LE RIPARAZIONI NAVALI DEL PORTO DI GENOVA

 

LE RIPARAZIONI NAVALI DEL PORTO DI GENOVA

di Fausto Mazza

 

Zona Industriale delle Riparazioni Navali

Negli spazi esigui delimitati fra punta molo vecchio a ponente e la marina della fiera a levante, esiste la Zona Industriale delle Riparazioni Navali, una realtà del nostro porto dove ogni giorno si attua la convivenza, spesso forzata, di importanti realtà dell’industria navale con attività storiche di aggregazione sociale e del diporto nautico.

L’attività delle Riparazioni Navali del Porto di Genova ha il suo baricentro nei bacini di carenaggio, gestiti dall’ Ente Bacini che vengono messi a disposizione delle Officine di Riparazione, dei Cantieri Navali e delle Società Armatrici per tutti quei lavori che necessitano della messa a secco della nave per la loro esecuzione.

L’ingresso di una nave in bacino è una manovra che non ammette errori, la sua esecuzione è fortemente condizionata da vari fattori fisici quali le dimensioni della nave, l’estensione della sua opera morta con il relativo effetto vela, le caratteristiche del suo apparato propulsivo e di manovra, l’ingresso della nave in vasca con la prua o con la poppa, la necessità di mantenere in vasca una posizione obbligata in relazione all’ esecuzione dei lavori o meno, l’intensità e la direzione del vento.

A seconda delle caratteristiche di manovra della nave, delle condizioni meteorologiche, e/o di particolari esigenze tecniche legate al posizionamento della nave nella vasca, il coinvolgimento dei servizi portuali potrà essere limitato al solo Pilota o esteso anche a rimorchiatori e ormeggiatori.


La nave si sta avvicinando al Bacino di carenaggio

Esaurita la fase piu’ dinamica dell’ingresso in vasca e stabilizzata la nave sugli ormeggi, inizia quella meno spettacolare, ma altrettanto importante, del centraggio della nave e successivo prosciugamento della vasca.

Durante questa fase, il Dock Master affina la posizione della nave in vasca facendo tonneggiare la nave sugli ormeggi, con l’ausilio dei sommozzatori verifica il corretto posizionamento della carena rispetto allo scalo e, coordinandosi con il personale di bordo, progressivamente svuota la vasca portando la nave ad appoggiarsi sullo scalo.

Ai fini della buona riuscita di queste manovre, la sinergia fra l’equipaggio della nave, i servizi portuali e il Dock Master, è fondamentale.

Esauriti gli aspetti tecnico nautici delle manovre di ingresso in vasca e incaglio, le attività in bacino diventano attività di natura industriale. Le lavorazioni che vengono effettuate in bacino sono quelle caratteristiche della riparazione navale:

Carenaggio vero e proprio con lavorazioni di lavaggio ad alta o altissima pressione, sabbiatura, pitturazione a spruzzo di tipo airless;

Lavorazioni di carpenteria metallica pesante, quali la demolizione mediante ossitaglio, lo sbarco di parti dello scafo e la loro sostituzione con elementi nuovi  da montare sul posto e poi saldare;

Interventi di manutenzione meccanica a carico degli apparati di propulsione e governo che possono comportare lo smontaggio la movimentazione ed il rimontaggio di parti di dimensioni e peso notevolissimi, quali eliche e assi porta eliche, timoni, pinne stabilizzatrici.


La nave é allineata sull'asse del bacino

I lavori piu’ spettacolari sono quelli che prevedono una componente di movimentazione dei carichi. Tipicamente queste lavorazioni si concretizzano negli sbarchi e/o imbarchi di grossi macchinari oppure negli smontaggi e/o montaggi di componenti meccaniche in carena quali timoni, stabilizzatori, bow thrusters, eliche e assi. In questi casi il personale addetto alle movimentazioni, i cosiddetti “marinai” di cantiere, lavorano fianco a fianco con i meccanici, fornendo loro l’assistenza necessaria a presentare e a montare pezzi di peso considerevole e grandi dimensioni con le tolleranze minime tipiche delle lavorazioni meccaniche.

Gli imbarchi di grandi macchinari più spettacolari sono caratteristici delle grandi avarie o dei lavori di trasformazione, operazione resa più complessa dalla presenza della struttura e degli impianti esistenti a bordo.

Questi lavori prevedono: una fase di preparazione, che comporta lo smontaggio degli impianti e il taglio delle strutture che potrebbero ostacolare la manovra; la manovra di movimentazione vera e propria, che può richiedere l’intervento di mezzi di sollevamento esterni al Cantiere quali pontoni o gru semoventi di grande portata; il posizionamento con successivi montaggio e collegamenti; il ripristino delle strutture e degli impianti circostanti precedentemente demoliti.

Le soste in bacino delle navi sono sempre caratterizzate dal poco tempo a disposizione. A prescindere dagli oneri derivanti dal fermo nave, il nolo della vasca comporta sempre un esborso consistente per gli Armatori, che vogliono ridurre al minimo la sosta sfruttandola al massimo. Il personale della ditta assuntrice dei lavori si trova a operare in una situazione caratterizzata da una grande pressione commerciale.  Qui entra in ballo la professionalità delle figure che intervengono a bordo, che dovranno gestire lavorazioni talvolta pericolose e spesso incompatibili fra loro, garantendo, oltre all’esecuzione delle lavorazioni nei tempi previsti e a soddisfazione del cliente e della Società di Classificazione, anche il rispetto delle normative vigenti in materia di igiene e sicurezza. Non è un compito facile.

Le professionalità che intervengono a bordo delle navi e in bacino sono varie. Carpentieri in ferro e saldatori, tubisti, meccanici, elettricisti ed elettronici, falegnami, moquettisti, piastrellisti, coibentatori, picchettini e applicatori, marinai di cantiere e ponteggiatori lavorano fianco a fianco, sotto il coordinamento del Cantiere, con in mente la data di fine lavori convenuta col cliente. Durante l’esecuzione delle lavorazioni, la teoria, spesso, deve lasciare il campo a favore della pratica. Il contributo apportato da tecnici e maestranze esperti è sempre determinante ai fini del successo, sia tecnico che commerciale, delle operazioni.

Le Riparazioni Navali sono un mondo relativamente piccolo dove tutti si conoscono.  Trovandosi spesso assieme per effettuare lavorazioni particolari in condizioni a volte al limite mette le persone alla prova e fa sì che fra di esse si sviluppi un particolare senso di appartenenza e di cameratismo. In questo ambiente particolare e, se vogliamo, un po’ antiquato, il concetto di “politicamente corretto” non ha attecchito. Per chi non è dell’ambiente, il primo impatto con questo modo di essere tipicamente portuale fatto di mugugni, sfottò, conversazioni urlate con le mani davanti alla bocca a mo’ di altoparlante, puo’ essere duro. Tuttavia, professionalità, serietà e rispetto reciproco sono in questo ambito, più che altrove, valori fondamentali per la convivenza sul posto di lavoro e per la buona riuscita dei lavori.


Il Comandante dell’Ente Bacini Antonio Lo Curzio ed il C.P. John Gatti

Fausto Mazza, autore del presente articolo, è il 1° Yard Captain – HSE Manager presso T. Mariotti S.p.A. – Shipyard

 

Rapallo 22 Giugno 2018

Webmaster: Carlo Gatti

 

 

 


BATTAGLIA DELLA MELORIA

 

BATTAGLIA DELLA MELORIA

6 Agosto 1284



 

PREMESSA:

Anche tra RAPALLO e i Pisani c’é stato un lungo contenzioso…

Scrive Antonio Calegari:

…..Così nel maggio 1087 i pisani vi piombano sopra “viriliter” (come scrisse l’Unghelli) smantellando il castello, incendiando la Chiesa e facendo schiavi uomini e donne.

…..Così nel 1284 Rapallo è duramente provata dalla flotta veneto-pisana, comandata da Alberto Morosini e da Loto Donoratico, figlio quest’ultimo del ben noto conte Ugolino. Pisa è la nemica di Rapallo, la quale arma alcune galere per contrastarne le forze, sempre in unione alla flotta genovese. Fin dal 1229 Rapallo si è volontariamente assoggettata a Genova.



Infatti nell’anno 1284 navi rapallesi partecipano valorosamente alla famosa battaglia della Meloria nella quale i pisani subirono così dura sconfitta.


Galea genovese

La storia della Repubblica di Genova, dai suoi esordi fino al suo epilogo nel 1797, s’intreccia con la storia di queste imbarcazioni particolari. Le galee dominano il Mediterraneo per oltre mille anni: ad esse sono legate le più importanti battaglie navali combattute in questo periodo, dalla Meloria a Lepanto. In questa lunghissima storia, i genovesi svolgono un ruolo importante: apportano innovazioni e modifiche, diventano tra i costruttori più apprezzati di questi scafi.

Ma la storia delle galee non è solo una storia di tecniche costruttive e militari: alle galee è legato un mondo, quello dei vogatori, in origine liberi e volontari, ma a partire dal XVI secolo, per lo più schiavi e forzati.

Lo stemma di Pisa

Lo stemma della città è rappresentato dalla bandiera rossocrociata. La bandiera rossa, inizialmente priva di croce, fu concessa alla Repubblica di Pisa da Federico Barbarossa. La città fu costantemente fedele all'impero e almeno dal 1242 fu portata in mare. La croce bianca, che simboleggia il popolo pisano, fu aggiunta successivamente. Nel 1406, la città perse l'indipendenza e da allora la bandiera simboleggia il Comune. Oggi lo stemma della città è inglobato sugli stemmi e le insegne marittime italiane insieme a quelli delle altre tre repubbliche marinare.


Galea biremi pisana

Scrive Georg Caro:

Ma negli anni precedenti si ha notizia di galere rapallesi; nel 1232, quando Rapallo invia una galera a Genova per essere incorporata nella flotta destinata ad aiutare i cristiani di Ceuta minacciati dai saraceni; ed in seguito negli anni 1258, 1262, 1265, 1270, numerosi legni da guerra si affiancano alle navi di San Giorgio nella lotta contro i comuni nemici. Parallelamente nei secoli XIII e XIV, quei di Rapallo sviluppano una rilevante attività commerciale-marittima, soprattutto col Levante, a quanto è lecito supporre, per esempio, dalla numerosa colonia rapallese dislocata a Cipro. In essa emergono, come naviganti, armatori e commercianti, i nomi della casata dei Ruisecco e dei Pastene. Un Domenico Pastene (fine del ‘300) diventa il più grande commerciante dell’isola, viaggia molti anni in Egitto, Siria, Asia Minore, Mar Nero, sino al golfo Persico, inviando interessanti relazioni diplomatico-commerciali alla Repubblica di Genova, lasciando infine tutte le sue ricchezze al Banco di San Giorgio. E Rapallo manda persino sulle rive del Lemano alcuni suoi figli, un Sacolosi ed un Andreani, quali maestri d’ascia per la costruzione di galee sabaude. Pure alla fine del ‘300 un Antonio Colombo di Rapallo è comandante di galee. (Su questo argomento ci siamo già occupati su questo sito).


Faro della Meloria
(foto di S. Guerrieri - archivio Area Marina Protetta)


Torre della Meloria
(foto di S.Guerrieri - archivio Area Marina Protetta)

 

Per il racconto della Battaglia della Meloria (1284) abbiamo preso come testo di riferimento:

“BENEDETTO ZACCARIA”

di Roberto S. LOPEZ

Ediz. CAMUNIA Editrice 1996 - Firenze

« Benedetto Zaccaria è una delle splendide figure di un tempo nel quale non mancavano spiccate personalità...Il mare era la sua patria; egli aveva percorso tutte le coste del Mediterraneo alla testa di galere da guerra, ora al servizio di Genova, ora al soldo di principi stranieri »

La battaglia della Meloria ci é stata raccontata in tante versioni tra le quali, per la verità, emergono numerose discordanze, imprecisioni e direi anche suggestioni più o meno di parte…

Per la nostra ricerca ci siamo messi nelle mani di una GUIDA sicura, un Pilota di razza: lo studioso genovese Roberto S. Lopez che nacque a Genova nel 1910 – si laureò in Storia Medievale nel 1932 con la tesi: Benedetto Zaccaria, ammiraglio e mercante. Genova marinara nel Duecento, che pubblicò nel 1933.

Nella prefazione di questo libro la celebre storica genovese Gabriella Airaldi ha scritto:

“Quando vide la luce nel 1933 il Benedetto Zaccaria del giovanissimo Lopez rappresentò per molti aspetti una novità. In esso, infatti, le intenzioni dell’autore facevano della vicenda dell’uomo anche uno strumento nuovo per leggere le forme di vita di una delle grandi potenze medievali, Genova, alla luce di un “medioevo degli orizzonti aperti”. D’altra parte, la capacità di leggere e d’interpretare con raffinato metodo un ampio spettro di testimonianze e le brillanti capacità espositive collocarono subito Lopez nel ristretto Olimpo di questi scienziati capaci allo stesso tempo di colloquiare con l’accademia e con un più vasto pubblico”.

Perché Benedetto Zaccaria? Chi era costui?

Per lo storico Lopez, e per altri autori, è stato un personaggio poliedrico: uno dei più abili ammiragli del Medioevo, vero vincitore della Battaglia della Meloria, mercante, scrittore, diplomatico, politico.

MELORIA (A. T., 24-25-26 bis). - Con questo nome si designa, più che uno scoglio, una zona di bassifondi sabbiosi e fangosi, disseminati di rocce a 2-5 m. di profondità, e di scogli affioranti, su uno dei quali a circa 7 km. a ponente di Livorno sorge un'antica torre, edificio a base quadrata ad archi, alto 20 m., eretto dai Pisani a uso di faro; 200 m. più a S. sorge il faro moderno in ferro, le cui coordinate geografiche sono di 43° 32′ 45″ lat. N. e 10° 13′ 10″ long. E. I bassifondi si estendono per circa 6 km. da N. a S.


La battaglia della Meloria. - Fu la più cruenta e decisiva delle battaglie navali combattute tra le due repubbliche di Genova e di Pisa, nella secolare lotta per il dominio del Tirreno.

Nell’anno 1284, la guerra tra le due Repubbliche Marinare era già in atto da oltre due anni.

Già un violentissimo scontro era avvenuto nelle acque di Sardegna, a Tavolara, tra Enrico de' Mari, capitano della scorta d'un ricco convoglio genovese, e un'armata pisana agli ordini di Guido Zaccia, con la perdita di dieci galee pisane.

La parola a Roberto S. Lopez:

Il 22 aprile 1284, presso l’isola di Tavolara, tredici navi da guerra pisane furono prese e una affondata da un convoglio mercantile di cui faceva parte una galea da carico di Benedetto e Manuele Zaccaria. Proseguendo nel loro viaggio, i vincitori catturarono ancora due navi nemiche, e ne vendettero l’equipaggio a Siracusa, per dileggio, in cambio di cipolle. Ecco dunque che si formava, nel Tirreno come nell’Egeo, quella stretta catena nella quale corsari, mercanti e militari si davano la mano.

Poco dopo i Genovesi, agli ordini di Benedetto Zaccaria, bloccarono il porto di Pisa; ma approfittando di una momentanea assenza della squadra di blocco, tutta l'armata pisana, forte di 72 galee (secondo altre fonti 75), uscì al largo agli ordini del podestà, il veneziano Albertino Morosini, col proposito d'impedire la congiunzione della squadra dello Zaccaria con un'altra di 52 galee che si stava frettolosamente armando a Genova agli ordini di Oberto D'Oria. Il Morosini condusse l'armata nelle acque di Genova, schierandosi a sfida dinnanzi al porto (31 luglio); ma il sopraggiungere dello Zaccaria costrinse il podestà di Pisa ad allontanarsi per non essere preso in mezzo tra le due squadre nemiche.

La parola a Roberto S. Lopez:

Quattro giorni dopo la partenza (da Tavolara), Benedetto Zaccaria era già a Porto Pisano, a dare la mala Pasqua ai cittadini di Pisa; incrociò molto tempo in quel mare, fu visto alla Gorgona alla fine di giugno, perlustrò i mari di Corsica e di Sardegna…. Mentre quelle di Pisa non s’arrischiavano a lasciare i sicuri ormeggi del porto…. Ammiraglio e mercante, lo Zaccaria comprese che per colpire a morte la città nemica occorreva anzitutto paralizzare il suo commercio, separarla dalle colonie di Sardegna e del Levante, tagliarle i rifornimenti marittimi. …. In tre mesi nemmeno una nave di Pisa andò a cadere nelle reti del genovese.

L’apparente inerzia dei Pisani… doveva soltanto servire a dar tempo di allestire la grande armata che avrebbe vendicato fin nel porto di Genova l’onta di Tavolara…. Anima della riscossa pisana era il nuovo podestà, entrato in carica dal 1° di marzo, uomo di grande valore anche a detta de’ suoi nemici; il veneziano Alberto Morosini.

Alla metà di luglio l’INVINCIBILE ARMADA era pronta: 65 galee e 11 galeoni.

A bordo erano stati caricati in gran numero quei famosi trabocchetti che avrebbero dovuto infliggere a Genova l’umiliazione di un bombardamento.

Pisa s’era svuotata di difensori per equipaggiare le galee, sulle quali era salito il fiore della nobiltà e molti popolari della città e del contado; v’erano il podestà, tutto il collegio dei giudici, il conte Ugolino col figlio lotto della Gherardesca e col nipote Anselmuccio.

L’animosità e la brama di rivincita avevano fatto commettere a Pisa una grande sciocchezza: giocare il tutto per il tutto in una sola spedizione che, se fosse fallita, non avrebbe potuto essere rinnovata; mentre Genova, più popolosa, anche dopo aver persa una flotta poteva senza troppo aggravio metterne in mare un’altra.


Già attivo e conosciuto nel III e II secolo a.C., il porto pisano nasce in una zona abitata già in ere precedenti alla nascita di Roma. Si hanno cenni di popolazioni stanziali dedite alla pesca nel territorio oggi pisano, nei secoli IX e VIII a.C.. La zona rappresentava un ampio golfo formato dalle foci del fiume Arno e Serchio. Nel corso dei secoli l’area fu interessata da forte insabbiamento che formò ampie zone paludose distinguendo nettamente le foci dei due fiumi. Il Portus Pisanus comincia ad essere citato come tale nel II secolo d.C. alludendo come ad una delle più importanti strutture portuali della vasta area lagunare. Altro centro portuale di questa zona era posto nei pressi di San Piero a Grado, probabilmente con caratteri di scalo fluviale, dove la leggenda narra sia sbarcato San Pietro nel luogo ove sorge la mirabile Basilica di San Piero a Grado. Il Portus Pisanus, probabilmente fu base della flotta romana in azione nel Mar Ligure.

Com’é noto, Pisa non si trova sul mare, essa è costruita sul fiume Arno e per difendere la sua flotta costruì un faro a Porto Pisano nel XII secolo ma ben presto l’erosione marina e l’insabbiamento resero inutilizzabile sia il porto sia il faro. A questa distruzione aveva contribuito anche la terribile battaglia che Pisa combatté nel 1284 contro i genovesi tra le secche della Meloria. I Pisani nel frattempo, intorno al 1200, avevano eretto una nuova torre su una di queste pericolose secche, circa quattro miglia al largo della costa, come una sentinella notturna per prevenire i naufragi fra quelle pericolose rocce.

La parola a Roberto S. Lopez:

I Pisani pensarono di uscire di sorpresa dal porto, annientare con forze preponderanti le navi di Benedetto Zaccaria e piombare sulla città nemica impreparata e ancora sotto il colpo della sconfitta. Cogliere i Genovesi di sorpresa non era difficile: avvezzi ormai alle gradassate dei Pisani, sebbene venisse loro riferito che una grande flotta stava per muovere da Pisa, non ci credettero. Ma una tempesta inchiodò per molti giorni la flotta pisana alla bocca dell’Arno. La sorpresa era fallita: Benedetto Zaccaria, che probabilmente stava da tempo sull’avviso, ricevette dal Comune lettere di richiamo, mentre era nel porto di Tizzano in Corsica e si preparava ad assalire Sassari; senza indugio egli fece vela per Genova.

Il Morosini, uscito da Bocca d’Arno il 22 luglio, pensò che lo Zaccaria sarebbe tornato per la Riviera di Ponente, puntò direttamente su Albenga per tentar di tagliargli la strada: ma l’ammiraglio genovese rimpatriò per La Riviera di Levante.

Il 31 luglio la squadra del Morosini, senza aver incontrato quella dello Zaccaria, comparve dinanzi a Genova. Ma la città aveva avuto il tempo di mobilitare i marinai delle due Riviere, e in poche ore – quante occorsero ai nemici per giungere da Varazze, dove erano stati avvistati la mattina, alle adiacenze del porto – furono pronte 58 galee e 8 panfili, sotto il comando di Oberto d’Oria.

LE ARMI USATE SULLE GALEE

Non mancavano i mezzi per scagliare grosse
pietre a distanza: le galee avevano a bordo gran numero di arnesi di lancio meccanico:
catapulte, mangani, trabocchetti, balestre fisse, gatti, briccole, alcuni dei quali gettavano proiettili di trenta libbre e anche più. I Genovesi, anzi, erano famosi come balestrieri e costruttori di balestre; e poiché anche allora le armi navali più pesanti erano dello stesso genere di quelle usate nella tecnica d'assedio terrestre, oltre che pietre, dalle navi si scagliavano liquidi bollenti (olio, pece, calce viva, anche sapone liquido per far scivolare gli uomini sul ponte);
Non mancavano anche altri ordigni bizzarri, come quell'
«arganel» rotante, che aveva per braccia una quantità di spade affilate, che fu visto alla battaglia della Meloria sulla prua d'una galea pisana. I Pisani s'erano ripromessi di sorprendere i Genovesi con questo nuovo strumento d'offesa, ma s'ingannarono: galea e arganello andarono a ingrossare i trofei della vittoria nemica."

La parola a Roberto S.Lopez

Forzare l’entrata di un porto così ben munito non pareva possibile; né il d’Oria volle uscire a dar battaglia con forze di tanto inferiori, sebbene i Pisani lo aizzassero con clamori e vituperi. …. Non c’é ragione di dubitare che, ( i pisani) trovandosi così vicini alla città nemica, non abbiano adoperato i famosi trabocchetti per far piovere” a grandigia dentro le mura palle coperte di panno scarlatto” o balestrarvi “quadrella d’argento”.

Comunque fu breve trionfo: la sera medesima Benedetto Zaccaria, sfuggito alla caccia delle navi pisane, da Portofino entrava sano e giulivo nel porto di Genova.

La situazione era rovesciata: e tutto il merito era dello Zaccaria. Se egli avesse perso qualche ora, gli avvenimenti avrebbero preso una piega molto diversa….

Ormai era tardi: se il Morosini avesse aggredito lo Zaccaria prima che entrasse in porto, certamente Oberto d’Oria lo avrebbe preso in mezzo, con forze preponderanti.

La sola salvezza dei Pisani, trionfatori la mattina, stava ormai in una precipitosa ritirata. La parola FUGA ripugnava a una flotta che era partita per compiere una spedizione punitiva: i cronisti pisani asseriscono che i loro connazionali si staccarono dalle acque nemiche per via del vento contrario…quasiché le navi di Benedetto Zaccaria fossero state intessute d’Eolo e di brezze.

La notte medesima Oberto d’Oria, lasciato sgombro il porto, andò a ormeggiarsi davanti alla spiaggia di Sturla. Quando le due flotte genovesi riunite giunsero nelle acque del Porto Pisano, i Pisani vi erano dal giorno prima. Si raccontò più tardi che la loro squadra era rientrata in città, che gli equipaggi erano stati passati in rivista fra i due ponti sull’Arno e benedetti dall’arcivescovo Ruggeri: e che durante la solenne cerimonia il globo con la croce posto sullo stendardo era caduto a terra. Terribile presagio; ma gli orgogliosi Pisani gridando “battaglia, battaglia!erano usciti incontro al nemico e avevano disprezzato il celeste avvertimento. Favole: i Pisani il tempo di muoversi da porto Pisano prima che arrivassero i Genovesi lo avevano avuto: la croce dello stendardo cadde realmente dall’asta, ma prima ancora che l’armata partisse per il bombardamento di Genova.


Estate 1284: nel braccio di mare di fronte alle Secche della Meloria, le due Repubbliche Marinare si contendono l’egemonia sul Mediterraneo.

La sera del 6 agosto 1284 il mare davanti a Livorno era rosso di sangue e ingombro di cadaveri che galleggiavano tra remi spezzati, vele strappate, gomene tagliate, scialuppe rovesciate. La potenza della Repubblica Marinara di Pisa era tramontata, schiacciata da Genova.

Alla loro volta i Genovesi inseguirono i Pisani che, dopo avere volteggiato verso Capo Corso, erano tornati a Porto Pisano. Per attirare i nemici a battaglia, il d'Oria ricorse a uno stratagemma, ordinò cioè allo Zaccaria di calare le vele e gli alberi e di nascondersi con una parte dell'armata (forse presso Montenero di Livorno): sicché, contate le vele nemiche e vistele molto inferiori di numero alle sue, il Morosini deliberò di accettare il combattimento, e uscì dal Porto Pisano dirigendosi verso il nemico. La battaglia avvenne il 6 agosto presso le secche della Meloria (pare che Iacopo Doria chiamasse Veronica lo scoglio), e dapprima parve volgere in favore ai Pisani, le cui 102 tra galee e navi minori erano molto superiori alle 60 del d'Oria, e appoggiate alle secche presentavano un aspetto formidabile. Ma a un tratto ecco avanzarsi contro la formazione pisana la squadra dello Zaccaria, che dava ai Genovesi, se non la superiorità del numero, il vantaggio della sorpresa. Era ormai per i Pisani troppo tardi per ritirarsi ed evitare l'avvolgimento di una delle ali, comandata da Andreotto Saraceno. Si combatté disperatamente, non più per la vittoria, bensì per la salvezza.


Ma quando lo Zaccaria con due galee accoppiate, fra le quali era tesa una grossa catena, venne a investire la capitana pisana, troncandone di netto al primo urto lo stendardo bianco con l'immagine della Vergine, la linea pisana cominciò a spezzarsi; poi, dopo disperata resistenza, fu rotta. E incominciò l'inseguimento e la strage. Solo l'ala sinistra, grazie all'abilità e alla prudenza di Ugolino della Gherardesca, che la comandava, poté mettersi in salvo, riparando nel porto e conservando così a Pisa una parte delle sue forze navali, circa venti galee. Delle altre, come dice l'iscrizione apposta sulla facciata di S. Matteo, chiesa dei D'Oria, 33 furono prese, 7 affondate. Le perdite dei Pisani furono di circa 5000 morti e, secondo l'iscrizione, di 1272 prigionieri. Tra essi il podestà Morosini e Lotto, figlio di Ugolino. Le perdite genovesi furono anch'esse molto gravi; ma mentre Pisa senza retroterra non poteva più rialzarsi e, circondata com'era da feroci nemici (Lucca, Siena, Firenze), era destinata irrimediabilmente a perdere libertà e dominio, Genova, avendo nelle due riviere inesauribile riserva di uomini, poté ben presto riparare ai vuoti.

Torre della Meloria luogo della Battaglia

«La battaglia della Meloria», un dipinto di Giovanni David (1743-1790) collocato a Genova sopra l’ingresso del Salone del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale

La sera del 6 agosto 1284 il mare davanti a Livorno era rosso di sangue e ingombro di cadaveri che galleggiavano tra remi spezzati, vele strappate, gomene tagliate, scialuppe rovesciate. La potenza della Repubblica Marinara di Pisa era tramontata, schiacciata da Genova. Le due città erano in lotta perché i loro interessi commerciali si sovrapponevano sia nel Mare Tirreno (entrambe aspiravano al controllo di Sardegna e Corsica) sia nel resto del Mediterraneo (tutte e due avevano colonie in oriente e si contendevano i flussi di spezie e seta). Il confronto era impari perché Genova, stretta tra mare e montagna, non doveva fronteggiare nemici in terraferma, mentre Pisa, avvantaggiata dal fatto di sorgere alla foce dell’Arno, sbocco sul mare per tutta l’economia toscana settentrionale, era braccata da città ostili (Lucca per prima) sempre pronte ad attaccarla.

LA FATAL BATTAGLIA

Di Roberto S.Lopez

La flotta genovese, comparsa il 5 agosto di sera davanti alla Meloria, vide la mattina dopo i vascelli pisani ancorati sotto la protezione delle torri di Porto Pisano, dietro le catene che ne chiudevano l’accesso.

Perché i nemici credessero di avere davanti a sé la sola squadra di Oberto d’Oria, le galee di Benedetto Zaccaria ammainarono le vele e seguirono il grosso dell’armata a una certa distanza, in modo da poter essere scambiate per quelle barche che di solito accompagnavano le navi da guerra: non però così lontane da non poter intervenire a tempo nella mischia.

Era il giorno di San Sisto, data consacrata per tradizione alle battaglie navali.

I Pisani abboccarono all’amo. L’armata della riscossa, tornata senza gloria e a mani vuote, non poteva rientrare a Pisa, e tollerare per di più lo sfregio della presenza dei Genovesi davanti al porto…

(Ingannato dallo stratagemma) Morosini giudicò avere quella leggera superiorità numerica che gli avrebbe accordato parecchie galee favorevoli sui Genovesi, i quali dovevano essere anche stanchi del viaggio.

La flotta pisana uscì dal porto sicuro e si schierò di fronte a quella nemica. Da quel momento l’esito della lotta fu deciso.

La battaglia della Meloria é stata narrata più e più volte da altri, cosicché non ci attarderemo troppo a descriverla. Come é noto i Pisani, usciti dal porto alla mattina, non potevano muovere all’assalto perché erano coperti d’armi pesantissime, e imbarcati su vascelli carichi dei trabocchetti già destinati all’onta dei Genova, e resi ancor più grevi dalla corazzatura degli scudi. Ne approfittarono i genovesi per lasciar cuocere gli avversari fino a vespro, sotto il solleone d’agosto; poi, distribuito pane e vino ai marinai ormai riposati dal viaggio, attaccarono.

Da ambo le parti si combatté con grande valore; si scagliavano dardi, sapone liquido, calce polverizzata a nuvole che oscuravano l’aria, mentre il mare si tingeva di sangue; ma poco dopo l’inizio della battaglia – mentre, a detta d’un cronista poco sospettoso perché appartenente a una città neutrale, i Pisani vincevano – sopraggiunse Benedetto Zaccaria a far tracollare la bilancia dalla parte dei Genovesi. La loro galea capitana era venuta a battaglia con quella dei Pisani: subito lo Zaccaria accorse in aiuto del supremo comandante, intuendo che là si decideva la lotta. I Pisani avevano due stendardi, uno dei quali issato sulla nave ammiraglia: lo Zaccaria, legata una catena agli alberi di due galee, le fece passare l’una a destra l’altra a sinistra della ammiraglia; nell’urto il pennone fu falciato e cadde il drappo vermiglio recante l’immagine della Madonna, che vi sventolava. Nello stesso tempo la galea di S. Matteo – dove erano saliti, a quanto pare, duecentocinquanta persone della famiglia d’Oria, fra le quali i generi di Benedetto e Manuele Zaccaria, Paolino e Niccolò – assaliva il vascello pisano sul quale sventolava la bandiera del Comune, che fu tosto lacerata: ma solo dopo lunghi sforzi si poté abbattere l’asta ricoperta di ferro.

La caduta dei due stendardi segnò il principio della rotta: i Genovesi, fatta prigioniera la galea ammiraglia nemica, diedero l’assalto generale; e i Pisani, che sino allora avevano combattuto con disparata tenacia, cercarono salvezza nella fuga. Fu detto che per primo fuggisse il conte Ugolino, con tutta una sezione dell’armata: ma il suo non fu tradimento, ché anzi valse a salvare alla Repubblica almeno una piccola parte di quella superba flotta, che ormai era votata alla distruzione.

Sette galee erano state sommerse. Trentatré vascelli; una moltitudine di prigionieri (contando anche quelli catturati nelle precedenti battaglie, più di novemila) fra i quali il podestà Morosini, tutto il collegio di giudici, il conte Lotto che solo grazie alla prigionia poté poi sfuggire alla morte nel carcere della Fame; il sigillo del podestà, lo stendardo, la cancelleria del Comune pisano: questa la preda superba dei Genovesi.

Ma anche i vincitori avevano subite perdite gravissime, cosicché non tentarono un assalto alla città – l’avrebbero trovata indifesa e prostrata sotto il peso delle sciagure, che avevano colpita in essa quasi ogni famiglia – e ritornarono subito a Genova senza celebrare con grandi feste un trionfo per cui tante famiglie dovevano vestir gramaglie.

A CHI VA ATTRIBUITO IL MERITO D’AVER IMMAGINATO LO STRATAGEMMA CHE PROCURO’ LA VITTORIA? AL COMANDANTE SUPREMO DELLA SPEDIZIONE GENOVESE OBERTO D’ORIA OPPURE A BENEDETTO ZACCARIA?

Ce lo spiega Roberto S. LOPEZ

In genere si credette, e si crede, che la gloria spettasse al capitano del popolo, ammiraglio supremo della squadra: Oberto d’Oria, tanto più che la sua famiglia, a ragione considerata fra le più illustri di Genova, si fece il panegirico da sé nella famosa iscrizione della chiesa di San Matteo. Anche l’Annalista di Genova – Jacopo d’Oria, fratello dell’ammiraglio – attribuisce il piano di battaglia a Oberto: ma, considerata la stretta parentela che lo univa a lui, non c’é da stupirsene.

Piuttosto può sembrare strano che negli Annali si trovi solo un vago accenno alla disposizione delle galee dello Zaccaria, cosicché noi la ignoreremmo senza il chiaro racconto di un altro cronista. Si direbbe che Jacopo d’Oria abbia a bella posta lasciato in ombra un accorgimento che non fu dovuto a suo fratello.

Ma confrontiamo il curriculum vitae di Benedetto Zaccaria con quello di Oberto d’Oria. Questi prima del 1284 aveva compiuto un saccheggio dell’indifesa isola di Candia, e due volte, nel 1271 e nel 1283, uscito in forze dal porto, era tornato senza nemmeno aver combattuto.

La medesima irresolutezza si palesa dopoché i Pisani hanno tentato di bombardare Genova: superiore a loro per forze, invece di costringerli a battaglia tende loro un trabocchetto abbastanza grossolano, e perde un tempo prezioso prima d’inseguirli. La Meloria, se non é il battesimo del fuoco per il d’Oria, é per lo meno la sua prima battaglia. E anche l’ultima: nel 1295, ottenuto di nuovo il comando di una flotta – la più grande che Genova avesse armato, centosessantacinque galere – se ne servì soltanto per giungere a Messina, aspettarvi inutilmente diciotto giorni la squadra veneta (con grande stupore dei Siciliani, che non vedevano l’ombra di un veneziano) e tornare indietro senza aver torto un capello o bruciato una chiatta al nemico.

Non é dunque un capitano così dubbioso, esitante, scialbo che poteva aver concepito il piano e la condotta della battaglia fatale ai Pisani. Un altro uomo accanto a lui, con attribuzioni di comando quasi indipendenti, aveva l’esperienza e l’ingegno necessari: Benedetto Zaccaria.

Uno storico eminente ha osservato che la formazione della flotta genovese alla Meloria era uguale ad una di quelle trattate fin dal secolo IX da un tattico greco, Leone il Filosofo: coincidenza fortuita, o non piuttosto vestigio dell’opera di un ammiraglio educato alla scuola di Bisanzio? E, quand’anche le imprese dello Zaccaria contro i pirati dell’Egeo non fossero arra (garanzia) bastante per proclamare il suo genio militare, le vittorie smaglianti che più tardi riportò contro i Saraceni del Marocco sono ben degna di quella che nel 1284 troncò la secolare gloria di Pisa, e mutò così la storia del mare.

La formazione tattica usata per la prima volta nel 1284, da Benedetto Zaccaria, divenne classica e si radicò nell’arte militare di Genova: le più belle vittorie ch’essa riportò in seguito, Curzola e Pola, furono combattute seguendo la medesima strategia.

Cronotassi dei principali avvenimenti

· 1237 - prima battaglia della Meloria (3 maggio) con vittoria pisana che fa prigionieri 4.000 genovesi

· 1254 – fondazione dell’eremo di San Jacopo ad opera degli Agostiniani su autorizzazione del capitano del porto

· 1267 – Carlo d’Angiò distrugge gran parte del Porto Pisano e dei suoi dintorni con le pievi, monasteri, spedali, borghi, dogana, ecc.

· 1270 – Corradino di Svevia s'imbarca sulla flotta pisana per la spedizione punitiva in Sicilia contro Carlo d'Angiò; scomunica papale alla repubblica pisana

· 1282 - è eretta una torre a Salviano per difendere il porto dal lato terra

· 1284 - il 6 agosto si combatte la seconda Battaglia della Meloria, con la disfatta pisana; il porto in gran parte distrutto dalle armi genovesi e circoscritto dal progressivo interramento viene limitato tra la foce dell'Ugione e il borgo di Livorno

· 1284 - viene eretta la nuova torre Rossa a difesa del porto

· 1285 - sono erette le torri di difesa Maltarchiata  e Fraschetta; la cala portuale può contenere ancora un centinaio di galee; un nuovo attacco genovese dal mare e lucchese da terra danneggia gran parte del porto

· 1286 - i genovesi distruggono la torre-faro della Meloria 

· 1289 - nuovo attacco della flotta genovese che taglia la catena del porto e a pezzi la porta a Genova

· 1290 - nuove distruzioni ad opera dei genovesi, fiorentini e lucchesi che danneggiano le torri e tentano di insabbiare l'ingresso del porto

· 1303 - i provveditori delle fabbriche del porto, Lando Eroli e Jacopo da Peccioli, fanno erigere il nuovo Fanale (attuale faro di Livorno), vengono costruite nuove opere portuali e fortificazioni, posta una nuova catena all'ingresso e risarcito l'acquedotto di Santo Stefano che fornisce l'acqua alle navi

· 1339 - si comincia a citare in modo distinto il porto dallo scalo di Livorno

· 1360 - in previsione della guerra con Firenze si rafforzano le fortificazioni del porto e sono restaurate le torri Rossa e Castelletto

· 1363 - assalto di galee genovesi al soldo di Firenze, molti edifici sono distrutti, la catena è nuovamente tagliata e i suoi pezzi appesi alle colonne di porfido del battistero fiorentino

· 1364 - ultimo grande scorreria nel porto ad opera dei fiorentini Monforte, Manno Donati e Bonifacio Lupi

TRACCE DI PISA A GENOVA DOPO LA MELORIA

Come abbiamo appena letto, il 6 agosto 1284: in una delle più grandi battaglie navali del medioevo, la Battaglia della Meloria, la flotta pisana, comandata dal Podestà, il veneziano Alberto Morosini (ma è partecipazione individuale, Venezia non interviene), è pressoché annientata.

Genova sconfigge la rivale Pisa per merito di Oberto Doria e del suo esperto collaboratore Benedetto Zaccaria. Un'impressione di stupore quasi mistico si produce a Genova dalla grande vittoria e dal grande numero di prigionieri (oltre 9000) da far nascere il notissimo proverbio «chi vuol vedere Pisa vada a Genova».

Tuttavia le trattative di pace languivano finché il 15 aprile 1288 fu firmato a Genova l'atto di pace, che Pisa ratificò il 13 maggio successivo.

Le condizioni dettate dai Genovesi erano gravissime e non pareva proprio che i Pisani volessero eseguirle. Così il 23 agosto 1290 la flotta genovese comandata da Corrado Doria salpò da Genova per raggiungere il Porto Pisano; ne abbatté le torri e mentre i Lucchesi devastavano Livorno e la campagna pisana, i Genovesi distrussero dalle fondamenta Porto Pisano, otturando con pietre e con una nave piena di mattoni le bocche dell'Arno. Fu in quella occasione che i Genovesi si impossessarono delle Catene di Porto Pisano.

Secondo le cronache, fu il genovese Noceto Ciarli (o Chiarli) ad aver avuto l'idea di accendere un fuoco sotto di esse, in modo da poter indebolire il metallo e da rompere facilmente gli anelli che chiudevano il porto. L'astuta mossa dei genovesi permise loro di entrare nel Porto di Pisa e di raderlo al suolo, interrandolo e cospargendolo di sale (esattamente come i Romani avevano fatto con Cartagine), in modo da renderlo totalmente infertile ed inutilizzabile.

La catena che avrebbe dovuto proteggere il porto fu spezzata in varie parti e portata a Genova; queste vennero appese in varie chiese ed edifici della città, a scherno dei pisani e a monito della potenza dell'omonima repubblica.


Franco Bampi, presidente de A COMPAGNA - Genova, ha stilato questo interessante elenco intitolato:

 

Da dove pendevano
le catene di Porto Pisano
a Genova

1. Chiesa di San Torpete
Fu San Torpete la chiesa della comunità pisana di Genova, sulla cui facciata nel 1290 furono sospesi alcuni anelli della catena del porto pisano, infranta dai fabbri della flotta genovese guidata da Corrado Doria la quale il 10 settembre 1290 aveva forzato il porto rivale.

2. Palazzo del Capitano del Popolo (Palazzo San Giorgio)
Al di là della via Filippo Turati scorgiamo il palazzo fatto costruire dal capitano del Popolo Guglielmo Boccanegra negli anni intercorrenti dal 1257 al 1262 e divenuto, dopo la deposizione di costui, il palazzo del Comune sulla cui facciata, tra un arco e l'altro, pendevano tredici anelli della già menzionata catena.

3. Chiesa.di.Santa.Maria.di.Castello
Il nostro itinerario ci conduce alla chiesa di santa Maria di castello, anch'essa ornata con quattro anelli della catena di porto pisano, la quale ebbe il primo fonte battesimale di Genova, secondo un'antica tradizione.

4. Chiesa.del.Santissimo.Salvatore
Risaliamo in piazza Sarzano sostando dinanzi alla chiesa del Santissimo Salvatore sul cui prospetto stavano altri tre anelli della catena che chiudeva il porto di Pisa...

5. Porta.Soprana
...e, per l'antica strada di Ravecca, giungiamo in vista della Porta Soprana appartenente alla cinta muraria costruita dal 1157 al 1159; da sotto il suo arco pendevano quattro anelli dell'anzidetta catena il cui ricordo ancora ci lega alla città di Pisa.

6. Bassorilievo.in.Borgo.Lanaiuoli
Ridiscesi nello scomparso vico dritto Ponticello, ci ricordiamo di una casa che formava angolo con il Borgo Lanaiuoli; su di essa era murato un bassorilievo, che risaliva al 1290, raffigurante tre moli chiusi da catena sormontati da tozze torri rotonde e circondati da fortificazioni; da esso pendevano due anelli della stessa catena del porto pisano rappresentato dallo stesso bassorilievo.

7. Porta.degli.Archi
Oltre questa s'apriva la piazza di Ponticello sul cui lato opposto era situato l'ospedale di Santo Stefano che prospettava la strada direttamente alla Porta degli Archi: anche su questo edificio erano stati posti alcuni anelli della menzionata catena.

8. Chiesa.della.Maddalena
Scendendo lungo la via ai quattro canti di San Francesco, la quale anticamente era detta Mansura o contrada dei Mussi, arriviamo alla chiesa della Maddalena dinanzi a cui sostiamo perché sopra il suo ingresso stavano sospesi altri quattro anelli della catena.

9. Salita.di.Sant'Andrea
Da Luccoli, per uno dei vicoli che ascendevano alla Domoculta, saliamo idealmente alla scomparsa salita di Sant'Andrea oer rammentare i quattro anelli della catena del porto pisano che pendevano dalla sua facciata.

10. Chiesa.di.Sant'Ambrogio
Mediante il vico di Borgo sacco si scendeva nella strada dei sellai dove la chiesa di Sant'Ambrogio recava anch'essa sulla sua fronte gli anelli della stessa catena.

11. Chiesa.di.San.Matteo
Per la contrada delle prigioni detta più anticamente strada dei Toscani, corrispondente all'odierna via Tomaso Reggio, e per la salita all'arcivescovato scendiamo alla chiesa di San Matteo la quale, oltre ad esporre i consueti anelli, conservava un cimelio della battaglia della Meloria ricordato da Agostino Giustiniani: «Il stendardo Pisano col sigillo del Podestà fu riposto nella chiesa di S. Matheo».

12. Chiesa.di.Santa.Maria.delle.Vigne
Poco lungi da questa chiesa vi è quella di Santa Maria delle Vigne che si fregiava per essa degli anelli recati da Pisa nel 1290.

13. Chiesa.di.San.Donato
Compiendo il già percorso cammino il nostro itinerario ci conduce alla chiesa di San Donato dove nel 1290 furono sospesi, allo spigolo esterno del suo portale, quattro anelli della catena recata a Genova quale trofeo di guerra.

14. Porta.dei.Vacca
E per le strade di Giustiniani, Canneto il Curto, Banchi, San Luca, Fossatello e del Campo, incontriamo nuovamente le mura del XII secolo le quali avevano nella Porta dei Vacca il varco in direzione della riviera di ponente. Anche su questa porta si trovavano quattro anelli della catena suddetta i quali pendevano dall'apice sottostante all'arco esterno.

15. Chiesa.di.San.Sisto
Per la lunga strada di Pré si perviene alla chiesa di san Sisto, un'altra delle chiese già fregiate con detti anelli.

16. Commenda.di.San.Giovanni.di.Pré
Il nostro percorso si conclude di fronte alla commenda di San Giovanni di Pré, anch'essa onorata degli anelli che già avevano serrato il porto di Pisa. liguria@francobampi.it

 

ALBUM FOTOGRAFICO


“Alcuni pezzi delle catene di Porto Pisano, restituite dai genovesi nel 1860, oggi custodite nel cimitero monumentale di Pisa”.

Porta Soprana-Genova ritratta alla metà del XIX secolo da Domenico Cambiaso. Al centro dell'arco pendono alcuni anelli delle catene di Porto Pisano.


Maglie di catena del Porto Pisano a Murta, nel territorio del Comune di Genova.

Maglie delle Catene di Porto Pisano a Moneglia

liguria@francobampi.it

(...) Come alleata di Genova contro Pisa, Moneglia, nel 1284 intervenne con sue navi alla battaglia della Meloria, ne sono testimoni due maglie della catena che chiudeva Porto Pisano, distrutto dai genovesi dopo la vittoria, ancora ben visibili sulla facciata della chiesa di Santa Croce, portate dal monegliese Trancheo Stanco. Parte di quelle antiche catene erano infisse sui principali monumenti genovesi, ma furono restituite all'antica rivale dopo l'Unità d'Italia.



Traduzione della lapide:
Nel nome del Signore così sia
Anno 1290
Questa catena fu portata via
dal porto di Pisa
la lapide fu posta dal signor
TRANCHEO STANCO DI MONEGLIA


battaglia della Meloria 1284

CAMPO PISANO – Genova

Una storia tanto gloriosa, quanto lugubre.

Una delle piazze più suggestive e meno note del centro storico, sempre avaro di spazi aperti, deve il suo nome e la sua storia a una delle pagine più gloriose e al tempo stesso tragiche della storia di Genova. Parliamo di Campo Pisano, la piazza a risseu sotto Sarzano, con i suoi alti palazzi che la chiudono a emiciclo. Vuole la tradizione, suggestiva ma probabilmente sbagliata, che l’appellativo “pisano” venga dalla battaglia della Meloria e da quello che ne seguì.

Tra migliaia di morti lasciati nel mare di Toscana, i genovesi catturarono circa 10 mila soldati nemici, compreso il comandante veneziano Alberto Morosini (Pisa per tradizione sceglieva un podestà straniero) e quel Rustichello che scriverà “Il Milione” per conto di Marco Polo, durante la prigionia genovese. I pisani condotti in città vennero sistemati in quest’area: ricchi e nobili vennero riscattati e riuscirono a salvarsi, mentre agli altri il destino riservò la morte, per stenti, per fame, per omicidio e il campo dei pisani divenne – anche, e soprattutto – il camposanto dei pisani. Passarono ben 13 anni prima che i pochi sopravvissuti (non più di qualche centinaia) venissero liberati, mentre nasceva il detto, drammatico e beffardo allo stesso tempo, “Se vuoi vedere Pisa vai a Genova”. Quello che era uno spazio libero e aperto venne edificato nel Cinquecento, poco prima di essere compreso tra le mura.

 

Campo Pisano


l nome deriva dal fatto che lì furono concentrati migliaia di prigionieri pisani, catturati dai genovesi al tempo delle Repubbliche Marinare.

Dal sito di Miss Fletcher:

La storica rivalità con la città di Pisa per il predominio del Mediterraneo sfociò, nel 1284, nella battaglia navale della Meloria, durante la quale i genovesi, sotto la guida di Oberto Doria, Benedetto Zaccaria ed Oberto Spinola, inflissero ai nemici una bruciante sconfitta.
I genovesi se ne tornarono a casa baldanzosi e trionfanti, portandosi via la catena del porto di Pisa come trofeo e l’appesero sulle Mura di Porta Soprana come simbolo visibile della loro vittoria, arrivarono persino a scioglierne le maglie per esporne gli anelli sui palazzi e sulle chiese più importanti  della città.
Oltre a ciò, fecero di più: oltre novemila prigionieri tra i pisani, deportati e rinchiusi qui, in questa zona, in questa piazza.
Qui vissero, qui morirono e vi furono sepolti, da questo nasce il nome di questo angolo così suggestivo di Genova.
Sotto Campopisano c’è la sua storia, lì c’è il destino delle persone che vi hanno abitato, che laggiù hanno sognato e sofferto, nel ricordo della loro città natale che non avrebbero mai più rivisto.
Fa una certa impressione, almeno a me, camminare sui suoi ciottoli.
Che gente dura, i genovesi: sono aspri, di poche parole, sono schivi, chiusi, è proprio nel carattere dei liguri questo tratto così marcato, è il nostro segno distintivo.
E sono gente tosta i genovesi.
Se avete dei dubbi, guardate quale perentoria affermazione si trova incisa su un portale in Via di Santa Croce.


“Mi piego ma non mi spezzo”

Certo il padrone di casa doveva essere uno che sapeva farsi rispettare, non conveniva questionare con lui, senza dubbio avrà avuto dei dirimpettai mansueti ed accomodanti che, preso atto del motto di famiglia, avranno accuratamente evitato fastidiosi quanto inutili dissidi condominiali.


Il famoso Risseu di Campo Pisano

Camposanto Pisano a Genova dei prigionieri pisani della Meloria. La storia dei fantasmi di Campo Pisano ha la sua origine nel 1284 con la vittoria dei genovesi su Pisa nella battaglia della Meloria.
Questa piazza e la zona circostante viene edificata a partire dal XV secolo; successivamente essa venne inglobata nelle mura del XVI secolo. La piazza ha la forma di una ansa con le case alte e il pavimento a “risseu” bianchi e blu (i risseu sono “ricami di pietra” fatti utilizzando ciottoli marini usati a Genova e in Liguria per decorare le pavimentazioni dei selciati e delle piazze cittadine).
Il turista che oggi arriva in questa piazza viene colto dalla bellezza del luogo, con le sue alte case quasi intente ad abbracciare il viandante e il mare che compare in uno spiraglio tra le case che portano alla Marina. Ebbene, tutto questo romanticismo deve esser sfuggito
ai novemila prigionieri pisani che vennero rinchiusi in questo luogo, i quali, a causa del rigido inverno e delle precarie condizioni nelle quali erano costretti a vivere, morirono quasi tutti e lì vennero seppelliti.
Le loro anime senza pace son ancora presenti in zona e c’è chi afferma che nelle notti di tempesta si possano ancora scorgere le sagome dei prigionieri pisani che in catene risalgono la scalinata che dalla Marina porta in Campo Pisano.” (tratto da http://www.isegretideivicolidigenova.com/ )

LA PIETRA DELLA CATENA PISANA


Il bassorilievo raffigurante il porto di Pisa con le due torri, Magnale e Formice, e la lunga catena stesa tra le stesse

(foto di Antonio Figari)


Particolare del bassorilievo raffigurante le catene del porto di Pisa
(foto di Antonio Figari)

Le battaglie si vincono e si perdono con identico cuore. Io faccio rullare i tamburi per tutti i morti, per essi faccio squillare le trombe in tono alto e lieto, Vivan coloro che caddero, viva chi perde in mare i propri vascelli. Vivan coloro che affondano con essi. Vivan tutti i generali sconfitti e tutti gli eroi schiacciati e gli innumerevoli eroi sconosciuti, uguali ai più grandi conosciuti eroi.”

Walt Whitman

LE REPUBBLICHE MARINARE

(breve sintesi)

La definizione di repubbliche marinare, nata nel 1800, si riferisce alle città portuali italiane che nel Medioevo, a partire dal IX secolo, godettero, grazie alle proprie attività marittime, di autonomia politica e di prosperità economica.

La definizione è in genere riferita in particolare alle quattro città italiane i cui stemmi sono riportati nelle bandiere della Marina Militare e della Marina Mercantile: Amalfi, Genova, Pisa e Venezia. La bandiera della marina si fregia degli stemmi di queste quattro città dal 1947. Oltre alle quattro più note, tra le repubbliche marinare si annoverano però anche Ancona, Gaeta, Noli e la repubblica dalmata di Ragusa; in certi momenti storici esse ebbero un'importanza non secondaria rispetto ad alcune di quelle più conosciute.


Mappa delle Repubbliche Marinare Maggiori e Minori

Elementi che caratterizzarono una repubblica marinara sono:

l'indipendenza (de iure o de facto);

autonomia, economia, politica e cultura basate essenzialmente sulla navigazione e sugli scambi marittimi;

il possesso di una flotta di navi;

la presenza nei porti mediterranei di propri fondachi e consoli;

la presenza nel proprio porto di fondachi e consoli di città marinare mediterranee;

l'uso di una moneta propria accettata in tutto il Mediterraneo e di proprie leggi marittime;

la partecipazione alle crociate e/o alla repressione della pirateria.

Localizzazione e antichi stemmi delle repubbliche marinare

Venezia

La Repubblica di Venezia, detta "La Serenissima", ebbe per secoli un ruolo fondamentale nel commercio tra l'Europa e il Mediterraneo orientale; nel momento della sua massima espansione territoriale era riuscita a conquistare gran parte dell'Italia del Nord-Est, arrivando a pochi chilometri da Milano. Lungo le coste mediterranee si impossessò della penisola istriana, dell'intera Dalmazia (ma Ragusa fu veneziana solo per centocinquant'anni) e di vaste regioni della Grecia: le isole Ionie, la Morea (attuale Peloponneso, anche se solo temporaneamente), Creta, Cipro, Negroponte (attuale Eubea) e diverse altre isole dell'Egeo.


Genova

L'antagonista per eccellenza di Venezia fu Genova che nel 1298 sconfisse la flotta veneziana. La Repubblica di Genova ebbe vari epiteti in base alle proprie caratteristiche economiche, commerciali e navali: La Superba, La Dominante, La Dominante dei mariLa Repubblica dei Magnifici. Oltre ad una presenza significativa in Oriente e nel Mar Nero, aveva il monopolio dei commerci nel Mediterraneo occidentale. Notevole la sua massima espansione territoriale, che oltre alla Liguria e l'Oltregiogo, comprese Corsica, Sardegna, Crimea, Tabarca, Rodi, Creta, vaste aree della Grecia e della Turchia, Gibilterra, alcune zone della penisola Iberica, della Sicilia, alcune isole dell'EgeoPera, la colonia nell'odierna Istanbul di Galata a Costantinopoli.

Pisa

La Repubblica di Pisa ebbe una notevole importanza, anche per le conquiste territoriali che nel momento della sua massima espansione comprendevano la Sardegna, la Corsica e le isole Baleari; era attiva soprattutto in Occidente; la rivalità con Genova e le guerre con Firenze le furono fatali.

Amalfi

Amalfi ebbe una storia gloriosa e pre coce di potenza marittima, e le navi amalfitane battevano i mari insieme a quelle veneziane quando le altre repubbliche ancora dovevano affermarsi. La città campana non occupò mai vasti territori ma ebbe il dominio commerciale nel Mediterraneo meridionale ed orientale molto prima di Venezia. Se la sua storia di indipendenza e di navigazione iniziò molto presto, anche la decadenza arrivò presto, principalmente a causa dell'arrivo dei Normanni nel Meridione, che soppressero le autonomie locali per dar vita al grande stato del Regno di Sicilia, oltre che per la rivalità delle nascenti repubbliche di Pisa e Genova.

 


L'attuale stemma della Marina Militare, così come rinnovato nel dicembre 2012

Lo stemma rinnovato

Lo stemma della Marina Militare è stato rivisto completamente, in particolar modo il quarto di Venezia, la croce pisana e la corona, dall'araldista Michele d'Andrea, autore, tra l'altro, del primo tentativo di modifica del leone di Venezia fatto durante la realizzazione della bandiera collonnella del Reggimento “San Marco”. Essendo i decreti del 1941 e del 1947 molto approssimativi, gli interventi di modifica del nuovo stemma non hanno richiesto un nuovo decreto, potendosi muovere tra le larghe maglie interpretative dei due testi;[11] lo stemma rinnovato è infatti stato ufficializzato con un semplice foglio d'ordine della marina, il n. 52 del 16 dicembre 2012.

È stata data nuova volumetria alle prue, prima quasi ridotte a dei bassorilievi, mentre per il loro disegno si è fatto riferimento alle prue bronzee che ornano il basamento delle aste portabandiera del Vittoriano. Le torri laterali mostrano una maggiore tridimensionalità e sono state pensate per essere più fedeli alla vista laterale del castelletto ligneo collocato nella porzione anteriore delle navi militari romane. L'ancora centrale è stata rimpicciolita e nel cerchio della corona sono scomparse le cordonate.

Il leone di San Marco è diventato più muscoloso e leonino, con una criniera più folta, zampe più possenti e una coda meno rigida. Il nimbo è stato ridisegnato, così come il mare (cinque righe di onde) che lambisce una visibile terraferma dove è poggiato, sotto la zampa anteriore sinistra del leone, il libro chiuso rilegato in cuoio rosso. Il simbolo di Pisa è stato privato delle nervature interne ed i pomi ora non hanno più le linee di contorno, come se fossero saldati alla croce, ora più dilatata (anche se non esistono regole per definire le proporzioni e gli angoli di detta croce).

Infine, è stato ridotto lo spessore del cavo torticcio d'oro per far risaltare i simboli araldici.

CARLO GATTI

Rapallo, 30 Maggio 2018

 

Bibliografia:

- “BENEDETTO ZACCARIA” - di Roberto S. LOPEZ - Ediz. CAMUNIA Editrice 1996 - Firenze

- Enciclopedia TRECCANI

- T.C.I - Toscana

- Genova e La Liguria - Insediamenti e culture Urbane - di Paolo Stringa. CA.RI.GE

- Enciclopedia Della Liguria - (IL SECOLO XIX) - 2000

- Genova - (IL SECOLO XIX) - 1992

- MEDIOEVO - Repubbliche Marinare - Il Clan dei Genovesi - De Agostini 1998

- Vari siti Web citati di volta in volta nel saggio


MSC SEAVIEW a Genova

MSC SEAWIEW

GENOVA, IN PORTO LA NAVE DEI RECORDS


7 Giugno 2018


In quest’ultimo decennio stiamo assistendo ad una massiccia espansione nel settore delle navi PASSEGGERI. Anche le loro linee architettoniche sembrano proiettate verso progetti “futuristici” in cui shape, eleganza e funzionalità si sposano con le nuove esigenze di mercato, turismo e desiderio di evasione.

Molti fattori strategici stanno giocando proprio in questi giorni un ruolo di massima importanza per il futuro del Porto di Genova e della Liguria. Possiamo solo sperare che prevalga il buon senso di tutti gli operatori di questo immenso e strategico porto che si trova al centro di due splendide Riviere, principali attrazioni del turismo internazionale.

Genova sta attirando le più grandi Compagnie di Navigazione del pianeta perché trovano in esso tutti i più moderni sistemi operativi e strutturali che sono necessari per la loro attività che, fattore importantissimo, va ad innestarsi nel tessuto economico della nostra regione e non solo.

 


 

La MSC SEAVIEW in navigazione

 


 

La MSC SEAVIEW in acque di pilotaggio

 


 

La MSC SEAVIEW prende il pilota

La MSC SEAVIEW entra in porto a Genova



Consolle di manovra. La MSC SEAVIEW in evoluzione in avamporto

 

La MSC SEAVIEW attracca a Ponte dei Mille Ponente

 


La MSC SEAVIEW é ormeggiata

 

Genova – È arrivata nel porto del capoluogo ligure alle prime luci del mattino, la nuova nave della compagnia da crociera la

MSC SEAVIEW

Sabato è in programma per lei la festa di inaugurazione alla Stazione Marittima .

La MSC SEAVIEW è la seconda delle due unità gemelle classe Seaside ordinate a maggio 2014 per la prima volta in Italia dalla compagnia di navigazione Msc Crociere, controllata del gruppo svizzero Msc di Gianluigi Aponte. Il valore della commessa è di 1,6 miliardi di euro, cui si aggiungono le già ordinate Seaside Evo, due unità più grandi (da 153 mila a 169 mila tonnellate di stazza lorda, consegna 2021 e 2023), per un investimento totale di 3,5 miliardi di euro.

La nave, come tutte le unità fatte realizzare da MSC dal 2006 in avanti, è dotata di allaccio alla rete elettrica: significa che tecnicamente è in grado di alimentare, da ormeggiata, i gruppi elettrici allacciandosi alla rete portuale (cold ironing) spegnendo i motori, evitando emissioni inquinanti e consumi. Tuttavia, da 10 anni questa parte la tecnologia è andata avanti, così oggi fonti di settore calcolano che una nave come la “Seaview”, pur essendo circa il 50% più grande delle unità mediamente prodotte due lustri fa (100-110 mila tonnellate) consuma il 25% in meno, sostanzialmente per effetto di diversi accorgimenti, il più evidente, la sostituzione dell’illuminazione tradizionale con quella a tecnologia Led).

Se però in Italia il cold ironing oggi è applicabile in via teorica nei porti di Civitavecchia e Livorno, diversa è la normativa, più stringente dal 2020, circa le emissioni: l’unità ha un sistema di pulizia dei gas di scarico (Egcs) che rimuove 97,1% del diossido di zolfo prodotto dalle ciminiere, riducendo anche il particolato. Razionalizzati anche i sistemi di riscaldamento, ventilazione e condizionamento dell’aria, tra le principali fonti di consumo delle navi. Obiettivo è la distribuzione intelligente tra aria calda e fredda, anche con sistemi di recupero del calore (quello della lavanderia per esempio serve per riscaldare le piscine e altre parti della nave).

MSC SEAVIEW è una nave all’avanguardia sotto ogni aspetto. Con i suoi 323 metri di lunghezza e i suoi 18 ponti è in grado di ospitare circa 5.200 passeggeri. La nave è dotata di numerose cabine di ogni tipo, tra cui MSC Yacht Club Royal Suite, 57 metri quadrati di superficie e 33 di balcone e MSC Yacht Club Deluxe Suite, per vacanze di lusso e trattamenti riservati. Ora MSC Yacht Club è disponibile anche in cabina interna, per viverti la nave al 100% ma non rinunciare mai al comfort. A bordo, solo il meglio per te. Intrattenimento curatissimo sotto ogni aspetto: spettacoli a teatro indimenticabili, bar e lounge che soddisferanno ogni tuo capriccio, piscine e ambienti che avverano i tuoi desideri ancora prima che tu li abbia espressi. La nave di ultimissima generazione è dotata di sistema Advanced Water Treatment per rimuovere sostanze inquinanti e di sistema di illuminazione a LED per ridurre il consumo energetico e diminuire l’impatto ambientale. Lo scafo, le eliche e i timoni sono stati studiati per ridurre i consumi, per vacanze nel rispetto dell’ambiente.

Dati Tecnici

Anno costruzione: 2018

N° Ospiti: 5179

N° Equipaggio: 1413

N° Ponti: 18

Stazza: 160000 ton.

Lunghezza: 323.00 m.

Larghezza: 41.00 m.

Velocità crociera: 22 nodi

 

ALTRE FOTO DELLA NAVE

 

La nave ha evoluito in avamporto e sta indietreggiando verso la banchina

 

 

 

 

Il Ponte di Comando della nave

 

 

 

A sinistra la nave da crociera CROWN PRINCESS

della Princess Cruises

 

 


Carlo GATTI

Le foto sono di John GATTI


Rapallo, 8 Giugno 2018



CAPO MISENO LA PIU’ POTENTE BASE MILITARE DELL’ANTICHITA’

CAPO MISENO

LA PIU’ POTENTE BASE MILITARE DELL’ANTICHITA’

 

PREMESSA STORICA

All'inizio del 1800 La Spezia era un piccolo borgo dell'impero napoleonico, con una popolazione, di circa 3000 persone. Napoleone Bonaparte, intuì l'importanza strategica del Golfo e fece progettare la costruzione di un grande Arsenale, ma le sue sconfitte a Lipsia e a Waterloo ne impedirono la realizzazione.

Dopo la caduta dell'Impero napoleonico, i territori dell'antica Repubblica di Genova furono incorporati dal Regno di Sardegna.

Il 3 febbraio 1851 segnò una data importante per il decollo del porto e quindi di tutte le attività industriale e commerciali genovesi; Cavour, allora Ministro della Marina, Agricoltura e Commercio presentò al Parlamento Subalpino il progetto di legge per il trasferimento a La Spezia degli stabilimenti militari marittimi e programmò per Genova un deposito franco per il miglioramento dei commerci via mare, l’operazione, come sappiamo andò a buon fine!

L'idea di Napoleone fu ripresa tout court da Camillo Benso Conte di Cavour che ottenne nel 1857 il trasferimento della Marina Militare da Genova a La Spezia e il finanziamento per la costruzione di un Arsenale Militare.

La costruzione dell'arsenale militare marittimo di Taranto fu comunque decisa dal Parlamento Italiano con la legge n. 833 del 29 giugno 1882, per rimediare alla sempre crescente necessità di difesa dell'Italia protesa verso il Mar Mediterraneo.

Nel 1864, Camillo Benso Conte di Cavour fu il primo politico italiano a comprendere la valenza strategica di Augusta, come possibile sede di base navale della Regia Marina; ma il quel momento storico il pericolo per la giovane Nazione Italiana era percepito da est e da nord e quindi si preferì puntare sull’Adriatico e il Tirreno e sviluppare la base di Taranto.

Il grande statista piemontese, così come fece Napoleone Bonaparte, s’ispirò alla strategia degli ANTICHI ROMANI: la base di Miseno fu strutturata come una potentissima macchina militare cui era affidato il controllo sull'intero Mediterraneo occidentale, dalle coste tirreniche dell'Italia alle colonne d'Ercole e oltre. Si trattava di uno dei due principali punti di appoggio del potere imperiale: l'altro era costituito dalla flotta basata a Ravenna, competente per il Mediterraneo orientale. Dati i mezzi di trasporto dell'epoca, le due armate di mare costituivano i reparti dell'esercito imperiale che più rapidamente potevano raggiungere località, anche lontane, dove si manifestavano focolai di crisi o dove, comunque, era necessario, far sentire la presenza militare di uno Stato vastissimo e cosmopolita quale era l'Impero Romano.


Baia (ricostruzione)


Pozzuoli (ricostruzione)

Campi Flegrei


Veduta da Monte di Procida con la spiaggia di Miliscola, Capo Miseno e il bacino interno dell'antico porto di Miseno.


Il porto di Miseno sorgeva su un precedente cratere vulcanico allagato dal Mar Tirreno.

La parte più interna del porto, un lago naturale, quasi chiusa da una lingua di terra, sulla quale era posto il castrum dei classiarii.

Il porto di MISENO (Misenum) si trovava presso l’attuale Bacoli e l’omonimo Capo Miseno, simile per conformazione a quello di Ravenna. Poteva contenere almeno fino a 250 imbarcazioni, come quello di Classe a Ravenna. In età augustea, in seguito all’impraticabilità del precedente porto militare di Portus Iulius nella baia di Puteoli (utilizzato da Ottaviano e Agrippa durante la guerra contro Sesto Pompeo), la vicina Miseno divenne la più importante base militare della flotta romana a guardia del bacino del Mediterraneo occidentale.

L’Imperatore Gaio Giulio Cesare Ottaviano Augusto

(Roma 23 settembre 63 a.C. – Nola, 19 agosto 14)

Fondatore della Praetoria Classis Misenenis (Flotta Imperiale Romana)

Battaglia di Azio

Augusto, dopo la battaglia di Azio (2 settembre 31 a.C.), decise di compiere una radicale riforma della marina militare. La flotta fu organizzata come un vero e proprio esercito sul mare e coloro che prima erano volontari, divennero professionisti impegnati a servire la flotta prima per sedici e poi per vent'anni. Nel 6 d.C. creò l’aerarium militare, ovvero delle risorse finanziare permanenti che ne permettessero il finanziamento-autonomo.
La flotta all’inizio venne dislocata in Gallia Narbonese, a Forum Iulii, (oggi Fréjus, in Francia sulla costa mediterranea) ma questa base venne sciolta durante la dinastia giulio-claudia e vennero lasciate solo due flotte Praetoriae. Una a
Capo Miseno, per la difesa del Mediterraneo occidentale, con la Classis Misenensis composta da circa cinquanta natanti e circa diecimila marinai classiarii, quasi due legioni terrestri. L’altra a Ravenna, la Classis Ravennatis, per la difesa del Mare Nostrum orientale. Le due Classis erano al comando di un prefetto e ad esse si affiancavano le flotte delle provincie a supporto delle armate terrestri: la Classis Alexandrina in Egitto, la Classis Germanica sul fiume Reno e la Classis Pannonica nel bacino Danubio-Rava e Sava.


OTTAVIANO AUGUSTO


MISENO

Per cinque secoli a presidio di un Impero

L’OPERA che segue é un documento di rara importanza e bellezza! Tratta delle Norme destinate ai comandanti di una flotta.
Le LIBURNE di stanza presso la Campania erano agli ordini del comandante della flotta di Miseno; quelle che navigavano nel mare Ionio, invece, erano guidate dal comandante della flotta ravennate; in sottordine ad entrambi i comandanti erano dieci tribuni delegati da ogni singola coorte.

Ogni liburna aveva il proprio capitano, vale a dire il nocchiero, che oltre alle incombenze della marineria aveva cura di addestrare quotidianamente i timonieri, rematori, i combattenti.

Il seguente documento composto di 16 Capitoli, non solo abbraccia gran parte del SAPERE di un Capitano di mare di parecchi secoli fa, ma costituisce nello stesso tempo la summa degli elementi fondanti della scienza nautica futura per chi intenda andar per mare, sia egli un militare oppure un navigante mercantile!

 

PRÆCEPTA
BELLI NAVALIS

di Vegezio

(dal libro IV del De re militari) [1]

versione italiana e note a cura di DOMENICO CARRO

Sommario:

- XXXI: Precetti della guerra navale.
- XXXII: Denominazione dei comandanti in una flotta.
- XXXIII: Origine del nome di Liburna.
- XXXIV: Precauzioni nella costruzione delle navi da guerra.
- XXXV: Il taglio del legname.
- XXXVI: Mesi nei quali si tagliano le travi.
- XXXVII: Tipi di navi da guerra.
- XXXVIII: Denominazione dei venti e loro numero.
- XXXIX: Mesi più sicuri per la navigazione.
- XL: Osservazione degli astri recanti tempeste.
- XLI: I presagi del tempo.
- XLII: Le maree.
- XLIII: Conoscenza delle acque e importanza dei rematori.
- XLIV: Armi e macchine belliche navali.
- XLV: Criteri per tendere insidie per mare.
- XLVI
: Criteri per la battaglia navale.

 

XXXI. PRECETTI DELLA GUERRA NAVALE.

 

Per ordine della tua Maestà, o invitto imperatore, avendo portato a termine il trattato relativo alla guerra terrestre, manca ancora, a mio avviso, quella parte che riguarda la guerra navale ["navalis belli"], sulla cui dottrina c’è pochissimo da dire, giacché, essendo da un pezzo pacificato il mare ["pacato mari"], non si tratta che di condurre contro i barbari delle battaglie terrestri ["terrestre certamen"].

Il popolo romano, per il suo prestigio e per le esigenze della sua grandezza, pur non essendovi costretto da alcun imminente pericolo, in ogni tempo mantenne allestita la flotta ["classem"], onde averla sempre pronta ["praeparatam"] ad ogni necessità. Indubbiamente, nessuno osa sfidare o arrecare danno a quel regno o popolo, che sa essere pronto a combattere e risoluto a resistere ed a vendicarsi.

Pertanto, con le flotte ["cum classibus"] erano stanziate una legione presso Miseno ed una presso Ravenna, sia perché non si allontanassero eccessivamente dalla difesa di Roma, sia perché, all’insorgere di un’esigenza, potessero recarsi con le navi ["navigio"], senza indugio e senza dover aggirare la Penisola, in qualsiasi parte del mondo.

Infatti la flotta Misenense ["Misenatium classis"] aveva nelle sue vicinanze la Gallia, le Spagne, la Mauretania, l'Africa, l'Egitto, la Sardegna e la Sicilia. La flotta Ravennate ["classis Ravennatium"] soleva raggiungere con navigazione diretta ["directa navigatione"] l'Epiro, la Macedonia, la Grecia, la Propontide, il Ponto, l'Oriente, Creta e Cipro. Ciò perché nelle operazioni belliche la celerità giova di solito più del valore.

XXXII. DENOMINAZIONE DEI COMANDANTI IN UNA FLOTTA.

Il comandante della flotta ["praefectus classis"] Misenense era preposto alle navi da guerra ["liburnis"] che erano di base in Campania, mentre il comandante della flotta Ravennate reggeva quelle che erano nelle acque del mare Ionio [incluso l’Adriatico].
Alle dipendenze di ciascuno di loro vi erano dieci tribuni ["deni tribuni"] delegati per le singole coorti.

Ogni galea aveva il proprio comandante ["navarchus"], che è all’incirca l’equivalente dell’armatore ["navicularius", per le navi mercantili], il quale, oltre agli altri compiti nautici ["nautarum officiis"], curava l’addestramento quotidiano dei timonieri ["gubernatoribus"], dei rematori ["remigibus"] e dei militi navali ["militibus"].

XXXIII. ORIGINE DEL NOME DI LIBURNA.

 

Diverse provincie, nelle varie epoche, furono molto potenti per mare; vi furono quindi diversi tipi di navi ["genera navium"]. Sennonché, avendo Augusto combattuto la battaglia navale d'Azio, poiché Antonio venne sconfitto con il concorso determinante dei Liburni, con l'esperienza di sì gran battaglia si rese manifesto che le navi liburniche erano migliori di tutte le altre, avendone dunque ripreso la foggia e il nome, gli imperatori romani costruirono le loro flotte avvalendosi di quel modello. La Liburnia, che fa parte della Dalmazia, è amministrata dalla città di Iadera [odierna Zara], ad imitazione della quale si costruirono le navi da guerra e si chiamarono liburne["liburnae"].


XXXIV. PRECAUZIONI NELLA COSTRUZIONE DELLE NAVI DA GUERRA.

Se nella costruzione delle case è richiesta la buona qualità della sabbia e delle pietre, tanto più nel costruire le navi ["fabricandis navibus"] deve essere diligentemente ricercato ogni materiale, giacché, qualora difettosa, costituisce un maggior pericolo una nave piuttosto che una casa.

La galea si compone principalmente di legno di cipresso e di pino domestico o selvatico, di larice e di abete, ed è più utile che sia connessa con chiodi di rame anziché di ferro. Sebbene la spesa sembri alquanto più gravosa, tuttavia, tenuto conto della maggior durata, ne risulta invece un guadagno; infatti, con il caldo e l’umidità, i chiodi di ferro vengono presto consumati dalla ruggine; quelli di rame si conservano invece integri anche in mezzo ai flutti.

 

XXXV. IL TAGLIO DEL LEGNAME.

 

Occorre principalmente assicurare che gli alberi utilizzati per costruire le navi da guerra siano tagliati dal quindicesimo al ventitreesimo giorno dopo la luna nuova, poiché soltanto il legname tagliato in questi otto giorni si conserva immune al tarlo. Tagliato in altri giorni anche nello stesso anno, corroso internamente dai vermi si converte in polvere, come ci ha insegnato la stessa arte e la pratica quotidiana di tutti gli architetti, e come apprendiamo anche dalla considerazione della religione , alla quale piacque celebrare soltanto questi giorni per l'eternità.


XXXVI. MESI NEI QUALI SI TAGLIANO LE TRAVI.

 

Le travi si tagliano utilmente dopo il solstizio di estate, nei mesi di luglio e di agosto, e nell’equinozio di autunno, sino alle calende [cioè il 1°] di gennaio, poiché in questi mesi, asciugatasi l’umidità, il legname è più secco e quindi più resistente.

Occorre inoltre evitare che le travi si seghino subito dopo l’abbattimento dell’albero, e che appena segate non si pongano in opera per la costruzione della nave, giacché il legno degli alberi ancora interi e quello in tavole, per diventare più asciutto, merita una doppia essiccazione. Infatti, le tavole che si commettono verdi, quando abbiano trasudato l'umidità naturale, si contraggono e formano delle fessure più larghe: nulla è più pericoloso ai naviganti ["navigantibus"] che una tavola verde.


XXXVII. TIPI DI NAVI DA GUERRA.

Per quanto attiene alle dimensioni, le navi da guerrae più piccole hanno un sol ordine di remi ["remorum singulos ordines"], due ["binos"] quelle un poco più grandi; quelle di dimensioni convenienti possono averne tre o quattro ["ternos vel quaternos"], e in qualche caso anche cinque ["quinos"]. Né ciò sembri qualcosa di straordinario: difatti si narra che alla battaglia navale d'Azio abbiano partecipato vascelli ["navigia"] di gran lunga maggiori, muniti anche di sei o più ordini di remi ["senorum vel ultra ordinum"].

In ogni modo, alle navi da guerra più grandi si associano delle unità sottili da esplorazione ["scaphae exploratoriae"], con dieci remi per lato, che i Britanni chiamano picati [cioè impeciati]. Queste si usano per fare incursioni e talvolta per intercettare delle vettovaglie delle navi nemiche, mentre, esercitando la sorveglianza, si scopre l’avvicinamento o le intenzioni delle stesse navi nemiche.
Tuttavia, affinché la presenza degli esploratori ["exploratoriae naves"] non sia tradita dal loro stesso chiarore, si tingono le vele ed i cavi delle manovre di colore azzurro ["veneto"], che somiglia a quello delle onde marine ["marinis fluctibus"], e vi si spalma anche quella cera che si usa per gli scafi delle navi.
Inoltre, i marinai ["nautae"] ed i militi navali ["milites"] indossano abiti azzurri, per rimanere più facilmente occulti all’osservazione nemica, non solo di notte, ma anche di giorno.


XXXVIII. DENOMINAZIONE DEI VENTI E LORO NUMERO.

Chiunque trasporti un esercito con le navi ["armatis classibus"] deve saper riconoscere i presagi delle tempeste, poiché le navi da guerra andarono miseramente a fondo più spesso a causa delle burrasche e dei marosi che per la forza dei nemici. In ciò si deve adoperare tutta la perizia della filosofia naturale, poiché dalla conoscenza del cielo si desume la natura dei venti e delle tempeste. E quando il mare infuria, come la cautela protegge i previdenti, così l’incuria distrugge i negligenti.

Pertanto, l’arte della navigazione ["ars navigandi"] deve anzitutto considerare attentamente il numero ed i nomi dei venti. Gli antichi credevano che, conformemente alla posizione dei punti cardinali, vi fossero solo quattro venti principali, spiranti dalle singole parti del cielo; ma l'esperienza posteriore ne trovò dodici. Di questi, per rimuovere ogni dubbio, forniamo non solo i nomi greci, ma anche quelli latini; così, dopo aver mostrato i venti principali, indicheremo quelli che sono ad essi contigui a destra e a sinistra.

Cominciamo pertanto dal solstizio di primavera, cioè dal punto cardinale Est, dal quale si origina il vento Afeliote, vale a dire il Subsolano; alla sua destra è contiguo al Cecia, o Euroboro; alla sua sinistra l’Euro o Volturno.

Il punto cardinale Sud ha il Noto, cioè l'Austro, alla cui destra vi è il Leuconoto, cioè il "bianco Noto"; alla sua sinistra il Libonoto, cioè il Coro.

Il punto cardinale Ovest possiede lo Zeffiro, cioè il Subvespertino, alla cui destra è contiguo il Lips, ossia l'Africo; a sinistra il Giapice, ossia il Favonio.

Al Nord toccò in sorte l'Aparzia o Settentrione, al quale è contiguo a destra il Trascia o Circio, a sinistra il Borea o Aquilone.

Questi venti soffiano spesso da soli, qualche volta in coppia, e nelle grandi tempeste anche in tre simultaneamente. Per il loro impeto, i mari, che sono per loro natura tranquilli e quieti, infuriano con onde ribollenti; quando spirano alcuni di essi, a seconda delle stagioni e delle regioni, dalla tempesta ritorna il sereno, e di nuovo questo si tramuta in burrasca.

Con il vento favorevole le navi ["classis"] raggiungono il porto desiderato, con quello contrario sono costrette a fermarsi, o tornare indietro, o affrontare una prova decisiva. Pertanto, difficilmente compie un naufragio chi ha esaminato con diligenza la natura dei venti.

XXXIX. MESI PIÙ SICURI PER LA NAVIGAZIONE.

Proseguiamo con la trattazione dei mesi e dei giorni, giacché il vigore e la durezza del mare non tollera tutto l'anno i naviganti ["navigantes"], ma per legge di natura alcuni mesi sono adattissimi alle flotte ["classibus"], altri dubbi, altri intollerabili.

La navigazione si reputa sicura ["secura navigatio creditur"] … dopo che sono sorte le Pleiadi, dal giorno VI prima delle calende di giugno [27 maggio] fino al sorgere di Arturo, cioè fino al giorno XVIII prima delle calende di ottobre [14 settembre], giacché per beneficio dell'estate si mitiga l’asprezza dei venti.

Successivamente, la navigazione è incerta ["incerta navigatio est"], e quindi piuttosto critica, fino al giorno III prima delle idi di novembre [11 novembre], giacché dopo le idi di settembre [13 settembre] nasce Arturo, stella rabbiosissima; poi, il giorno VIII prima delle calende di ottobre [24 settembre] sopraggiunge il pungente maltempo equinoziale, verso le none di ottobre [7 ottobre] appaiono i Capretti piovosi e il giorno V prima delle idi di tale mese [11 ottobre] appare il Toro.

Dal mese di novembre, poi, il tramonto invernale delle Vergilie, le navi ["navigia"] con frequenti tempeste. I mari vengono dunque chiusi alla navigazione dal giorno III prima delle idi di novembre [11 novembre] fino al giorno VI prima delle idi di marzo [10 marzo]. In effetti, la luce diurna ridotta al minimo, la notte prolungata, la densità delle nubi, l'oscurità dell'aria, la raddoppiata violenza dei venti, delle piogge o delle nevi, respingono non solo le flotte ["classes"] dalle rotte marittime, ma anche i viandanti dai viaggi terrestri.

In realtà, dopo la ripresa della navigazione ["natalem navigationis"], che viene celebrata con solenni giochi e pubblici spettacoli presso molte popolazioni, permane pericoloso cimentarsi in mare fino alle idi maggio [15 maggio], a causa di molteplici costellazioni e della stessa stagione; non lo dico perché cessi il traffico mercantile ["negotiatorum"], ma perché occorre adoperare una maggior cautela quando l'esercito naviga con le navi da guerra, che quando l'audacia accelera i profitti dei commerci privati.


XL. OSSERVAZIONE DEGLI ASTRI RECANTI TEMPESTE.

 

Inoltre, il sorgere ed il tramontare di molte altre stelle suscitano violentissime tempeste ["tempestates"], di cui sono stati indicati i precisi giorni, per attestazione di molti autori. Tuttavia, poiché tali giorni vengono alquanto cambiati da svariate cause, e poiché, bisogna confessarlo, alla natura umana non è consentito conoscere compiutamente i fenomeni celesti, lo studio delle osservazioni nautiche ["nauticae observationis"] è stato diviso in tre parti. Si è infatti scoperto che le tempeste avvengono o nel giorno stabilito, o prima, o dopo. Quindi, quelle che nascono nel giorno stabilito si chiamano con parola greca cheimaton, quelle che precedono procheimaton, le susseguenti metacheimaton. Comunque, elencare per nome ogni cosa apparirebbe lungo o inopportuno, dato che molti autori hanno descritto non solo la natura dei mesi, ma anche dei giorni.

Anche i transiti degli astri che chiamano pianeti, quando lungo il loro percorso prestabilito per volere divino entrano ed escono da un segno zodiacale, usano spesso turbare il sereno. Per contro, i giorni di interlunio sono valutati, non solo dalla scienza, ma anche dall’esperienza popolare, pieni di tempeste e da temersi al massimo grado da parte dei naviganti ["navigantibus"].


XLI. I PRESAGI DEL TEMPO.

Da molti altri segni si preannuncia l’arrivo delle burrasche dalla calma, e della bonaccia dalle tempeste; tali eventi sono mostrati sul disco della Luna come in uno specchio. Il colore rubicondo annunzia i venti; il ceruleo, le piogge; un colore intermedio, nuvoloni e furenti burrasche. Il disco giocondo e lucente promette alle navi ["navigiis"] la serenità ch’esso reca nel suo stesso aspetto, soprattutto se al primo quarto e non sia né rosseggiante con i corni smussati, né offuscato dall’umidità.

Anche del Sole che sorge o che tramonta, è interessante osservare se splende con raggi uniformi o diversificati da una nube interposta, se è fulgido del consueto splendore o ardente per i venti incalzanti, se è pallido o macchiato per la pioggia imminente.

Indubbiamente anche l'aria e lo stesso mare, così come la grandezza e la qualità delle nuvole, forniscono istruzioni ai marinai ["nautas"] preoccupati.

Alcuni segni vengono indicati dagli uccelli, altri dai pesci: Virgilio, con ingegno quasi divino, li incluse nelle Georgiche e Varrone li perfezionò diligentemente nei sui libri navali ["libris navalibus"] .

I timonieri ["gubernatores"] dichiarano di sapere queste cose, ma le conoscono così come le appresero dall’esperienza pratica, e non rafforzate da una più elevata dottrina.


XLII. LE MAREE.

 

L’elemento marino costituisce la terza parte del mondo, e si anima, oltre che per il soffio dei venti, anche per un suo proprio respiro e movimento. Infatti, a certe ore, di giorno come di notte, un certo moto del mare, che chiamano marea, scorre in un senso e nell'altro e, come un torrente o un fiume, ora inonda le terre, ora rifluisce in alto mare. Questa ambiguità del moto alterno, se favorevole, giova alla rotta delle navi ["cursum navium"], se contrario, la ritarda.

Ciò deve essere evitato con grande cautela da chi sta per combattere. Infatti non si vince con l’ausilio dei remi l'impeto della marea, cui talvolta cedono anche i venti. E poiché nelle varie regioni, nei diversi stati della luna crescente o calante, a certe ore questi fenomeni variano, quindi chi sta per sostenere un combattimento navale ["proelium navale"] deve, prima dell’ingaggio, conoscere la natura del mare e del luogo.

 

XLIII. CONOSCENZA DELLE ACQUE E IMPORTANZA DEI REMATORI.

 

La perizia dei marinai ["nauticorum"] e dei timonieri ["gubernatorum"] consiste nel prendere conoscenza delle acque nelle quali si naviga e dei porti, onde evitare i luoghi pericolosi per gli scogli affioranti o sommersi, i bassi fondi e le secche; infatti, si avrà tanta maggior sicurezza quanto il mare sarà più profondo.

Nei comandanti navali ["navarchis"] si predilige la diligenza, nei timonieri ["gubernatoris"] l’esperienza, nei rematori ["remigibus"] la valentia. Infatti, la battaglia navale ["navalis pugna"] si combatte in mare tranquillo; e la mole delle navi da guerra, non per il soffio dei venti, ma per impulso di remi percuote con il rostro gli avversari e schiva invece il loro impeto. In tali circostanze, i muscoli dei rematori ["remigum"] e l'arte del pilota che regge il timone ["clavum regentis magistri"] sono i principali artefici della vittoria.


XLIV. ARMI E MACCHINE BELLICHE NAVALI.

 

La battaglia terrestre richiede indubbiamente molti generi di armi, ma la lotta navale ["navale certamen"], non solo esige un maggior numero di armi, ma anche macchine d’assalto ["machinas"] e macchine da lancio ["tormenta"], come se si dovesse combattere sulle mura e sulle torri. Che cosa vi è di più crudele, infatti, di un attacco navale ["congressione navali"] in cui gli uomini sono uccisi dalle acque e dalle fiamme?

Pertanto, la principale cura deve essere posta per le armature, di modo che i militi siano protetti da corazze metalliche o di cuoio, ed anche da elmi e schinieri. Nessuno può dolersi del peso delle armi, poiché combatte a bordo delle navi ["in navibus"] mantenendosi sul posto. Si impiegano anche gli scudi più ampi e più resistenti ai colpi delle pietre, oltre che alle falci ["falces"], ai ramponi ["harpagones"] ed agli altri tipi di armi da getto navali ["navalia genera telorum"].

Da parte nostra, si schierano frecce, armi da getto, fionde, mazzafromboli, palle di piombo, onagri, balestre, scorpioni, con proiettili e sassi; e, cosa più importante, coloro che sono resi temerari dal proprio coraggio, accostate le navi da guerra e gettate le passerelle, passano sulle navi avversarie ed ivi, come suol dirsi, ai ferri corti, combattono corpo a corpo con le spade.

Inoltre, nelle navi da guerra più grandi si stabiliscono ripari e torri, per poter più agevolmente ferire o uccidere i nemici dai tavolati più alti, come da un muro. Con le balestre si infiggono nelle carene delle navi nemiche delle frecce avvolte con stoppa – imbevuta di olio incendiario, zolfo e bitume – ed infiammate; e le tavole spalmate di cera, pece e resina, con tanto alimento d'incendio repentinamente prendono fuoco. Alcuni sono uccisi dalla spada e dalle pietre, altri sono costretti ad ardere tra le onde; tuttavia, fra tanti generi di morte, il caso più crudele è quello dei corpi che rimangano insepolti, in pasto ai pesci.


XLV. CRITERI PER TENDERE INSIDIE PER MARE.

 

A somiglianza dei combattimenti terrestri, si conducono degli assalti improvvisi contro gli equipaggi ["nauticis"] che non se l’aspettano, o si tendono degli agguati negli opportuni passaggi ristretti fra le isole.

E per annientare più facilmente coloro che vengono presi alla sprovvista, si procede come segue: se i marinai nemici ["hostium nautae"] sono affaticati dal lungo vogare, se vengono travagliati dal vento contrario, se la corrente di marea è a favore dei nostri rostri, se i nemici dormono senza alcun sospetto, se l’ancoraggio che occupano non ha vie d’uscita, se si verifica l’auspicata occasione di combattere, allora con il favore della sorte si deve andare all’ingaggio e attaccare battaglia come opportuno.

E a questo proposito, se la cautela dei nemici, evitate le insidie, opponga un combattimento ordinato, allora si deve disporre la formazione delle navi da guerra non in linea retta come sul terreno, ma incurvata a mezza luna, in modo che la forza navale, con i due corni in avanti, sia incavata in centro; così, se i nemici tentassero di sfondare, circondati dalla stessa formazione saranno affondati. D’altra parte, nei corni si pone il nerbo insigne delle navi da guerra e dei militi.


XLVI. CRITERI PER LA BATTAGLIA NAVALE.

 

Inoltre, è utile che la tua flotta ["classis"] si mantenga sempre al largo ["alto et libero mari"] e spinga verso costa quella nemica, poiché quelli che sono ricacciati a terra perdono l'ardore di combattere. È stato accertato che in tali combattimenti giovarono moltissimo alla vittoria tre generi di armi: le stanghe, le falci e le bipenni.

Si chiama stanga ["asser"] quella trave sottile e lunga, che è appesa all'albero ["malo"] come un pennone ["antemnae"] ed ha entrambe le estremità ferrate. Le navi nemiche, accostandosi da destra o anche da sinistra, sono da essa colpite con forza, come da un ariete; ed essa senza dubbio abbatte ed uccide i combattenti ["bellatores"] o i marinai ["nautas"] nemici, e più spesso sfonda la stessa nave.

La falce ["falx"] è un ferro affilatissimo e curvo come una falce agricola, il quale, fissato su pertiche delle più lunghe, recide d'un tratto le drizze ["chalatorios"] – sono le manovre ["funes"] che tengono sospeso il pennone ["antemna"] – e, avendo fatto cadere le vele della galea avversaria, la rende più indolente ed inutile.

La bipenne ["bipennis"] è una scure che ha una lama larghissima ed affilatissima da entrambe le parti. Con queste armi, nel pieno fervore del combattimento, i marinai ["nautae"] o i militi ["milites"] più esperti, imbarcatisi sulle più piccole imbarcazioni ["scafulis"], tagliano di nascosto i cavi ["funes"] con i quali sono tenuti i timoni ["gubernacula"] delle navi nemiche. Fatto ciò, queste vengono immediatamente catturate, come se fossero navi inermi ed impotenti; e, infatti, quale mezzo di salvezza rimane a chi ha perduto il timone ["clavum"]?

Delle navi fluviali ["lusoriis"], che tutelano posti di confine con la vigilanza quotidiana sul Danubio, stimo preferibile tacere, poiché dal loro più frequente uso recente, l'arte nautica ha scoperto più di quanto l'antica dottrina avesse insegnato.

Eruzione del Vesuvio del 79 d.C. – La morte di Plinio il Vecchio

Testimonianze storiche:

FUGA DAL VESUVIO -  In questo paradiso naturale, già apprezzato e frequentato all'epoca dei Romani (e certamente anche prima che l’egemonia romana si estendesse sulla penisola) nell'estate del 79 d.C. successe il “finimondo”.

È quanto racconta Plinio il Giovane (61 d.C. – 112 d.C.), testimone oculare dei fatti, nella seconda delle due lettere inviate a Tacito (lo storico dell’Impero romano). Dice, infatti, lo scrittore romano che “fra quelli che fuggivano da Miseno per mettersi in salvo, ce n'erano molti che si disperavano dicendo che quella era l'ultima notte del mondo". E Miseno è a più di 20 km da Ercolano, e a circa 30 km da Pompei!

Nell'anno 79 d.C. (data della catastrofe pompeiana, secondo una probabile ricostruzione storica), sotto l'imperatore Tito Flavio Vespasiano, figlio di Vespasiano, a Capo Miseno, più esattamente nell'insenatura di Baia, si trovava di stanza la flotta romana al comando del navarca (ammiraglio) Plinio (il Vecchio), uomo politico e letterato, oltre che valente naturalista. Con lui c'era la sua famiglia, costituita dalla sorella e dal diciottenne figlio di lei.

Il ragazzo, anch’egli Plinio (il Giovane), in quanto adottato dallo zio, dovette conservare il nome gentilizio della famiglia, a scapito di quello del padre naturale. Successivamente, divenuto a sua volta un importante uomo pubblico, nel 107 (si era frattanto al tempo dell'imperatore Traiano) inviò due lettere a Tacito in cui gli descrive l'eruzione del Vesuvio; e, tra le altre cose, racconta anche come in quella occasione era morto suo zio; nella speranza che Tacito, il quale in quegli anni andava pubblicando le sue Storie, se ne servisse come documentazione.

Plinio il Giovane, nella prima lettera a Tacito, descrive così l'inizio dell'eruzione e lo sviluppo della colonna eruttiva, che egli, insieme allo zio, osserva da Miseno:

Era a Miseno [Plinio il Vecchio] e, presente, governava la flotta. Il 24 agosto era trascorsa appena un'ora dopo mezzogiorno e mia madre gli mostra una nuvola che allora appariva, mai vista prima per grandezza e figura. [...] La nube si levava, non sapevamo con certezza da quale monte, poiché guardavamo da lontano; solo più tardi si ebbe la cognizione che il monte fu il Vesuvio. La sua forma era simile ad un pino più che a qualsiasi altro albero.
Come da un tronco enorme la nube svettò nel cielo alto e si dilatava e quasi metteva rami. Credo, perché prima un vigoroso soffio d'aria, intatto, la spinse in su, poi, sminuito, l'abbandonò a se stessa o, anche perché il suo peso la vinse, la nube si estenuava in un ampio ombrello: a tratti riluceva d'immacolato biancore, a tratti appariva sporca, screziata di macchie secondo il prevalere della cenere o della terra che aveva sollevato con sé.

Segue, nella lettera, il racconto degli eventi che portarono alla morte di Plinio il Vecchio. Questi, attratto dallo straordinario fenomeno, decide di avvicinarsi, con una piccola imbarcazione, alla zona interessata. Nel frattempo riceve un messaggio con un invocazione di aiuto da parte di amici (Rettina, moglie di Tascio) che si trovano nell'area vesuviana.

Egli cambia idea: all'ansia dello scienziato subentra lo spirito dell'eroe. Fa scendere a mare le quadriremi, vi prende posto. Egli vuole portare soccorso non solo a Rettina, ma a molti, perché la ridente contrada era frequentata.
S'affretta là donde altri fuggono e tiene dritta la rotta e il timone diritto verso il pericolo, senza traccia di paura al punto che dettava e annotava tutte le variazioni di quel male, tutte le figure che i suoi occhi avevano sorprese.

Plinio dirige le sue navi verso Torre del Greco, ma non riuscendo a sbarcare, fa rotta su Stabia, dove si trova la villa dell'amico Pomponiano:

Già sulle navi la cenere cadeva, più calda e più fitta man mano che si avvicinavano; già cadevano anche i pezzi di pomice e pietre annerite ed arse e spezzettate dal fuoco; già, inatteso, un bassofondo e la riva, per la rovina del Monte impedisce lo sbarco. Ebbe un momento di esitazione, se dovesse tornare indietro e il pilota così lo consigliava, ma egli subito disse: "la Fortuna aiuta i forti. Raggiungi Pomponiano!"
[...]
Lì Pomponiano aveva fatto caricare su navi il bagaglio ed era determinato a fuggire, se il vento contrario si fosse placato. Per mio zio, invece, il vento soffia molto propizio ed egli riesce a sbarcare. Abbraccia il trepido amico, lo consola, gli fa coraggio.
[...]
Frattanto dal Monte Vesuvio rilucevano in più di un punto estesi focolai di fiamme ed alte colonne di fuoco: il loro fulgore spiccava più chiaro sulle tenebre della notte.

Quella notte Plinio, ospitato nella villa dell'amico, si ritirò nel suo appartamento, e si addormentò. Ma...

[...] il cortile da cui si accedeva all'appartamento, per cumulo di cenere e lapilli, aveva tanto accresciuto il suo livello che egli, se avesse ancora indugiato nella stanza, non sarebbe potuto uscirne più. Perciò fu svegliato. Venne fuori e si ricongiunse a Pomponiano e gli altri che mai avevano ceduto al sonno.
Discutono tra loro se sia interesse comune rimanere dentro l'abitazione o vagare all'aperto. La casa, infatti, vacillava per frequenti e violente scosse di terremoto, e, quasi divelta dalle sue fondamenta, pareva ondeggiare ora qui ora là, e poi ricomporsi di nuovo in quiete.
D'altronde, all'aperto si temeva la caduta di lapilli, anche se lievi e corrosi. Tuttavia si confrontarono i rischi e si scelse di uscire all'aperto. In lui pensiero su pensiero prevalse, negli altri paura su paura. Mettono dei guanciali sul capo e li legano fortemente con teli: in tal modo si difendevano dalla pioggia di lapilli.
Già altrove era giorno, lì era notte: una notte più fitta e più nera di tutte le notti. Tuttavia la rischiaravano molte bocche di fuoco e varie luci.
Deliberarono di raggiungere la spiaggia e di vedere dal punto più vicino possibile se ormai il mare consentisse un tentativo di fuga. Ma il mare ancora grosso continuava ad essere contrario. Lì egli buttò giù un telo e vi si sdraiò...

Plinio il Vecchio, probabilmente intossicato dai gas, viene colpito da un malore e, non potendo continuare la fuga, viene abbandonato dai compagni. Il suo corpo sarà ritrovato solo tre giorni più tardi. La lettera si conclude con una postilla:

Tutta la mia narrazione è fondata sull'esperienza diretta e sulle notizie udite immediatamente dopo la catastrofe, quando la memoria degli eventi è prossima alla verità. Tu farai una selezione dei fatti più importanti, perché scrivere una lettera non è lo stesso che scrivere una storia, come scrivere per un amico non è lo stesso che scrivere per tutti.

Tacito si mostrò, invece, molto interessato alla vicenda personale dell'amico e lo pregò di scrivergli ancora, per fargli conoscere come egli visse, a Miseno, quei tragici eventi. Così Plinio il Giovane scrisse la seconda lettera, in cui è riportata la descrizione di intensi fenomeni che si sarebbero verificati anche nell'area flegrea in occasione dell'eruzione del 79 d.C. Infatti, lui, sua madre e molti altri abitanti di Miseno abbandonarono le abitazioni per cercare riparo nelle campagne circostanti. Egli scrive:

Precedentemente, per la durata di molti giorni, la terra aveva tremato senza però che ci spaventassimo troppo, perché i terremoti sono un fenomeno consueto in Campania. Ma quella notte, la terra tremò con particolare violenza e si ebbe l'impressione che ogni cosa veniva non scossa, ma rivoltata sottosopra.
[...]
Già il giorno era nato da un' ora e la luce era ancora incerta e quasi languiva. Già le case intorno erano sconquassate. L'ambiente in cui ci trovavamo, pur all'aperto, era tuttavia angusto e la paura di un crollo era forte, anzi certa.
Solo allora decidemmo di abbandonare la città di Miseno.
[...]
Una volta fuori del centro abitato, sostiamo. Molti spettacoli prodigiosi vediamo, molte angosce patiamo. I carri che ci facemmo portare con noi, anche se erano su un terreno assolutamente piano, sobbalzavano ora in una, ora in un'altra direzione e, pur puntellati con sassi, non rimanevano fermi nel medesimo punto.
Inoltre vedevamo il mare ritirarsi, quasi ricacciato dal terremoto. Senza dubbio, il litorale si era allungato e sulle aride sabbie era rimasto al secco un gran numero di pesci.
[...]
Dalla parte orientale, un nembo nero e orrendo, squarciato da guizzi sinuosi e balenanti di vapore infuocato, si apriva in lunghe figure di fiamme: queste fiamme erano simili a folgori, anzi maggiori delle folgori.
[...]
Non molto tempo dopo quel nembo discende sulle terre, copre la distesa del mare. Avvolse Capri e la nascose, sottrasse al nostro sguardo il promontorio di Miseno.
[...]
Rischiarò un poco: non riappariva la luce del giorno, ma era un indizio che il fuoco stava per avventarsi sopra di noi. Ma il fuoco, a dire il vero, si fermò abbastanza lontano. Fu tenebra di nuovo: fu cenere di nuovo, fitta e pesante. Noi ci alzavamo ripetutamente e ci scrollavamo di dosso la cenere. Altrimenti ne saremmo stati coperti e il suo peso ci avrebbe anche soffocato.

[...]
Alla fine quella tenebra diventò quasi fumo o nebbia e subito ritornò la luce del giorno, rifulse anche il sole: un sole livido come suole essere quando si eclissa. Dinanzi ai miei occhi spauriti tutto appariva mutato: c'era un manto di cenere alta come di neve.

 

LE ARMI DELLA FLOTTA ROMANA


Rostro di nave romana della battaglia delle Egadi 241 a.C. - Trapani Museo Pepoli

IL ROSTRO

Il rostro era una micidiale arma in dotazione alle navi da guerra romane. Era formato da un pezzo fuso in bronzo che si andava ad inserire nel punto di congiunzione tra la parte finale della chiglia e la parte più bassa del dritto di prua. La parte anteriore del rostro disponeva di un possente fendente verticale rafforzato da fendenti laminari orizzontali. Esso serviva come strumento per irrompere con forza sulle fiancate delle navi nemiche allo scopo di affrettarne drasticamente l’affondamento. A volte potevano essere di due o più punte, in bronzo e simboleggiavano la testa di un animale.

LIBURNA


Fra i diversi tipi di naves longae, troviamo un modello che si conquistò il podio delle navi da guerra, la liburna, che era stata chiamata così dal nome degli allora molto famosi per le scorribande piratesche, i dalmati Liburni. Probabilmente era la nave migliore della flotta romana. Venne introdotta la prima volta nella battaglia di Azio, ma fu Augusto che, apprezzandone le capacità belliche, ad impiegarla stabilmente nella flotta, facendone un modello. Con una carenatura stretta, risultava molto veloce, era agile nelle manovre, ottima negli inseguimenti, adatta anche a trasportare velocemente le truppe. Ve ne erano vari modelli, dai più piccoli a due ordini di remi, ai più grandi sei ordini di remi.

ALCUNE INTERESSANTI CURIOSITA’

 

Queste navi erano costruite solo con legni preziosi come l’abete, il pino, sia silvestre che domestico, il cipresso e il larice e i chiodi utilizzati erano in bronzo, per prevenire la ruggine, col ferro inevitabile. Vegezio ci narra dettagliatamente, rivelandoci anche dei particolari inconsueti, come dovevano venir costruite le navi liburne: il legno doveva essere tagliato solo tra la quindicesima e la ventiduesima luna, perché in questo periodo si conserva meglio, evitando la corrosione in acqua, che avverrebbe certamente se il legno venisse segato negli altri giorni. Ma non basta: il legno andava tagliato solamente a luglio e agosto e tra l’equinozio d’autunno fino non oltre gli inizi di gennaio, perché in questi periodi il legno è più asciutto. Non solo: dopo aver tagliato il legno, bisognava lasciarlo riposare per un certo arco di tempo, perché arrivasse a quella giusta secchezza che consentiva le prestazioni migliori.

BIREME E TRIREME

Più antica, derivante dalle imbarcazioni ellenistiche e utilizzata anche dai Fenici, vi era la bireme. Lunga e stretta (con circa 24 metri di lunghezza e solamente 3 di larghezza), aveva due file di rematori, 60 per lato, posti tutti su un’unica lunga panca. Erano a loro volta divisi in 30 e 30, metà in alto e metà in basso. Oltre ai remi, queste navi avevano anche un albero con vela quadrata e per questo, con la loro forma aerodinamica e la leggerezza, raggiungevano una notevole velocità. Le bireme furono le navi dell’antichità, sostituite in età più moderna dalle trireme, che svolsero una funzione determinante nella flotta romana.
Anche queste navi avevano una forma aerodinamica,
con la loro lunghezza di 40 metri per 6 di larghezza: quindi grandi tanto da poter contenere armi e una flotta di una centuria di fanti di marina.




 

Tre erano qui i livelli dei rematori, con 30 uomini ciascuno, in tutto quindi erano 180, posizionati sotto il ponte, certamente in condizioni non ottimali. Probabilmente inventata dai Fenici e raffigurata per la prima volta su alcuni bassorilievi assiri dell’VIII secolo a.C., la bireme fu utilizzata come unità militare fino alla fine dell’età romana e nel corso della prima età bizantina.


TRIREME
Queste navi, costituivano la vera "spina dorsale" della marina romana. Potevano trasportare una centuria (80 uomini) di fanti di marina.

QUADRIREMI E QUINQUEREMI

Di dimensioni analoghe (45 metri di lunghezza e 8 di larghezza e un pescaggio, ovvero la parte immersa, di un metro circa la quadrireme e un poco di più la quinquereme) possiamo considerarle come una sorta di corazzate dell’epoca. Su queste navi vi erano sempre: due corvi, uno a poppa e uno prua, e molte armi sul ponte, destinate agli assedi, come baliste, onagri e armi da lancio. Erano costituite da una o due torri dove stazionavano gli arcieri, pronti al lancio dei dardi incendiari. 240 vogatori, 15 marinai e 75 milites classiarii erano imbarcati sulle quadrireme, mentre la quinquireme aveva 300 vogatori e 120 milites classiarii. È noto che sia nella seconda guerra punica che nella battaglia di Milazzo le quadrireme avessero due livelli di rematori, ed erano più basse delle quinquiremi, pure essendo della stessa larghezza (circa 5,6 m). Il dislocamento era intorno alle 60 tonnellate e poteva trasportare circa 75 fanti di marina. Era estremamente apprezzata per la grande velocità e manovrabilità, mentre il suo relativamente scarso pescaggio la rendeva ideale per le operazioni costiere.

 

La quadrireme fu classificata come “grande nave” dai romani (maioris formae). Le quinqueremi erano molto più difficili da stabilizzare di quanto non lo fossero già le triremi, e non fornivano un aumento di velocità corrispondente, in quanto l’uso di più uomini per ciascun remo riduceva lo spazio disponibile e non permetteva a tutti i rematori di manovrare con tutta la forza; d’altro canto garantivano una protezione migliore contro gli speronamenti e permettevano di portare più fanti di marina.

ESAREME

L’Imperatore, gli ufficiali, lo Stato maggiore della marina romana, salivano solo sulle esareme, di dimensioni imponenti e che avevano una funzione principalmente dimostrativa, allo scopo di impressionare il nemico nelle battaglie, utilizzata anche per il trasporto del princeps in parata militare. Nonostante non partecipasse alle battaglie era una nave di grande impatto: grandiosa e maestosa, perfettamente equipaggiata in armi. Nella flotta vi era una sola esareme che rappresentava l’ammiraglia. Nella battaglia di Azio, esaremi erano presenti in entrambe le flotte. Era un tipo di nave pesante di cui non si conosce con certezza se fosse con sei ordini di remi per lato oppure una trireme con due rematori per remo. Plutarco, Cassio Dione e Floro ci narrano che vi furono anche navi con nove o dieci ordini di remi durante la battaglia di Azio, ma non vi sono riscontri archeologici a confermarlo.


Navi da trasporto

Tra le navi da trasporto vi era la navis actuaria, che trasportava le truppe di terra e la cavalleria. Particolarmente capienti ma non eccessivamente grandi (21 metri la lunghezza e 6,50 la larghezza, con una linea di galleggiamento di meno di un metro), potevano trasportare anche fino a 800 soldati. Generalmente avevano quindici remi per lato e avevano anche alberi da vela. Inoltre, una loro caratteristica era quella di avere la chiglia piatta e montare timoni posteriormente e anteriormente.

L’imperatore Giuliano, durante la campagna sasanide del 363, pare ne utilizzò un migliaio, costruite in loco sull’Eufrate, al fine di trasportare approvvigionamenti, legname e anche macchine d’assedio. Infine, troviamo le navi onerariae o corbitae, anch’esse impiegate nel trasporto merci e approvvigionamento

LE ARMI NAVALI

IL CORVO


Il corvo era un congegno di abbordaggio navale utilizzato dai Romani nelle battaglie navali della Prima Guerra Punica contro Cartagine.

Nel libro III delle Storie, Polibio descrive il corvo come una passerella mobile larga 1,2 m e lunga 10,9 m, con un piccolo parapetto su entrambi i lati. Il ponte era dotato di uncini alle estremità che agganciavano la nave nemica, consentendo alla fanteria di combattere quasi come sulla terraferma.

La nuova arma fu ideata per compensare la mancanza di esperienza in battaglie fra navi e consentì una tecnica di combattimento che permetteva di sfruttare la conoscenza delle tattiche di combattimento terrestri in cui Roma era maestra. L'efficienza di quest'arma fu provata per la prima volta nella Battaglia di Milazzo, la prima vittoria navale romana; e continuò ad essere provata negli anni successivi, specialmente nella dura Battaglia di Capo Ecnomo.

In seguito, con la crescita dell'esperienza romana nella guerra navale, il corvo fu abbandonato a causa del suo impatto sulla navigabilità dei vascelli da guerra.


IL ROSTRUM

Sperone di ferro a tre punte localizzato a prua, che serviva a speronare le navi nemiche e facilitarne l'abbordaggio,(ogni nave, inoltre, era munita di un antirostro una sorta di speroni che evitavano l’eccessivo inserimento nel corpo della nave nemica speronata, e che permetteva di sganciare facilmente il rostro dopo l’attacco).
I corvi erano una sorta di ponte elevatoio girevole situato a prua terminante in un uncino che venivano abbassati grazie ad un sistema di carrucole sulla nave nemica per permettere l'aggancio il passaggio dei soldati romani che si riversavano così sulla nave nemica.

 

Quando il Corvo cominciò ad essere ingombrante e pericoloso per la stabilità della nave venne sostituito dall'harpax: quest'ultimo era semplicemente un dardo con un uncino che scagliato da una balista o da uno scorpione si conficcava nella nave avversaria per poi essere tirato portando le due navi a contatto, delle torrette presenti a poppa su cui si posizionavano gli arcieri (che scagliavano frecce di fuoco) in modo che potessero tirare da una posizione rialzata e quindi più vantaggiosa.



 

ONAGRO
Era una sorte di catapulta che sparavano vasi pieni di carboni ardenti e di pece. Mentre le balistae sparavano frecce di 1m di lunghezza a oltre 200m di distanza.

 


BALISTA

Era la macchina da guerra più complessa dell'antichità e vennero ideate e costruite per la prima volta dai Greci. Esse potevano scagliare dardi di 3 cubiti (132 cm) che potevano viaggiare per 650 metri prima di toccare il suolo.


Scorpione

SCORPIONE

I Romani, per essere precisi, non usavano sempre le balistae, ma una loro semplificazione più piccola e compatta: lo scorpione che poteva scagliare dardi standardizzati fino a 3 spanne (69 cm), che potevano essere scagliati con precisione ad una distanza di 100 metri, mentre la gittata utile era di 400 metri. Normalmente vi erano più scorpioni o balistae su una singola nave a seconda della sua mole.


Stanga


La Stanga era una trave sottile e lunga, con entrambe le estremità di ferro, appesa all'albero della nave come un'antenna. Le navi, quando si scontravano, lanciavano con violenza le loro stanghe a destra o a sinistra, quasi fossero degli arieti, uccidendo i marinai nemici e sfondando la nave stessa.
La Falce era un ferro ricurvo ed appuntito, come una vera e propria falce, che era montato su lunghe aste, atto a recidere l'attrezzatura velica avversaria, rendendo le navi più lente.
La Bipenne è invece una scure, con alle due estremità una punta in ferro molto larga ed appuntita, che i classiarii utilizzano durante la battaglia per tagliare di nascosto le funi alle quali erano legati i timoni delle navi nemiche. Ciò rendeva la nave nemica ingovernabile e quindi facilmente catturabile e disarmabile.

SEZIONE MACCHINE DA GUERRA

Balista

BALISTA

Macchina bellica impiegata, soprattutto negli assedi, per lanciare giavellotti, pietre, frecce o dardi infuocati, palle di piombo, mediante lo scatto di un arco di grandi dimensioni. L’ arco della balista romana era costituito da due aste di legno, imperniate in un telaio posto su un cavalletto. Queste due aste erano tenute in pressione da due fasci di fibre intrecciate, che fungevano da mezzo di propulsione, essendo tese al massimo, come molle. Una robusta corda, agganciata alle due aste, veniva tesa e fissata all’ estremità di un carrello mobile, trattenuta da un grilletto o pernio. Il giavellotto, o altro, era collocato in una scanalatura del carrello, cosi che, sganciando di colpo dal pernio la corda tesa dalle due aste dell’arco, veniva spinto violentemente in avanti e scagliato ad una distanza di qualche centinaio di metri (un giavellotto o dardo fino a m. 350; una pietra di 800 grammi fino a m. 180).

La struttura della balista era mobile, entro certi limiti, sia nel piano orizzontale che in quello verticale, in modo tale che il lancio del proiettile poteva essere orientato secondo le necessità.

Posta su un apposito carro, trainato da cavalli, la balista era impiegata anche in battaglie campali e, in tal caso, era denominata CARROBALISTA.

Questa macchina non è una invenzione romana, dato che era già conosciuta dagli Assiri, dai Greci e dagli Egiziani.

Onagro

ONAGRO

Macchina bellica da assedio, impiegata per lanciare grossi sassi o proiettili di piombo a distanza. Era simile alla catapulta, ma differiva da questa per avere una traiettoria di lancio molto più curva, tale che l’oggetto scagliato poteva superare ostacoli alti e colpire i nemici riparati dietro recinti o all’ interno delle mura della città assediata. Era inoltre impiegata per l’indebolimento delle fortificazioni o contro le truppe d’ attacco e l’artiglieria nemica. La macchina era così chiamata per la violenta scossa che aveva nello sparo, paragonata al calcio di un onagro, asino selvatico allora presente in Grecia.

Nell’ onagro il palo che imprimeva la forza propulsiva al proiettile terminava in un secchiello appeso a funi e nel cui cavo veniva collocato l’oggetto da scagliare. Il palo, in posizione orizzontale prima del lancio, liberato dal gancio che lo tratteneva e tirato da un fascio di fibre in tensione, scattava in verticale e andava con un colpo secco ad urtare contro una barra. Nel contraccolpo lasciava partire dal suo alloggiamento il proiettile che, salendo ad una altezza di circa 40 metri cadeva a parabola ad una distanza di circa 30 metri. L’ oggetto piombando con tutto il suo peso nel bel mezzo di un gruppo di nemici, provocava conseguenze devastanti, sia in senso fisico, sia come effetto psicologico, poiché nessuno si sentiva più sicuro all’ interno di una cinta muraria.

Il peso del proiettile, secondo Vitruvio, poteva arrivare fino a 60-80 Kg. Secondo Vegezio ogni legione recava con sé 10 onagri trainati da cavalli o buoi. Ma le macchine più grandi spesso venivano costruite sul posto oppure portate in pezzi e montate poi sul campo di battaglia.

Catapulta

CATAPULTA

Macchina d’ assedio, usata per scagliare grossi sassi (anche di un quintale), proiettili o sostanze infiammabili, con molta violenza. Era costituita da un braccio di legno che terminava con un secchio contenente il proiettile. L’ altra estremità era inserita in corde torte che fornivano al braccio la forza propulsiva. Le catapulte venivano solitamente assemblate o del tutto costruite sul luogo dell’ assedio, impiegando il legno ivi disponibile.

NAVE LUSORIA

Una navis lusoria (che in latino significa danza/nave giocosa, era una piccola nave militare del tardo Impero Romano fungeva da trasporto truppe che avevano il compito di pattugliare il LIMES (il confine) dalle orde barbariche che si nascondevano nelle foreste e assalivano all’improvviso le legioni romane. Era alimentato da una trentina di soldati di guerra e da una vela ausiliaria. Agile, maneggevole e veloce, dimostrò la sua fama nel pattugliamento dei fiumi settentrionali Reno e Danubio vicino al Limes Germanicus, il confine germanico. Lo storico romano Ammiano Marcellino menzionò la navis lusoria nei suoi scritti, ma non si poteva averne un’idea precisa fino alla scoperta di queste barche a Mainz (Magonza) in Germania nel 1981-82.


Ricostruzione della Navis lusoria (della Classis Germanica) nel Museo delle navi romane di Magonza (Mainz).

La nave romana di Mainz (Magonza)

Nel novembre del 1981, durante gli scavi nel corso di una costruzione di un hotel Hilton a Magonza, furono trovati e identificati resti di legno come parti di una vecchia nave. Prima che la costruzione riprendesse tre mesi dopo, il sito produsse resti di cinque navi datate al IV secolo usando la dendrocronologia. I relitti furono misurati, smontati e, nel 1992, portati al Museo dell’antica marineria (in tedesco: Museum für Antike Schifffahrt ) del Museo Centrale Romano-Germanico ( Römisch-Germanisches Zentralmuseum ) per ulteriore conservazione e studio.

Scientificamente i relitti venivano chiamati Mainz 1 attraverso Mainz 5 e generalmente chiamati Mainzer Römerschiffe, le navi Mainz Roman. Furono identificati come vascelli militari che appartenevano alla flottiglia romana in Germania, la Classis Germanica. Le navi possono essere classificate in due tipi, ovvero piccoli trasporti di truppe (Mainz 1, 2, 4, 5) denominati navis lusoria e una nave pattuglia (Mainz 3). La lusoria è più stretta della actuaria navis, un tipo precedente e più ampio di nave da carico romana.

Una nave ricostruita a grandezza naturale è esposta al Museum of Ancient Seafaring, a Mainz, e serve come rappresentante della lusoria. Per la ricostruzione di questa nave in particolare Mainz 1 e 5 sono serviti come modelli. La replica misura 21,0 per 2,8 m mentre il parapetto misura 0,96 m Di nuovo si usa la quercia. Le doghe hanno uno spessore di 2 cm, generalmente 25 cm (10 in) e sono costruite in carreggiate.

La chiglia ha uno spessore di soli 5 cm e è costituita da tavole; contiene un canale centrale per la raccolta dell'acqua. Il mast-frame contiene un foro per posizionare l'albero. Mentre la nave poteva essere navigata, il metodo principale di propulsione era il canottaggio di una fila aperta di rematori su ciascun lato. L'effetto protettivo dei cannoni è ulteriormente esteso dagli scudi dei soldati appesi all'esterno. Le barche erano guidate da un doppio timone a poppa. Una navis lusoria era armata dal timoniere, due uomini per maneggiare la vela e circa 30 soldati che manovravano i remi.

È stato calcolato che la lusoria stretta e relativamente lunga poteva raggiungere una velocità di marcia da 11 a 13 km / h (da 6 a 7 nodi) e una velocità massima di 18 km / h (10 nodi).

Bibliografia

- I Porti Romani sul Mare - Imperium Romanun

- Miseno Bacoli – Classis misenensis – ARCHEO rivista archeologica

- I Porti Romani dei Campi Flegrei – ARCHEO FLEGREI

- L'arte della guerra romana Flavio Renato Vegezio

- Testimonianza storiche dell’eruzione di Pompei del 79 d.C.- Plinio il Vecchio

Osservatorio Vesuviano-L’Italo Americano

- L’Evoluzione navale – Imperium Romanun

- Armi d’assedio- Storia Romana – Approfondimenti-Circolo dei Saggi

- La Marina Militare Romana tra il I e il III Sec. D.C. di Roberto Petriaggi

- Le navi lusorie di Alberto Angela

- Le Liburne – Varie font

 

Carlo GATTI

Rapallo, 17 Maggio 2018


 

 

 


LA NASCITA DI UN...ORMEGGIATORE PORTUALE

LA NASCITA DI UN…. ORMEGGIATORE PORTUALE

di Alessandro Serra

Premessa

LA MANOVRA PORTUALE POGGIA SU TRE ORGANIZZAZIONI:

Piloti-Rimorchiatori-Ormeggiatori

 

Alessandro Serra, Presidente Europeo degli Ormeggiatori, schiude la porta sul loro mondo.

 

Non c'è politica, né retorica né, tanto meno, burocrazia nel caloroso articolo scritto da Alessandro Serra. Piuttosto uno spaccato di vita raccontato con il cuore, per presentare una categoria che ha una storia ricca di avventura, di professionalità e di aneddoti che diventano una vera e propria scuola di vita.

 


Vorrei provare a rendervi partecipi di come nasce un ormeggiatore del porto, o più semplicemente di come io ritenga di essere diventato ormeggiatore.

Giova probabilmente, per il proseguo della lettura, descrivere per sommi capi cosa è e cosa fa un ormeggiatore. Figura antica quanto la navigazione, l’ormeggiatore, lo dice la parola stessa, ormeggia e disormeggia, da sempre, le navi nei porti di tutto il mondo. Un tempo collocando e trasportando le ancore dei bastimenti chiamati “legni” nella posizione opportuna all’interno della rada portuale, oggi connettendo e disconnettendo i cavi delle navi alle bitte delle banchine portuali, dei pontili in/off shore, dei campi boe, garantendo la sicurezza dell’ormeggio per tutta la durata dello stazionamento nell’ambito portuale.

Oggi gli ormeggiatori utilizzano potenti motobarche e verricelli, addirittura innovazioni tecnologiche di tensionamento e monitoraggio dei cavi delle meganavi che solcano i mari e che devono trovare approdi sicuri.

Il mio intento però è provare a tratteggiare più la componente umana che quella professionale, più quella intima e pittoresca che quella tecnica e di moderna innovazione – che comunque l’ormeggiatore ha dovuto ovviamente mettere  nel proprio bagaglio di lavoratore – più la nascita (l’essere) dell’ormeggiatore che quello che fa.

 

In Italia, il primo obbligatorio passaggio per la nascita di un ormeggiatore, e’ quello di partecipare a un bando di concorso tenuto dalla Capitaneria di porto, che seleziona i marittimi che si candidano sulla base di prove pratiche di “arte marinaresca” e di prove teoriche sulle materie tecnico-nautiche e marittime.

Coloro che risultano vincitori devono entrare nella locale organizzazione di ormeggiatori, nel mio caso il Gruppo Antichi Ormeggiatori del porto di Genova. Il giovane vincitore di concorso si presenta presso gli uffici del Gruppo, dove, insieme agli altri vincitori, è accolto dal Capogruppo con un rapido discorso di benvenuto, di presentazione della cooperativa, modalità di assunzione e formazione e soprattutto di avviamento al lavoro, in quanto “meno male che siete arrivati ci sono turni in banchina da coprire e i soci non vedono l’ora di conoscervi”. Il presagio che ci sia un forte bisogno di forza lavoro c’è, e per circa un mese tutto fila via paludato, teorico e formativo per quel che prevede la norma, a volte asettico e a volte si prova la sensazione quasi di essere coccolati: poi arriva il primo turno, la prima giornata. Si monta alle 5.30 am, ma si sa che è bene, soprattutto per i neoassunti, presentarsi un po’ prima. Sveglia alle 4.30 e via per la sede del gruppo, felici perché inizia la nuova avventura, consapevoli della propria preparazione, ma con una ragionevole dose di ansia per tutto quello che si è sentito raccontare…… E dunque……… Si entra in “sala“ dove si incontrano alcuni neo colleghi, uomini di tutte le età….. è l’ora del cambio quindi non si capisce chi monta e chi smonta…… le navi che stanno entrando in porto una dopo l’altra chiamano ai VHF…… e chiamano i piloti…… e chiamano le squadre di ormeggiatori già operative in banchina….. si ascoltano i movimenti dei rimorchiatori…….. e alcuni dei presenti nemmeno ti salutano (anche se sanno benissimo chi sei), altri ti dicono “fai veloce, cambiati che c’è da andare”….. (ma come, sono montato mezz’ora prima per fare con calma?!)…….. e alle 5.20, dopo una bella corsa in macchina per le strade di un porto ancora sonnacchioso, ti ritrovi nell’oscurità di una banchina che non sai se sia l’Etiopia o l’Eritrea, levante o ponente, radice, prolungamento o testata, (eppure avevo studiato tutto)…. cammini verso il ciglio della banchina, verso il mare e improvvisamente appare come un’astronave la nave che devi ormeggiare, che con il suo bagliore illumina tutto. Si segue come un’ombra il collega più anziano…. ci si rende conto che a prora c’è un’altra squadra di ormeggiatori…. ne arriva un’altra con il gozzo…… tutto diviene più frenetico e tu hai il cuore in gola….. la nave e’ in prossimità della postazione di ormeggio…. si comunica a voce (urla belluine) con gli uomini dell’equipaggio della nave (con un gergo marittimo portuale che sembra inglese ma che, capisci dopo, in realtà è un mix di linguaggi delle marinerie più numerose in giro per il mondo, compreso un po’ di dialetto genovese) per concordare come e quali cavi dare, si comunica con piloti e rimorchiatori via VHF per la posizione finale della nave…… ti lanciano da bordo l’heaving-line (sagola da lancio o appesantita), in genovese si traduce “u livellaine”, cui uno dopo l’altro sono voltati i cavi da ormeggio…. il gozzo con i tuoi colleghi te ne porta altri in prossimità della bitta e quasi magicamente la nave è ormeggiata!


A quel punto capisci di non aver colto quasi nulla di quello che si è fatto, di essere lì per fare l’ormeggiatore ma di non essere ancora un ormeggiatore, e un po’ di timore si insinua dentro di te e ti domandi quando sarai in grado di gestire tutto quello che hai visto solo nella tua prima ora e mezza di lavoro.

Passano i giorni, passano i mesi, a volte gli anni e il quadro a tinte fosche inizia a divenir nitido: si matura la conoscenza dei colleghi che lavorano insieme a te per turni di dodici ore, degli uomini del Corpo Piloti, dei pilotini e degli equipaggi dei rimorchiatori, si impara ad ascoltare la radio VHF quarzata sui canali marittimi dedicati ai servizi portuali e alle emergenze; si inizia ad usare la gestualità marinaresca per salutare e comunicare con gli equipaggi di tutto il mondo. Le navi chiamano, i piloti rispondono e tu riesci a calcolarne  i tempi di evoluzione e manovra a seconda della postazione di ormeggio, dell’utilizzo dei rimorchiatori e della presenza di altre navi: il porto da teorica mappa diventa il tuo habitat naturale e materiale, lo tocchi, lo vivi, ne conosci ogni angolo, ogni insidia, ogni bitta e ogni parabordo e il tuo sapere diviene “saper fare”!

Quando sali sul tuo gozzo e riconosci se il suono del motore sia o meno la musica giusta, controlli le bozze di banco per voltare anche i cavi più “maleducati”, verifichi che il tuo coltello sia alla via, quando ti muovi con destrezza tra i bulbi delle navi che vanno all’ormeggio e i remoni (scie) dei rimorchiatori che le aiutano ad arrivare in banchina, quando capisci anche dal tono di voce del pilota se e quando devi parlare al VHF e quando non devi occupare il canale, allora vuol dire che hai la consapevolezza di riuscire a lavorare riducendo al minimo le insidie che si presenteranno.

E quando poi realizzi che chi non ti aveva dato nemmeno il buongiorno il tuo primo giorno di lavoro e’ proprio colui che più di tutti  è stato attento alla tua incolumità fino a quel momento, allora torna tutto, il primo vagito, ci siamo: è nato un ormeggiatore ……e si deve solo iniziare a crescere!

 

Rapallo, 6 Giugno 2018



ENRICO DANDOLO - UN MITO SU CUI RIFLETTERE

ENRICO DANDOLO

(1107-1205)

IL CORAGGIO E LA FORZA DA LEONE DI UN DOGE VECCHIO E CIECO

UN MITO SU CUI RIFLETTERE…

Da un po’ di tempo in Italia e solo qui da noi, si parla di “rottamazione” come soluzione di numerosi problemi della politica italiana ma, a noi di una certa età, certe parole, così come certi slogan partoriti e abusati con troppa fretta e poco buon senso, ci spingono a scrutare con attenzione la storia del nostro Paese e scoprire, ad esempio, che tra tanti formidabili “vecchietti” ce n’é uno che manda a gambe all’aria l’intero mondo della rottamazione. Si tratta del veneziano Enrico Dandolo che diede alla SERENISSIMA il meglio di sé quando era ormai ottuagenario e per di più menomato dalla cecità.


Di antichissima e aristocratica famiglia veneziana Enrico Dandolo venne eletto 41° Doge a 82 anni. Fu uomo di fine intuito politico, ma anche condottiero valoroso e marinaio di grande esperienza e coraggio. Conquistò Costantinopoli a 94, dopo essere stato uno dei più grandi ammiragli della Serenissima.

I fortunati che arrivano a 82 anni d’età, in genere sono bisnonni e molto vicini alla conclusione della loro vita terrena.

Ma il nostro Grande Ammiraglio era un vegliardo molto VISPO di mente e di spirito ed aveva miracolosamente mantenuto un fisico asciutto, nervoso e molto forte. Dicono che avesse le mani grandi e forti e i suoi occhi azzurri fossero due fari capaci d’indagare severamente in profondità chiunque si parasse davanti a lui.

Enrico Dandolo era stato Ammiraglio della flotta, nobilomo da mar, vincitore di battaglie marittime, e poi Ambasciatore duro ed energico a Palermo presso Guglielmo II di Sicilia e a Costantinopoli presso l’Imperatore Emanuele Comneno. Così duro ed energico che Comneno, per punirlo dell’ardire e dell’arroganza con cui pretendeva la restituzione di Venezia di alcuni prigionieri, lo fece arrestare e “abbacinare” (antica forma di supplizio) con gli specchi ustori. Ne rimase semicieco e anche questa infermità si aggiungeva alle preoccupazioni di coloro che vedevano salire alla massima autorità della Repubblica Serenissima un uomo di età così avanzata e persino limitato in quei suoi occhi che lo resero celebre.

Ma il destino aveva ormai scritto per lui pagine luminose di storia e come per incanto la sua anagrafe subì dei sussulti mostrando subito a tutti quanto fosse brillante il suo smalto e decisa la sua volontà.

Era il 1192 quando giunse al soglio dogale. La stipula della “promissione dogale” fu il suo primo atto quasi rivoluzionario: un documento con il quale s’impegnava a concedere libertà popolari mai prima godute dai cittadini, a rispettare tradizioni e consuetudini, a limitare il suo stesso potere sovrano eletto. Il suo debutto fu sensazionale!

Subito dopo dovette affrontare il primo problema militare e non perse tempo nel prendere decisioni immediate.

I pisani avevano occupato Pola di sorpresa, una città del dominio veneto. L’affronto era molto grave, soprattutto perché si era consumato in acque troppo vicine a Venezia. Era un imperdonabile provocazione.

Dandolo prese il comando della flotta ma, da grande marinaio quale era, si accorse subito che con quel naviglio non sarebbe andato lontano… Organizzò allora un deciso quanto astuto colpo di mano: requisì tutte le navi che si trovavano alla fonda dentro e fuori la laguna, le armò e ne affidò il comando a Giovanni Baseggio e a Tomaso Falier.

Quindi, con quella squadra mercantile, in fretta e furia militarizzata, mosse verso Pola, colse di sorpresa i pisani, distrusse gran parte delle loro navi e costrinse il resto dei legni alla fuga. Non ancora soddisfatto della punizione, inseguì gli invasori e li raggiunse nelle acque della Morea e li sconfisse definitivamente, rompendo il blocco del canale d’Otranto che i pisani avevano posto a Venezia, con l’aiuto dell’imperatore Enrico VI, re di Sicilia.

Si trattò di un eccellente debutto, un trampolino di lancio che lo proiettò molto in alto destando la preoccupazione non solo delle altre Repubbliche Marinare italiane, ma anche di tutti i rivali di Venezia che non erano pochi e studiavano segretamente le mosse della Serenissima tra le quattro sponde del Mediterraneo e dell’intera Europa.

L’esordio al dogato fu così eclatante da spingere i principi cristiani d’Europa a presentarsi a Venezia per chiedere l’appoggio e l’alleanza della Serenissima in vista della IV Crociata.

A questo punto Dandolo condusse molto abilmente una trattativa che si concluse con un contratto in base al quale Venezia s’impegnava a fornire ai crociati, entro la fine di giugno 1202, il trasporto delle truppe crociate: 33.000 soldati, un numero ambizioso, in cambio di un sostanzioso pagamento; il contratto fu ratificato dal papa.

Era un vero e proprio contratto di trasporto e rifornimento e, per soddisfare la corposa richiesta, i veneziani garantirono anche la costruzione di 50 navi da guerra e 450 vascelli da carico.

Inoltre, la Repubblica di Venezia si sarebbe assunta l’onere di armare in proprio 50 galere partecipando ai rischi dell’impresa ed agli eventuali profitti nella misura del cinquanta per cento, con la clausa del possesso delle terre conquistate durante la spedizione.

Tutti si dichiararono soddisfatti e lo storico Michaud scriverà del Doge: “… e Dandolo, accoppiando le passioni più generose alle idee di calcolo e di economia, proprie dei suoi compatrioti, dava un’aria di grandezza a tutte le imprese di un popolo commerciante”.

A questo punto sorge un problema piuttosto grave. I crociati non hanno danaro sufficiente a mantenere gli impegni presi. Il Doge propone astutamente un baratto: Venezia fornirà il trasporto e i viveri pattuiti, purché i guerrieri della croce l’aiutino prima a conquistare Zara.


La Resa di Zara

di Domenico Tintoretto

Tutti si ritrovano d’accordo! Invece della crociata, avviene la sanguinosa espugnazione della città dalmata, che alla Serenissima non costa una sola vittima.

Ma Zara non fu una tappa pacifica, l’ostilità degli abitanti e delle truppe ungheresi conclusero in un assedio, sfociato in assalto e saccheggio. I veneziani furono incolpati e quindi scomunicati dal Papa.

Nel frattempo, mentre le truppe crociate svernano sull’Adriatico nell’attesa di rimettersi in viaggio, Alessio Angelo, figlio dell’imperatore Isacco II di Costantinopoli, incontra Enrico Dandolo per raccontargli che il padre é stato destituito da suo fratello Alessio III, acerrimo nemico di Venezia.

Il giovane Alessio chiede aiuto per rimettere in trono il genitore: in cambio promette di mandare le forze bizantine alla crociata e propone inoltre, fatto d’importanza assoluta, di unire le chiese romana e greca dopo il devastante scisma del 1054.


1204, La Presa di Costantinopoli

di Palma il Giovane

Dandolo, senza alcuna esitazione, coglie l’occasione al volo ed accetta. L’ammiraglio riprende il comando della flotta e fa vela verso il Bosforo. Assedia Costantinopoli, prende una parte delle mura e subito in città scoppia la rivoluzione, Alessio III é cacciato, Isacco é ristabilito sul trono. Ma quando si tratta di mantenere fede all’impegno di unire le due chiese, Costantinopoli si ribella violentemente: allora il Doge decide di conquistarla e nel 1204, a 94 anni d’età, l’indistruttibile Enrico Dandolo, che ha guidato personalmente la battaglia, pianta la bandiera di Venezia con il leone di San Marco sulla fortezza della capitale dell’Impero d’Oriente. Una delle massime conquiste militari della storia.

A questo punto non vi é il minimo dubbio Enrico Dandolo diventa l’uomo più potente d’Europa, forse del mondo. Ottiene per sé e i suoi successori il titolo di “signore di una quarta parte e mezza dell’Impero romano”, con le terre di tutta la regione costiera dell’Albania fino al Mar di Marmara, le isole Ionie, le Cicladi, Negroponte, un terzo di Costantinopoli e, per baratto l’isola di Candia, più l’Epiro e Gallipoli.


L’Europa che conta si esalta e vuole eleggerlo IMPERATORE, ma il vegliardo rifiuta, indicando al suo posto Baldovino di Fiandra; in compenso il veneziano s’impossessa del meglio che può esserci nella città conquistata e, tra l’altro, invia a Venezia i famosi quattro cavalli di San Marco, che erano statue romane portate a Costantinopoli dopo la scissione dell’Impero.

Fanno rotta per Venezia anche innumerevoli icone, gemme, perfino i corpi di santi ai quali intende far erigere chiese in patria. Il bottino di guerra é immenso, come la gloria del Doge.

Venezia, grazie a questo vecchio e incrollabile nobilomo da mar, é ora la più grande potenza coloniale e marittima del Mediterraneo.

In questo contesto di gloria e di grandi risultati militari e politici, Dandolo non ha mai dimenticato di essere stato fatto accecare dall’imperatore di Costantinopoli, solo così si comprende fino in fondo la sua terribile vendetta…


Ma il capolavoro di ASTUZIA che passò alla storia fu: La presa di Costantinopoli ad opera dei crociati si realizzò in cambio del trasporto via mare supportato dalla Serenissima e nemmeno fino in Terra Santa.

In quella intrepida operazione militare, nulla era stato studiato ed eseguito per “servire” il Papa, ma il risultato finale fu quello di aumentare la potenza militare e commerciale di Venezia.

Il 14 giugno 1205, a 95 anni d’età, Enrico Dandolo morì, quasi all’improvviso, mentre guidava con straordinaria abilità le truppe in Tracia contro il re dei Bulgari che aveva fatto prigioniero e assassinato Baldovino di Fiandra, appena eletto imperatore di Costantinopoli.

L’eccesso di stress di quell’ultima impresa causò probabilmente l’abbattimento della vecchia quercia eppure, fino a quel momento, il grande Doge era rimasto lucido e determinato, accentrando nelle sue mani il supremo comando. Dandolo aveva tenuto la massima magistratura di Venezia per tredici anni; non fu un lungo periodo, ma  i successi ottenuti lo fecero balzare sul podio più alto nella storia della Serenissima.

La lapide del sepolcro del Doge

Non fu riportato in patria: Il suo corpo, quello di uno dei più grandi marinai d’ogni tempo venne sepolto a Costantinopoli, la città che lui aveva conquistato, sotto il portico della basilica di Santa Sofia.

Scrisse di lui il Laugier: “Pervenne al supremo grado in età decrepita, e vi si distinse con tutte le qualità che formano l’uomo vigilante senza inquietudine, giusto senza rigore, buono senza debolezza. Era riservato a lui solo il vedere gli estremi della caducità divenire l’epoca della maggiore sua gloria. In età di oltre novant’anni, fu generale di una grande flotta, motore ed agente della più meravigliosa azione di guerra che mai si fosse intrapresa: diede battaglie, comandò assalti; le sue fatiche, le sue vigilie, le sue imprese rovesciarono un grande impero, decisero della fortuna di due grandi nazioni, e portarono la potenza veneziana a quella sublimità di splendore, al quale sia ella mai pervenuta…”.

Il giudizio della Storia:

Oggi Enrico Dandolo è considerato uno dei più grandi Dogi nella storia di Venezia. Prese il controllo di una potenza commerciale in declino, minata dalla corruzione e dall'inefficienza e sfidata da potenze grandi e piccole in tutta la regione. Il commercio era andato in declino e la sua potenza militare era quasi nulla. Alla sua morte Dandolo aveva posto fine a tutte le minacce esterne all'influenza veneziana, facendone ancora una volta la più grande potenza commerciale del Mediterraneo. Gli storici hanno definito Dandolo "fondatore dell'impero coloniale veneziano". La città rimase prospera, stabile e sicura per tutto il secolo successivo.



L'Enrico Dandolo (S 513) è stato un sottomarino italiano della classe Toti costruito negli anni sessanta e messo in disarmo negli anni novanta.  Si trova oggi esposto presso L’Arsenale di Venezia.

Questo è il secondo sommergibile intitolato ad Enrico Dandolo e la terza unità della Marina Militare a portarne il nome. La prima unità fu una corazzata progettata da Benedetto Brin e costruita nell'Arsenale di Spezia tra il 1873 e il 1882. La nave era stata intitolata all’Ammiraglio veneziano e le fu dato il motto:

Qui si deve vincere

parole attribuite al Doge durante l'assedio di Costantinopoli del 1203.

Questa nave partecipò alla Guerra Italo turca e alla Prima guerra mondiale per essere radiata nel 1920.

In seguito ebbe il nome di Enrico Dandolo un sommergibile della classe Marcello, entrato in servizio nel 1938. Il battello partecipò attivamente alla Seconda guerra mondiale, prima nel Mediterraneo e poi nell'Atlantico dalla famosa base di Betasom. Dopo l'8 settembre fu trasferito negli USA ed impiegato per addestramento delle Marine alleate; rientrato in Italia nel dopoguerra fu radiato in osservanza delle clausole armistiziali.


Il nome del grande DOGE é stato sempre presente nelle varie epoche anche nella Marina Mercantile italiana. In questa foto ricordiamo la bella nave da carico ENRICO DANDOLO della Società di Armamento SIDARMA di Venezia.

Bibliografia:

- - GRUPPO WSM

- - CIVILOPEDIA Online

- - Enciclopedia TRECCANI

- - Wikipedia

- - L’Occidentale-Orientamento Quotidiano

- - Navi e Marinai

Carlo GATTI

Rapallo, 5 Aprile 2018

 

 

 

 


UNA GIORNATA DA COMANDANTE di Rossella Balaskas

 

UNA GIORNATA DA COMANDANTE

di

Rossella Balaskas


Immaginiamo una giornata di navigazione tipica, con tempo buono: sveglia tra le 7 e le 7:30, un’occhiata fuori, un’altra al GPS e al ripetitore ECDIS sopra la scrivania; bevo il caffè davanti al computer, mentre invio i messaggi di ETA (estimated time of arrival) al prossimo porto e agli eventuali porti successivi.

Poi salgo sul ponte.

Dalle 8 alle 12 è di guardia il 3°Ufficiale, solitamente una persona di giovane età e con poca esperienza di mare, quindi da seguire attentamente: rispondo alle sue domande, lo incoraggio, gli lascio qualche lavoro da fare nel pomeriggio…

Alle 9 aprono gli uffici a terra e, puntualmente, arrivano copiose le e-mail: documenti da preparare per i prossimi porti; ispezioni da organizzare; chiarimenti su materiale da ordinare; controlli da fare sulla base di osservazioni fatte ad altre navi, per essere sicuri di non avere gli stessi problemi…

Personalmente preferisco rispondere subito, in modo che il lavoro non si accumuli; così, con l’aiuto del 1°Ufficiale, controlliamo ciò che ci viene richiesto, approfittando dell’occasione per fare un giro in coperta e controllare i lavori di manutenzione.

Il Direttore di Macchina ci aiuta per la parte tecnica. La vecchia rivalità tra macchina e coperta viene superata quando le persone si conoscono e si stimano!


A mezzogiorno si pranza ed è subito il momento di mandare il Noon Report: un messaggio alla compagnia in cui sono indicate condimeteo, miglia percorse, consumi ecc.

Nel pomeriggio ci prepariamo all’arrivo.

Poiché si tratta di una nave che fa principalmente cabotaggio, tutti noi conosciamo i porti, ma un piccolo ripasso non fa mai male: dò un’occhiata alla carta accertandomi che il 2°Ufficiale abbia riportato correttamente le chiamate da effettuare a Piloti, Capitanerie ed eventuali VTS e lascio detto quando chiamarmi per la manovra (ma tanto li frego, salgo sempre prima di essere chiamata!).

La speranza che l’ormeggio non sia disponibile e che si sia “costretti” ad andare alla fonda per un giorno o due c’è sempre. Purtroppo, spesso è una speranza vana! Così anche oggi, dopo aver consultato i Piloti un’ora prima dell’arrivo, abbiamo ricevuto conferma che andremo all’ormeggio.

Telefono al Direttore, anche lui già al suo posto in Centrale Controllo Propulsione, per informarlo.

Prima dell’arrivo faremo alcune prove e controlli, di cui il più importante è il test del timone e, inoltre, qualche miglio prima di arrivare alla Stazione Piloti, ci fermeremo brevemente per testare la macchina indietro.

Il bello della nave piccola è che si ferma tranquillamente in un paio di miglia! Anche se per sicurezza e quieto vivere, quando non ci sono particolari esigenze, me la prendo più comoda.

Più tardi, richiamo quindi il Direttore per dargli l’orario ufficiale del PIM – pronti in macchina  (SBE -standby engine in inglese ndr), chiedergli di mettere in moto i generatori e informarlo che inizierò a ridurre la velocità.

Una piccola curiosità, gli orari sono sempre divisibili per 6, retaggio di quando non esistevano i computer e i conti si facevano a mano, per semplificare!

A questo punto mandiamo via e-mail la Lettera di Prontezza, comunicazione ufficiale che la nave è pronta a caricare o scaricare (in alcuni porti italiani, la prontezza si notifica anche via VHF al terminale o all’Avvisatore Marittimo).

Dopo avere diminuito la velocità e provato la macchina indietro, approcciamo la Stazione Piloti dove imbarca il Pilota.

Un altro vantaggio di stare su una nave che fa sempre gli stessi porti è che conosciamo bene i Piloti, e loro conoscono bene la nave, quindi lo scambio di informazioni è abbastanza conciso: Pescaggi, una ripassata alle caratteristiche di manovra, qualche convenevole; poi si entra nel vivo! La manovra, se il tempo è buono, dura da mezz’ora a un’ora; di norma sono presenti (obbligatoriamente, per via del carico pericoloso che trasportiamo) uno o anche due rimorchiatori.

Una volta ormeggiati, sale a bordo l’Agente Raccomandatario per ritirare i necessari documenti; in alcuni Paesi è accompagnato dalle Autorità locali (in tal caso i documenti si moltiplicano!).

Una volta sbrigate le formalità di arrivo e mandata l’ennesima e-mail, con gli orari fino all’ormeggio, scendo a fare un po’ di pubbliche relazioni con il Loading Master (rappresentante del terminale) e Cargo Surveyor (ispettore del carico); della parte tecnica si occupa il 1°Ufficiale, ma qualche firma da mettere c’è sempre e, quindi, non manco di farmi vedere.

È tardi e la cena è saltata, ma due chiacchiere in buona compagnia possono risollevare il morale! Infatti anche Loading Master e Cargo Surveyor sono, in larga parte, volti noti e amichevoli.

Ormai manca solo di vedere l’inizio delle operazioni commerciali per mandare l’ultima e-mail della giornata poi, con la nave al sicuro in banchina, potrò andare a dormire il sonno dei giusti!

In tutto questo, il mio gatto mi guarda sonnacchioso dal divano, come a dire “perché mai affannarsi?”


P.s.: Ovvio che le giornate non sono tutte identiche ne sempre idilliache: maltempo, malumore e maleducazione a volte la fanno da padroni e allora bisogna consolare, incoraggiare, a volte rimproverare… in questo aiutano molto ironia e soprattutto autoironia.

Spesso una battuta ben azzeccata scioglie le tensioni e vale più di mille discorsi!

ROSSELLA BALASKAS

Rapallo, 22 Maggio 2018


 

 

 

 

 

 

 

 



L'ANTICO PORTO DI CESAREA MARITTIMA

CESAREA MARITTIMA

ISRAELE

Dopo aver visitato ed esplorato gli antichi porti di Claudio, Ostia, Traiano, Mileto, Nemi ed altri, oggi andiamo a Cesarea Marittima per riscoprire altre novità sull’ingegneria degli antichi romani che non finiscono mai di stupirci.

"Il sogno di Re Erode: Cesarea sul Mare"




Questo mosaico, rinvenuto a Caesarea Maritima, di epoca romano-bizantina, dà l'idea della bellezza della città  e dei suoi monumenti. Il mosaico policromo é abbellito con animali, piante, alberi e motivi geometrici. Al suo centro regna una divinità femminile locale, di nome Kalokeria, un nome sicuramente grecizzato di una Dea locale, che mostra, come Dea della fertilità e della prosperità,  un cesto di frutti della terra, che doveva assicurare la ricchezza alla bellissima città.

Questo libro: "Il sogno di Re Erode: Cesarea sul Mare" pubblicato negli anni ottanta, tratta del materiale raccolto per una mostra in Israele, ed offre una splendida narrazione della rinascita archeologica di una delle città più belle dell’Impero Romano di Oriente e del suo porto di prima grandezza: Cesarea Marittima, la quale competeva dunque con Leptis Magna, il Pireo-Atene, Ostia, Alessandria, Rodi e molti altri, per tutta una circolazione straordinaria di beni ed il passaggio di idee e dottrine Oriente-Occidente e viceversa.

Oggi CESAREA si presenta così…






Oggi Cesarea ce la possiamo solo immaginare in tutta la sua bellezza con le ricostruzioni degli studiosi.




La fonte principale di informazioni é lo storico ebreo Giuseppe Flavio. Situata 40 km a nord dell’attuale Tel Aviv, Caesarea Maritima venne fondata lungo una delle più importanti vie di comunicazione che collegavano le aree popolate del Medio Oriente con la costa mediterranea. La costruzione della grande città fu condotta a ritmi sostenuti con il lavoro di migliaia di operai e schiavi, e terminata in tempi davvero brevi (nove o dieci anni prima di Cristo).

Un acquedotto forniva a Cesarea l’acqua potabile, e un sistema di fogne sotto la città portava al mare acqua e liquame. L’impresa più importante però fu la costruzione del porto artificiale.

UN PO DI STORIA:

Erode il Grande (regnate tra il 40 e il 4 a.C.) aveva ricevuto in dono il sito da Cesare Augusto insieme a Samaria e ad altre città minori. Dopo avere ricostruito Samaria, che chiamò Sebaste, rivolse l’attenzione alla costa e iniziò la costruzione di una città e di un magnifico porto presso la Torre di Stratone, costruzione che richiese 10-12 anni; l’inaugurazione avvenne (secondo alcune fonti autorevoli) verso il 10 a.C. Trattandosi di opere costruite in onore di Cesare Augusto, Erode chiamò la città Cesarea e il porto Sebastos (che in greco significa Augusto). La città era bellissima, sia per i materiali edili impiegati sia sotto il profilo architettonico; c’erano un tempio, un teatro e un anfiteatro abbastanza grandi da ospitare una folla numerosa.

La città venne costruita ampliando a dismisura il piccolo porto villaggio di Straton (detto anche “Torre di Straton”), nato secoli precedenti come scalo per i traffici marittimi tra Fenicia ed Egitto. Tra alterne vicende Cesarea durò fino al 1265, quando le truppe musulmane, guidate dal sultano mamelucco Baybars, posero fine alla sua millenaria esistenza allo scopo di privare i crociati di una formidabile base di penetrazione in Terrasanta. La città era già stata conquistata da Saladino nel 1187; ripresa dai crociati francesi dopo circa vent’anni, venne fortificata nel 1251 per volere di re Luigi IX di Francia, ma le possenti mura, tutt’oggi visibili attorno al nucleo centrale della cittadella, non bastarono a fermare la furia dei Mamelucchi, decisi a ributtare in mare gli invasori. Da quel momento le rovine di Cesarea divennero il regno della sabbia e della salsedine. Il sogno di Erode fu inghiottito dalle dune costiere.

La città possedeva un porto molto grande con un molo che proteggeva gli attracchi da sud e da ovest. Sul porto si ergeva il tempio di Augusto e Roma, in posizione sopraelevata. Un doppio acquedotto portava l'acqua in città dalle sorgenti del Monte Carmelo. I ruderi di un imponente anfiteatro sono ancora visibili oggi come resti del citato acquedotto. La città era fiorente e abitata da popolazioni di varia etnia, ebrei, greci, romani, samaritani. Fu molto ben descritta da Flavio Giuseppe nei suoi libri Guerra giudaica e Antichità giudaiche.


Il Teatro di Cesarea Marittima (sopra e sotto)

Cesarea Marittima, Israele: colonne del parco archeologico

Il suo porto fu inaugurato nel 10 a.C. dallo stesso Erode in onore di Cesare Augusto. Per costruirlo si usò un tipo di cemento idraulico messo a punto dai romani: la «pozzolana», un miscuglio di polvere vulcanica del Vesuvio, fango e pietrisco che si indurisce a contatto con l'acqua. Ci vollero dodici anni e migliaia di uomini per portare a termine l'opera: molti furono fatti venire anche da Roma. Tra loro si distinguevano i tuffatori che si immergevano trattenendo semplicemente il fiato oppure in campane subacquee.

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CONCLUSIONE

La prosperità si ebbe finché resse l'impero romano che senza razzismi o preclusioni, favorì i commerci ed ogni tipo di arte in ogni parte e ad ogni gente del suo impero. Quando però questo decadde vennero a mancare cultura, scuole, leggi, commerci e ricchezze, e tutto ricadde nella barbarie. Da qui l'oscuro medioevo.

Bibliografia:

-Geografia e Archeologia

-Biblioteca on line

-I porti romani sul mare

-Associazione culturale Liutprand: il cemento degli antichi romani

-Il sito archeologico di Cesarea Marittima

-Daniele Mancini Archeologia

-Terrasanta.net

-Archeologia Viva-vivere il passato. Capire il presente.

-IMPERIUM ROMANO

-FELICI: La ricerca sui porti romani in cementizio.

 

Carlo GATTI

Rapallo, 22 Marzo 2018

 

 

 

 


QUALCHE PAROLA SUI RIMORCHIATORI-PORTO DI GENOVA

 

Qualche parola sui rimorchiatori

John Gatti


l rapporto tra il Pilota e il Comandante dei rimorchiatori va costruito e curato nei dettagli.

Il filo che li lega deve essere il risultato di una profonda conoscenza reciproca basata sul senso marinaresco, sulla fiducia, sulla complicità, sull’abilità, sul rispetto e sulla stima.

E’ importante conoscere le differenze tra i vari rimorchiatori per apprezzarne i pregi e capirne i difetti, come lo è capire quando e come conviene usarne uno piuttosto che un altro o sapere cosa si può pretendere da loro e a cosa si deve rinunciare per non correre inutili rischi.

Tuttavia non è sufficiente.

Per entrare in sintonia con il Comandante del rimorchiatore è fondamentale vivere alcune esperienze dal Ponte di Comando di quei mezzi: solo così è possibile dare il giusto peso alle difficoltà che si hanno a voltare i cavi(assicurare i cavi alle bitte) dovendo rimanere quasi a contatto con la prora della nave in movimento, o per realizzare cosa significhi l’impatto della corrente di scarico di un’elica potente che parte all’improvviso; per non commettere imprudenze, inoltre, occorre sapere come cambia la prospettiva per chi si trova in posizione pericolosa tra la nave e un ostacolo, mentre il rapporto spazio/tempo diminuisce velocemente.


E’ di grande aiuto riuscire a “riconoscere” i Comandanti dalla voce al VHF (ricetrasmettitore, fisso o portatile, per le comunicazioni marine) perché con alcuni si lavora meglio che con altri e, in certe situazioni, la sintonia potrebbe essere il valore aggiunto determinante sull’ultima carta da giocare. Anche per questo è importante essere psicologicamente pronti a raccogliere i consigli giusti: l’umiltà di accettarli può aiutare a non commettere errori e un rapporto costruito su solidi basi fa in modo che, comunque, non vengano compromessi l’autorità e il controllo della manovra.

In tutto questo è ovviamente necessario considerare la figura e le competenze del Comandante della nave: un uomo di mare che potrebbe anche non parlare la nostra lingua, ma che capisce esattamente le difficoltà di una manovra impegnativa. Per questo e per molti altri motivi lo si deve informare sulla manovra che si intende fare e sui rimorchiatori che verranno impiegati.


Tramite il Tavolo Tecnico, condotto dall’apposita sezione della Capitaneria, i rappresentanti dei Servizi Tecnico Nautici, riunendosi giornalmente, hanno l’opportunità di discutere di procedure, limare incomprensioni, smussare problemi, valutare rischi e trovare soluzioni a manovre complicate, ma anche comprendere e ribadire il fatto che ogni operazione coinvolge altri soggetti e che non si può non tenerne conto.


Detto questo, e solo a scopo discorsivo, elenco alcuni punti delicati da tenere sempre a mente quando si utilizzano dei rimorchiatori in manovra:

  • Se i rimorchiatori vengono voltati (assicurati con il cavo alla bitta) fuori dalle acque ridossate (riparate) dalla diga del porto, non bisogna dimenticare che le onde li fanno rollare (movimento oscillatorio di un nave provocato dai marosi che la colpiscono trasversalmente) e che ci sono dei marinai a lavorare sul Ponte di Coperta bagnato e spazzato dal mare. E’ imperativo regolare la velocità e la rotta per rendere l’operazione più agevole e sicura.
  • La fase in cui si voltano i rimorchiatori è molto delicata: per dare o ricevere il cavo si devono avvicinare fin quasi a toccare la nave e più è alta la velocità più l’operazione diventa pericolosa. Sei o sette nodi, compatibilmente con le caratteristiche dei propulsori, è di solito il giusto compromesso, soprattutto per il rimorchiatore di prora che, nell’avvicinarsi alle grosse petroliere e alle portacontenitori di ultima generazione, sparisce completamente alla vista di chi dirige le operazioni dal Ponte di Comando.
  • Se la nave in manovra utilizza due rimorchiatori è buona norma, quando possibile, voltare prima quello di poppa e poi quello di prora; per mollarli vale il contrario: prima quello di prora e poi quello di poppa. Questo perché, nella malaugurata ipotesi di un problema al rimorchiatore di prora, si ha sempre la possibilità di utilizzare quello di poppa per frenare la velocità o per aiutare l’accostata.
  • L’effetto giratorio che agisce sul rimorchiatore, dovuto alla massa d’acqua spostata dalle grandi petroliere, è da valutare con molta attenzione: mentre lo stesso è quasi assente nella manovra di navi dalla stellatura prodiera molto accentuata (affinamento delle forme della carena, riferita soprattutto alla sezione prodiera e poppiera; in pratica: più queste forme sono tonde, meno sono stellate, portacontainer, navi passeggeri, ecc.). Pertanto, in queste condizioni e anche se non si sviluppano grandi velocità, bisogna considerare che durante le operazioni di passaggio del cavo parte del moto avanti del rimorchiatore è annullato per mantenere la direzione; effetto che sparisce allontanandosi di una decina di metri circa.
  • Avvisare sempre i rimorchiatori di qualsiasi variazione di rotta e velocità, informarli non appena sono stati voltati, se si intende modificare la manovra concordata e prima di usare la macchina o di dare fondo alle ancore.
  • Precisare al Comandante della nave dove si intendono voltare i rimorchiatori spiegandogli l’importanza di usare un heaving line (lanciasagole appesantito ad una estremità con lo scopo di facilitarne il lancio) con un peso adeguato: troppo spesso il vento porta via la messaggera (cima maneggevole di piccola sezione, usata per virare a bordo il cavo del rimorchiatore), con conseguente perdita di tempo… e più è lungo l’intervallo in cui il rimorchiatore rimane sotto la prua della nave in movimento, più alto è il rischio d’incidenti, senza considerare che nel frattempo la nave avanza con scarsa capacità di governo.
  • Prima di liberare il rimorchiatore di poppa, è necessario creare le condizioni affinché il cavo non finisca nell’elica in movimento e, anche in questa fase, gli ordini all’equipaggio devono essere chiari e tempestivi.
  • Accertarsi che il personale al posto di manovra sia a distanza di sicurezza dal cavo in lavoro del rimorchiatore.
  • Avere sempre un margine di sicurezza. Quando si parla di manovra, il senso di questo concetto è spesso legato al bollard pull (misura convenzionale riferita alla potenza di tiro) necessario a contrastare le condizioni del vento, della corrente e del moto ondoso: non bisogna dimenticare che la potenza sviluppata dai rimorchiatori dipende dalla lunghezza del cavo e dalla direzione del tiro, oppure, usandolo alla spinta, dalla direzione che avrà quest’ultima.

Ogni elemento che contribuisce alla buona riuscita della manovra ha un peso specifico relativo molto grande: le condizioni meteo-marine, la nave e la sua efficienza, il Comandante e il suo equipaggio, il Pilota, gli ormeggiatori e, ovviamente, i Rimorchiatori e chi vi è imbarcato. Armonia nel lavoro di gruppo e fiducia reciproca:

– La chiamata del rimorchiatore viene fatta dopo che il Pilota è imbarcato ed è successiva al confronto con il Comandante. Al momento della richiesta, quindi, la nave probabilmente si trova già a meno di un miglio dall’imboccatura. Dato il poco preavviso, per il rimorchiatore arrivare puntuale non è sempre né facile né possibile, ma l’impostazione della manovra dipende spesso dal momento in cui si è certi di avere il rimorchiatore voltato (legato).

  • La manovra viene vista e vissuta in modo differente a seconda della posizione da cui la si guarda: gli ormeggiatori dalla barca o da terra, gli ufficiali da prora o da poppa, i Comandanti dei rimorchiatori dai punti in cui operano. Da ognuno di questi posti si vede solo una porzione di manovra. Gli unici ad avere il privilegio di una visione d’insieme (pur considerando diversi angoli ciechi), che sanno esattamente cosa stanno facendo la macchina e il timone e che hanno un programma ben preciso della manovra, sono il Comandante e il Pilota. Per questo motivo è importante che venga dato il “ricevuto” a qualsiasi comunicazione radio d’interesse: spesso è impossibile vedere direttamente cosa sta facendo il destinatario del messaggio e il dubbio che sia stato ricevuto e capito resta attivo fino a quando non viene confermato.
  • Essere precisi nelle comunicazioni. “Tra qualche minuto sono sotto bordo…”, “Lo sto già facendo…” (come risposta a un comando), “Sto tirando/spingendo a tutta…”, ecc. A queste risposte segue un’azione. Va da sé che a risposta imprecisa seguirà un’azione errata.
  • La potenza dei rimorchiatori spesso permette di risolvere situazioni complicate ma, proprio perché può incidere così tanto sullo scenario generale, il Comandante deve stare sempre concentrato sulla manovra e prevedere le conseguenze delle sue azioni; mi viene in mente la possibilità di rompere il cavo; quella di far perdere il controllo della nave tirando o spingendo troppo; oppure quella di creare difficoltà alla barca degli ormeggiatori con le scie dei suoi propulsori; o, ancora, sottovalutando l’effetto del rimorchiatore sulla manovra non mettendo il cavo perfettamente in bando quando richiesto oppure appoggiandosi allo scafo della nave.

Per affrontare almeno parte del mondo del “rimorchio” in modo approfondito, occorrerebbe molto spazio e sarebbe necessario entrare nei tecnicismi della professione che lo circonda. Non si può non tenere conto, ad esempio, dei diversi tipi di rimorchiatori (ASD, ATD, RSD, ecc.) perché ognuno di questi ha pregi e difetti, punti deboli e punti forti da poter sfruttare; occorrerebbe parlare dei pericoli insiti nel rapporto rimorchio/nave; dei sistemi di valutazione per determinare il numero di rimorchiatori da utilizzare; della lunghezza del cavo di rimorchio, quando è meglio utilizzarlo alla spinta piuttosto che voltato; quando usare il cavo nave e quando quello del rimorchiatore; ecc…, ma andare così in profondità non è l’intento di questo articolo.


Voglio però entrare in punta di piedi nella pratica raccontando un episodio di tanti anni fa che ha contribuito efficacemente ad accrescere la mia esperienza e che fa capire l’essenzialità del lavoro di squadra.

L’importanza dell’esperienza.

Ero passato Pilota effettivo da poco e le cose stavano andando bene: mi sentivo sereno e sicuro di me. Probabilmente troppo.

Al termine di una giornata tranquilla, proprio nell’ora del cambio turno tra Piloti diurni e notturni, il caso volle che fossi io il primo di “spia (registro che riporta i nomi dei piloti in servizio e le manovre eseguite) all’arrivo di una nave di discrete dimensioni e con un pescaggio importante. Doveva andare “prua a terra”, il che significa “senza evoluzione”. In pratica si sarebbe dovuto procedere lungo il canale per poi accostare a dritta una volta raggiunta la banchina di destinazione: niente di particolarmente difficile… per chi ha l’esperienza necessaria a valutare e svolgere bene ogni passaggio.

Erano tutti contrari a mandarmi a bordo, soprattutto il Capo Pilota di allora. Ricordo infatti di aver insistito parecchio per conquistarmi la sua fiducia. Alla fine cedette, alla condizione che avrei usato due rimorchiatori; se il Comandante avesse voluto procedere con uno soltanto, allora sarei dovuto sbarcare per far salire al mio posto un Pilota più esperto.

Arrivato in plancia mi trovai di fronte un uomo di nazionalità tedesca, gentile, ma piuttosto “quadrato” e non fu facile convincerlo a prendere il secondo rimorchiatore, anche perché la nave era fornita di un bow thruster (elica di manovra prodiera, azionabile dal Ponte di Comando, che genera una forza laterale utile in manovra) discretamente potente.

Assenza di vento, niente corrente, due rimorchiatori, elica di prua, Comandante tranquillo: nulla che facesse prevedere che quella sarebbe stata una delle manovre che mi sarei ricordato meglio negli anni a venire.

In realtà l’errore che feci non fu di proporzioni enormi, semplicemente ritenni non fosse il caso di applicare una semplice regola che i Piloti più esperti mi avevano ripetuto più volte: “quando vai prua a terra con una nave di pescaggio, prima fermala e poi inizia l’accostata!”

Ricordo che durante i tre quarti d’ora necessari a raggiungere la banchina pensai più volte a come la nave rispondeva bene al timone e di come il Molto Adagio Avanti producesse una velocità perfettamente adeguata alla stazza della nave.

Fermai la macchina per tempo lasciando che l’abbrivo (impulso con cui inizia o aumenta gradualmente la velocità della nave; indica anche la quantità di moto che conserva quando cessa l’azione dei mezzi propulsivi) diminuisse piano piano, con l’intenzione di fare una manovra prudente. In effetti arrivammo tra le testate delle due banchine con una velocità di poco superiore al nodo: praticamente quasi fermi. Era quel “quasi” che non andava bene…

A quel punto avrei dovuto dare macchina indietro o, quanto meno, mettere il rimorchiatore di poppa in bozza a fermare…

La verità è che mi sembrava di andare talmente piano e che il timone rispondesse in modo così preciso che, invece di fermare la nave, feci mettere il timone a dritta per infilarmi sfruttando la poca velocità residua.

All’inizio andò bene, ma poi, all’improvviso, la nave smise di venire a dritta: sentiva maledettamente il fondale e la prua si fermò puntando direttamente il prolungamento della banchina di fronte.

Non eravamo vicinissimi e per questo motivo non mi preoccupai più di tanto. Feci mettere la macchina Indietro Adagio e il rimorchiatore di prora a piegare piano.

Risultato: la nave non rallentò neanche un po’ e la direzione restava la stessa, solo che nel frattempo lo spazio a disposizione diminuiva.

Cominciai a preoccuparmi. Indietro Tutta, rimorchiatore di poppa in bozza a fermare e quello di prora a piegare a tutta forza!

Risultato: la nave continuava ad andare avanti e la rotazione riprese in modo quasi impercettibile.

Nel giro di qualche minuto la situazione precipitò: il Comandante saltava da un’aletta all’altra come un grillo imprecando senza sapere cosa fare, mentre io cominciavo a sudare freddo realizzando di essermi giocato tutte le carte che avevo a disposizione.

Fu a quel punto che il rimorchiatore di prora, continuando a vogare a tutta forza, si girò quasi a spring (cavo d’ormeggio che da prua guarda verso poppa o da poppa verso prora ostacolando o impedendo alla nave di avanzare o retrocedere) e quello di poppa si sguardò quel tanto che bastava per rendere il massimo nella frenata aiutando anche l’accostata.

Sfiorammo il cemento… ma passammo indenni!

I due Comandanti dei rimorchiatori sono ormai in pensione da diversi anni, ma quando mi capita di incontrarli li ringrazio ancora per l’abilità e l’occhio dimostrati quel giorno.

Sono tante le storie che potrei raccontare dove il binomio Comandante del rimorchiatore  e il suo Direttore hanno dimostrato una preparazione e una padronanza che è possibile acquisire solo dopo un percorso lavorativo molto specifico. Sono professioni che lasciano ancora spazio all’abilità personale, dove si creano equilibri che rendono difficile sostituire un uomo con un altro.


 

JOHN GATTI

Rapallo, Mercoledì 9 Maggio 2018


 

 

 


LA BALENIERA CHARLES W.MORGAN

LA BALENIERA CHARLES W.MORGAN

Museo Mystic River  - Connecticut (USA)

COMUNICAZIONE:

Sabato 24 Marzo, alle ore 17,30, presso la sede della Lega Navale Italiana – Sezione di Chiavari (Porto turistico di Chiavari, box 51), si conclude la rassegna “Uomini e Navi”.

Ernani Nanni Andreatta parlerà di “Charles W. Morgan, La ricostruzione dell’ultima Baleniera”: la baleniera Charles W. Morgan costruita nel 1841 nei cantieri di F. Zacharias Williams a Bedford, USA. Era lunga 33,5 metri e aveva una stazza di circa 300 tonnellate. L’equipaggio era composto di 35 persone. La Morgan ha avuto una vita di 80 anni navigando in tutti gli oceani del mondo.

L’incontro è aperto a tutti.

Un po’ di Storia …

LA CHARLES W. MORGAN E LA CACCIA ALLE BALENE

Scritto da admin il 22 agosto 2010

Considerata una delle navi più antiche degli Stati Uniti d’America, dal suo varo nel 1841 la Charles W.Morgan è stata utilizzata per quasi un secolo per dare la caccia alle balene.
Quando l’avvento di nuovi combustibili sostitutivi del grasso di balena, la diminuzione degli esemplari e l’introduzione di alcune innovazioni tecnologiche nella caccia segnarono il declino delle baleniere di stampo classico, la Charles W. Morgan finì la sua carriera.

Semi-distrutta da un incendio negli anni ’20 l’imbarcazione fu messa a riposo, per poi essere acquistata dal Mystic Seaport Museum del Connecticut, il più grande museo marittimo del mondo.
L’ente museale si è interessato della restaurazione della nave e, dopo più di cinque anni di lavoro, la Charles W. Morgan è stata allestita come uno spazio museale sull’acqua dedicato alle balene, volto a informare e sensibilizzare le persone sulla vita, le abitudini e sul critico stato di conservazione di questi cetacei.

Quando, il 6 settembre del 1841 il Charles W.Morgan salpò per il suo viaggio inaugurale dal porto di New Bedford, nel Massachusetts; erano trascorsi solo nove mesi da quando un’altra nave, la baleniera Acushnet aveva imbarcato per la sua prima esperienza di caccia un giovane scrittore rispondente al nome di Herman Melville. Oggi, quel che di più tangibile resta dell’epopea delle baleniere americane è quanto di vero Melville scrisse in “Moby Dick“, e poi c’è la Morgan, ultima superstite di una flotta che contava 2700 navi dedicate alla sola caccia ai cetacei.

E’ dal 1967 che il Charles W. Morgan è diventato per volere del ministero degli Interni Usa, Monumento di Interesse Nazionale; aperto alle visite del pubblico al Mystic Seaport Museum, nel Connecticut. Ma c’è dell’altro, perché da pezzo da museo, il veliero che per gli storici è tra le baleniere americane quella andata più lontano, tornerà a vivere, che per una nave significa tornare a prendere il mare. E questa volta non sarà più per arpionare balene.

Apprendiamo dal New York Times che ciò avverrà all’inizio dell’estate prossima, alla fine (quasi) di quei complessi lavori di restauro (e non sono i primi) che col costo di dieci milioni di dollari e con l’uso delle tecnologie più sofisticate, apriranno all’imbarcazione un nuovo capitolo della sua ultracentenaria storia.

Una storia che merita di essere raccontata, e inquadrata in quel contesto ottocentesco che vedeva gli Stati Uniti come paese giovanissimo e dall’economia ancora tutta da consolidare. Nel corso del secolo, l’industria delle balene finì allora per diventare talmente importante che la vita del cacciatore di balene divenne un segno distintivo dell’esperienza americana, segnalando – per la prima volta – la presenza a stelle e strisce in tutto il pianeta. Dalle balene si ricavavano olio per illuminazione, lubrificanti per macchinari, grasso per candele, aste flessibili per gli usi più disparati, mentre i fanoni e le ossa erano usati come oggi la plastica. In sintesi, il gigante marino poteva essere considerato come un vero e proprio pozzo di petrolio. E non a caso, attorno al 1920, con la raffinazione dei prodotti petroliferi, l’industria baleniera cessò di essere. Ma non prima d’aver messo in grave pericolo la sopravvivenza del gigantesco animale. Si ritiene che nel XVIII secolo, prima che cominciasse la decimazione (operata non solo da americani, ma pure da olandesi, norvegesi etc) gli Oceani ospitassero almeno 4 milioni e mezzo di balene, scese a un milione e mezzo nel 1930. E così si sono estinte razze che la scienza neppure ha avuto il tempo di scoprire, come la balena grigia atlantica, la balena scrag per i balenieri del New England, che l’annientarono.

Ma facciamo un passo indietro, torniamo sulla Morgan in quel 6 di settembre del 1841. A bordo ci sono 33 persone, più il capitano con famiglia. C’è una grande scorta di viveri ed anche animali vivi, che assicureranno cibo anche dopo mesi di navigazione. Quello inaugurale sarà uno dei viaggi più lunghi della nave, dopo aver attraversato Capo Horn ed essere entrata nel Pacifico: tre anni e quattro mesi dopo ritornerà a New Bradford con un carico di 2.400 barili d’olio di balena e 5 tonnellate di stecche per un valore di 56.000 dollari (del tempo).

Cominciò così per il veliero una storia di navigazione lunga 80 anni per 37 campagne che durarono da nove mesi a cinque anni. Al termine della sua carriera aveva portato a casa 54.483 barili d’olio e 70 tonnellate di stecche di balena prendendo all’arpione 2500 giganti marini. Aveva solcato tutti gli oceani, era sopravvissuta agli uragani, al fuoco, al ghiaccio artico e alle razzie dei Confederati; la storia ci dice che nelle isole del Sud Pacifico fu anche attaccata dai cannibali e l’equipaggio prese le armi per respingere le canoe cariche di indigeni.

Con la crisi dell’industria baleniera, nel 1921 la Morgan, andò in disarmo ma la sua vita non si spense del tutto, non subito. Prima fu adoperata come set cinematografico di film muti – Java Head (1921) e Down to the Sea in Ships (1922) –  martoriata da un urgano nel 1938, quando ancora era ancorata a South Darmouth, affidata alle “cure” di un erede dei costruttori; nel 1941 venne rimorchiata nel porto di Mystic, per essere preservata dalla Whaling Enshrined Inc.
Alla fine del 1973 venne restaurata e nella primavera del 1974 fu rimessa in mare all’ancora al Molo Chub, continuando i lavori di restauro.

Oggi ad occuparsi della baleniera sono esperti di scansioni laser e di macchine portatili a raggi X. Per rimetterla in sesto sono al lavoro specialisti di medicina legale, storici e artisti grafici per scovare i dettagli nascosti della sua costruzione e le sue condizioni. “Il progetto, iniziato nel 2008, sta producendo un ritratto rivelatore che mostra la posizione esatta e lo stato di molte migliaia di tavole, costole, travi, chiodi, perni di rinforzo, pioli di legno e altre parti vitali del Morgan, dando maestri d’ascia una guida ad alta tecnologia per la ricostruzione della storica nave […]
Se tutto va come previsto, il rinnovato Morgan sarà dotato di sartiame nuovo alla fine del 2012
”. Ma prima di allora, nell’estate 2011, la baleniera potrebbe tornare a prendere il mare per un viaggio lungo la costa del New England, toccando cioè quei luoghi che hanno avuto un significato particolare per la caccia alle balene, come New Bedford che ne fu la capitale.

Nota finale: non abbiamo raccontato la storia del Morgan per fare apologia della caccia alle balene, attività che riteniamo disgustosa e che oggi viene effettuata ancora da alcuni paesi con viltà e l’uso di mezzi sempre sofisticati quali radar, sonar e arpioni dalla lunghissima gittata che hanno pericolosamente decimato la specie. (A.D)

Da TVDaily.it

ALBUN FOTOGRAFICO

Foto di GIUSEPPE SORIO


A cura di GATTI CARLO

Rapallo, 20 Febbraio - 2018