbara e senza scrupoli umanitari.

La Germania, malgrado le critiche ed il biasimo internazionale, celebrò invece l’avvenimento come una grande vittoria. “La notizia – scrisse la Kolnische Zeitung – sarà appresa dal popolo tedesco con unanime soddisfazione, giacché dimostra all’Inghilterra ed al mondo intero che la Germania é decisa a fare la guerra sottomarina sul serio”. La Kolnische Volkszeitung – giornale cattolico e nazionalista molto diffuso commentò il fatto scrivendo: “Con orgogliosa gioia ammiriamo questa gesta della nostra Marina e non sarà l’ultima”. Furono aperte sottoscrizioni per premiare l’eroico equipaggio e coniata una medaglia commemorativa per ricordare ai posteri l’affondamento del transatlantico.

Indipendentemente dai risultati delle inchieste, dato il coinvolgimento di entrambi i paesi estensori delle conclusioni che ne derivarono, sulla realtà oggettiva dell’accaduto continuarono a permanere dubbi. Si accesero polemiche mentre furono formulate accuse contro l’Ammiragliato britannico giudicato responsabile del mancato invio di navi di scorta al Lusitania almeno nel tratto di mare considerato zona di guerra e nel quale si trovavano, come peraltro noto all’Ammiragliato stesso, U-Boot in attività.

In seguito all'attacco, tuttavia, gli Stati Uniti non entrarono subito in guerra, ma chiesero in maniera decisa la fine degli attacchi U-Boot nell'Atlantico; richiesta alla quale la Germania acconsentì non senza proteste. Dopo alcuni mesi di guerra la Germania - ormai sull'orlo della rovina - riprese gli assalti condotti con sottomarini alle navi in transito nell'Atlantico nel tentativo di ridurre i rifornimenti degli Alleati; ciò pose fine alla neutralità degli Stati Uniti.

Non molti anni fa, un gruppo di sommozzatori ispezionò il relitto del Lusitania e dichiarò: “.... si ritiene che nella stiva del Lusitania giacciano circa quattro milioni di proiettili Remington 303 fabbricati negli Stati Uniti, a una profondità di circa 100 metri”.

Il mondo é passato nel duplice guado di due guerre mondiali, ma il caso LUSITANIA continua a far parlare dei suoi irrisolti misteri.


Carlo GATTI

Rapallo, 4 Maggio 2015




STRETTO DI MAGELLANO

STRETTO DI MAGELLANO

Il diario di viaggio di Luis Sepulveda in Patagonia e nella Tierra del Fuego così ricco di riflessioni, racconti, leggende e incontri che s'intrecciano nel maestoso scenario del Sud del mondo, rispecchia oggi la sintesi dei desideri di molti turisti occidentali che guardano laggiù, dove l'avventura non solo è ancora possibile, ma è la più elementare forma di vita.

Estrecho de Magellanes é la scritta blu che disegna la via d’acqua nella zona centrale della carta (color ocra).

Lo Stretto di Magellano é un canale naturale che separa l'estremità meridionale dell'America Latina dalla Terra del Fuoco e dalle Isole Dawson, Clarence, Santa Inés e Desolación. Lungo circa 600 km, è molto tortuoso. L'entrata, tra il Capo Dungeness e la Punta Catalina, è larga ca. 30 km; a Capo Forward comincia la seconda sezione, con coste ripide, incise da fiordi. L'uscita principale sul Pacifico è a Nord dell'isola Desolación. Le coste hanno scarsi approdi. Lo Stretto appartiene al Cile e prende il nome dal suo scopritore.

Un po’ di Storia

Sulla fine del secolo XV, i portoghesi scoprirono il Capo di Buona Speranza, aprendo in questo modo, la prima rotta marittima verso EST  (Asia e Oceania), fonte di ricchezze per il commercio europeo; tuttavia, un altro portoghese Ferdinando Magellano non riuscì a convincere il re del suo Paese di costruire una flotta per cercare un passaggio a Occidente, attraversando il continente americano per raggiungere l’Oriente. Sarà il re spagnolo Carlo V che nel 1518 accetterà la proposta di Magellano.

Ferdinando Magellano in un ritratto postumo (anonimo del XVI o XVII secolo)

Ferdinando Magellano (in latino: Ferdinandus Magellanus; in portoghese: Fernão de Magalhães; in spagnolo: Fernando de Magallanes); nacque a Sabrosa il 17 ottobre 1480 – Morì nell'isola di Mactan,il 27 aprile 1521 è stato un esploratore e navigatore portoghese . Intraprese, pur senza portarla a termine, perché ucciso nelle isole Molucche nel 1521, quella che sarebbe diventata la Prima Circumnavigazione del Globo al servizio della corona spagnola di Carlo V di Spagna. Partendo dall'Europa, fu il primo a raggiungere le Indie navigando per OVEST attraverso il passaggio che oggi porta il suo nome: Stretto di Magellano. La storia del suo viaggio è pervenuta tramite gli appunti di un suo uomo d'arme, il vicentino Antonio Pigafetta, che si adoperò per il resto della sua vita a mantenere viva la memoria di Magellano e della sua memorabile impresa.

Questo fu l’inizio del viaggio più straordinario nella storia dell’esplorazioni europee intorno al globo. Il 20 settembre 1519, la “Flotta delle Molucche” partì dal porto di Siviglia (Spagna), al comando del navigatore  Magellano per raggiungere le Isole Molucche (le leggendarie Isole delle Spezie) con ROTTA OVEST.  Il risultato principale fu il seguente: partirono con 5 navi e 265 uomini, ritornarono a Siviglia con una nave e 18 uomini. Quegli stessi uomini avevano realizzato la prima circumnavigazione del globo in 3 anni.

Dopo essere arrivati in Brasile, esplorarono minuziosamente il Rio de la Plata che però era solo un fiume... dopo di ché la flotta ripartí verso SUD alla ricerca di una vera via d’acqua che collegasse i due OCEANI. Il 1° Novembre 1520, la Spedizione entrò finalmente nello Stretto che fu subito battezzato: Stretto di Ognissanti e che solo in seguito fu rinominato: “Stretto di Magellano”. Le terre al Nord dello Stretto furono chiamate “Terre dei Patagoni” (Patagonia) e quelle al sud “Terra dei Fumi” (Tierra del Fuego). Ci vollero cinque settimane di navigazione difficile tra montagne, secche, fondali variabili, strettoie e venti ghiacciati, ma alla fine le tre navi superstiti si trovarono davanti un nuovo oceano che parve loro calmo, accogliente, invitante a tal punto da chiamarlo “Mare Pacifico”.

Magellano e i suoi uomini proseguirono per le Molucche, ma l’arrivo fu davvero tragico: durante uno scontro con gli indigeni, proprio il Capo della Spedizione Ferdinando Magellano perse la vita. Il suo pilota, Sebastian del Cano s’assunse il compito di riportare i resti della Flotta in Spagna dopo innumerevoli difficoltá, ma La rotta marittima verso OVEST era stata aperta dalla Spagna.

Altre spedizioni compiute tra il 1557 e 1559 portarono alla ribalta Juan Ladrillero che esplorò le nuove terre partendo da Valdivia (Cile). Ma fu il corsaro inglese Francis Drake che l’attraversó nel 1557-1578 aprendo un contenzioso con la Corona Spagnola e fu, in ogni caso, il primo a rendersi conto che la Terra del Fuoco era un’isola e non un continente che arrivava fino al Polo Sud e fu il secondo a circumnavigare il mondo.

Gli Spagnoli, allarmati dalla presenza degli Inglesi, decisero di colonizzare quei luoghi e nel Settembre 1581 affidarono a Sarmiento de Gamboa il comando della missione che salpò da Siviglia con 23 navi e 3 mila tra coloni e militari.

Un anno e mezzo durò quel viaggio, tra numerosi stenti, naufragi, malattie, sofferenze e morti; alla fine soltanto 5 navi e 500 persone arrivarono davanti all’imboccatura dello Stretto di Magellano. Nei pressi di Punta Dungenes (entrata dello Stretto) Sarmiento fondò una cittá chiamandola: Nome di Gesú e, più a sud, fondò la cittá  “Re Filippo” (60 km a Sud dell’attuale Punta Arenas).

Il tentativo di colonizzazione, purtroppo, si era nel frattempo trasformato in un disastro: i coloni e i soldati delle due cittá morirono letteralmente di fame e la Spagna dovette rinunciare per sempre alla colonizzazione dello Stretto di Magellano.

Il luogo sul quale era stata fondata la cittá di Re Filippo fu battezzata: “Port Famine” nome che perdura fino ai nostri giorni per ricordare il “Porto della Fame” e la sua inquietante storia.

UN PASSAGGIO CONSIDERATO ANCORA OGGI DIFFICILE

Per farci un’idea ancora più precisa circa le difficoltà cui sono sottoposti i naviganti in quel tratto di mare, riportiamo un interessante sintesi:

"Il percorso attraverso lo Stretto - scrive Angelo Solmi nel suo libro Gli esploratori del Pacifico (Novara, istituto Geografico De Agostini, 1985, pp. 75-76) - era considerato con timore, e spesso con terrore, dai marinai: i suoi interminabili 565 chilometri, le condizioni meteorologiche avverse, l'intrico degli angusti canali dalle rive anguste e scoscese, il pericolo delle secche, le correnti capricciose, le bufere inaspettate, gli ancoraggi malcerti, crearono intorno allo Stretto di Magellano una fama sinistra. I marinai - non a torto - lamentavano soprattutto che vi mancava la libertà di manovra del mare aperto. Queste terribili difficoltà furono confermate dal tentativo fatto, nel 1526-28, da una flotta guidata da Francisco de Loayasa e da El Cano, per ripetere l'impresa di Magellano; un tentativo così tragico che, oltre a Loayasa e a El Cano, morirono quasi tutti. Negli anni dal 1535 al 1550 sette spedizioni spagnole avevano cercato di compiere la traversata e su 17 velieri 12 erano stati respinti all'imbocco orientale, alcuni erano naufragati e uno solo, comandato da Alonso de Camargo, era riuscito a passare. Soltanto un uomo su cinque degli equipaggi delle navi aveva potuto salvarsi, e ne erano periti più di 1.000, forse 1.500.

"La situazione migliorò un poco dopo la metà del secolo; nel 1558 il capitano Juan Fernandez Ladrillero forzò lo stretto da ovest a est, dal Pacifico all'Atlantico, con una navigazione brillante e avventurosa sulla nave San Luis, partita dal Cile. Ladrillero tornò poi nel Cile riattraversando lo stretto e dimostrando, fra l'altro, che il percorso era possibile anche durante il gelido inverno antartico. Così le squallide rive del passaggio videro, verso la fine del Cinquecento, un certo numero di frequentatori, sia pur relativamente esiguo: ma va anche considerato che, a rendere meno difficile lo stretto, fu lo sviluppo della tecnica di navigazione, la maggior solidità delle navi e la più progredita esperienza marinaresca.

"Fra i più illustri navigatori che compirono la classica traversata furono Drake (1578) e Cavendish (1587), ossia il secondo e il terzo uomo che circumnavigarono il mondo, due anglosassoni. Ma prima che il secolo finisse, a contrastare il dominio marittimo spagnolo, portoghese e inglese, scesero in campo nuovi temibili avversari, gli Olandesi. (…)

"Furono olandesi il quarto e il quinto uomo che, seguendo la rotta di Magellano, circumnavigarono il mondo: Olivier van Noort (1598-1601) e Joris van Spilbergen (1614-17). Il primo dei due, partito da Amsterdam con tre navi, passò lo stretto fra il 25 novembre e l'inizio di febbraio del 1600, attraversò il Pacifico, poi l'Oceano Indiano e rientrò in patria per la via del Capo di Buona Speranza. Attraversando le Molucche, ancora dominate dai Portoghesi, van Noort si convinse che non sarebbe stato difficile scalzare il già vacillante impero coloniale lusitano. Quanto a Spilbergen, partito da Texel nell'agosto del 1614, percorse lo Stretto di Magellano nell'aprile 1615, esercitò una proficua attività piratesca sulle colonie spagnole d'America, attraversò anch'egli il Pacifico e giunse alle Molucche già in parte conquistate dai connazionali."

Tale, dunque, il contesto in cui matura il disegno di Pedro Sarmiento de Gamboa di fortificare lo Stretto di Magellano in modo da chiuderlo con una sorta di catenaccio che impedisse, per sempre, il ripetersi di devastanti incursioni come quella di Francis Drake contro le colonie spagnole sulla costa del Pacifico.

Durante i primi anni del secolo XVII, gli olandesi passavano diverse volte per lo Stretto, finché nel 1616 scoprirono la rotta del Cabo de Hornos. D’allora e durante quasi due secoli, le navi a vela di tutte le nazionalitá preferirono, per lo più, la rotta diretta tra gli oceani del Cabo de Hornos a quella dello Stretto di Magellano. Alcune spedizione scientifiche famose come quella del Commodoro Byron o di Bougainville, passarono per lo Stretto. Grazie alle imprese di esplorazioni idrografiche inglesi di Parker King e Fitz Roy (tra gli anni 1826 e 1834) si riuscì a ottenere Carte Nautiche molto precisa delle coste dello Stretto e degli arcipelaghi della Patagonia e della Terra del Fuoco.

Riproduzione della goletta Ancud (che reclamò per il Cile le terre australi) e scheletro di balena al locale museo.

Nel 1843, il Governo Cileno mandò il Comandante John Williams, a bordo della Goletta Ancud, a prendere possesso dello Stretto di Magellano e a fondare la Colonia di “Fuerte Bulnes” sulla punta Santa Ana vicino al tristemente noto “Porto della Fame”. Nel 1848, il nuovo governatore della nascente colonia, José de los Santos Mardones, abbandonò il Fuerte Bulnes per la mancanza di acqua dolce e il terreno inospite. Il Governatore fondò allora la Colonia di Punta Arenas (18 dicembre 1848) a 60 km. a Nord del luogo conosciuto fino allora come Sandy Point.

Al principio, la nuova colonia di Punta Arenas fu una specie di colonia penale, ma in seguito alcune comunità riuscirono a radicarsi sul territorio, sebbene nel 1851, un ammutinamento dei guardiani militari ridusse brutalmente la popolazione da 436 a 86 abitanti.

Il dinamismo dei suoi abitanti venne tuttavia affermandosi con lo sfruttamento di giacimenti carboniferi, con la vendita delle pelli di animali marini e l’estrazione del legno. La cittá rinacque grazie anche  ad un lento ma constante flusso migratorio di “cilotes” svizzeri, spagnoli, italiani, francesi ed altri, che animò e contribuì allo sviluppo della piccola ma prospera cittá che nel 1853 passò da 150 abitanti a 805, nel 1870 a 1095, nel 1898 a 7000.

Alla fine del secolo XIX lo Stretto di Magellano riprese la sua importanza, come principale via di navigazione tra gli Oceani Atlantico e Pacifico.

Punta Arenas si transformò in un porto cosmopolita, sede di ogni tipo di interscambi, affari e commercio. Dopo l’apertura del Canale di Panama (1914), lo Stretto perse, ovviamente, la sua importanza e questa situazione, in un certo senso, perdura fino ai giorni nostri, ma con qualche variante che induce all’ottimismo.

Nel 1877, con l’introduzione dell’allevamento di bestiame lanoso sulle due sponde dello Stretto, si sviluppò un intenso traffico cabotiero regionale e si stabilirono numerosi allevamenti di bestiame, generalmente sulle coste.

Ma fu la scoperta del petrolio, sia nella Terra del Fuego (1945), sia nelle acque dello Stretto, ad avviare un importante industria che si consolidò negli anni ’80 con lo sfruttamento di giacimenti di GAS  e la loro trasformazione in Metanolo. Queste attivitá animarono la vita nello Stretto di Magellano. Attualmente, circa 1500 navi all’anno percorrono lo Stretto e quasi un centinaio di navi da crociera arrivano ogni estate nelle città di Punta Arenas-Ushuaia e dintorni.

Nota Storica: 29 Gennaio 1865, una nave militare italiana passa per la prima volta lo Stretto di Magellano

Domenica - Parte da Genova la fregata a elica Principe Umberto al comando del capitano di vascello Guglielmo Acton con 103 guardiamarina per una campagna di istruzione nell’America meridionale con scalo nei principali porti dei versanti atlantico e pacifico, da Rio de Janeiro a Callao, con due attraversamenti dello Stretto di Magellano, i primi di una nave da guerra italiana.

Dal Libro:  IL MARE, AMORE E ODIO

dell'amico Cap. Sup. di L.C. ALVARO DEL PISTOIA

2015 - Edizioni Cinquemarzo Via Paladini 72 – Viareggio

(La nave chimichiera di 54.000 t. aveva scaricato in un porto cileno. N.d.r)

Riporto:

“Era l’inizio dell’inverno e la sera faceva fresco. In quei giorni ricevetti l’ordine di andare a caricare a Buenos Aires. Ovviamente passando per lo Stretto di Magellano. I piloti erano due, salirono alla partenza e dopo circa trentasei ore di navigazione in oceano entrammo nei fjordi per lo Stretto. La navigazione era molto interessante ed i piloti mi fecero vedere i ghiacciai dove le navi da crociera si avvicinano per far scendere i turisti a prendere il ghiaccio per metterlo nei bicchieri colmi di whisky e, per questa operazione pagavano circa mille dollari! Ah gli americani!! Avendo passato lo Stretto di Magellano la terza volta, mi fu conferito il diploma di “Magellano Strait Pilot”. Praticamente potevo passare lo Stretto da Punta Arenas ad Evangelista e viceversa (circa otto ore di navigazione) senza l’aiuto del pilota, un altro cimelio che si aggiungeva a tutti i miei certificati”.

Lo Stretto di Magellano, tagliando la “Tierra del Fuego”, consente di risparmiare circa 300 miglia nautiche, ma soprattutto  evita di affrontare in mare aperto le tempeste di Capo Horn. L'espressione Quaranta ruggenti (in inglese: Roaring Forties) è stata coniata dagli inglesi  all'epoca dei grandi velieri che passavano perCapo Horn.

Poiché la forza del vento aumenta procedendo verso sud, oltre il 50º parallelo gli stessi inglesi parlavano di Furious Fifties (che in italiano viene tradotto conCinquanta Urlanti). Con “Quaranta ruggenti e Cinquanta urlanti” vengono convenzionalmente indicate in marineria due fasce di Latitudini Australi caratterizzate da forti venti provenienti dal settore Ovest (predominanti), le quali si collocano rispettivamente tra il 40º e il 50º parallelo e tra il 50º e il 60º parallelo dell'emisfero meridionale. Tali venti hanno la stessa origine dei venti da ovestdell'emisfero settentrionale, ma la loro intensità è superiore di circa il 40 per cento: ciò è dovuto alla serie di intense depressioni che interessano queste zone, dovute all'incontro tra l'aria fredda dell'Antartide e l'aria calda proveniente dal centro degli oceani, inoltre questi venti sono amplificati dalla relativa scarsità di terre emerse nell'emisfero sud, cosicché soffiando sempre sul mare non incontrano mai terraferma che li potrebbe frenare.

Cartina geografica raffigurante l'area dei Quaranta ruggenti e dei Cinquanta urlanti

ALBUM FOTOGRAFICO

La vecchia Mappa dello Stretto di Magellano

La copia della VICTORIA la prima nave che attraversò lo Stretto

La spedizione di Magellano ed Elcano fu la prima Circumnavigazione del globo terrestre intrapresa tra il 10 agosto 1519 e il 6 settembre 1522 da una flotta di cinque navi capitanate dall'esploratore portoghese Magellano al servizio della Corona spagnola. Dopo la morte di Magellano nelle Filippine nell'aprile 1521 il comando della spedizione venne preso dall'esploratore spagnoloJuan Sebastiàn Elcano. Il viaggio si concluse con gravi perdite: ritornarono solo due navi, la prima (Victoria) nel 1522 e la seconda (Trinidad), che seguì una rotta diversa senza circumnavigare il globo, solo nel 1525. Dei 234 tra soldati e marinai che formavano l'equipaggio iniziale soltanto 36 si salvarono: 18 sulla Victoria e 5 sulla Trinidad, 13 finirono nelle carceri portoghesi nelleIsole di Capo Verde. La storia del viaggio è nota grazie agli appunti dell'uomo di fiducia (criado) di Magellano, il vicentino Antonio Pigafetta.

Foto satellitare dello Stretto di Magellano

Lo Stretto di Magellano è un percorso navigabile del Cile immediatamente a sud della massa continentale delSud America. Si può sostenere che lo stretto sia il più importante passaggio naturale tra l'Oceano Pacifico e l'Oceano Atlantico, ma è considerato una rotta difficile da percorrere a causa del clima inospitale e della strettezza del passaggio. Fino al completamento del Canale di Panama nel 1914, lo Stretto di Magellano era spesso l'unico modo sicuro di spostarsi tra l'Atlantico e il Pacifico. Protette dalla Terra del Fuoco a sud e dal continente sudamericano a nord, le navi lo attraversavano con relativo agio, evitando i pericoli del Canale di Drake. Il Canale o Passaggio di Drake è quel tratto relativamente stretto (800 km circa) di oceano che separa Capo Horn (la punta meridionale del Sud America) dall'Antartide , le cui acque sono notoriamente turbolente, e sono frequenti il ghiaccio e gli Iceberg. Fino al completamento del Canale di Panama, lo stretto era la seconda rotta più usata dalle navi che passavano dall'Atlantico al Pacifico (il Canale di Drake era la prima).

L'apertura orientale è l'ampia baia sul confine tra Cile e Argentina. Ad ovest, ci sono diversi punti di accesso dal Pacifico, anche se il più visibile qui è l'estensione di circa 200 km che va dall'Arcipelago della Regina Adelaide (al centro a sinistra) fino al cuore dello stretto (al centro in basso). Le isole e le montagne sono evidenziate dal bianco della neve, mentre le terre meno elevate a nord e a est ne sono libere.

Ferdinando Magellano divenne il primo europeo a navigare lo stretto nel 1520, durante il suo viaggio di circumnavigazione del globo. Poiché le navi di Magellano vi entrarono il 1º novembre, venne chiamato in origine Estrecho de Todos los Santos (Stretto dii Ognissanti).

Il 23 maggio 1843 il Cile prese possesso del canale, che rimane ancora sotto la sua sovranità. Sulla costa dello stretto si trovano la città di Punta Arenas e il villaggio di Poverni.

Questo passaggio venne attraversato dai primi esploratori Ferdinando Magellano, Francis Drake e Charles Darwin, tra gli altri. Anche i cercatori durante la corsa all'oro della California nel 1849 usarono questa rotta.

Punta Arenas-Cile

PUNTA ARENAS é la capitale della regione del Cile, conosciuta come Magellan e Il Cile Antartico. Fu fondata il 18 dicembre del 1848 con il nome di Punta Arenas. La città cambiò nome in Magellanes nel 1927 e poi ritornò al suo nome originale nel 1938. La sua posizione strategica nello Stretto di Magellano, crocevia di rotte commerciali, diede alla città grandi momenti prosperità, specialmente durante il Gold Rush in California. Tuttavia, la sua importanza decadde a partire dal 1914, anno dell’apertura del Canale di Panama, ma la sua prosperità ritornò a livelli eccellenti quando Punta Arenas diventò un centro molto importante per il traffico della lana. Oggigiorno, Punta Arenas vede intensificarsi il fenomeno del Turismo internazionale legato alle Navi da Crociera, di cui si parla all’inizio, il cui polo d’attrazione é l’avventura, il clima, la fauna, montagne altissime, panorami mozzafiato, ma soprattutto la curiosità culturale di trovarsi immersi in un mix di razze, di lingue e di tradizioni che si sono trasferite in Cile dalla vecchia Europa marinara e contadina, per cui ognuno può trovare in Cile qualcosa di sé.

Scorcio panoramico d’intensa bellezza - Cile

Lo stretto di Magellano all’alba

Lo Stretto di Magellano al tramonto


Carlo GATTI

Rapallo, 4 Maggio 2015

 

 


WINDJAMMER, il Canto del Cigno della Vela

WINDJAMMER

L’ultima tipologia di velieri commerciali.

 

 

Il Canto del Cigno della Vela

 

Nave a Palo HERZOGIN CECILIE

Nel 1849 avvenne un fatto epocale nella storia della marineria: per effetto della scoperta di ricchi giacimenti d’oro in California, si creò un flusso di emigranti, ricercatori d’oro appunto, che era disposto ad imbarcarsi su qualsiasi mezzo diretto a S.Francisco via Capo Horn; il Canale di Panama si inaugurerà soltanto nel 1914.

 

Nello stesso periodo gli americani “inventarono” il CLIPPER. Le flotte d’Europa volavano verso l’ovest e fu l’epoca di memorabili gare tra questi “levrieri dei mari”, di brillanti records ed exploits di Comandanti e costruttori che passarono alla storia per la loro abilità e coraggio. Da quel clima “sportivo” di competizioni nacquero anche le scommesse a livello planetario sui Clipper vincitori.

Si scoprì l’oro anche in Australia e giunse l’ora dello sfruttamento commerciale dell’Oceano Pacifico. I grandi velieri commerciali viaggiavano carichi di emigranti e si incrociavano senza sosta lungo la rotta del Capo di Buona Speranza. Le lunghe traversate spronavano i Cantieri Navali inglesi a creare un tipo di veliero adatto alle grandi rotte oceaniche.

 

Purtroppo, la caccia all’oro non durò molto e, di conseguenza, il flusso migratorio andò scemando, ma il salvataggio dei grandi velieri dal disarmo totale avvenne per opera del guano della costa cilena, il grano californiano, e l’esistenza in Australia di grandi territori da colonizzare. Inoltre, buoni noli erano considerati: il cotone indiano, il carbone inglese, il nitrato cileno (eccellente fertilizzante) e la carne secca della Nuova Zelanda che riempivano le stive dei grandi “carriers” (Windjammer), gli ultimi velieri commerciali che resistevano ancora alla concorrenza dei più lenti, ma certamente più economici mercantili a vapore.

 

Mentre la nave a vela in legno tramontava definitivamente, il suo posto veniva preso dal veliero in ferro prima, e poi da quella in acciaio. Con l’apertura del Canale di Suez nel 1869, il mondo della vela accusò un ulteriore colpaccio perché solo le navi a vapore potevano utilizzarlo evitando il periplo dell’Africa. Il lento ma costante progresso della nave a vapore ottenne in quegli anni il monopolio del trasporto passeggeri.

Nel 1890 solo il 10% del naviglio varato dai cantieri inglesi era privo di propulsore a vapore: il rimanente alberava imponenti fumaioli tra la persistente selva di alberi e sartiame.

La navigazione a vela, dopo cinquemila anni di universale pratica, veniva lentamente sconfitta dal nuovo mezzo meccanico. Già! Lentamente, perché la lotta fu aspra e durò ancora nel corso della Prima guerra mondiale, quando gli U-BOOT tedeschi ne fecero scempio con il cannone.

Riservate ai velieri d’altomare rimanevano solo alcune rotte, quelle estreme dei collegamenti con le regioni più lontane (Australia e Cile). Regioni troppo lontane per la limitata autonomia della nave a vapore.

Il grande veliero da carico-WINDJAMMER presentava ancora due notevoli vantaggi:

- non doveva fermarsi per caricare carbone

- il vento non costava nulla

Facendo presa e insistendo coraggiosamente su questi due concetti, Francesi, Tedeschi e Scandinavi costruirono velieri sempre più grandi, destinati a caricare una sempre maggiore quantità di merci. Mentre la flotta dei velieri americani andava lentamente declinando, quella inglese divenne la prima al mondo.

Entriamo ora nel mondo della tipologia windjammer usando la classica definizione: “grandi velieri da trasporto che vennero realizzati tra la fine del XIX e l'inizio del XX Secolo”.

La grande novità costruttiva: scafo in ferro, e 3 - 5 alberi armati con vele quadre. Questa configurazione dava loro un profilo caratteristico perché furono le più grandi navi a vela mai costruite, avevano grandi stazze e non pochi vantaggi:

- la costruzione in metallo rendeva sia la produzione sia la manutenzione più economica di una nave a vela in legno di pari dimensioni.

 

- Lo scafo era più resistente e quindi permetteva il trasporto di un carico maggiore di una nave di dimensioni più grandi.

 

- Il moderno concetto di costruzione in serie sfruttava i rilevanti vantaggi dati dall’economia di scala.

 

- Lo stesso materiale: ferro prima, acciaio in seguito con il quale venivano realizzate, era di per sé meno costoso del legno. Inoltre lo scafo risultava più sottile e quindi lo spazio interno era maggiore.

 

- Il disegno costruttivo tipico del windjammer mostrava una particolarità molto importante per l’impiego dei più recenti ritrovati tecnologici. Le vele erano semi meccanizzate, gli alberi erano profilati in acciaio e, quando possibile, anche le manovre e il sartiame erano in acciaio.

 

- Lo scafo era affilato e rendeva il windjammer molto veloce e, nonostante il peso di quattro alberi, poteva raggiungere velocità media tra 15 e 18 nodi. La Herzogin Cecilie (vedi foto) aveva raggiunto la fantastica velocità di 21 nodi.

 

- Ma c’era un altro aspetto economico di grande rilievo: l'equipaggio tipico di un veliero dell’epoca era composto da: comandante, secondo, nostromo, 15 marinai esperti e 5 apprendisti, mentre l'equipaggio richiesto per governare un windjammer poteva essere di sole 14 persone.

 

- L'armamento e l’attrezzature fornivano prestazioni migliori della goletta e poteva navigare seguendo il vento meglio di una nave a palo, ed infine era più maneggevole di una nave dotata di sole vele quadre. La capacità di carico variava tra le 2.000 e le 5.000 tons. Il tipico carico, come abbiamo già visto, era costituito da guano, legno grezzo, grano e carbone.

 

- Su questo sito di Mare Nostrum Rapallo, nei titoli degli articoli riportati alla fine del presente servizio, abbiamo dedicato numerose pagine a questa tipologia WINDJAMMER a cui l’Italia diede numerose e celebri Navi a Palo di grandi stazze.

 

A cinquantotto anni dalla tragedia del famoso veliero-scuola PAMIR è doveroso un ricordo alla memoria del Comandante Johannes Diebitsch e dei suoi ufficiali, marinai ed allievi che perirono nel naufragio, avvenuto nell’oceano Atlantico a causa del violentissimo uragano “Carrie”. Il veliero aveva un equipaggio di ottantasei uomini e solo sei di essi si salvarono. La nave a palo tedesca (windjammer) Pamir, 3.020 di Stazza Lorda, naufragò nel settembre 1957.

 

Nel suo ultimo viaggio commerciale via Capo Horn, avvenuto nel 1949  sotto bandiera finlandese il Pamir aveva un equipaggio di 34 persone. Gli ufficiali erano cinque (comandante, primo ufficiale, secondo ufficiale, terzo ufficiale e nostromo), 14 marinai esperti, 5 marinai semplici e 5 mozzi di coperta, cuoco, assistente di cucina, cameriere e aiuto cameriere e infine un meccanico. I tempi erano definitivamente cambiati e i grandi windjammer si assunsero il compito di tramandare l’ARTE MARINARESCA velica alle nuove generazioni di marinai e ufficiali di mezzo mondo. Gli ultimi WINDJAMMER sopravissuti navigano ancora oggi con il nome, a tutti noto, di Tall Ships.

Tutte queste innegabili peculiarità del windjammer prolungarono la vita della vela essendo questi scafi molto competitivi (sulle lunghissime distanze) contro le prime navi a vapore che non superavano la velocità di 8 nodi.

Cinque Alberi PREUSSEN

Il più grande windjammer mai costruito fu il PREUSSEN che aveva 5 alberi. Il suo dislocamento era di 11.600 tons. Nella traversata dell’Oceano Atlantico, poteva mantenere una velocità media di 16 nodi.

La produzione maggiore di windjammer avvenne tra il 1870 e 1890 poi, quando la navigazione a vapore incrementò potenze, dimensioni e velocità, cominciò il loro inevitabile declino.

ALCUNE DIFFERENZE TRA IL CLIPPER ED IL WINDJAMMER

Clipper e Windjammer vengono spesso confusi perché somiglianti nello shape, ma si tratta di due tipologie di navi molto diverse. Il Clipper era una nave progettata in funzione della velocità, mentre il Windjammer lo era per la capacità di carico e la maneggevolezza. Molti Clipper avevano una costruzione mista (legno e ferro) e velatura completa, ma una capacità di carico inferiore alle 1.000 tons. I Windjammer erano invece di costruzione interamente metallica ed avevano, come abbiamo già visto, una capacità di carico molto elevata. Al tramonto del favoloso Clipper comparve sulla scena dei sette mari il Windjammer e fu il canto del cigno del mondo della vela da carico.

SEEADLER

Durante la Prima guerra mondiale, la Marina Imperiale Tedesca, utilizzò il Seeadler che stabilì un record come ultima nave a vela partecipante ad un conflitto. L'impiego principale dei windjammer restò però quello commerciale e, sebbene considerati una razza in via d’estinzione, alcuni restarono in servizio commerciale fino agli anni cinquanta del ventesimo secolo. L’avvento del motore DIESEL diede il colpo finale ai windjammer che terminarono la loro carriera occupando una nicchia nel trasporto di merci rappresentata dai collegamenti con quei porti che non disponevano di riserve di acqua o di combustibile e in alcune zone dell’Australia nel trasporto della lana e per le isole più lontane per il trasposto del guano.

Nave a Palo SEDOV

Ai giorni nostri, il più grande windjammer esistente ancora in attività è la nave scuola russa Sedov mentre il quattro alberi Moshulu, che può vantare il titolo di più grande windjammer esistente, è stato trasformato e viene utilizzato come ristorante di lusso a Philadelphia-USA. Spesso è possibile vedere altri esemplari di queste navi durante le principali manifestazioni dedicate alle gare tra le varie categorie di TALL SHIP.

Windjammer PASSAT

Windjammer KRUSENSTERN

 

Montague Dawson Paintings American Windjammer Under Full Sail

 

Windjammer KRUZENSTERN

Volle Fahrt voraus: Die "Sea Cloud II" erinnert an die Glanzzeiten der Großsegler.

 

Nave a Palo FRATELLI BEVERINO

Varato nel 1882 col nome di “Glenorchy” dalla Glen Line di Glasgow, passava alla Casa Beverino che nel 1909 lo vendeva a Gioacchino Lauro passando in Pacifico col nome “Cavaliere Lauro”. Passato infine col nome “Italia” all’armatore Esposito di Meta, di ritorno dal Cile con un carico di nitrato veniva investito da un piroscafo e affondava in pochi minuti.

Nave a Palo EMANUELE ACCAME

È la nave a palo più famosa e longeva di Loano, attiva su tutti gli Oceani. Varata a La Spezia nel 1891, gemella della “Edilio Raggio”, saliva a fama internazio­nale nella gara del grano sotto bandiera svedese col nome di “G.B.Pedersen”. Due drammatici passaggi di Capo Horn richiamarono il suo nome su tutta la stampa internazionale, quando, alla cappa durante una tempesta, venne salvata dalla collisione di un veliero inglese dall’allarme dato dalla bambina del capitano inglese, che stava a bordo con lui. Nel 1908 veniva a trovarsi a navigare tra i campi di ghiaccio che stavano chiudendosi riuscendo a guadagnare il mare libero all’ultimo momento. Dopo il 1911 veniva venduta alla Norvegia, poi alla Svezia distinguendosi in fatto di rendimento veloce. Nell’aprile del 1937, il grande veliero veniva spero­nato da un piroscafo ed affondava in 20 minuti ponendo così fine a 46 anni di navigazione.

 

SATURNINA FANNY

Fu realizzata nel 1890 su piani del Tappani  nel Cantiere Nicolò Odero di Sestri Ponente dall'Ingegnere Navale Fabio Garelli che ne diresse la costruzione. Scafo in acciaio. Stazzava 1.594 tonnellate. Venne varata il 4 febbraio 1891. Armatori Raffo & Bacigalupo di Chiavari.

“ERASMO” in seguito “Pinguin”

Varato a Riva Trigoso nel 1903 per conto degli armatori Raffo e Bacigalupo di Chiavari, fu unità veloce collezionando primati malgrado le molte tempeste nelle quali ha avuto la ventura d’incappare, in Atlantico e nel Pacifico. Venduto alla Casa tedesca Laeisz, navigava col nome di “Pinguin” e veniva demolito nel 1923 dopo aver alzato anche la bandiera francese.

Nave a Palo “REGINA ELENA” In seguito: “Ponape” – “Bellhouse”

Armato da Casa Milesi di Genova, veniva varato a Riva Trigoso nel 1903. Allestito con cura sotto la sorveglianza di capitani esperti, condotto in campagne effettuate con passaggi veloci e con carichi di vario genere non escluso il nitrato peruviano e il petrolio in cassette, nel 1912 veniva ceduto alla Casa Laeisz col nome di “Ponape”. Catturato dagli inglesi durante la prima guerra mondiale, navigava col nome “Bellhouse” passando poi sotto bandiera norvegese fino al 1927. Lunghezza 96 metri, larghezza 13,10, pescaggio 7 metri. Scafo in acciaio, stazzava 2.365 tonnellate. Portata 3.500 tonnellate. Era uno dei più bei quattr'alberi italiano. Aveva le vele di belvedere e controbelvedere.

Nave a Palo ITALIA

Scafo in acciaio, stazzava 3.109 tonnellate lorde, 3.030 nette. Lunghezza 98,80 metri, larghezza 14,54. Immersione 7,67 metri. Era armata con doppi velacci, velaccini e belvedere.

Con la sua portata di 4.200 tonn., è stato il più grande veliero costruito dai cantieri nazionali. Varato al Muggiano nel 1903 per conto degli armatori Cavalieri Becchi e Sturlese di Genova, attrezzato a nave a palo con i ritrovati più recenti, con 18 vele quadre, randa e 12 vele triangolari, albero maestro di 50 m. , era una nave splendida alla quale, però, non ha arriso la fortuna, che gli ha decretato la breve vita di 3 anni. Due le campagne, la prima di circumnavigazione del globo; la secon­da campagna tra Europa, Australia e nuovamente Europa via Capo Horn. Durante la terza campagna, 1908, diretto allo scalo cileno di Iquique, l’“Italia” arrivava verso sera sotto costa quando veniva a mancare completamente il vento lasciando le vele inerti sicché bisognava ricorrere all’assistenza di uno dei pochi rimorchiatori della zona, che non fu possibile trovare (o giungeva troppo tardi). Il mare lungo che arrivava da Sud Ovest, dagli sconfinati spazi oceanici aperti, complice la corrente, spinsero il veliero sulle rocce della costa che scendeva a picco decretandone la fine per naufragio. Sinistro successo anche ad altre navi perché, essendo il mare molto profondo, era molto difficoltoso fermare la deriva per mezzo delle ancore. L’”Italia” riusciva tuttavia ad effettuare la manovra richiesta ma troppo tardi perché la poppa, ruotando, arrivò con il timone proprio sulle rocce che aprirono una via d’acqua fatale. Non rimaneva all’equipaggio che allontanarsi con le lance di salvataggio, che venivano soccorse da alcuni pescherecci.

Nave a Palo “GABRIELE D’ALI’” gemella della “Principessa Mafalda”

Progettista e Direttore dei Lavori fu l'Ingegnere Navale Fabio Garelli.Scafo in acciaio, stazzava 2.385 tonnellate. Zavorra 800 tonnellate d'acqua.Bastimento bello e dalla linea filante, risultò essere molto veloce anche per l'ampia velatura: gabbie, doppi velacci e controvelacci erano alti uguali sui tre alberi. Tra di essi e tra il contromaestro e la mezzana dotata di randa e controranda vi erano tre vele di strallo che, con fiocco, controfiocco e trinchettina al bompresso completavano l'imponente piano velico.

Fu un’ottima unità della Casa D’Alì di Trapani, il veliero più grande dell’Armamento meridionale italiano, varato nel 1903. Passato indenne tra i pericoli della guerra, veniva demolito a Trieste nel 1923, ultima nave a palo della flotta velica commerciale italiana.

 

 

- Si RINGRAZIA l’Archivio Fotografico dell’Agenzia Bozzo di Camogli che ci ha concesso la divulgazione di un pezzo della nostra Storia Marinara.

 

 

-  Articoli correlati all'argomento WINDJAMMER sul sito di Mare Nostrum Rapallo:

Sezione STORIA NAVALE

- Le vere TALL SHIPS

- The TALL SHIPS’ RACE 2007

- I CLIPPERS, le FERRARI dell’800

- Gli ARMATORI CHIAVARESI

Sezione NAVI e MARINAI

- Nave a Palo ITALIA – C. CONCORDIA, due naufragi a confronto

- Veliero TROYAN e Cap. Filippo AVEGNO, un "Manico di altri Tempi..."

- L' AMERIGO VESPUCCI ha compiuto 80 anni ed é ancora la nave più bella del mondo

 

Carlo GATTI

 

Rapallo, 4 Maggio 2005

 



Il TRATTATO DI TORDESILLAS

IL TRATTATO DI TORDESILLAS

 

Dall'avventura di Colombo alla nascita del colonialismo


Il 12 ottobre 1492, dopo sessantanove giorni di navigazione, Cristoforo Colombo gettava l’ancora della sua caravella, la Santa Maria, presso l’isola Guanahani (futura isola di San Salvador). Fu così che, nel tentativo di raggiungere via mare il Catai ed il Cipango (le attuali Cina e Giappone) per una nuova e inesplorata via, l’ignaro navigatore fece dono alla Spagna e all’Europa del Nuovo Mondo. Cristoforo Colombo era nato a Genova nel 1451. Eccellente navigatore, si era stabilito in Portogallo, appassionandosi alle esplorazioni e studiando un modo più rapido per raggiungere via mare il Cipango e altre terre sconosciute e colà raccogliere l’oro necessario per una nuova crociata contro i turchi. Intorno al 1484, aveva proposto il suo progetto al re del Portogallo; al rifiuto del sovrano, Colombo si era rivolto ai monarchi di Castiglia e Aragona. Il primo rifiuto dei re spagnoli, nel 1487, non scoraggiò Colombo, che pochi anni dopo, nel pieno fervore della guerra di riconquista cristiana della Spagna, riuscì ad accordarsi con i reali per il finanziamento dell’impresa. Era la primavera del 1492. Il 3 agosto di quello stesso anno Colombo salpava verso Occidente da Palos con tre imbarcazioni: la “Niña”, la “Pinta” e la “Santa Maria”. Dopo una sosta alle Canarie, l’8 settembre la piccola flotta iniziava la traversata dell’Oceano Atlantico.

 

Dopo il rientro di Colombo in Europa, avvenuto nel marzo 1493, papa Alessandro VI (Rodrigo Borgia), si ritrovò a dover dirimere le rivendicazioni territoriali dei sovrani iberici: al Portogallo infatti avrebbero dovuto spettare tutte le terre sul parallelo delle Canarie, in base ad un accordo fra quel regno e la Castiglia di una decina d’anni prima. La scoperta delle Indie da parte di Colombo e il nuovo assetto politico della penisola Iberica (dove Castiglia e Aragona s’erano unite nel nuovo regno di Spagna) entravano in conflitto con quel trattato e rischiavano di spaccare la cristianità. Rodrigo Borgia dovette mediare fra le pretensioni di Giovanni II di Portogallo e quelle di Sovrani Cattolici di Castiglia e Aragona, ed emanò una serie di documenti, tra i quali il più importante è la bolla Inter cetera del 4 maggio 1493. Il documento è contenuto nel Registro Vaticano 777 dell’Archivio Segreto Vaticano. La Inter coetera (di cui esistono due redazioni) venne retrodatata, nella sua versione definitiva al 4 maggio, anche se composta, spedita e registrata solo alla fine del giugno 1493. Con quel documento, definito anche “bolla di partizione”, il papa – in virtù dell’autorità apostolica sulle terre occidentali dell’ex Impero Romano, esercitata in forza delle prerogative attribuite ai papi dalla falsa donazione di Costantino – concedeva ai sovrani spagnoli il possesso di tutte le isole e le terre scoperte e di quelle che sarebbero state scoperte in futuro, a Ovest di una linea di confine ideale Polo Nord/Polo Sud, idealmente tracciata a circa cento leghe dalle isole Azzorre e dalle isole di Capo Verde.

 

Con questo atto il pontefice delimitava il dominio marittimo e coloniale di Spagna e Portogallo. Il papa chiedeva poi ai sovrani di provvedere al più presto all’invio di missionari cattolici che operassero per convertire alla vera fede di Cristo le popolazioni indigene. Nel documento papale s’incontra fra l’altro l’esplicito riferimento alla missione svolta da Cristoforo Colombo (chiamato nella bolla Cristoforus Colon), “uomo particolarmente degno e assai raccomandabile, nonché capace di compiere una così grande impresa”, incaricato dai sovrani spagnoli “di cercare non senza fatiche e pericoli certe isole lontanissime e terre mai scoperte prima”.

 

 

L'intervento del Papa nella questione fu giustificato alla luce della Donazione di Costantino. Il documento (di cui è stata peraltro provata l'inautenticità) includeva nel lascito di Costantino alla Chiesa, tra le altre cose, le isole della parte occidentale dell'Impero Romano. All'epoca si riteneva che le nuove scoperte fossero semplicemente delle isole (ci si rese conto solo più tardi che si trattava invece di un nuovo continente): di qui, presupponendo di intendere l'Oceano Atlantico ricompreso nella "parte occidentale dell'Impero Romano", la giustificazione dell'arbitrato papale.

 

Altra interpretazione vuole invece che l'intervento papale, forte dell'autorità acquisita grazie alla guerra santa di matrice cristiana e alle crociate servisse a legalizzare la posizione di Portogallo e Spagna su territori inesplorati, selvaggi e abitati da pagani , dove la loro pretesa di legittimità era labile: fintanto che le operazioni militari si svolsero nella penisola spagnola, con lo scopo di ripristinare la Christianitas, non fu avvertito minimamente dalle monarchie iberiche nessun bisogno di avallo da parte di un potere superiore, cosa che invece, divenne indispensabile con le nuove scoperte geografiche.

 

La divisione tracciata dalla bolla, comunque, non fu equa. La Spagna influenzò pesantemente la decisione, che di fatto escluse il Portogallo dall'America (Alessandro VI era di origine spagnola). La ragione per cui la bolla favoriva la Spagna fu individuata nel servizio che la nazione spagnola rendeva, o avrebbe reso, alla Chiesa di Roma. Il dettato della bolla alessandrina fu poi superato dal Trattato di Tordesillas, nel 1494, che spostò la linea molto più ad ovest, permettendo al Portogallo di reclamare il suo dominio sul Brasile.

 

PREMESSA

 

La bolla Inter Coetera,* di papa Alessandro VI, scritta il 3 maggio 1493, su richiesta dei Re Cattolici di Spagna, è uno dei documenti più importanti della chiesa cattolica rinascimentale, poiché con esso non solo si sanziona giuridicamente la nascita del colonialismo internazionale dell'Europa occidentale, ma si inaugura anche il moderno colonialismo ideologico e culturale del cattolicesimo romano, allora strettamente legato a quello ispano-portoghese. A dir il vero, la bolla nacque per rivedere un trattato di spartizione imperiale circa le isole dell'Atlantico (isole già conosciute e ancora da conoscere), già stipulato, senza mediazione pontificia, nel 1479, tra Spagna e Portogallo, ad Alcaçovas (in virtù del quale la Spagna poté assicurarsi solo le Canarie).

 

Con la scoperta dell'America (che allora si pensava fosse la Cina), la Spagna decise di non rispettare quel trattato e, rivolgendosi direttamente al papa, sperava di evitare una guerra col Portogallo e di stipulare un nuovo trattato.

 

Il Portogallo, infatti, riteneva che proprio in virtù di quel trattato, le terre scoperte da Colombo gli appartenessero di diritto e, poiché la sue proteste presso la corte spagnola non avevano ottenuto alcun risultato, aveva allestito una flotta da guerra che doveva seguire Colombo nei futuri viaggi per occupare con la forza gli eventuali nuovi territori.

 

La bolla di Alessandro VI è quindi un documento più importante del trattato di Alcaçovas, poiché, essendo scritta dopo la scoperta dell'America, riguarda per la prima volta dei territori planetari, per quanto solo alcuni decenni dopo ci si convincerà dell'esistenza di un nuovo continente. La bolla, d'altra parte, non perderà valore neppure dopo tale acquisizione geografica, benché i successivi trattati di Tordesillas (1494) e soprattutto di Saragozza (1529) costituiranno delle notevoli precisazioni che i portoghesi vorranno fare a loro vantaggio. Saranno piuttosto le nuove potenze europee capitalistiche: Olanda, Inghilterra e Francia, a rendere inutile una qualunque mediazione pontificia.

 

TRATTATO DI RORDESILLAS

 

 

La divisione del nuovo mondo tra spagnoli (a sinistra del meridiano) e portoghese (a destra del meridiano)

 

Il TRATTATO DI TORDESILLAS fu firmato il 7 giugno 1494 tra i re Cattolici di Spagna e Giovanni II di Portogallo, sotto l'egida del papa Alessandro VI, quindi confermato dal papa Giulio II, fissava una linea di delimitazione circa a 2000 km a Ovest delle isole del Capoverde: i territori situati all'Est di questa linea, conosciuti e sconosciuti, sono attribuiti al Portogallo, quelli dell'Est alla Spagna. Chiamato anche “trattato di ripartizione del mondo”, veniva a regolare, dopo i trattati di Alcoçavas (1479) e di Tolède (1480), la rivalità dei due paesi impegnati “nelle grandi scoperte”.

 

Versione portoghese del trattato di Tordesillas, folio 1 recto, Biblioteca Nazionale di Lisbona.

Certo è che la chiesa non avrebbe mai prodotto questo documento se il colonialismo portoghese (già sotto la sua "protezione") non avesse avuto concorrenti di sorta: il documento infatti ha lo scopo di dirimere una controversia territoriale emersa tra i due principali paesi colonialisti di quel periodo, che la storia ha voluto fossero cattolici. Esso ha pure lo scopo d'impedire che altri Stati cattolici vogliano diventare colonialisti nelle stesse terre già occupate. La spartizione viene assicurata dalla chiesa non solo sulle terre già scoperte ma anche su quelle da scoprire.

Come disse il gesuita Giovanni Botero, teorico della "ragion di stato", la chiesa romana si sentiva in dovere di riconoscere i possessi coloniali mondiali alle due nazioni europee che più avevano lottato contro ebrei e musulmani, cioè che più avevano manifestato il proprio integralismo politico-religioso.

Se il contenzioso fosse sorto tra un Portogallo cattolico e una Germania protestante, probabilmente non ci sarebbe stata alcuna mediazione pontificia, non foss'altro perché non ne sarebbe stata riconosciuta l'universalità da entrambe le parti. Se invece il contenzioso avesse coinvolto altri Paesi europei di religione cattolica, quest'ultimi, disposti certo a riconoscere l'universalità etico-religiosa della chiesa romana, non altrettanta disponibilità avrebbero manifestato per la pretesa universalità politico-giurisdizionale. E la chiesa post-medievale, dal canto suo, non sarebbe stata in grado di rivendicarla. Gli stessi sovrani iberico-lusitani gliela riconoscevano più che altro in maniera formale, in quanto, sul piano pratico, era la chiesa che doveva adattarsi alla forza delle loro armi. Già ai tempi di Sisto IV, che cercò d'imporre alla Castiglia vescovi di sua nomina, Isabella vi si oppose energicamente, anche se poi accetterà la proposta dello stesso papa di ripristinare l'antico tribunale dell'Inquisizione, gestito dalla corona (1481).

Qui appare evidente che la Spagna intendeva servirsi della mediazione pontificia per darsi una patente di legalità nel caso in cui l'opposizione del Portogallo alla “bolla” avesse dovuto costringerla a dichiarargli guerra.

La storia comunque ha voluto che a legittimare il moderno colonialismo internazionale non fosse un'istituzione laica ma religiosa. Questo a prescindere dal fatto che le successive legittimazioni (laiche o a-cattoliche) conterranno aspetti colonialistici assai più anti-democratici del contenuto complessivo della bolla in oggetto.

Quadro storico

 

L'Inter Coetera venne scritta in un momento di grave crisi morale per la chiesa di Roma. Le uniche vere preoccupazioni dei pontefici parevano essere quelle di proteggere i loro parenti e di abbellire Roma con edifici prestigiosi.

 

Sul piano politico invece la situazione sembrava offrire alla chiesa una qualche possibilità di rivalsa, almeno nell'ambito dello Stato pontificio, dopo i 70 anni della cosiddetta "cattività avignonese" e dopo la nascita e lo sviluppo del movimento conciliarista (che negava al papato la priorità sul concilio, trovando, in questo, molti appoggi da parte dei governi laici).

 

Con grande tempismo politico, la chiesa di Roma seppe approfittare della richiesta bizantina di aiuti militari contro l'invasore ottomano, per imporre alla chiesa ortodossa, nel concilio di Ferrara-Firenze (1438-39), il riconoscimento della giurisdizione universale del pontefice. Il fenomeno conciliarista occidentale sembrava aver perso, d'improvviso, una qualunque giustificazione d'esistere.

 

Con la fine del "piccolo scisma d'occidente" (1439-49), che fu praticamente l'ultimo tentativo del conciliarismo d'imporsi restando nell'ambito del cattolicesimo, la Curia romana riprenderà totalmente il controllo della chiesa. Centralismo, fiscalismo e mondanità saranno poi le cause che scateneranno la Riforma protestante.

 

Tuttavia, il decreto d'unione non venne accettato dalle comunità ortodosse, che alla delegazione, rientrata a Costantinopoli, fecero sapere di preferire la dominazione turca a quella latina. Né il papato riuscì a organizzare una potente crociata antislamica, per imporre il decreto, agli ortodossi, con la forza. Ormai i tempi non invitavano più gli occidentali a impegnarsi in crociate neo-medievali. Senza considerare che nei confronti del mondo bizantino, l'occidente cattolico non ha mai nutrito alcuna simpatia.

 

Questo, benché, proprio a seguito di quel concilio, i teologi, i filosofi e i maestri di greco della delegazione che decisero di restare in Italia, contribuirono non poco allo sviluppo dell'Umanesimo e del neo-platonismo, nonché alla diffusione della lingua greca e a un rinnovato interesse per le tradizioni bizantine. Tanto per fare un esempio, un'opera fondamentale come quella del Valla sulla falsa Donazione di Costantino (1440) sarebbe stata impossibile con i soli strumenti della filologia.

 

Inoltre, le possibilità di fare affari, per i mercanti, si stavano lentamente spostando verso le nuove rotte coloniali portoghesi o verso il Mare del Nord, dove dominavano le città della Lega Anseatica. In fondo l'obiettivo principale delle crociate medievali (e cioè quello di aprirsi uno spazio autonomo nel mercato mediterraneo, per commerciare in tutta Europa i prodotti orientali), i mercanti l'avevano raggiunto da un pezzo.

 

E' vero che la parte del leone, in quell'impresa bisecolare che costò immani sacrifici, l'aveva praticamente fatta Venezia (che costringerà Genova a rivolgersi verso il Mediterraneo occidentale e i traffici ispano-portoghesi); ed è anche vero che proprio a seguito della spinta ottomana, Venezia era stata costretta a rivolgersi verso i porti del Nordafrica, della Siria, dell'Egitto. Ma è anche vero che, nel complesso, la borghesia occidentale (si pensi anche a quella, sempre più legata alla manifattura, di paesi come Olanda, Inghilterra e Francia) stava vivendo un momento di crescente benessere. Per cui il papato non poteva più contare sulle stesse motivazioni sociali che nei secoli precedenti avevano spinto migliaia di persone a combattere per la "giusta causa" del colonialismo.

 

Probabilmente, se dopo la caduta di Costantinopoli (1453), gli spagnoli non avessero avuto il coraggio di attraversare l'Atlantico (emulando, in questo, il coraggio portoghese di scendere sotto l'equatore), la borghesia occidentale (Venezia esclusa) non avrebbe potuto disinteressarsi, con così relativa facilità, dei traffici mediterranei (lo dimostra la discesa di Carlo VIII in Italia, ma gli stessi aragonesi nel Mediterraneo svolgeranno sempre una politica antiveneziana). D'altra parte fu anche l'atteggiamento monopolistico di Venezia (che a questi traffici non vorrà rinunciare neppure dopo il 1453) a indurre le borghesie degli altri paesi a cercare nuovi sbocchi per le loro merci e soprattutto altre fonti (meno costose) per le loro materie prime.

 

Il papato, quindi, in questa seconda metà del XV sec., deve tener testa a tre avversari di tutto rispetto: 1) la crescente laicizzazione dei costumi e dei valori (soprattutto nell'area di cultura umanistica e rinascimentale: fenomeno, allora, tipico degli intellettuali); 2) l'emancipazione socio-economica della borghesia, che vuole rinnovare profondamente la struttura e l'ideologia della chiesa cattolica (da qui prenderà le mosse il movimento riformistico); 3) l'affermata autonomia politica dei sovrani cattolici, che vogliono agire senza dover rendere conto ad alcun contropotere, senza cioè dover temere che l'arma della scomunica possa bloccare ogni loro iniziativa.

 

Il papato è ancora potente economicamente, anche se politicamente il suo potere lo esercita soprattutto, in maniera diretta, senza la mediazione del sovrano cattolico, nell'ambito del proprio Stato. Illusosi di aver superato la minaccia del movimento conciliarista, e relativamente soddisfatto della fine dell'impero bizantino, il papato non sospetta neanche lontanamente che tutte le idee conciliariste ed ereticali verranno riprese, di lì a poco, dalla grande Riforma protestante, e che in Europa orientale la Russia degli zar si farà carico di proseguire il conciliarismo della chiesa bizantina.

 

 

Alessandro VI (1492-1503)

 

Papa Alessandro VI rappresenta un esempio davvero illustre (ma i suoi successori, Giulio II e Leone X, non gli furono da meno) del livello di corruzione morale e di prepotenza politica della chiesa romana di quel periodo.

 

Di origine spagnola, Rodrigo Borgia venne nominato cardinale a soli 25 anni; salì al soglio pontificio per simonia; ebbe cinque figli, tra i quali Cesare e Lucrezia, dei quali erano noti la spregiudicatezza morale e politica; fece di tutto, senza però riuscirvi, a ricavare in Romagna un dominio per il figlio Cesare; dilapidò il patrimonio della chiesa per arricchire i propri familiari, anzi, fu il primo a trasformare la corte pontificia in reggia principesca, strutturata in modo tale da mettere in risalto la venerazione rituale riservata alla dinastia; fu responsabile della morte per impiccagione e rogo del predicatore domenicano Girolamo Savonarola, al quale aveva offerto la porpora cardinalizia pur di farlo tacere. In conflitto con gli aragonesi per i diritti su alcuni feudi nel regno napoletano, preferì prendere le loro difese (perché li considerava più deboli) contro i francesi che con Carlo VIII erano scesi in Italia per occuparla. Si sospetta infine che sia stato avvelenato.

 

Questo, in sintesi, l'identikit dell'autore della bolla che stiamo per prendere in esame.

 

Il testo

 

Il testo, che è il primo di una serie di quattro bolle, dedicate tutte al medesimo argomento: Inter coetera, del giorno dopo, Dudum Siquidem (26.09.1493) e Eximiae devotionis (16.11.1501), esordisce affermando due cose: 1) "la fede cattolica" (e non ortodossa, benché anche questa pretenda di far parte della "religione cristiana") va diffusa in ogni luogo; 2) "i popoli barbari" (cioè non-europei o comunque tutti coloro che non appartenevano a una delle tre religioni monoteistiche: cristiani, ebrei e islamici. "Barbaro" infatti è un epiteto pesante, che la chiesa cattolica riferiva soprattutto ai popoli "pagani", "politeisti" o "idolatri"): questi popoli vanno "vinti" (sottinteso: militarmente) e poi "condotti alla fede" (spada e croce sono indissolubili).

 

Il testo poi prosegue elencando i fatti e i motivi dai quali la chiesa di Roma può, secondo ragione, far dipendere la concessione del riconoscimento giuridico delle nuove proprietà spagnole in America (che ancora si pensava fosse la Cina).

 

1) Imparzialità assoluta del pontefice, eletto "col favore della clemenza divina (senza nostro merito)". Questa frase di Alessandro VI, che appare più volte, può essere stata ispirata da due diverse preoccupazioni, non antitetiche ma complementari: anzitutto quella di delegittimare una delle accuse più gravi che a quel tempo gli intellettuali progressisti gli muovevano (e per la quale il Savonarola verrà giustiziato nel 1498): l'accusa di simonia. In questo senso la sottolineatura del pontefice potrebbe anche stare a significare che, essendo la cathedra Petri un'istituzione divina, che prescinde dalla personalità o dalle caratteristiche soggettive di chi la occupa, ogni sovrano, di conseguenza, era tenuto ad accettare la bolla senza discuterla, proprio perché scritta da colui che, attraverso Pietro, rappresentava la volontà di Dio.

 

Il secondo motivo della precisazione può essere stato invece più etico e meno politico, anche se ugualmente importante. Probabilmente Alessandro VI -essendo di origine spagnola- aveva bisogno di difendersi in anticipo dall'inevitabile insinuazione d'aver compiuto un favoritismo nei confronti dei "Re Cattolici" (titolo, questo, ch'egli conferirà ai sovrani di Spagna nel 1494).

 

2) Spontanea iniziativa del gesto ecclesiale: la concessione del riconoscimento giuridico viene fatta -dice il papa- "per nostra pura liberalità", "non dietro richiesta", "a titolo di favore". Qui si possono precisare alcune cose: anzitutto, secondo il diritto ecclesiastico allora vigente, tutta la terra (come pianeta) apparteneva al Cristo e, quindi, essendone il vicario, al papa, il quale così poteva concederla in usufrutto ai sovrani di religione cattolica; in secondo luogo, una terra non posseduta da un sovrano cattolico veniva considerata "senza proprietario", anche se essa era rivendicata da un proprietario non-cattolico; in terzo luogo, il principio della "donazione delle terre scoperte" tutti i pontefici precedenti ad Alessandro VI l'avevano applicato alle conquiste dei portoghesi.

 

3) Il "favore" di cui parla il pontefice non va inteso in senso giuridico ma morale. La concessione veniva fatta riconoscendo ai sovrani cattolici (in particolare Alessandro VI si riferisce a Isabella di Castiglia) i sacrifici ("fatiche, spese, pericoli") sostenuti contro i saraceni. Questo è dunque, per la chiesa, un modo di ricompensare (senza obblighi legali) quella nazione che più si era impegnata, per la fede religiosa, sul piano militare, politico ed economico. La "conquista" del Nuovo Mondo non era che il premio per la "riconquista" cattolica della Spagna.

 

Alessandro VI, in particolare, afferma che se la Spagna era arrivata "seconda" sulle stesse terre che i lusitani avevano scoperto o conquistato per altre vie (si ricordi che l'America corrispondeva alla Cina), ciò non doveva penalizzarla nella spartizione delle colonie, poiché il ritardo era dovuto a un fattore contingente assai importante: la Riconquista.

 

4) D'altra parte - dice ancora il pontefice - i sovrani spagnoli non solo hanno desiderio di diffondere la fede cattolica, ma hanno anche l'esigenza di doverlo fare in modo legittimo. Il "santo e lodevole proposito" di evangelizzare tutta la terra (questa espressione viene ripetuta più volte nel testo) è, secondo la chiesa, il motivo principale che giustifica il colonialismo ispano-portoghese. Non c'è ragione, quindi, di non concedere in dono e "in perpetuo", cioè anche agli eredi e successori dei sovrani spagnoli (a prescindere cioè dal tipo o dalla qualità dell'evangelizzazione), il favore in oggetto.

 

5) Anche il giudizio su Colombo è estremamente positivo. Benché l'avesse conosciuto solo attraverso la Lettera a Santàngel, Alessandro VI lo chiama "nostro diletto figlio": forse per suggerire l'idea, conoscendo la "religiosità" del genovese, che il colonialismo era nato sotto buoni auspici e che avrebbe continuato a dare buoni frutti se l'interesse della corona di fosse strettamente unito a quello dell'altare. O forse il pontefice voleva far leva sull'origine italiana di Colombo per dimostrare che indirettamente la chiesa di Roma aveva concorso alla scoperta dell'America.

 

Non dobbiamo infatti dimenticare che questa bolla non è solo un documento con cui si concede il favore del riconoscimento giuridico della conquista, ma è anche un documento con cui, in cambio del favore, si chiede un compenso relativo agli interessi della chiesa.

 

L'interesse della chiesa

 

Alessandro VI non si era servito solo della Lettera a Santàngel, per scrivere la bolla, ma anche di altre fonti non citate. Nella Lettera infatti non era stato detto che gli indigeni fossero vegetariani. In ogni caso, ch'essi siano così o anche "numerosi", "pacifici" e "ignudi", ciò per Alessandro VI non rappresenta più di una mera curiosità folclorica.

 

La vera caratteristica che gli preme sottolineare è che il loro "monoteismo" primitivo, ingenuo, istintivo, va perfezionato col cattolicesimo, che, unico al mondo, è in grado di "educare ai buoni costumi". Qui il pontefice dà per scontato che le conversioni degli indigeni siano già relativamente facili.

 

Il pontefice ricorda anche la guarnigione lasciata da Colombo a Navedad, ad Haiti, e senza volerlo si contraddice laddove afferma, dopo aver parlato di "indios pacifici", che la "torre ben munita" doveva essere difesa dai cristiani contro gli indios.

 

In effetti, al pontefice non interessava approfondire il discorso sulle civiltà indigene: gli bastava credere (in fede o per convenienza non importa) in ciò che Colombo aveva scritto circa la scoperta di "oro, spezie e moltissime altre cose preziose". Anche per lui era del tutto normale unire profitto e fede.

 

La chiesa giustificava il profitto in nome della fede; la Spagna lo giustificava servendosi della fede: la differenza era minima. In fondo la chiesa di Roma aveva le stesse esigenze della Spagna: recuperare nel Nuovo Mondo ciò che non poteva più sperare di ottenere (o addirittura di conservare) in Europa, soprattutto sul piano politico ed economico. La Spagna voleva diventare una grande potenza europea restando sostanzialmente feudale, mentre molte altre nazioni stavano diventando borghesi: e ciò la costringerà a cercare uno sbocco "salvifico" nel Nuovo Mondo. La chiesa, che non poteva più contare sulle proprie forze, cercava di ridiventare una grande potenza appoggiandosi al colonialismo della Spagna. Questa si limitava a usare la fede come uno strumento ideologico al servizio della conquista militare e politica; quella invece credeva che la fede, come ideale religioso, potesse sopravvivere politicamente soltanto su nuove basi economiche.

 

Il papa concesse il favore tracciando una linea retta (raya) dall'Artico all'Antartico, cento leghe a ovest delle isole di Capo Verde (al largo dell'attuale Senegal), assegnando al Portogallo tutte le nuove scoperte a oriente di quella linea, e alla Spagna tutte quelle a "occidente e mezzogiorno".

 

In cambio di questo favore, il papa chiederà ai Re Cattolici: 1) che istruiscano per l'America dei missionari qualificati, capaci di evangelizzare nel miglior modo possibile; 2) che vietino a chiunque di recarsi nelle Indie "per commercio o altre ragioni" (ad es. per scopi missionari), "senza speciale permesso vostro", altrimenti il soggetto subirà la scomunica latae sententiae, cioè immediata.

 

La chiesa, insomma, convinta che il sovrano spagnolo non voglia aver a che fare con possibili recriminazioni da parte di altre potenze commerciali e marittime europee, chiede anche che non vi siano, sul nuovo terreno missionario, rivali nella predicazione.

 

A dir il vero, appena tre anni dopo la pubblicazione della bolla, Enrico VII, re d'Inghilterra, violò la raya cogliendo come pretesto il fatto che nel divieto del papa si erano citati l'ovest e il sud ma non il nord. Convinto che Colombo avesse scoperto un'isola e non le Indie, e che queste potessero essere scoperte con una rotta più settentrionale di quella di Colombo, il re favorì la spedizione del veneziano Giovanni Caboto, che partì da Bristol giungendo in Labrador, Terranova e Nuova Scozia. Anche Caboto sarà però convinto d'aver scoperto una parte dei domini del Gran Khan. Probabilmente non scoppiò una guerra, in quell'occasione, solo perché il successore di Enrico VII, Enrico VIII, si disinteressò dell'America, vedendo che non si realizzavano i profitti previsti. Tuttavia i commerci continuarono, anche se i mercanti inglesi, con capitale a rischio, per un certo periodo di tempo non poterono colonizzare o lasciare depositi stabili nelle colonie.

 

Piuttosto fu il Portogallo che non soddisfatto della bolla del pontefice, pretese, col trattato di Tordesillas, di spostare la raya  di altre 170 leghe a ovest: cosa che poi lo porterà ad annettersi il Brasile.

 

Grazie dunque ai sovrani cattolici, il papato poté approfittare della situazione per far valere la propria autorità morale e giuridica, mostrando, in particolare, che senza la sua mediazione legittimante, non sarebbe stato possibile proseguire in modo "corretto" la gestione politica ed economica delle colonie acquisite. Il pontefice, tuttavia, doveva essere ben consapevole che se il Portogallo non avesse accettato le proposte indicate in questo documento, una guerra contro la Spagna sarebbe stata inevitabile, poiché egli non avrebbe avuto la forza d'impedirla. La guerra poi scoppierà un secolo dopo e porterà il Portogallo a una disastrosa rovina.

 


 

1502 - PLANISFERO DI CANTINO CON IL MERIDIANO DI TORDESILLAS

 

Il più antico ed importante reperto pervenutoci dall’epoca delle Scoperte Geografiche é la Carta del mondo di Alberto CANTINO, un diplomatico italiano residente a Lisbona che la ottenne nel 1502 dal Duca di Ferrara. Fu interamente copiata senza autorizzazione. Essa comprende le ultime informazioni geografiche basate su quattro serie di viaggi:

 

Cristoforo Colombo ai Caraibi, Pedro Álvarez Cabral in Brasile, Vasco de Gama seguito da Cabral in Africa Orientale e India, e i fratelli portoghesi Gaspar e Miguel Corte-Real (1450-1501..) in Groenlandia e Terranova. Eccetto C. Colombo, tutti gli altri navigarono sotto la bandiera portoghese.

 

 

Contesto: Scoperta dell’America

 

Trattato: Bilaterale di TORDESILLAS (Spagna) firmato il 7 giugno 1494

 

Mediatore: Papa Alessandro VI

 

Firmatari: Ferdinando II d’Aragona, Isabella di Castiglia, Giovanni di Trastàmare, Giovanni II del Portogallo.

 

Lingue: Spagnolo – Portoghese.

 

 

 

 

Il caso delle isole Molucche

 

Spagna e Portogallo continuarono a rivendicare le isole asiatiche delle Molucche sotto la propria rispettiva sfera d'influenza. Le isole ricoprivano una grande importanza nel commercio delle spezie. Questa contesa si risolse nel 1529 con il trattato di Saragozza.

Carlo GATTI

 

 

 

Bibliografia:

 

- Enrico Gavalotti – Homolaicus – Sezione Storia – Modena

- STORIA in rete

 

- Tordesillas.webarchive

Rapallo, 8.4.2015


ENRICO MILLO, UN EROE CHIAVARESE

ENRICO MILLO

UN EROE CHIAVARESE

Enrico Millo di Casalgiate (Chiavari, 12 fe bbraio 1865 - Roma, 14 giugno 1930)   è stato un politico e militare italiano.

D'Annunzio e l'ammiraglio Millo a bordo dell'Indomito

MILLO (Millo di Casalgiate), Enrico. – Nacque a Chiavari il 12 febbr. 1865 da Gustavo conte di Casalgiate e da Luigia Anguissola di Altoè. Allievo della Regia Scuola di marina di Napoli dal 5 nov. 1879, proseguì il suo iter formativo presso la Regia Accademia navale di Livorno nel 1882.

 

In quegli anni eseguì le prescritte campagne addestrative a bordo della pirofregata “Vittorio Emanuele”, del trasporto “Città di Napoli” e della goletta scuola «Chioggia». Il 1° ag. 1884 divenne guardiamarina del corpo dello stato maggiore generale e un mese dopo si imbarcò sull’incrociatore “Amerigo Vespucci”, sul quale rimase per otto mesi, per poi passare sull’ariete corazzato “Affondatore” e, nel dicembre del 1885, sulla pirofregata corazzata “Ancona”.

 

Il 31 dic. 1885 al M. fu riconosciuto, per decreto reale, il diritto di portare il titolo di nobile dei conti di Casalgiate. Promosso sottotenente di vascello il 1° nov. 1886, l’anno successivo fu destinato a bordo dei trasporti “Città di Napoli”, “Conte di Cavour” ed “Europa”, con i quali ebbe modo di operare nel Mar Rosso; per tale attività gli fu computata la partecipazione alla campagna d’Africa del 1887. Dopo altri imbarchi, il M. divenne tenente di vascello il 1° nov. 1889. Il 15 ott. 1896 sposò Clelia Ranieri Tenti. Il 15 dic. 1898 fu nominato cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia e il 1° sett. 1900, dopo quasi sedici anni di continui imbarchi, ebbe il suo primo incarico a terra in qualità di capo sezione al ministero della Marina a Roma; il 1° genn. 1901 fu promosso capitano di corvetta.

 

Nel numero del giugno 1901 del periodico Rivista marittima pubblicò un interessante articolo intitolato Manovra delle artiglierie. Energia idraulica od elettrica? nel quale egli sosteneva l’impiego di quest’ultima.

 

Il 16 genn. 1903 il M. tornò a navigare, dapprima come comandante della torpediniera “118 S” e poi sul caccia «Fulmine». Il 6 nov. 1904 fu destinato di nuovo al ministero della Marina, dove, il 16 luglio 1905, ebbe il grado di capitano di fregata. Dopo aver servito brevemente sulla vecchia corazzata “Lepanto” come sottocapo di stato maggiore della divisione, dal 16 apr. 1906 fino al 14 nov. 1907 fu comandante in seconda della nave da battaglia “Benedetto Brin”, per poi svolgere per circa sette mesi la funzione di capo divisione al ministero della Marina.

 

Nominato comandante del trasporto “Volta”, il Millo ebbe modo di segnalarsi durante i soccorsi alle popolazioni sinistrate dal terremoto che il 28 dic. 1908 aveva colpito Messina e altri centri vicini, meritando una medaglia di bronzo.

 

Il 24 genn. 1909 divenne cavaliere dell’Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro e il 26 giugno successivo ebbe il comando della cannoniera “Volturno” con la quale svolse una crociera nel Mar Rosso e nell’oceano Indiano, salpando da Venezia il 1° luglio.

 

Durante la navigazione egli cannoneggiò la popolazione del villaggio di Borch in Somalia, che si era mostrata ostile agli Italiani; appoggiò l’opera dei connazionali residenti in quell’area; fece eseguire rilievi topografici della foce dei fiumi Giuba e Scebeli; disincagliò un piroscafo britannico che si era arenato a Nimu; soccorse la popolazione di Zanzibar durante un’epidemia di vaiolo ottenendo un’alta decorazione dal suo sultano; fece costruire un pontile a Mogadiscio e infine, dopo aver riorganizzato il servizio delle comunicazioni via etere dell’intera colonia, sovrintese all’installazione di una potente stazione radiotelegrafica in quest’ultima località.

 

Mentre stava operando nelle acque dell’oceano Indiano, il 1° febbr. 1910 il M. fu promosso capitano di vascello e il successivo 6 novembre divenne ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia. Lasciato il comando della “Volturno” il 22 novembre, egli rimpatriò e, per l’attività svolta durante la permanenza in Africa, il 26 genn. 1911 fu nominato commendatore dello stesso Ordine. Destinato per la terza volta al ministero della Marina, questa volta come capodivisione, vi rimase fino al 26 sett. 1911 nell’imminenza della guerra italo-turca, allorché fu destinato sull’incrociatore corazzato “Vettor Pisani” come comandante e capo di stato maggiore dell’Ispettorato siluranti.

 

Incr. Corazzato Vettor Pisani

Torpediniera d’altomare SPICA. Anno 1905

Rivestendo quest’ultimo incarico egli pianificò, impiegando cinque torpediniere, la violazione dello stretto dei Dardanelli, avvenuta nella notte fra il 18 e il 19 luglio 1912, alla quale prese parte personalmente imbarcandosi sulla Spica”. L’azione, che aveva come scopo principale l’attacco alle grandi navi da guerra ottomane che si trovavano nello stretto, non conseguì i risultati sperati in quanto le torpediniere furono scoperte dalle sentinelle avversarie prima che potessero lanciare i loro siluri e costrette a ripiegare a causa dell’intenso tiro delle batterie sistemate lungo le sponde dello stretto.

 

Il Millo venne comunque ricompensato per questa impresa, con la concessione della medaglia d’oro al valore militare, la promozione a contrammiraglio per merito di guerra e inoltre, per l’impegno dimostrato già in precedenza come capo di stato maggiore dell’Ispettorato siluranti, ottenne la commenda dell’Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro.

 

Terminato il conflitto italo-turco, il 21 ott. 1912 divenne direttore generale degli ufficiali e del servizio militare e scientifico al ministero della Marina e un paio di mesi dopo ufficiale dell’Ordine mauriziano. Fu ministro della Marina dal 29 luglio 1913 al 13 ag. 1914 e in tale veste si impegnò per mantenere alta l’efficienza della forza armata dopo il massiccio impiego che ne era stato fatto nel corso della guerra contro l’Impero ottomano; il 3 sett. 1913 fu nominato senatore.

 

Il 28 dicembre successivo ottenne il titolo di cavaliere di gran croce decorato del gran cordone della Corona d’Italia e il 21 maggio 1914 quello di grande ufficiale dell’Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro, entrambi per motu proprio del re Vittorio Emanuele III.

 

Dal 16 sett. 1914 al 16 apr. 1915 fu comandante della Regia Accademia navale di Livorno. Poco prima dell’ingresso dell’Italia nella Grande Guerra egli tornò a navigare ottenendo dapprima il comando della divisione navale speciale e poi quello della divisione esploratori.

 

Svolgendo quest’ultimo incarico fu elogiato dal viceammiraglio Luigi Amedeo di Savoia, duca degli Abruzzi, comandante in capo dell’armata navale: il 1° e il 7 giugno 1915 per le missioni offensive condotte in Adriatico e il 13 ag. 1915 per come aveva organizzato la temporanea occupazione dell’isola di Pelagosa.

 

R.N.Conte di Cavour

R.N. Conte di Cavour

Il 10 ott. 1915 ottenne il comando della Ia divisione della Ia squadra, navigando sulla moderna corazzata “Conte di Cavour” e meritandosi un nuovo elogio dal comandante in capo dell’armata navale per come si era adoperato per organizzare la base passeggera di Valona;

 

 


 

il 17 maggio 1916 divenne responsabile della II divisione imbarcandosi dapprima sulla nave da battaglia “Vittorio Emanuele” e poi sulla “Regina Elena”. Svolgendo tale incarico il Millo, il 1° giugno 1916, fu promosso viceammiraglio e il 29 dicembre successivo, con motu proprio del sovrano, divenne commendatore dell’Ordine militare di Savoia per l’attività svolta durante il conflitto. Il 14 febbraio 1917 fu nominato comandante in capo del dipartimento marittimo di Napoli e, terminata la guerra, rivestì la delicata carica di comandante in capo militare marittimo della Dalmazia e delle isole Curzolane dal 15 nov. 1918 al 22 dic. 1920, periodo nel quale ebbe serrati contatti con G. D’Annunzio in seguito all’occupazione di Fiume.

 

Dal 6 apr. 1921 al 4 dic. 1922 fu presidente del Consiglio superiore di Marina, ottenendo in questo periodo il titolo di cavaliere di gran croce dell’Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro. Collocato in posizione ausiliaria a sua domanda per anzianità di servizio, fu iscritto nella riserva navale dal 1° genn. 1923 e lo stesso giorno divenne commissario del governo per il porto di Napoli, di cui ben conosceva i problemi per avervi prestato servizio nell’ultima parte del conflitto da poco concluso.

 

Il 1° dic. 1923 fu promosso viceammiraglio di squadra, grado poi convertito in quello di viceammiraglio d’armata. Il 15 genn. 1926 fu richiamato temporaneamente in servizio e destinato presso l’amministrazione centrale della Marina mercantile, e il 30 luglio successivo divenne ammiraglio d’armata.

 

Il Millo morì a Roma il 14 giugno 1930.

Enrico MILLO 
Capitano di Vascello

Medaglia d'oro al Valor Militare

Con perfetti criteri militari preparò una spedizione di torpediniere allo scopo di silurare possibilmente la flotta nemica. Assunto personalmente il comando della squadriglia, diresse la difficile impresa conducendola di notte con eroico ardire per ben 15 miglia sotto l'intenso fuoco delle numerose artiglierie costiere fino a riconoscere la piena efficienza delle navi nemiche.
Ricondusse la squadriglia completa al largo, manovrando con mirabile calma e perizia marinaresca sempre sotto il fuoco nemico. 
Dardanelli, 18 - 19 luglio 1912

 

 

Medaglia d'Argento Benemerenze Terremotati (terremoto 1908);

 

Commendatore dell'Ordine Militare di Savoia (1915-1918).

Campagne Militari (sopra e sotto)

Benemerenze - Elogi - Decorazioni

Imbarchi

 

 

Carlo GATTI

Rapallo, 8 Aprile 2015

 

Si ringrazia:

- l'Associazione IL SESTANTE di Chiavari

- Museo Marinaro Tommasino-Andreatta di Chiavari

 


BOMBARDAMENTO DI BARI - Cronaca di un Disastro

BOMBARDAMENTO DI BARI

Cronaca di un Disastro

La storia del Bombardamento di Bari é un gravissimo episodio della Seconda guerra mondiale che appartiene, ormai da 72 anni, soltanto alla cronaca. La stessa Marina USA considera quella tragedia un grande disastro militare, secondo solo al bombardamento di Pearl Harbour! Tuttavia, molti segmenti di quel disastro sono tuttora segreti, quindi ignorati dalla GRANDE STORIA.

 

Dopo l’8 settembre 1943, i tedeschi si erano trasformati da alleati in nemici. L’Italia era tagliata in due. Solo il Sud era in mano agli Anglo-Americani. 

La terribile pioggia di bombe lanciate dalla Luftwaffe colpì la città di Bari e il suo porto, la sera del 2 dicembre 1943. Vi furono mille vittime tra militari, alleati e civili. Il Comando Alleato tenne segreta l'esplosione di una nave USA carica di YPRITE.

 

Qualcuno ai massimi vertici militari disse: «Morivano e non si sapeva perché»

Con l’arrivo degli Alleati, che lentamente risalgono la penisola, il porto di Bari è diventato il porto strategico più importante, sia per l’organizzazione logistica dell’VIII armata inglese sul fronte adriatico, sia come base per il rifornimento di carburante della XV Air Force. Il suo Comando si trova nell’aeroporto di Manfredonia, da cui si dirama una rete di oleodotti che veicola 600 mila litri di carburante alla settimana verso gli aeroporti di Foggia, Gioia del Colle e Grottaglie.  Da questi aeroporti partono gli aerei che bombardano non solo il Nord e Centro Italia ancora occupate dai tedeschi, ma anche i punti nevralgici della Germania. Comandante è il generale americano James Doolittle, l’artefice del bombardamento di Tokyo del 18 aprile 1942.

 

 

Il pomeriggio del 2 Dicembre, la città assiste ad un ampio  volo di ricognizione di un Me.210 della Luftwaffe, ad una quota di 23.000 piedi. Il suo compito è quello di fotografare l’area urbana, il porto e l’aeroporto.

 

All’esperto pilota tedesco, il tenente Werner Hahn, non sfugge di sicuro il molo di “Levante” brulicante di navi e merci ammassate in banchina, come neppure le numerose navi all’ancora in attesa di ormeggiare in banchina per le operazioni commerciali. Sembra impossibile, ma l’Autorità Portuale, ossia il Comando Inglese, ritiene improbabile un attacco della Luftwaffe e compie un drammatico errore di valutazione.

 

 

Gli aviatori tedeschi si preparano per l’attacco

 

 

L’ordine é arrivato. Si parte.

 

Il sole è tramontato da due ore, il cielo é sereno, il mare é calmo. Un insignificante spicchio di luna sovrasta il Salento. Il porto di Bari è illuminato a giorno come se la guerra fosse da un’altra parte. Eppure il centro radar ha registrato i reiterati voli di un ricognitore tedesco, anche nei giorni precedenti la fatale incursione.

 

Improvvisamente, alle ore 19,25, suonano le sirene dell’allarme aereo. Gli aerei si trovano 30 miglia a NE di Bari.

Gli aerei tedeschi in arrivo sono 105, quasi tutti Junkers Ju-88, i bimotori da bombardamento più diffusi e collaudati; alcuni sono partiti dall’aeroporto di Ronchi dei Legionari, vicino a Monfalcone, gli altri da due aeroporti in Grecia, vicino ad Atene. Alle 19.30 gli aerei provenienti dai Balcani, sono sulla città.

 

Il cielo di Bari viene coperto da milioni di piccole strisce di stagnola (Chaff), che mandano in tilt i sistemi radar. Immediatamente i fari della contraerea del porto e dell’aeroporto squarciano il buio della sera, creando effetti cromatici mentre vengono a contatto con la stagnola. L’avvicinarsi cupo e assordante dei bombardieri tedeschi, cattura lo sguardo incredulo della gente che cerca disperatamente un rifugio. Le prime bombe colpiscono l’area urbana, ma l’obiettivo sono le numerose navi presenti in rada e ormeggiate in banchina.

Tutte le luci si spengono, cadono le prime bombe ed é un susseguirsi di esplosioni. La scena infernale é illuminata dai candelotti appesi a piccoli paracadute che scendono lentamente rivelando il disegno del porto e le quaranta grandi navi da carico alla fonda. I piloti tedeschi puntano le loro armi sulle navi della classe “Liberty” cariche di munizioni; ma ce n’é una che ha un carico molto pericoloso, anzi letale, si tratta della John Harvey, nelle sue stive sono presenti 90 bombe all’Yprite, un gas venefico e letale che trovò il suo primo utilizzo bellico sui campi di battaglia della Grande Guerra 1914-18.

Il nome di questa unità USA sarà per sempre legato all’unico episodio di guerra chimica della seconda guerra mondiale; un disastro le cui conseguenze si faranno sentire per più di mezzo secolo.

 

 

La contraerea posta a difesa dell’area portuale è presente in modo massiccio e si difende penetrando il cielo con i suoi 37mm traccianti. Questi proiettili, sviluppano lunghe linee colorate grazie ad una carica di magnesio inserita nel codolo della granata. Presto si delinea nel cielo una rete colorata che nulla può fare contro l’immane potenza di fuoco della Luftwaffe.

 

Alcune bombe centrano le navi sulle quali si sviluppano incendi che producono fiamme e volate di fumo nero a tutte le altezze. Altre cadono in mare sollevando colonne d’acqua biancastre che ricadono fragorose creando onde rapide e violente che strappano i cavi delle navi attraccate.

 

Il bombardamento é molto preciso, si direbbe chirurgico! Per fortuna, in soccorso della città portuale ormai disperata e agonizzante, si muove un VENTO DIVINO, credo sia difficile definirlo in altro modo. Questo imprevisto ALLEATO, all’improvviso, cambia direzione e spinge il fuoco, le fiamme e i fumi tossici verso il mare, mentre i bombardamenti non hanno ancora raggiunto la loro massima intensità. I quartieri dell’angiporto sono già impregnati di aria inquinata dagli incendi e, man mano che il bombardamento s’intensifica, le esplosioni si susseguono a velocità e a cadenza costante, come se fossero telecomandate a intervalli regolari. Alcune navi avvolte dal fumo si abbattono su un fianco e spargono nafta in mare che subito prende fuoco e si spande nell’area portuale, dove lance, zattere, salvagenti, legni informi e suppellettili galleggiano sostenendo naufraghi e corpi privi di vita.

 

Il “sacro vento” aumenta d’intensità e spinge sempre più lontano le nuvole tossiche dal centro abitato. Alcune navi cariche di ordigni esplodono insieme agli equipaggi tuonando per molte miglia di distanza.

 

In questa foto la JOHN HARVEY - La nave USA tipo Liberty, responsabile di una strage che ebbe lunghe ripercussioni sulla salute di tanta gente per i successivi 50 anni.

Alle 19,50 una bomba tra le tante colpisce l’obiettivo più pericoloso in quel momento: la liberty John Harvey, arrivata nel pomeriggio. Nelle sue stive sono stipate 2000 bombe M47A1 all’Azoiprite, dal peso di 45 chili ciascuna, per un totale di 91 tonnellate di Yprite utilizzato per la guerra chimica. Il gas denominato anche mustard per il suo colore simile alla mostarda era proibito dal trattato di Ginevra. La nave esplode e molti dei suoi numerosi ordigni sono proiettati in alto e scoppiano innescati dell’enorme temperatura. Il potente aggressivo chimico precipita inquinando le acque portuali.

 

In questa foto si nota l’effetto del VENTO DELLA PROVVIDENZA che spinge i venefici fumi verso il mare salvando la città da un destino dalle dimensioni catastrofiche.

 

Le bombe all’Yprite che non scoppiano a bordo, si squarciano depositando il prodotto tossico sul fondale del porto. Il gas “mustard” si miscela alla nafta incendiata, il fumo prodotto diventa un potentissimo veleno. Si disse che queste bombe dovevano essere utilizzate per contrastare un’eventuale attacco chimico tedesco.


 

Quel “velo mortale” che si forma sulla superficie delle acque avvelenate del porto, ustiona la pelle dei naufraghi avvelenando i loro polmoni. Degli 800 militari che vengono ricoverati e curati in modo superficiale al Policlinico gestito dal Comando Neozelandese per ustioni e ferite, ben 617 risultano intossicati dall'Yprite, ma i medici ignorano la causa per molti giorni. Per la stessa ragione, muoiono 250 civili. L'ultima vittima morirà un mese dopo il bombardamento, tra atroci dolori.

 

Alle 23 le sirene danno il cessato allarme.

Si contano le navi distrutte: 28

5 statunitensi: John Bascom - John Harvey - John L.- Joseph Wheeler -Samuel J.Tiden – John L.Motley.

 

5 inglesi: Devon Coast – Fort Athabaska – Fort Lajoie – Lars Kruse - Testbank

 

3 norvegesi: Bollsta - 1920 – Norlom -

 

11 italiane: Ardito – Cassala – Corfù – Frosinone – Genepesca II – Goggiam – Inaffondabile – Luciano Orlando – MB 10 – Porto Pisano – Volodda - Barletta

 

2 polacche: Puk - Lwòw

 

1 Francese: Aube

 

Non meno di quarantamila le tonnellate di materiale perduto.

 

TESTIMONIANZE

Le sofferenze e gli effetti del gas vengono raccontati dai superstiti,  gli americani cercano invece di mettere tutto sotto silenzio. Non vogliono che si sappia del carico di armi vietate dalla convenzione di Ginevra.

 

“Le navi, specie quelle che erano lungo il molo foraneo di levante“ - scriverà Augusto Carbonara, che era in città e vide scardinata dal bombardamento la finestra della sua camera da letto, “furono sorprese d’infilata dalle bombe tedesche. Erano tanto vicine che le bombe cadute in acqua furono molto poche. Alcune navi bruciavano, altre affondavano, altre, incendiate, rotti gli ormeggi, andavano alla deriva, avvicinandosi alle navi non colpite. Le navi che nella stiva trasportavano esplosivi dapprima si incendiarono e poi finirono per deflagrare e colpire tutto il porto e anche molte case della città vecchia. I vetri delle abitazioni di mezza Bari andarono in frantumi”.

La sorpresa dell’attacco e l’ignoranza del carico presente sulla Harvey causano i danni più gravi. La maggior parte dei marinai è in franchigia. Cinema e teatri - il Piccinini, il Petruzzelli, l’Oriente, il Margherita, il Kursaal - sono aperti e pieni di inglesi e americani; al Margherita, ribattezzato Garrison Theatre, si proietta “Springtime in the rockies”, con Betty Grable e John Payne. I militari più alti in grado si trovano al vicino Barion, trasformato in Circolo Ufficiali.

 

Gli italiani no. “Al momento dell’attacco, dal comandante agli ufficiali, ai marinai” - racconterà Oberdan Fraddosio, che quel giorno era l’ufficiale di guardia - “eravamo tutti in Capitaneria o sul posto di manovra delle ostruzioni retali alla testata del molo foraneo di levante. Non esistevano rifugi antiaerei. Non esistevano mezzi di protezione personale che non fossero vecchie maschere antigas inutilizzabili e inutilizzate. Perfino gli elmetti erano in numero inadeguato. Tutti rimasero ai loro posti fino alla fine dell’incursione”.

Il porto, come altre basi navali, ha sull’imboccatura una rete che viene aperta parzialmente per il passaggio di una nave. “Il Comandante” - racconterà ancora Fraddosio - “mi ordinò di eseguire una ricognizione nel bacino portuale portandomi fino alle ostruzioni. Nel percorrere le acque del bacino passammo molto vicini a navi che bruciavano e sulle quali esplodevano ancora le cariche dei cannoncini e delle mitragliere. Dovevamo tenerci sopravvento per evitare di essere avvolti dal fumo denso e acre degli incendi”. Quello che sembra fumo non è soltanto il fumo degli incendi; è anche il vapore dell’iprite”.

“Tra le navi” - racconterà ancora Augusto Carbonara - “fu colpita e incendiata anche la John Harvey, quella che, con altro materiale esplosivo, trasportava le cento tonnellate di bombe con l’iprite. I marinai rimasti a bordo tentarono con ogni mezzo di domare il fuoco, ma inutilmente, e dopo mezz’ora l’incendio si propagò alla stiva. Non ci volle molto che la nave saltasse in aria con tutto il suo carico e tutti gli uomini, compresi quei pochi che conoscevano la verità sul carico. Da quel momento cominciò l’inferno”.

 

La maledetta Mustard” - dirà ancora Carbonara - “si mescolò alla nafta venuta fuori dalle petroliere affondate e formò un velo mortale su tutta la superficie del porto. Coloro che dalle altre navi si lanciavano in acqua furono ben presto zuppi della maleodorante sostanza. I vapori dell’iprite si spargevano intanto su tutto il porto; bruciavano la pelle e intossicavano i polmoni dei sopravvissuti”.

All’ospedale neozelandese - scriverà Carbonara - “cominciarono ad arrivare i primi feriti. Molti, più che colpiti dalle esplosioni, erano provati dall’effetto del gas vescicante. Ma non si sapeva che fosse stato il gas a provocare tali effetti, perché, sul momento, nessuno lo intuì. Non vi erano vestiti di ricambio e pertanto non fu possibile cambiare d’abito i soldati che erano caduti nelle acque del porto. Chi non poté cambiarsi di sua iniziativa rimase quindi con gli abiti zuppi d’iprite, che non solo agì sulla pelle, ma fu assunta attraverso le vie respiratorie.

 

I primi inspiegabili collassi si ebbero dopo cinque o sei ore dalla contaminazione. Dopo, seguirono le prime morti, quasi improvvise, di gente che qualche minuto prima sembrava stesse per riprendersi. Tutti avevano la pelle piena di vesciche. Sulle ascelle, l’inguine e i genitali le pelle si staccava come avviene per le ustioni più gravi”.

Il giorno dopo, alcuni medici cominciano a intuire qualcosa. Un capitano della sanità si reca dalle Autorità Alleate per chiedere l’esatto contenuto delle navi colpite. Si telegrafa alle Autorità dei porti USA da cui le navi erano partite, ma nessuno dà o vuole dare una spiegazione; e anche in futuro la risposta non arriverà mai. Quante le vittime? Sarà impossibile calcolarne il numero; sicuramente intorno a un migliaio tra civili e militari. Oltre ai morti per le bombe e per i crolli, oltre ottocento militari sono ricoverati per ustioni o ferite; di essi 617 a causa dell’iprite. A Bari ne moriranno 84 e molti in altri ospedali italiani sia, ma anche in Africa del nord e negli Stati Uniti dove verranno trasportati.

 

I civili sono almeno 250. Nella città vecchia sono crollate alcune vecchie case e una di esse, non ricostruita, creerà una piazzetta al fianco della sacrestia della cattedrale. Nella parte nuova della città crollano tre edifici; due tra via Andrea e via Roberto, vicino alla chiesa di San Ferdinando, un terzo in via Crisanzio nei pressi della manifattura dei tabacchi.

 

Ma se il bombardamento” - racconta Paolo de Palma, un altro testimone della tragedia di Bari - “non si trasformò in un vero e proprio massacro per i cittadini baresi lo si deve al vento che si mise a spirare verso levante, evitando così un pericolo devastante. Forse fu San Nicola che volle ancora una volta tutelare la sua città”.

 

Su esplicite pressioni di Winston Churchill, verrà scritto: ”Morti a seguito di ustioni dovute ad azione nemica. Il porto di Bari verrà chiuso per tre settimane”.

 

Per la gravità del disastro, quello di Bari è conosciuto come il peggior disastro navale della seconda guerra mondiale dopo l’attacco di Pearl Harbor in cui le navi demolite furono parimenti 17.

 

Molti interrogativi rimangono ancora senza risposta.

 

Chi ha studiato a fondo il bombardamento di Bari si chiede:

 

- “I tedeschi sapevano del carico presente sulla Harvey?”

 

- “Il bombardamento fu davvero una casuale operazione pianificata contro un porto in mano nemica, oppure essi conoscevano i segreti che si trovavano al suo interno e la tragedia che ne sarebbe scaturita?

 

- “I cieli del Mediterraneo ed in particolare quelli dell'Italia del sud erano a quel tempo dominio incontrastato dell'aviazione Alleata, la quale poteva schierare quasi 3000 velivoli, mentre l'Asse poteva a stento schierarne 500. Com’é possibile che una forza di 105 bombardieri non sia stata intercettata da alcun caccia dell'USAAF o della RAF? Né dai radar che pure avvistarono più volte un ricognitore Me.210 volare sulla città e sul porto?”

 

- Dal relitto della USS John Harvey siano state recuperate molte bombe d’aereo inesplose, ognuna delle quali contiene 30 Kg di Iprite, C’é chi sospetta che siano state affondate nel basso Adriatico e che non siano mai più state recuperate.

 

Career (USA)

Name:

SS John Harvey

Builder:

North Carolina Shipbuilding Company-Wilmington

Yard number:

56

Way number:

2

Laid down:

6 December 1942

Launched:

9 January 1943

Completed

19 January 1943

Fate:

Bombed in Bari, 1943. Scrapped 1948.

CARATTERISTICHE:

Class & type:

Type EC2-S-C1 Liberty ship

Displacement:

14,245 long tons (14,474 t)

Length:

441 ft 6 in (134.57 m) o/a

417 ft 9 in (127.33 m) p/p

427 ft (130 m)w/l

Beam:

57 ft (17 m)[1]

Draft:

27 ft 9 in (8.46 m)

Propulsion:

Two oil-fired boilers-Triple expansion steam E.

2,500 hp (1,900 kW)

Single screw

Speed:

11 Knots  (20 km/h; 13 mph)

Range:

20,000 nmi (37,000 km; 23,000 mi)

Capacity:

10,856 t (10,685 long tons) (DWT)

Crew:

81

Armament:

Stern-mounted 4 in (100 mm) deck gun  for use against surfaced submarines, variety of   aircraft guns

In seguito alle tragiche conseguenze del bombardamento, Bari fu la prima città da cui partirono gli studi sugli effetti delle bombe chimiche sulle persone.

 

Carlo GATTI

Rapallo, 14 Gennaio 2014

 

COMMENTO

Leggendo il saggio sul Bombardamento di Bari mi tornano in mente alcuni ricordi di quando avevo 6/7 anni. Finita la guerra ci eravamo trasferiti tutti in un paesino sul mare, Santo Spirito,  a pochi chilometri da Bari. Ricordo che a quel tempo le spiagge e le campagne erano piene di proiettili, spaghetti di ballistite ed altri materiali bellici abbandonati. Con i miei fratelli e altri compagni di scuola andavamo a raccogliere questi pericolosi reperti e poi ci divertivamo a confezionare dei razzi che una volta accesi partivano verso l'alto come dei piccoli missili. Ogni tanto, purtroppo, arrivavano notizie di agricoltori che erano “saltati in aria” mentre aravano i campi a causa di esplosioni innescate da mozziconi di sigarette gettati inavvertitamente a terra. Anche se ero ancor più piccolo, ricordo che durante la guerra abitavamo a Masnago, vicino a Varese perchè mio padre era ufficiale di cavalleria ed era di stanza a Varese. Quando lui non c'era, gli prendevamo i proiettili di scorta della sua pistola di ordinanza e ci divertivamo a metterli sulle rotaie del tram e sentire i botti che facevano quando scoppiavano perchè schiacciati dalle ruote. Purtroppo a quei tempi non c'erano i pc, la tv e per divertirci e passare il tempo dovevamo pur inventarci qualcosa. Beata incoscienza!!!

 

PINO SORIO

 

 


LE PRIME NAVI DELLA STORIA FURONO BATTEZZATE SUL NILO

LE PRIME NAVI DELL STORIA FURONO BATTEZZATE SUL NILO

Il Nilo veniva considerato come una via tra la vita, la morte e l'oltretomba. L'Est era visto come un luogo di nascita e crescita, l'ovest come il luogo della morte, così come il dio Ra, il dio del sole, che nasceva, moriva, e risorgeva ogni volta che attraversava il cielo. Tutte le tombe vennero situate pertanto ad ovest del Nilo, da cui partire per l’oltretomba, ossia la meta finale per tutti.

 

Lo storico greco Erodoto scrisse che l’Egitto fu il dono del Nilo, e in un certo senso può essere vero. Senza le acque del fiume Nilo per l'irrigazione, la civiltà egiziana sarebbe stata probabilmente di breve durata. Il fiume fornì il limo e gli elementi per rendere vigorosa una civiltà, e ha contribuito molto alla sua durata che si snodò per 3.000 anni.

 

In origine l’Egitto era chiamato dai suoi abitanti: “To-Mera” (la terra del triangolo “Mr”). Questo simbolo geometrico era ritenuto sacro, perchè era, ed è ancora l’emblema delle nostre scienze matematiche e fra le sue applicazioni c’é la mappatura del cosmo e la sua proiezione sulla Terra: a certi astri corrispondono, ad esempio, le piramidi costruite appunto in Egitto.

 

 

 

 

Dal triangolo “mr” si possono ricavare i valori trigonometrici di tutti gli angoli da 1 a 360 gradi, perchè 36° sono 2/5 di un angolo retto e 1/10 di un’intera circonferenza. Oltre che essere un utile strumento di misurazione e rilevazione, esprimeva anche la sezione aurea, che è un rapporto fra numeri o dimensioni diversi, ed è espressa matematicamente dalla famosa serie di Fibonacci dove partendo da uno e sommando i numeri successivi si ottiene 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89 eccetera e dove il rapporto fra due di questi consecutivi numeri dà sempre il risultato di 1,618. E’ per questo che si usa il termine “Intelligenza Divina”, perchè sembra che la natura sia stata creata da un Grande Architetto e Matematico.

 

 

“Visto dall’alto l’Egitto, entro i noti confini, si presentava quindi come un rettangolo molto allungato, simile ad una colonna, entro il quale, col Nilo e l’estuario, un meraviglioso fiore cresceva a rappresentare  l’Armonia e la bellezza dell’Universo. Fu così che, ad immortalare questi concetti e queste realtà per l’eternità originò l’idea della “COLONNA”. Le colonne ed i colonnati, con i loro splendidi capitelli, la parte ridondante fino al confine estremo di 31° 30′ Nord, da quei remoti tempi dei creatori della civiltà, hanno ornato ed ornano i monumenti di tutto il mondo, a testimoniare i sentimenti di omaggio e ammirazione per la perfezione del Cosmo e del suo Spirito Divino”.

 

 

Questa premessa di carattere scientifico ci fa capire in parte, quanto ancora oggi – specialmente nel settore dell’arte navale – il mondo intero abbia un debito storico verso la civiltà antica egizia.

 

Gli egizi furono, infatti, i primi marinai della storia ed inventarono le navi per il trasporto fluviale. Dopo circa 2 millenni i romani inventarono le galere, navi robuste che montavano uno sperone per offendere meglio le navi nemiche. Questo tipo di navi continuò ad essere usato fino alla prima metà del '700.

 

 

 

NAVI EGIZIE ANTICHE

 

 

Seguono alcuni profili di navi egizie che mostrano lo sviluppo del disegno e della progettazione navale attraverso i secoli. (sito di riferimento: mitidelmare.it )

 

 

1) - Nave egizia del Regno Antico - V Dinastia – 2550 a.C.

 

 

 

2) - Nave egizia del Regno Nuovo XVIII Dinastia – 1500 a.C.

 

 

3)- Nave egizia da cerimonia Anno 1800 a.C.

 

 

 

4) -Nave egizia in legno - Anno 1700 a.C.

 

 

 

 

 

 

Piramide di Cheope

 

LA BARCA SOLARE DI CHEOPE

 

 

La barca solare di Cheope vista di prora

 

 

La barca solare di Cheope, una delle imbarcazioni  più antiche del mondo, fu scoperta nel 1954  dagli archeologi egiziani Kamal El-Mallakh e Zaki Nour nella piana di Giza, in una fossa sul lato sud della Grande piramide.

 

 

 

La Barca Solare di Cheope vista di poppa. Si notano i due remi-timone

 

 

 

Barca Solare di Cheope, primo piano dei cinque remi della sezione prodiera, lato sinistro.

 

 

Barca Solare di Cheope. Sezione centrale e Cassero.

 

 

 

Barca Solare di Cheope. Il Cassero centrale visto da poppavia.

 

 

 

Barca Solare di Cheope. Parte della chiglia vista dal basso.

 

 

 

Serviva a condurre il faraone nell'oltretomba. Racchiusa in una camera ermeticamente sigillata, la barca era scomposta in 1224 pezzi, il cui legno si è conservato intatto per più di 4600 anni.

 

Gli elementi della barca furono trasportati in un vicino magazzino, dove venne intrapresa una grandiosa opera di restauro e di paziente  “rimontaggio” della nave che durò oltre vent'anni. Il risultato del lavoro fu una barca lunga oltre 43 metri, con cinque file di remi per lato, più due a poppa, con funzione di timone. Dal 1982 il grande e prezioso reperto è esposto in un museo progettato e creato appositamente dall'architetto italiano Franco Minissi che lo sistemò a fianco della Grande piramide di Cheope.

 

 

Per chi si accinge a visitare Giza, conosciuta al mondo perchè ospita le tre famose piramidi della IV dinastia, ecco come si presenta esternamente il Museo della Barca Solare di Cheope, racchiusa in una stravagante capsula spaziale, costruito nel 1982 dall’architetto italiano Franco Minissi. Il museo è stato collocato nello stesso sito in cui, nel 1954, venne alla luce un’imbarcazione tra le più antiche del mondo per opera di un’équipe di archeologi egiziani. L’imbarcazione, realizzata in cedro del Libano, misura 42 metri di lunghezza ed è dotata di cinque remi per lato. La ricostruzione ha permesso l’unione di ben 1200 pezzi in quattordici anni di lavoro. Il legno si è conservato intatto per oltre 4600 anni.

 

L’utilizzo pare sia stato quello di trasportare il corpo del faraone Cheope dalla sponda orientale a quella occidentale del Nilo, per meglio dire dal mondo dei vivi a quello dei morti. Alcuni segni sul legno lasciano intendere un uso in acqua prima del seppellimento. Tuttavia gli egittologi ancora non sono concordi sull’uso e soprattutto sul significato simbolico dello smontaggio e della tumulazione.

 

 

Barca Solare di Cheope. Una delle cinque Fosse rinvenute.

 

In totale, cinque fosse di "barca solare" sono state scoperte nei pressi della Grande Piramide di Cheope, e altre cinque vicino a quella di Chefren, ma soltanto la prima di esse fu ricostruita con tutti gli attrezzi nautici, remi, cime e cabina ed è esposta, come abbiamo già visto, nel museo che si trova a sud di Cheope (nella foto).

Interrogativi senza risposta

 

- Quale era la reale funzione di queste imbarcazioni?

 

Gli studiosi se lo chiedono dal giorno della loro scoperta, purtroppo inutilmente.

 

Nei rilievi dell'antico Egitto sono spesso raffigurate barche di quel tipo. In unatomba di Deir el Bersha è stato trovato un modello di barca che reca la riproduzione di una mummia in viaggio verso la sepoltura. Gli egittologi propendono nel credere che anche Khufu sia stato trasportato verso la tomba su un'imbarcazione funeraria simile (in effetti sembrerebbe che la barca sia stata usata in navigazione).

 

- Per quale motivo sarebbe stata sepolta a così poca distanza da un'altra barca dello stesso tipo rinvenuta nel 1984?

 

- Perché tagliarla in 1224 pezzi invece di seppellirla intera?

 

Nessuna risposta certa, se si considera che le “barche solari” sono presenti fin dalle prime Dinastie e si ritrovano anche nella IV; mancano, invece, completamente nella III (Huni), e nel primo sovrano della IV dinastia (Snefru).

 

 

Allo stato attuale delle conoscenze, legate alla casualità dei ritrovamenti archeologici, l'egittologia non è in grado di dare risposte certe.

 

 

Carlo GATTI

Rapallo, 9 Gennaio 2015

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


LA TRAGICA FINE DELLA BALENIERA ESSEX

LA TRAGICA FINE DELLA BALENIERA ESSEX

ISPIRO’

 

L’AUTORE DI MOBY DICK

A partire dal 1400, i coraggiosi pescatori baschi furono i primi a cacciare le balene con agili scialuppe che, una volta arpionati i capodogli, avevano anche il compito di rimorchiarli a terra. In seguito i cetacei scelsero rotte più lontane per evitare gli agguati sotto costa e i pescatori, diventarono “marinai d’altomare” per poterle inseguire utilizzando Karake alte e potenti della lunghezza di 20 metri. Più tardi queste imbarcazioni furono sostituite dalle Caravelle dotate di maggiore manovrabilità e capacità di stivaggio. Tra il 1700 e il 1800 la caccia ai cetacei immortalata da Melville, raggiunse il suo apogeo e la tipica nave-baleniera acquisì il suo shape definitivo. I primi Sloops ad un solo albero furono costruiti e armati a Nantucket nel 1715, ma in seguito, come accadde alcuni secoli prima in Europa, le zone di caccia si estesero per tutti i sette mari. Fu così che l’Oceano Pacifico diventò la nuova meta dei cacciatori di balene, ma per superare le insidie di Capo Horn occorrevano baleniere a tre alberi di almeno 400 tonnellate, con una capacità di stivaggio idonea per affrontare campagne di pesca della durata di 3-4 anni.

 

Quando, il 6 settembre del 1841 il Charles W.Morgan (nella foto) salpò per il suo viaggio inaugurale dal porto di New Bedford, nel Massachusetts; erano trascorsi solo nove mesi da quando un’altra nave, la baleniera Acushnet aveva imbarcato per la sua prima esperienza di caccia un giovane scrittore: Herman Melville. Oggi, quel che di più tangibile resta dell’epopea delle baleniere americane è quanto di vero Melville scrisse in “Moby Dick“, e poi c’è la Morgan, ultima superstite di una flotta che contava 2700 navi dedicate alla sola caccia ai cetacei.

Ma se vogliamo farci un’idea più precisa dobbiamo salire a bordo di una qualsiasi baleniera ed ascoltare il narratore:

 

“Il ponte della nave era soggetto a rapido deterioramento vista l'azione di bollitura del grasso di balena e dello squartamento dei cetacei, effettuato con pale estremamente taglienti. All'arrivo nelle zone di caccia sul ponte principale veniva eretta una piattaforma di mattoni sulla quale erano poste grandi marmitte metalliche (in genere 2) e un recipiente di raffreddamento pieno d'acqua per cercare di limitare gli effetti del calore. Al termine della caccia, riempite le stive, il forno veniva demolito: questa circostanza era accompagnata da festeggiamenti dell'equipaggio. Le baleniere erano prevalentemente di colore nero, con una striscia bianca su entrambi i fianchi intervallata da riquadri neri, disegnati per simulare alla distanza la presenza di bocche da fuoco, onde prevenire in qualche misura attacchi”.


Nel 1820 la baleniera ESSEX, che faceva compartimento Nantucket-USA, entrò in collisione con un enorme capodoglio. La tragica storia che ne seguì, pare abbia ispirato il più celebre narratore americano Herman Melville per il suo Moby Dick.

 

 

Pollard, il comandante della Essex, era incappato in mari poco pescosi, le stive della baleniera erano quasi vuote e il grasso di balena era molto richiesto per l’imminente inverno. Dalle coste atlantiche di Nantucket era necessario passare dall’altra parte, nell’Oceano Pacifico, ma era pur sempre una sfida infernale. Nessuno era mai riuscito a doppiare Capo Horn senza soffrire le pene dell’inferno e Pollard ne ebbe la conferma, ma ci riuscì senza danni eccessivi ai tre alberi e all’attrezzatura di bordo.

Scampato il pericolo dei “Quaranta Ruggenti”, risalì per meridiano le coste spelate del Cile e poi si spinse al largo dell’Oceano verso rotte solitarie, forse mai navigate, alla ricerca del carico più prezioso che il mare poteva offrire due secoli fa: una grande balena, la cui cattura non era mai gratuita. Dopo settimane e settimane di snervante “niente in vista”, improvvisamente si sentì un urlo partire dalla coffa, il marinaio di vedetta aveva avvistato una grande famiglia di capodogli.Il comandante Pollard toccò il cielo con un dito: fece calare tre scialuppe-baleniere e ordinò agli equipaggi d’inseguire quel branco entrato, in quel periodo, nella stagione degli amori.

 

La lancia più veloce mise la prua su un enorme maschio di capodoglio che si fece astutamente raggiungere per attirare su di sé il predatore. L’esperienza dei marinai di Nantucket non fu sufficiente ad evitare la tremenda collisione che li fece volare insieme ai loro remi e alla scialuppa che nella ricaduta si capovolse e finì in pezzi sulle loro teste. Due uomini si salvarono a nuoto e furono recuperati a stento dai marinai terrorizzati delle due altre lance che accorsero immediatamente.

Il capodoglio fece un ampio giro, poi mise la ESSEX nel mirino, prese la rincorsa e si scagliò con la sua incredibile massa verso il fianco della nave-officina procurandole una “tragica” falla. L’equipaggio sotto schock non sapeva come reagire, ma la balena si.

L’enorme cetaceo riemerse nuovamente e con la stessa potenza devastante colpì ancora una volta la già ferita ESSEX colandola a picco con i marinai che non fecero in tempo a saltare sulle lance.

 

Passati 78 giorni dal naufragio, i 20 superstiti approdarono fortunosamente sulla spiaggia dell’atollo di Henderson. Purtroppo, in breve tempo esaurirono le scorte di frutta e di acqua, quindi decisero di ripartire lasciando tre compagni sul piccolo atollo nell’attesa d’improbabili soccorsi.

 

L’Oceano chiamato Pacifico dimostrò ancora una volta di essere calmo, ma letale. Un crudele destino era alle porte di quella sfortunata spedizione. I naufraghi, estremamente indeboliti e senza una attendibile posizione nautica, andarono alla deriva con le loro lance cominciando a morire di sete e di fame. La disperazione mista a follia li spinse al cannibalismo dei compagni morti e quando anche questa risorsa si esaurì, si convinsero della necessità di una terribile, estrema soluzione: uccidere un compagno, estratto a sorte e mangiarne il corpo. Così fu, perché così fu raccontato dal capitano e da Owen Chase quando, finalmente, 300 miglia al largo delle coste del Cile, una nave salvò i due sopravvissuti.

 

Il rimorso per il cannibalismo e il tragico sorteggio avrebbe segnato il resto della vita degli uomini sopravvissuti. Il resoconto di uno degli otto superstiti, Owen Chase, sconvolse il pubblico ottocentesco: in particolare colpì Herman Melville, che ne trasse ispirazione per Moby Dick, la storia della Pequod, anch'essa salpata dal porto di Nantucket.

 

L’impari lotta degli uomini di mare contro le tempeste, il freddo, le malattie, l’ombra della morte che saltella sui pennoni nell’attesa di scagliarsi sulla prossima vittima, l’impercettibile cima della sopravvivenza cui si aggrappa la ciurma disperata, altro non sono che la realistica parabola sul destino umano. Il Dio dei marinai di Nantucket li rende padroni del mare e delle sue creature, ma pone anche un limite al loro orgoglio scagliandoli negli abissi dell’oceano, oppure trasformandoli in vermi costretti a nutrirsi della loro stessa carne.

 

 

Carlo GATTI

Rapallo, 28 Dicembre 2014

 

 

 


DONNE

Donne

 

E sedutosi davanti al tesoro (Gesù) osservava come la folla gettava monete nel tesoro; e tanti ricchi ne gettavano molte. Ma venuta una povera vedova vi gettò due spiccioli, cioè un quattrino. Allora, chiamati a se i discepoli, disse loro: <In verità vi dico: questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri, poiché tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere.>

Marco, 12,38-44

 

Questo è ciò che anch’io penso delle donne e della loro generosità.

 

Non ne ho parlato molto in questi miei ricordi, non perché, ininfluenti, abbiano attraversato la mia vita, anzi; se la vivo serena, è anche grazie alle straordinarie figure femminili che ho avuto la fortuna di incontrare, da mia madre a mia moglie sino all’ultimo sempre al mio fianco, anche in quanto ho qui scritto, ma perché, ragazzo a quel tempo, ci si soffermava meno sull’altro sesso, imbevuti com'eravamo di “fascistico” maschilismo. Avanzando negli anni, capii che, come ricordava l’affascinante attrice Michèle Morgan, sono loro <…che sempre pagano un prezzo più alto >.

 

Volendo rendere omaggio a tutte sotto una visione laica, mi limiterò a ricordare quelle del tempo di guerra perché, proprio in simili situazioni estreme, emergono le qualità essenziali; furono leonesse nel portare avanti il loro ruolo di perpetuatrici della specie.

 

E’ provato statisticamente che nove mesi dopo luttuose calamità, c’è un incremento della natalità; è l’uomo che, a fronte di tanta morte o paura, tenta, a volte anche inconsciamente, di rilanciare la vita come fa l’albero che, prima di morire, produce in un ultimo sforzo vitale, più frutti e quindi più semi, così da assicurare la continuità alla specie.

 

E’ difficile parlare di loro senza cadere nell’ovvio o nel moralismo, ma una cosa va detta: l’Italia, spaccata in due e abitata da italiani ormai fuori di senno, senza alcuno che facesse rispettare la legge, occupata da stranieri che in casa nostra si combattevano e ci combattevano, grazie alle donne, ha continuato a vivere.

 

Le famiglie, ancorchè smembrate da forzate assenze d’alcuni suoi componenti, non si sono sfasciate per loro merito e le hanno traghettate sino ai giorni nostri, sopperendo alle assenze maschili, sostituendole in casa, nel lavoro e nella scuola, rivelando una combattività fino allora insospettata.

 

Oggi, passata l’emergenza e dimenticandosi alcuni cosa seppero fare quelle donne per salvare la famiglia dallo sfascio, accompagnando per mano quei bambini sino a divenire uomini, oggi dicevamo auspicano di poter impunemente sostituire quel coagulante con non si sa quale alternativa.

 

Noi figli, nonostante crescessimo in quel caos generale che per quanto se ne parli oggi, resta inimmaginabile, siamo stati, al limite dell’impossibile, accuditi e dalle nostre madri abbiamo appreso ancora i vecchi principi fondamentali che ora, in tempo di benessere, sono messi in discussione, se non dimenticati da chi ci ha seguito. Quell'educazione si rivelò preziosa per il nostro equilibrio, facendoci sperare e stimolandoci, fin da allora, a credere e, appena possibile, a dar vita ad un domani migliore anche se, quotidianamente in quei tempi, i violenti con il loro agire, parevano smentirle e disattenderle.

 

 

All’epoca della Repubblica di Salò, negli ultimi tempi della guerra, uscendo da casa, potevi incappare in uno sconosciuto morto ammazzato in strada; era consigliabile non fermarsi per recitare anche una sola preghiera perché, con quel gesto d’umana pietà potevi, platealmente e senza neppure volerlo, dare l’impressione agli esecutori di non condividere le motivazioni di quell’uccisione; agli occhi degli altri invece, saresti stato “etichettato” e perseguito assieme alla tua famiglia, quale sostenitore della parte che lo aveva ucciso, anche se a te, quest’ultima, continuava ad esserti realmente ignota. Vicino a quei morti ho sempre visto una qualche donna pregare piangendo.

 

 

In tutto questo sovvertimento di valori umani, si possono anche capire se non giustificare, quelle donne che si dettero agli occupanti tedeschi, non certo per condivisione della loro fede politica o per accettazione ideologica della dittatura; molte v’incapparono nella ricerca di un contatto, che poi si rivelò galeotto, atto a poter liberare il congiunto appena caduto in una retata cittadina, attuata per catturare forze di lavoro da deportare in Germania a sostituire i lavoratori tedeschi inviati al fronte, o peggio, solo per eseguire una rappresaglia vendicativa.

 

Altre, irretite da promesse rivelatesi poi mendaci, pensarono di rendersi utili ai parenti “internati” nei lager (all’epoca, non si sapeva cosa realmente succedeva in quei campi) dimostrandosi compiacenti con gli occupanti sperando di, attraverso questi, influenzare i loro camerati aguzzini, per permettere almeno di far arrivare colà, aiuti e corrispondenza.

 

Questa disponibilità finiva con il “rompere il ghiaccio”, anche fin troppo, fra le parti. Gli occupanti potevano apparire, agli occhi di chi aveva bisogno di tutto per vivere che, attraverso loro, si sarebbe anche potuto tentare di alleviare le sofferenze dei loro cari “internati”. In molti casi, in quei giorni, gli occupanti parevano detenere tutto ciò che esse ritenevano vitale. In fine c’è anche l’altro aspetto che non và sottaciuto; tutti gli uomini validi erano da troppo tempo lontani da casa e, si sa, la carne è debole. A loro volta gli stessi occupanti avevano dovuto lasciare le loro famiglie, e sapevano anche che anche là quotidianamente venivano bombardate. Solo dopo si seppe cosa realmente, in quei giorni, stava succedendo in Germania; mio zio Mario, lavoratore deportato, “aggiustatore” dalle mani d’oro, seppe rendersi utile in mille frangenti. Quante volte, il giorno dopo l’ennesimo bombardamento, veniva inviato  a riassestare le case bombardate dove incontrava vedove bianche, a loro volta disponibili.

 

Finita la guerra, quelle che avevano ingiustificatamente perso la testa furono, dai partigiani, arrestate, insultate ed esposte al pubblico ludibrio, dopo essere state rasate e aver loro imbrattato con pittura il cranio nudo; venivano poi fatte sfilare per le strade e tutti si sfogavano ad insultarle o peggio.  In quelle occasioni, come sovente capita, le più implacabili accusatrici furono spesso le altre donne, quelle la cui condotta, nel frattempo, non era certo irreprensibile con gli ultimi arrivati, i “liberatori”.

 

Generalmente, le prime, venivano rinchiuse per qualche giorno in guardina e, dopo averle sommariamente processate e redarguite, rispedite a casa, additandole come <puttane >.

 

 

 

Quelle invece che si portarono, in letti del tutto simili, i “liberatori”, sono passate alla cronaca dell’epoca con l’accattivante nomignolo di <segnorine >. Entrambe però furono spinte, forse senza neppure saperlo, dalla necessità di riconfermare il trionfo della vita sulla morte, andando assieme al maschio, in quel momento, “dominante”. Questo, di massima, era la situazione che poi, caso per caso poteva anche avere altre motivazioni.

 

Non intendo dare giudizi morali perché racconto cose viste e memorizzate con gli occhi di un ragazzo cresciuto, per alcuni anni, in mezzo alla morte, al dolore, alle privazioni e alla paura; bisogna inquadrare tutto in quel particolare momento storico e psicologico in cui spesso non era facile ravvisare il bene dal male, il torto dalla ragione e il falso dal vero. Eravamo troppo affamati, terrorizzati ed assonnati per poterlo nettamente percepire.

 

E tutte le altre donne? Come sempre capita a chi, in silenzio, compie il proprio dovere, la quasi totalità soffrì a casa, tacitamente cercando, nei limiti del possibile, d’essere punto di riferimento, supplendo così anche chi era forzatamente assente; stettero, finché fu loro possibile, vicino ai propri uomini, non facendo loro mancare la propria presenza ogni qual volta ve ne fosse l’opportunità.

 

Contrariamente alla guerra “15/18”, quest’ultima portò il fronte in mezzo alle nostre case e nelle nostre strade; anche qui si poteva morire a causa dei continui bombardamenti o per mano di avversari fuori di senno, soffrendo disagi, spesso paragonabili a quelli di chi combatteva. E le donne, eterno punto di riferimento, passarono attraverso quest’immane tempesta, preparando noi ragazzi, nell’attesa del ritorno dei padri sopravissuti, ad affrontare il dopoguerra senza mai perdere di vista i veri valori dell’uomo, mai come in quei giorni così travisati e calpestati.

 

In questo ricordo è giusto accomunare le donne della gente di mare che a Genova, ed in Liguria in generale, terra di marittimi, sono sempre state numerose. Se pur allenate a lunghi periodi di forzata separazione, in tempo di conflitto quella trepidazione divenne incubo continuo perché le notizie negative o, quanto meno contraddittorie, fornite dai vari bollettini radio, che per ragioni di segretezza frammista alla propaganda, censuravano i dettagli, non indicando mai dove erano realmente avvenuti gli attacchi che stavano segnalando ne sapevano dove quel giorno stava navigando il loro congiunto. Nell’indeterminatezza, ognuna poteva pensare di aver perso il familiare e, quindi tutte indistintamente, n'erano coivolte; né contribuiva a confortarle il nostro servizio postale, cronicamente inefficiente ma che in tempo di guerra, ove possibile, lo era ancor più.

 

Quelle poche lettere che riuscivano ad arrivare, moltissime andarono distrutte per causa di eventi bellici, avevano molte righe cancellate da un impenetrabile largo segno nero, specie in quei passaggi che indicavano luoghi o date ma anche semplici espressioni di sconforto o disappunto a riprova che l’unica cosa da noi funzionante efficientemente era la censura fascista che, in questa specifica attività, faceva faville.

 

Molte volte gli scriventi tornavano prima che giungessero le loro ultime lettere ma, troppo spesso, succedeva che quelle ferali del Ministero fossero recapitate alla famiglia dai Carabinieri, magari un attimo dopo aver finito di leggere la tanto attesa lettera, consegnata poco prima dal postino tradizionale e firmata da chi, nonostante tutto, continuava a scrivere di credere in un avvenire migliore da edificarsi a fine guerra.

 

 

 

In ultimo, non posso non ricordare tutte quelle donne ebree, madri o spose che, pur di non distaccarsi dalla propria famiglia, decisero spontaneamente di imbarcarsi esse stesse sui treni che deportavano nei lager i loro cari e poi, contemporaneamente ad essi, ma in campi rigorosamente separati, soccombere.

 

Tutto quello che ho scritto è frutto di ciò che oggi rivedo come se   stessi guardando uno sfocato dagherrotipo; come quello, anche la memoria non è sempre di facile “lettura”. Posso anche aver descritto cose che, pur nella più completa buona fede, la patina del tempo che sbiadisce ogni cosa, mi può aver fatto travisare; perdonatemi, sarà l’età e l’infinito amore per questa mia Liguria.

 

Volendo fare un bilancio della mia vita devo dire che fu varia e senza insormontabili mutamenti; questo grazie alle persone che mi sono state attorno. Mio padre mi ha dato esempio di retta onestà e mia madre di profonda e partecipata fede. Per parte mia posso essere onorato d’aver vissuto accompagnato da pochi veri amici ma per me importanti, due dei quali sono oggi tumulati nel Famedio dei Genovesi Illustri a Staglieno.

 

Un solo grande, incolmabile rimpianto è quello di aver perduto, negli ultimi chilometri che mi rimangono da percorrere, la insostituibile compagnia di mia moglie. Il destino, insensibile ai miei desiderata, ha dato invece corso al proprio programma già predeterminato.

 

A tutte loro dedico questa poesia di Vito Elio Petrucci, il poeta che mi ha è stato amico per una vita:

 

FIN CHE NO TI SENTI

Fin che no ti senti

in te’na notte de lunn-a

l’ödô do limoneto

derrê a-a muagetta:

allöa l’è primmaveja.

Gh’è drento tutti i peccoei do mondo

E a coae de fâne di atri.

Allöa lìè primmaveja, pe accorzise

Che appreuvo a quello fî d’äia döçe

( o gusto ti o senti in bocca)

Gh’è o segreto de ‘na natüa

Che de peccòu in peccòu a fa cammin.

Libera traduzione: Finché non senti in una notte di luna l’odore del pittosporo dietro al muricciolo: allora è primavera. Ci sono dentro tutti i peccati del mondo e la voglia di farne degli altri. Allora è primavera per accorgersi che dietro a quel filo d’aria dolce (il gusto lo senti in bocca) c’è il segreto di una natura che di peccato in peccato fa cammino.

Renzo BAGNASCO

foto del webmaster Carlo GATTI

Rapallo, 28 dicembre 2014