CAPO MISENO LA PIU’ POTENTE BASE MILITARE DELL’ANTICHITA’

CAPO MISENO

LA PIU’ POTENTE BASE MILITARE DELL’ANTICHITA’

 

PREMESSA STORICA

All'inizio del 1800 La Spezia era un piccolo borgo dell'impero napoleonico, con una popolazione, di circa 3000 persone. Napoleone Bonaparte, intuì l'importanza strategica del Golfo e fece progettare la costruzione di un grande Arsenale, ma le sue sconfitte a Lipsia e a Waterloo ne impedirono la realizzazione.

Dopo la caduta dell'Impero napoleonico, i territori dell'antica Repubblica di Genova furono incorporati dal Regno di Sardegna.

Il 3 febbraio 1851 segnò una data importante per il decollo del porto e quindi di tutte le attività industriale e commerciali genovesi; Cavour, allora Ministro della Marina, Agricoltura e Commercio presentò al Parlamento Subalpino il progetto di legge per il trasferimento a La Spezia degli stabilimenti militari marittimi e programmò per Genova un deposito franco per il miglioramento dei commerci via mare, l’operazione, come sappiamo andò a buon fine!

L'idea di Napoleone fu ripresa tout court da Camillo Benso Conte di Cavour che ottenne nel 1857 il trasferimento della Marina Militare da Genova a La Spezia e il finanziamento per la costruzione di un Arsenale Militare.

La costruzione dell'arsenale militare marittimo di Taranto fu comunque decisa dal Parlamento Italiano con la legge n. 833 del 29 giugno 1882, per rimediare alla sempre crescente necessità di difesa dell'Italia protesa verso il Mar Mediterraneo.

Nel 1864, Camillo Benso Conte di Cavour fu il primo politico italiano a comprendere la valenza strategica di Augusta, come possibile sede di base navale della Regia Marina; ma il quel momento storico il pericolo per la giovane Nazione Italiana era percepito da est e da nord e quindi si preferì puntare sull’Adriatico e il Tirreno e sviluppare la base di Taranto.

Il grande statista piemontese, così come fece Napoleone Bonaparte, s’ispirò alla strategia degli ANTICHI ROMANI: la base di Miseno fu strutturata come una potentissima macchina militare cui era affidato il controllo sull'intero Mediterraneo occidentale, dalle coste tirreniche dell'Italia alle colonne d'Ercole e oltre. Si trattava di uno dei due principali punti di appoggio del potere imperiale: l'altro era costituito dalla flotta basata a Ravenna, competente per il Mediterraneo orientale. Dati i mezzi di trasporto dell'epoca, le due armate di mare costituivano i reparti dell'esercito imperiale che più rapidamente potevano raggiungere località, anche lontane, dove si manifestavano focolai di crisi o dove, comunque, era necessario, far sentire la presenza militare di uno Stato vastissimo e cosmopolita quale era l'Impero Romano.


Baia (ricostruzione)


Pozzuoli (ricostruzione)

Campi Flegrei


Veduta da Monte di Procida con la spiaggia di Miliscola, Capo Miseno e il bacino interno dell'antico porto di Miseno.


Il porto di Miseno sorgeva su un precedente cratere vulcanico allagato dal Mar Tirreno.

La parte più interna del porto, un lago naturale, quasi chiusa da una lingua di terra, sulla quale era posto il castrum dei classiarii.

Il porto di MISENO (Misenum) si trovava presso l’attuale Bacoli e l’omonimo Capo Miseno, simile per conformazione a quello di Ravenna. Poteva contenere almeno fino a 250 imbarcazioni, come quello di Classe a Ravenna. In età augustea, in seguito all’impraticabilità del precedente porto militare di Portus Iulius nella baia di Puteoli (utilizzato da Ottaviano e Agrippa durante la guerra contro Sesto Pompeo), la vicina Miseno divenne la più importante base militare della flotta romana a guardia del bacino del Mediterraneo occidentale.

L’Imperatore Gaio Giulio Cesare Ottaviano Augusto

(Roma 23 settembre 63 a.C. – Nola, 19 agosto 14)

Fondatore della Praetoria Classis Misenenis (Flotta Imperiale Romana)

Battaglia di Azio

Augusto, dopo la battaglia di Azio (2 settembre 31 a.C.), decise di compiere una radicale riforma della marina militare. La flotta fu organizzata come un vero e proprio esercito sul mare e coloro che prima erano volontari, divennero professionisti impegnati a servire la flotta prima per sedici e poi per vent'anni. Nel 6 d.C. creò l’aerarium militare, ovvero delle risorse finanziare permanenti che ne permettessero il finanziamento-autonomo.
La flotta all’inizio venne dislocata in Gallia Narbonese, a Forum Iulii, (oggi Fréjus, in Francia sulla costa mediterranea) ma questa base venne sciolta durante la dinastia giulio-claudia e vennero lasciate solo due flotte Praetoriae. Una a
Capo Miseno, per la difesa del Mediterraneo occidentale, con la Classis Misenensis composta da circa cinquanta natanti e circa diecimila marinai classiarii, quasi due legioni terrestri. L’altra a Ravenna, la Classis Ravennatis, per la difesa del Mare Nostrum orientale. Le due Classis erano al comando di un prefetto e ad esse si affiancavano le flotte delle provincie a supporto delle armate terrestri: la Classis Alexandrina in Egitto, la Classis Germanica sul fiume Reno e la Classis Pannonica nel bacino Danubio-Rava e Sava.


OTTAVIANO AUGUSTO


MISENO

Per cinque secoli a presidio di un Impero

L’OPERA che segue é un documento di rara importanza e bellezza! Tratta delle Norme destinate ai comandanti di una flotta.
Le LIBURNE di stanza presso la Campania erano agli ordini del comandante della flotta di Miseno; quelle che navigavano nel mare Ionio, invece, erano guidate dal comandante della flotta ravennate; in sottordine ad entrambi i comandanti erano dieci tribuni delegati da ogni singola coorte.

Ogni liburna aveva il proprio capitano, vale a dire il nocchiero, che oltre alle incombenze della marineria aveva cura di addestrare quotidianamente i timonieri, rematori, i combattenti.

Il seguente documento composto di 16 Capitoli, non solo abbraccia gran parte del SAPERE di un Capitano di mare di parecchi secoli fa, ma costituisce nello stesso tempo la summa degli elementi fondanti della scienza nautica futura per chi intenda andar per mare, sia egli un militare oppure un navigante mercantile!

 

PRÆCEPTA
BELLI NAVALIS

di Vegezio

(dal libro IV del De re militari) [1]

versione italiana e note a cura di DOMENICO CARRO

Sommario:

- XXXI: Precetti della guerra navale.
- XXXII: Denominazione dei comandanti in una flotta.
- XXXIII: Origine del nome di Liburna.
- XXXIV: Precauzioni nella costruzione delle navi da guerra.
- XXXV: Il taglio del legname.
- XXXVI: Mesi nei quali si tagliano le travi.
- XXXVII: Tipi di navi da guerra.
- XXXVIII: Denominazione dei venti e loro numero.
- XXXIX: Mesi più sicuri per la navigazione.
- XL: Osservazione degli astri recanti tempeste.
- XLI: I presagi del tempo.
- XLII: Le maree.
- XLIII: Conoscenza delle acque e importanza dei rematori.
- XLIV: Armi e macchine belliche navali.
- XLV: Criteri per tendere insidie per mare.
- XLVI
: Criteri per la battaglia navale.

 

XXXI. PRECETTI DELLA GUERRA NAVALE.

 

Per ordine della tua Maestà, o invitto imperatore, avendo portato a termine il trattato relativo alla guerra terrestre, manca ancora, a mio avviso, quella parte che riguarda la guerra navale ["navalis belli"], sulla cui dottrina c’è pochissimo da dire, giacché, essendo da un pezzo pacificato il mare ["pacato mari"], non si tratta che di condurre contro i barbari delle battaglie terrestri ["terrestre certamen"].

Il popolo romano, per il suo prestigio e per le esigenze della sua grandezza, pur non essendovi costretto da alcun imminente pericolo, in ogni tempo mantenne allestita la flotta ["classem"], onde averla sempre pronta ["praeparatam"] ad ogni necessità. Indubbiamente, nessuno osa sfidare o arrecare danno a quel regno o popolo, che sa essere pronto a combattere e risoluto a resistere ed a vendicarsi.

Pertanto, con le flotte ["cum classibus"] erano stanziate una legione presso Miseno ed una presso Ravenna, sia perché non si allontanassero eccessivamente dalla difesa di Roma, sia perché, all’insorgere di un’esigenza, potessero recarsi con le navi ["navigio"], senza indugio e senza dover aggirare la Penisola, in qualsiasi parte del mondo.

Infatti la flotta Misenense ["Misenatium classis"] aveva nelle sue vicinanze la Gallia, le Spagne, la Mauretania, l'Africa, l'Egitto, la Sardegna e la Sicilia. La flotta Ravennate ["classis Ravennatium"] soleva raggiungere con navigazione diretta ["directa navigatione"] l'Epiro, la Macedonia, la Grecia, la Propontide, il Ponto, l'Oriente, Creta e Cipro. Ciò perché nelle operazioni belliche la celerità giova di solito più del valore.

XXXII. DENOMINAZIONE DEI COMANDANTI IN UNA FLOTTA.

Il comandante della flotta ["praefectus classis"] Misenense era preposto alle navi da guerra ["liburnis"] che erano di base in Campania, mentre il comandante della flotta Ravennate reggeva quelle che erano nelle acque del mare Ionio [incluso l’Adriatico].
Alle dipendenze di ciascuno di loro vi erano dieci tribuni ["deni tribuni"] delegati per le singole coorti.

Ogni galea aveva il proprio comandante ["navarchus"], che è all’incirca l’equivalente dell’armatore ["navicularius", per le navi mercantili], il quale, oltre agli altri compiti nautici ["nautarum officiis"], curava l’addestramento quotidiano dei timonieri ["gubernatoribus"], dei rematori ["remigibus"] e dei militi navali ["militibus"].

XXXIII. ORIGINE DEL NOME DI LIBURNA.

 

Diverse provincie, nelle varie epoche, furono molto potenti per mare; vi furono quindi diversi tipi di navi ["genera navium"]. Sennonché, avendo Augusto combattuto la battaglia navale d'Azio, poiché Antonio venne sconfitto con il concorso determinante dei Liburni, con l'esperienza di sì gran battaglia si rese manifesto che le navi liburniche erano migliori di tutte le altre, avendone dunque ripreso la foggia e il nome, gli imperatori romani costruirono le loro flotte avvalendosi di quel modello. La Liburnia, che fa parte della Dalmazia, è amministrata dalla città di Iadera [odierna Zara], ad imitazione della quale si costruirono le navi da guerra e si chiamarono liburne["liburnae"].


XXXIV. PRECAUZIONI NELLA COSTRUZIONE DELLE NAVI DA GUERRA.

Se nella costruzione delle case è richiesta la buona qualità della sabbia e delle pietre, tanto più nel costruire le navi ["fabricandis navibus"] deve essere diligentemente ricercato ogni materiale, giacché, qualora difettosa, costituisce un maggior pericolo una nave piuttosto che una casa.

La galea si compone principalmente di legno di cipresso e di pino domestico o selvatico, di larice e di abete, ed è più utile che sia connessa con chiodi di rame anziché di ferro. Sebbene la spesa sembri alquanto più gravosa, tuttavia, tenuto conto della maggior durata, ne risulta invece un guadagno; infatti, con il caldo e l’umidità, i chiodi di ferro vengono presto consumati dalla ruggine; quelli di rame si conservano invece integri anche in mezzo ai flutti.

 

XXXV. IL TAGLIO DEL LEGNAME.

 

Occorre principalmente assicurare che gli alberi utilizzati per costruire le navi da guerra siano tagliati dal quindicesimo al ventitreesimo giorno dopo la luna nuova, poiché soltanto il legname tagliato in questi otto giorni si conserva immune al tarlo. Tagliato in altri giorni anche nello stesso anno, corroso internamente dai vermi si converte in polvere, come ci ha insegnato la stessa arte e la pratica quotidiana di tutti gli architetti, e come apprendiamo anche dalla considerazione della religione , alla quale piacque celebrare soltanto questi giorni per l'eternità.


XXXVI. MESI NEI QUALI SI TAGLIANO LE TRAVI.

 

Le travi si tagliano utilmente dopo il solstizio di estate, nei mesi di luglio e di agosto, e nell’equinozio di autunno, sino alle calende [cioè il 1°] di gennaio, poiché in questi mesi, asciugatasi l’umidità, il legname è più secco e quindi più resistente.

Occorre inoltre evitare che le travi si seghino subito dopo l’abbattimento dell’albero, e che appena segate non si pongano in opera per la costruzione della nave, giacché il legno degli alberi ancora interi e quello in tavole, per diventare più asciutto, merita una doppia essiccazione. Infatti, le tavole che si commettono verdi, quando abbiano trasudato l'umidità naturale, si contraggono e formano delle fessure più larghe: nulla è più pericoloso ai naviganti ["navigantibus"] che una tavola verde.


XXXVII. TIPI DI NAVI DA GUERRA.

Per quanto attiene alle dimensioni, le navi da guerrae più piccole hanno un sol ordine di remi ["remorum singulos ordines"], due ["binos"] quelle un poco più grandi; quelle di dimensioni convenienti possono averne tre o quattro ["ternos vel quaternos"], e in qualche caso anche cinque ["quinos"]. Né ciò sembri qualcosa di straordinario: difatti si narra che alla battaglia navale d'Azio abbiano partecipato vascelli ["navigia"] di gran lunga maggiori, muniti anche di sei o più ordini di remi ["senorum vel ultra ordinum"].

In ogni modo, alle navi da guerra più grandi si associano delle unità sottili da esplorazione ["scaphae exploratoriae"], con dieci remi per lato, che i Britanni chiamano picati [cioè impeciati]. Queste si usano per fare incursioni e talvolta per intercettare delle vettovaglie delle navi nemiche, mentre, esercitando la sorveglianza, si scopre l’avvicinamento o le intenzioni delle stesse navi nemiche.
Tuttavia, affinché la presenza degli esploratori ["exploratoriae naves"] non sia tradita dal loro stesso chiarore, si tingono le vele ed i cavi delle manovre di colore azzurro ["veneto"], che somiglia a quello delle onde marine ["marinis fluctibus"], e vi si spalma anche quella cera che si usa per gli scafi delle navi.
Inoltre, i marinai ["nautae"] ed i militi navali ["milites"] indossano abiti azzurri, per rimanere più facilmente occulti all’osservazione nemica, non solo di notte, ma anche di giorno.


XXXVIII. DENOMINAZIONE DEI VENTI E LORO NUMERO.

Chiunque trasporti un esercito con le navi ["armatis classibus"] deve saper riconoscere i presagi delle tempeste, poiché le navi da guerra andarono miseramente a fondo più spesso a causa delle burrasche e dei marosi che per la forza dei nemici. In ciò si deve adoperare tutta la perizia della filosofia naturale, poiché dalla conoscenza del cielo si desume la natura dei venti e delle tempeste. E quando il mare infuria, come la cautela protegge i previdenti, così l’incuria distrugge i negligenti.

Pertanto, l’arte della navigazione ["ars navigandi"] deve anzitutto considerare attentamente il numero ed i nomi dei venti. Gli antichi credevano che, conformemente alla posizione dei punti cardinali, vi fossero solo quattro venti principali, spiranti dalle singole parti del cielo; ma l'esperienza posteriore ne trovò dodici. Di questi, per rimuovere ogni dubbio, forniamo non solo i nomi greci, ma anche quelli latini; così, dopo aver mostrato i venti principali, indicheremo quelli che sono ad essi contigui a destra e a sinistra.

Cominciamo pertanto dal solstizio di primavera, cioè dal punto cardinale Est, dal quale si origina il vento Afeliote, vale a dire il Subsolano; alla sua destra è contiguo al Cecia, o Euroboro; alla sua sinistra l’Euro o Volturno.

Il punto cardinale Sud ha il Noto, cioè l'Austro, alla cui destra vi è il Leuconoto, cioè il "bianco Noto"; alla sua sinistra il Libonoto, cioè il Coro.

Il punto cardinale Ovest possiede lo Zeffiro, cioè il Subvespertino, alla cui destra è contiguo il Lips, ossia l'Africo; a sinistra il Giapice, ossia il Favonio.

Al Nord toccò in sorte l'Aparzia o Settentrione, al quale è contiguo a destra il Trascia o Circio, a sinistra il Borea o Aquilone.

Questi venti soffiano spesso da soli, qualche volta in coppia, e nelle grandi tempeste anche in tre simultaneamente. Per il loro impeto, i mari, che sono per loro natura tranquilli e quieti, infuriano con onde ribollenti; quando spirano alcuni di essi, a seconda delle stagioni e delle regioni, dalla tempesta ritorna il sereno, e di nuovo questo si tramuta in burrasca.

Con il vento favorevole le navi ["classis"] raggiungono il porto desiderato, con quello contrario sono costrette a fermarsi, o tornare indietro, o affrontare una prova decisiva. Pertanto, difficilmente compie un naufragio chi ha esaminato con diligenza la natura dei venti.

XXXIX. MESI PIÙ SICURI PER LA NAVIGAZIONE.

Proseguiamo con la trattazione dei mesi e dei giorni, giacché il vigore e la durezza del mare non tollera tutto l'anno i naviganti ["navigantes"], ma per legge di natura alcuni mesi sono adattissimi alle flotte ["classibus"], altri dubbi, altri intollerabili.

La navigazione si reputa sicura ["secura navigatio creditur"] … dopo che sono sorte le Pleiadi, dal giorno VI prima delle calende di giugno [27 maggio] fino al sorgere di Arturo, cioè fino al giorno XVIII prima delle calende di ottobre [14 settembre], giacché per beneficio dell'estate si mitiga l’asprezza dei venti.

Successivamente, la navigazione è incerta ["incerta navigatio est"], e quindi piuttosto critica, fino al giorno III prima delle idi di novembre [11 novembre], giacché dopo le idi di settembre [13 settembre] nasce Arturo, stella rabbiosissima; poi, il giorno VIII prima delle calende di ottobre [24 settembre] sopraggiunge il pungente maltempo equinoziale, verso le none di ottobre [7 ottobre] appaiono i Capretti piovosi e il giorno V prima delle idi di tale mese [11 ottobre] appare il Toro.

Dal mese di novembre, poi, il tramonto invernale delle Vergilie, le navi ["navigia"] con frequenti tempeste. I mari vengono dunque chiusi alla navigazione dal giorno III prima delle idi di novembre [11 novembre] fino al giorno VI prima delle idi di marzo [10 marzo]. In effetti, la luce diurna ridotta al minimo, la notte prolungata, la densità delle nubi, l'oscurità dell'aria, la raddoppiata violenza dei venti, delle piogge o delle nevi, respingono non solo le flotte ["classes"] dalle rotte marittime, ma anche i viandanti dai viaggi terrestri.

In realtà, dopo la ripresa della navigazione ["natalem navigationis"], che viene celebrata con solenni giochi e pubblici spettacoli presso molte popolazioni, permane pericoloso cimentarsi in mare fino alle idi maggio [15 maggio], a causa di molteplici costellazioni e della stessa stagione; non lo dico perché cessi il traffico mercantile ["negotiatorum"], ma perché occorre adoperare una maggior cautela quando l'esercito naviga con le navi da guerra, che quando l'audacia accelera i profitti dei commerci privati.


XL. OSSERVAZIONE DEGLI ASTRI RECANTI TEMPESTE.

 

Inoltre, il sorgere ed il tramontare di molte altre stelle suscitano violentissime tempeste ["tempestates"], di cui sono stati indicati i precisi giorni, per attestazione di molti autori. Tuttavia, poiché tali giorni vengono alquanto cambiati da svariate cause, e poiché, bisogna confessarlo, alla natura umana non è consentito conoscere compiutamente i fenomeni celesti, lo studio delle osservazioni nautiche ["nauticae observationis"] è stato diviso in tre parti. Si è infatti scoperto che le tempeste avvengono o nel giorno stabilito, o prima, o dopo. Quindi, quelle che nascono nel giorno stabilito si chiamano con parola greca cheimaton, quelle che precedono procheimaton, le susseguenti metacheimaton. Comunque, elencare per nome ogni cosa apparirebbe lungo o inopportuno, dato che molti autori hanno descritto non solo la natura dei mesi, ma anche dei giorni.

Anche i transiti degli astri che chiamano pianeti, quando lungo il loro percorso prestabilito per volere divino entrano ed escono da un segno zodiacale, usano spesso turbare il sereno. Per contro, i giorni di interlunio sono valutati, non solo dalla scienza, ma anche dall’esperienza popolare, pieni di tempeste e da temersi al massimo grado da parte dei naviganti ["navigantibus"].


XLI. I PRESAGI DEL TEMPO.

Da molti altri segni si preannuncia l’arrivo delle burrasche dalla calma, e della bonaccia dalle tempeste; tali eventi sono mostrati sul disco della Luna come in uno specchio. Il colore rubicondo annunzia i venti; il ceruleo, le piogge; un colore intermedio, nuvoloni e furenti burrasche. Il disco giocondo e lucente promette alle navi ["navigiis"] la serenità ch’esso reca nel suo stesso aspetto, soprattutto se al primo quarto e non sia né rosseggiante con i corni smussati, né offuscato dall’umidità.

Anche del Sole che sorge o che tramonta, è interessante osservare se splende con raggi uniformi o diversificati da una nube interposta, se è fulgido del consueto splendore o ardente per i venti incalzanti, se è pallido o macchiato per la pioggia imminente.

Indubbiamente anche l'aria e lo stesso mare, così come la grandezza e la qualità delle nuvole, forniscono istruzioni ai marinai ["nautas"] preoccupati.

Alcuni segni vengono indicati dagli uccelli, altri dai pesci: Virgilio, con ingegno quasi divino, li incluse nelle Georgiche e Varrone li perfezionò diligentemente nei sui libri navali ["libris navalibus"] .

I timonieri ["gubernatores"] dichiarano di sapere queste cose, ma le conoscono così come le appresero dall’esperienza pratica, e non rafforzate da una più elevata dottrina.


XLII. LE MAREE.

 

L’elemento marino costituisce la terza parte del mondo, e si anima, oltre che per il soffio dei venti, anche per un suo proprio respiro e movimento. Infatti, a certe ore, di giorno come di notte, un certo moto del mare, che chiamano marea, scorre in un senso e nell'altro e, come un torrente o un fiume, ora inonda le terre, ora rifluisce in alto mare. Questa ambiguità del moto alterno, se favorevole, giova alla rotta delle navi ["cursum navium"], se contrario, la ritarda.

Ciò deve essere evitato con grande cautela da chi sta per combattere. Infatti non si vince con l’ausilio dei remi l'impeto della marea, cui talvolta cedono anche i venti. E poiché nelle varie regioni, nei diversi stati della luna crescente o calante, a certe ore questi fenomeni variano, quindi chi sta per sostenere un combattimento navale ["proelium navale"] deve, prima dell’ingaggio, conoscere la natura del mare e del luogo.

 

XLIII. CONOSCENZA DELLE ACQUE E IMPORTANZA DEI REMATORI.

 

La perizia dei marinai ["nauticorum"] e dei timonieri ["gubernatorum"] consiste nel prendere conoscenza delle acque nelle quali si naviga e dei porti, onde evitare i luoghi pericolosi per gli scogli affioranti o sommersi, i bassi fondi e le secche; infatti, si avrà tanta maggior sicurezza quanto il mare sarà più profondo.

Nei comandanti navali ["navarchis"] si predilige la diligenza, nei timonieri ["gubernatoris"] l’esperienza, nei rematori ["remigibus"] la valentia. Infatti, la battaglia navale ["navalis pugna"] si combatte in mare tranquillo; e la mole delle navi da guerra, non per il soffio dei venti, ma per impulso di remi percuote con il rostro gli avversari e schiva invece il loro impeto. In tali circostanze, i muscoli dei rematori ["remigum"] e l'arte del pilota che regge il timone ["clavum regentis magistri"] sono i principali artefici della vittoria.


XLIV. ARMI E MACCHINE BELLICHE NAVALI.

 

La battaglia terrestre richiede indubbiamente molti generi di armi, ma la lotta navale ["navale certamen"], non solo esige un maggior numero di armi, ma anche macchine d’assalto ["machinas"] e macchine da lancio ["tormenta"], come se si dovesse combattere sulle mura e sulle torri. Che cosa vi è di più crudele, infatti, di un attacco navale ["congressione navali"] in cui gli uomini sono uccisi dalle acque e dalle fiamme?

Pertanto, la principale cura deve essere posta per le armature, di modo che i militi siano protetti da corazze metalliche o di cuoio, ed anche da elmi e schinieri. Nessuno può dolersi del peso delle armi, poiché combatte a bordo delle navi ["in navibus"] mantenendosi sul posto. Si impiegano anche gli scudi più ampi e più resistenti ai colpi delle pietre, oltre che alle falci ["falces"], ai ramponi ["harpagones"] ed agli altri tipi di armi da getto navali ["navalia genera telorum"].

Da parte nostra, si schierano frecce, armi da getto, fionde, mazzafromboli, palle di piombo, onagri, balestre, scorpioni, con proiettili e sassi; e, cosa più importante, coloro che sono resi temerari dal proprio coraggio, accostate le navi da guerra e gettate le passerelle, passano sulle navi avversarie ed ivi, come suol dirsi, ai ferri corti, combattono corpo a corpo con le spade.

Inoltre, nelle navi da guerra più grandi si stabiliscono ripari e torri, per poter più agevolmente ferire o uccidere i nemici dai tavolati più alti, come da un muro. Con le balestre si infiggono nelle carene delle navi nemiche delle frecce avvolte con stoppa – imbevuta di olio incendiario, zolfo e bitume – ed infiammate; e le tavole spalmate di cera, pece e resina, con tanto alimento d'incendio repentinamente prendono fuoco. Alcuni sono uccisi dalla spada e dalle pietre, altri sono costretti ad ardere tra le onde; tuttavia, fra tanti generi di morte, il caso più crudele è quello dei corpi che rimangano insepolti, in pasto ai pesci.


XLV. CRITERI PER TENDERE INSIDIE PER MARE.

 

A somiglianza dei combattimenti terrestri, si conducono degli assalti improvvisi contro gli equipaggi ["nauticis"] che non se l’aspettano, o si tendono degli agguati negli opportuni passaggi ristretti fra le isole.

E per annientare più facilmente coloro che vengono presi alla sprovvista, si procede come segue: se i marinai nemici ["hostium nautae"] sono affaticati dal lungo vogare, se vengono travagliati dal vento contrario, se la corrente di marea è a favore dei nostri rostri, se i nemici dormono senza alcun sospetto, se l’ancoraggio che occupano non ha vie d’uscita, se si verifica l’auspicata occasione di combattere, allora con il favore della sorte si deve andare all’ingaggio e attaccare battaglia come opportuno.

E a questo proposito, se la cautela dei nemici, evitate le insidie, opponga un combattimento ordinato, allora si deve disporre la formazione delle navi da guerra non in linea retta come sul terreno, ma incurvata a mezza luna, in modo che la forza navale, con i due corni in avanti, sia incavata in centro; così, se i nemici tentassero di sfondare, circondati dalla stessa formazione saranno affondati. D’altra parte, nei corni si pone il nerbo insigne delle navi da guerra e dei militi.


XLVI. CRITERI PER LA BATTAGLIA NAVALE.

 

Inoltre, è utile che la tua flotta ["classis"] si mantenga sempre al largo ["alto et libero mari"] e spinga verso costa quella nemica, poiché quelli che sono ricacciati a terra perdono l'ardore di combattere. È stato accertato che in tali combattimenti giovarono moltissimo alla vittoria tre generi di armi: le stanghe, le falci e le bipenni.

Si chiama stanga ["asser"] quella trave sottile e lunga, che è appesa all'albero ["malo"] come un pennone ["antemnae"] ed ha entrambe le estremità ferrate. Le navi nemiche, accostandosi da destra o anche da sinistra, sono da essa colpite con forza, come da un ariete; ed essa senza dubbio abbatte ed uccide i combattenti ["bellatores"] o i marinai ["nautas"] nemici, e più spesso sfonda la stessa nave.

La falce ["falx"] è un ferro affilatissimo e curvo come una falce agricola, il quale, fissato su pertiche delle più lunghe, recide d'un tratto le drizze ["chalatorios"] – sono le manovre ["funes"] che tengono sospeso il pennone ["antemna"] – e, avendo fatto cadere le vele della galea avversaria, la rende più indolente ed inutile.

La bipenne ["bipennis"] è una scure che ha una lama larghissima ed affilatissima da entrambe le parti. Con queste armi, nel pieno fervore del combattimento, i marinai ["nautae"] o i militi ["milites"] più esperti, imbarcatisi sulle più piccole imbarcazioni ["scafulis"], tagliano di nascosto i cavi ["funes"] con i quali sono tenuti i timoni ["gubernacula"] delle navi nemiche. Fatto ciò, queste vengono immediatamente catturate, come se fossero navi inermi ed impotenti; e, infatti, quale mezzo di salvezza rimane a chi ha perduto il timone ["clavum"]?

Delle navi fluviali ["lusoriis"], che tutelano posti di confine con la vigilanza quotidiana sul Danubio, stimo preferibile tacere, poiché dal loro più frequente uso recente, l'arte nautica ha scoperto più di quanto l'antica dottrina avesse insegnato.

Eruzione del Vesuvio del 79 d.C. – La morte di Plinio il Vecchio

Testimonianze storiche:

FUGA DAL VESUVIO -  In questo paradiso naturale, già apprezzato e frequentato all'epoca dei Romani (e certamente anche prima che l’egemonia romana si estendesse sulla penisola) nell'estate del 79 d.C. successe il “finimondo”.

È quanto racconta Plinio il Giovane (61 d.C. – 112 d.C.), testimone oculare dei fatti, nella seconda delle due lettere inviate a Tacito (lo storico dell’Impero romano). Dice, infatti, lo scrittore romano che “fra quelli che fuggivano da Miseno per mettersi in salvo, ce n'erano molti che si disperavano dicendo che quella era l'ultima notte del mondo". E Miseno è a più di 20 km da Ercolano, e a circa 30 km da Pompei!

Nell'anno 79 d.C. (data della catastrofe pompeiana, secondo una probabile ricostruzione storica), sotto l'imperatore Tito Flavio Vespasiano, figlio di Vespasiano, a Capo Miseno, più esattamente nell'insenatura di Baia, si trovava di stanza la flotta romana al comando del navarca (ammiraglio) Plinio (il Vecchio), uomo politico e letterato, oltre che valente naturalista. Con lui c'era la sua famiglia, costituita dalla sorella e dal diciottenne figlio di lei.

Il ragazzo, anch’egli Plinio (il Giovane), in quanto adottato dallo zio, dovette conservare il nome gentilizio della famiglia, a scapito di quello del padre naturale. Successivamente, divenuto a sua volta un importante uomo pubblico, nel 107 (si era frattanto al tempo dell'imperatore Traiano) inviò due lettere a Tacito in cui gli descrive l'eruzione del Vesuvio; e, tra le altre cose, racconta anche come in quella occasione era morto suo zio; nella speranza che Tacito, il quale in quegli anni andava pubblicando le sue Storie, se ne servisse come documentazione.

Plinio il Giovane, nella prima lettera a Tacito, descrive così l'inizio dell'eruzione e lo sviluppo della colonna eruttiva, che egli, insieme allo zio, osserva da Miseno:

Era a Miseno [Plinio il Vecchio] e, presente, governava la flotta. Il 24 agosto era trascorsa appena un'ora dopo mezzogiorno e mia madre gli mostra una nuvola che allora appariva, mai vista prima per grandezza e figura. [...] La nube si levava, non sapevamo con certezza da quale monte, poiché guardavamo da lontano; solo più tardi si ebbe la cognizione che il monte fu il Vesuvio. La sua forma era simile ad un pino più che a qualsiasi altro albero.
Come da un tronco enorme la nube svettò nel cielo alto e si dilatava e quasi metteva rami. Credo, perché prima un vigoroso soffio d'aria, intatto, la spinse in su, poi, sminuito, l'abbandonò a se stessa o, anche perché il suo peso la vinse, la nube si estenuava in un ampio ombrello: a tratti riluceva d'immacolato biancore, a tratti appariva sporca, screziata di macchie secondo il prevalere della cenere o della terra che aveva sollevato con sé.

Segue, nella lettera, il racconto degli eventi che portarono alla morte di Plinio il Vecchio. Questi, attratto dallo straordinario fenomeno, decide di avvicinarsi, con una piccola imbarcazione, alla zona interessata. Nel frattempo riceve un messaggio con un invocazione di aiuto da parte di amici (Rettina, moglie di Tascio) che si trovano nell'area vesuviana.

Egli cambia idea: all'ansia dello scienziato subentra lo spirito dell'eroe. Fa scendere a mare le quadriremi, vi prende posto. Egli vuole portare soccorso non solo a Rettina, ma a molti, perché la ridente contrada era frequentata.
S'affretta là donde altri fuggono e tiene dritta la rotta e il timone diritto verso il pericolo, senza traccia di paura al punto che dettava e annotava tutte le variazioni di quel male, tutte le figure che i suoi occhi avevano sorprese.

Plinio dirige le sue navi verso Torre del Greco, ma non riuscendo a sbarcare, fa rotta su Stabia, dove si trova la villa dell'amico Pomponiano:

Già sulle navi la cenere cadeva, più calda e più fitta man mano che si avvicinavano; già cadevano anche i pezzi di pomice e pietre annerite ed arse e spezzettate dal fuoco; già, inatteso, un bassofondo e la riva, per la rovina del Monte impedisce lo sbarco. Ebbe un momento di esitazione, se dovesse tornare indietro e il pilota così lo consigliava, ma egli subito disse: "la Fortuna aiuta i forti. Raggiungi Pomponiano!"
[...]
Lì Pomponiano aveva fatto caricare su navi il bagaglio ed era determinato a fuggire, se il vento contrario si fosse placato. Per mio zio, invece, il vento soffia molto propizio ed egli riesce a sbarcare. Abbraccia il trepido amico, lo consola, gli fa coraggio.
[...]
Frattanto dal Monte Vesuvio rilucevano in più di un punto estesi focolai di fiamme ed alte colonne di fuoco: il loro fulgore spiccava più chiaro sulle tenebre della notte.

Quella notte Plinio, ospitato nella villa dell'amico, si ritirò nel suo appartamento, e si addormentò. Ma...

[...] il cortile da cui si accedeva all'appartamento, per cumulo di cenere e lapilli, aveva tanto accresciuto il suo livello che egli, se avesse ancora indugiato nella stanza, non sarebbe potuto uscirne più. Perciò fu svegliato. Venne fuori e si ricongiunse a Pomponiano e gli altri che mai avevano ceduto al sonno.
Discutono tra loro se sia interesse comune rimanere dentro l'abitazione o vagare all'aperto. La casa, infatti, vacillava per frequenti e violente scosse di terremoto, e, quasi divelta dalle sue fondamenta, pareva ondeggiare ora qui ora là, e poi ricomporsi di nuovo in quiete.
D'altronde, all'aperto si temeva la caduta di lapilli, anche se lievi e corrosi. Tuttavia si confrontarono i rischi e si scelse di uscire all'aperto. In lui pensiero su pensiero prevalse, negli altri paura su paura. Mettono dei guanciali sul capo e li legano fortemente con teli: in tal modo si difendevano dalla pioggia di lapilli.
Già altrove era giorno, lì era notte: una notte più fitta e più nera di tutte le notti. Tuttavia la rischiaravano molte bocche di fuoco e varie luci.
Deliberarono di raggiungere la spiaggia e di vedere dal punto più vicino possibile se ormai il mare consentisse un tentativo di fuga. Ma il mare ancora grosso continuava ad essere contrario. Lì egli buttò giù un telo e vi si sdraiò...

Plinio il Vecchio, probabilmente intossicato dai gas, viene colpito da un malore e, non potendo continuare la fuga, viene abbandonato dai compagni. Il suo corpo sarà ritrovato solo tre giorni più tardi. La lettera si conclude con una postilla:

Tutta la mia narrazione è fondata sull'esperienza diretta e sulle notizie udite immediatamente dopo la catastrofe, quando la memoria degli eventi è prossima alla verità. Tu farai una selezione dei fatti più importanti, perché scrivere una lettera non è lo stesso che scrivere una storia, come scrivere per un amico non è lo stesso che scrivere per tutti.

Tacito si mostrò, invece, molto interessato alla vicenda personale dell'amico e lo pregò di scrivergli ancora, per fargli conoscere come egli visse, a Miseno, quei tragici eventi. Così Plinio il Giovane scrisse la seconda lettera, in cui è riportata la descrizione di intensi fenomeni che si sarebbero verificati anche nell'area flegrea in occasione dell'eruzione del 79 d.C. Infatti, lui, sua madre e molti altri abitanti di Miseno abbandonarono le abitazioni per cercare riparo nelle campagne circostanti. Egli scrive:

Precedentemente, per la durata di molti giorni, la terra aveva tremato senza però che ci spaventassimo troppo, perché i terremoti sono un fenomeno consueto in Campania. Ma quella notte, la terra tremò con particolare violenza e si ebbe l'impressione che ogni cosa veniva non scossa, ma rivoltata sottosopra.
[...]
Già il giorno era nato da un' ora e la luce era ancora incerta e quasi languiva. Già le case intorno erano sconquassate. L'ambiente in cui ci trovavamo, pur all'aperto, era tuttavia angusto e la paura di un crollo era forte, anzi certa.
Solo allora decidemmo di abbandonare la città di Miseno.
[...]
Una volta fuori del centro abitato, sostiamo. Molti spettacoli prodigiosi vediamo, molte angosce patiamo. I carri che ci facemmo portare con noi, anche se erano su un terreno assolutamente piano, sobbalzavano ora in una, ora in un'altra direzione e, pur puntellati con sassi, non rimanevano fermi nel medesimo punto.
Inoltre vedevamo il mare ritirarsi, quasi ricacciato dal terremoto. Senza dubbio, il litorale si era allungato e sulle aride sabbie era rimasto al secco un gran numero di pesci.
[...]
Dalla parte orientale, un nembo nero e orrendo, squarciato da guizzi sinuosi e balenanti di vapore infuocato, si apriva in lunghe figure di fiamme: queste fiamme erano simili a folgori, anzi maggiori delle folgori.
[...]
Non molto tempo dopo quel nembo discende sulle terre, copre la distesa del mare. Avvolse Capri e la nascose, sottrasse al nostro sguardo il promontorio di Miseno.
[...]
Rischiarò un poco: non riappariva la luce del giorno, ma era un indizio che il fuoco stava per avventarsi sopra di noi. Ma il fuoco, a dire il vero, si fermò abbastanza lontano. Fu tenebra di nuovo: fu cenere di nuovo, fitta e pesante. Noi ci alzavamo ripetutamente e ci scrollavamo di dosso la cenere. Altrimenti ne saremmo stati coperti e il suo peso ci avrebbe anche soffocato.

[...]
Alla fine quella tenebra diventò quasi fumo o nebbia e subito ritornò la luce del giorno, rifulse anche il sole: un sole livido come suole essere quando si eclissa. Dinanzi ai miei occhi spauriti tutto appariva mutato: c'era un manto di cenere alta come di neve.

 

LE ARMI DELLA FLOTTA ROMANA


Rostro di nave romana della battaglia delle Egadi 241 a.C. - Trapani Museo Pepoli

IL ROSTRO

Il rostro era una micidiale arma in dotazione alle navi da guerra romane. Era formato da un pezzo fuso in bronzo che si andava ad inserire nel punto di congiunzione tra la parte finale della chiglia e la parte più bassa del dritto di prua. La parte anteriore del rostro disponeva di un possente fendente verticale rafforzato da fendenti laminari orizzontali. Esso serviva come strumento per irrompere con forza sulle fiancate delle navi nemiche allo scopo di affrettarne drasticamente l’affondamento. A volte potevano essere di due o più punte, in bronzo e simboleggiavano la testa di un animale.

LIBURNA


Fra i diversi tipi di naves longae, troviamo un modello che si conquistò il podio delle navi da guerra, la liburna, che era stata chiamata così dal nome degli allora molto famosi per le scorribande piratesche, i dalmati Liburni. Probabilmente era la nave migliore della flotta romana. Venne introdotta la prima volta nella battaglia di Azio, ma fu Augusto che, apprezzandone le capacità belliche, ad impiegarla stabilmente nella flotta, facendone un modello. Con una carenatura stretta, risultava molto veloce, era agile nelle manovre, ottima negli inseguimenti, adatta anche a trasportare velocemente le truppe. Ve ne erano vari modelli, dai più piccoli a due ordini di remi, ai più grandi sei ordini di remi.

ALCUNE INTERESSANTI CURIOSITA’

 

Queste navi erano costruite solo con legni preziosi come l’abete, il pino, sia silvestre che domestico, il cipresso e il larice e i chiodi utilizzati erano in bronzo, per prevenire la ruggine, col ferro inevitabile. Vegezio ci narra dettagliatamente, rivelandoci anche dei particolari inconsueti, come dovevano venir costruite le navi liburne: il legno doveva essere tagliato solo tra la quindicesima e la ventiduesima luna, perché in questo periodo si conserva meglio, evitando la corrosione in acqua, che avverrebbe certamente se il legno venisse segato negli altri giorni. Ma non basta: il legno andava tagliato solamente a luglio e agosto e tra l’equinozio d’autunno fino non oltre gli inizi di gennaio, perché in questi periodi il legno è più asciutto. Non solo: dopo aver tagliato il legno, bisognava lasciarlo riposare per un certo arco di tempo, perché arrivasse a quella giusta secchezza che consentiva le prestazioni migliori.

BIREME E TRIREME

Più antica, derivante dalle imbarcazioni ellenistiche e utilizzata anche dai Fenici, vi era la bireme. Lunga e stretta (con circa 24 metri di lunghezza e solamente 3 di larghezza), aveva due file di rematori, 60 per lato, posti tutti su un’unica lunga panca. Erano a loro volta divisi in 30 e 30, metà in alto e metà in basso. Oltre ai remi, queste navi avevano anche un albero con vela quadrata e per questo, con la loro forma aerodinamica e la leggerezza, raggiungevano una notevole velocità. Le bireme furono le navi dell’antichità, sostituite in età più moderna dalle trireme, che svolsero una funzione determinante nella flotta romana.
Anche queste navi avevano una forma aerodinamica,
con la loro lunghezza di 40 metri per 6 di larghezza: quindi grandi tanto da poter contenere armi e una flotta di una centuria di fanti di marina.




 

Tre erano qui i livelli dei rematori, con 30 uomini ciascuno, in tutto quindi erano 180, posizionati sotto il ponte, certamente in condizioni non ottimali. Probabilmente inventata dai Fenici e raffigurata per la prima volta su alcuni bassorilievi assiri dell’VIII secolo a.C., la bireme fu utilizzata come unità militare fino alla fine dell’età romana e nel corso della prima età bizantina.


TRIREME
Queste navi, costituivano la vera "spina dorsale" della marina romana. Potevano trasportare una centuria (80 uomini) di fanti di marina.

QUADRIREMI E QUINQUEREMI

Di dimensioni analoghe (45 metri di lunghezza e 8 di larghezza e un pescaggio, ovvero la parte immersa, di un metro circa la quadrireme e un poco di più la quinquereme) possiamo considerarle come una sorta di corazzate dell’epoca. Su queste navi vi erano sempre: due corvi, uno a poppa e uno prua, e molte armi sul ponte, destinate agli assedi, come baliste, onagri e armi da lancio. Erano costituite da una o due torri dove stazionavano gli arcieri, pronti al lancio dei dardi incendiari. 240 vogatori, 15 marinai e 75 milites classiarii erano imbarcati sulle quadrireme, mentre la quinquireme aveva 300 vogatori e 120 milites classiarii. È noto che sia nella seconda guerra punica che nella battaglia di Milazzo le quadrireme avessero due livelli di rematori, ed erano più basse delle quinquiremi, pure essendo della stessa larghezza (circa 5,6 m). Il dislocamento era intorno alle 60 tonnellate e poteva trasportare circa 75 fanti di marina. Era estremamente apprezzata per la grande velocità e manovrabilità, mentre il suo relativamente scarso pescaggio la rendeva ideale per le operazioni costiere.

 

La quadrireme fu classificata come “grande nave” dai romani (maioris formae). Le quinqueremi erano molto più difficili da stabilizzare di quanto non lo fossero già le triremi, e non fornivano un aumento di velocità corrispondente, in quanto l’uso di più uomini per ciascun remo riduceva lo spazio disponibile e non permetteva a tutti i rematori di manovrare con tutta la forza; d’altro canto garantivano una protezione migliore contro gli speronamenti e permettevano di portare più fanti di marina.

ESAREME

L’Imperatore, gli ufficiali, lo Stato maggiore della marina romana, salivano solo sulle esareme, di dimensioni imponenti e che avevano una funzione principalmente dimostrativa, allo scopo di impressionare il nemico nelle battaglie, utilizzata anche per il trasporto del princeps in parata militare. Nonostante non partecipasse alle battaglie era una nave di grande impatto: grandiosa e maestosa, perfettamente equipaggiata in armi. Nella flotta vi era una sola esareme che rappresentava l’ammiraglia. Nella battaglia di Azio, esaremi erano presenti in entrambe le flotte. Era un tipo di nave pesante di cui non si conosce con certezza se fosse con sei ordini di remi per lato oppure una trireme con due rematori per remo. Plutarco, Cassio Dione e Floro ci narrano che vi furono anche navi con nove o dieci ordini di remi durante la battaglia di Azio, ma non vi sono riscontri archeologici a confermarlo.


Navi da trasporto

Tra le navi da trasporto vi era la navis actuaria, che trasportava le truppe di terra e la cavalleria. Particolarmente capienti ma non eccessivamente grandi (21 metri la lunghezza e 6,50 la larghezza, con una linea di galleggiamento di meno di un metro), potevano trasportare anche fino a 800 soldati. Generalmente avevano quindici remi per lato e avevano anche alberi da vela. Inoltre, una loro caratteristica era quella di avere la chiglia piatta e montare timoni posteriormente e anteriormente.

L’imperatore Giuliano, durante la campagna sasanide del 363, pare ne utilizzò un migliaio, costruite in loco sull’Eufrate, al fine di trasportare approvvigionamenti, legname e anche macchine d’assedio. Infine, troviamo le navi onerariae o corbitae, anch’esse impiegate nel trasporto merci e approvvigionamento

LE ARMI NAVALI

IL CORVO


Il corvo era un congegno di abbordaggio navale utilizzato dai Romani nelle battaglie navali della Prima Guerra Punica contro Cartagine.

Nel libro III delle Storie, Polibio descrive il corvo come una passerella mobile larga 1,2 m e lunga 10,9 m, con un piccolo parapetto su entrambi i lati. Il ponte era dotato di uncini alle estremità che agganciavano la nave nemica, consentendo alla fanteria di combattere quasi come sulla terraferma.

La nuova arma fu ideata per compensare la mancanza di esperienza in battaglie fra navi e consentì una tecnica di combattimento che permetteva di sfruttare la conoscenza delle tattiche di combattimento terrestri in cui Roma era maestra. L'efficienza di quest'arma fu provata per la prima volta nella Battaglia di Milazzo, la prima vittoria navale romana; e continuò ad essere provata negli anni successivi, specialmente nella dura Battaglia di Capo Ecnomo.

In seguito, con la crescita dell'esperienza romana nella guerra navale, il corvo fu abbandonato a causa del suo impatto sulla navigabilità dei vascelli da guerra.


IL ROSTRUM

Sperone di ferro a tre punte localizzato a prua, che serviva a speronare le navi nemiche e facilitarne l'abbordaggio,(ogni nave, inoltre, era munita di un antirostro una sorta di speroni che evitavano l’eccessivo inserimento nel corpo della nave nemica speronata, e che permetteva di sganciare facilmente il rostro dopo l’attacco).
I corvi erano una sorta di ponte elevatoio girevole situato a prua terminante in un uncino che venivano abbassati grazie ad un sistema di carrucole sulla nave nemica per permettere l'aggancio il passaggio dei soldati romani che si riversavano così sulla nave nemica.

 

Quando il Corvo cominciò ad essere ingombrante e pericoloso per la stabilità della nave venne sostituito dall'harpax: quest'ultimo era semplicemente un dardo con un uncino che scagliato da una balista o da uno scorpione si conficcava nella nave avversaria per poi essere tirato portando le due navi a contatto, delle torrette presenti a poppa su cui si posizionavano gli arcieri (che scagliavano frecce di fuoco) in modo che potessero tirare da una posizione rialzata e quindi più vantaggiosa.



 

ONAGRO
Era una sorte di catapulta che sparavano vasi pieni di carboni ardenti e di pece. Mentre le balistae sparavano frecce di 1m di lunghezza a oltre 200m di distanza.

 


BALISTA

Era la macchina da guerra più complessa dell'antichità e vennero ideate e costruite per la prima volta dai Greci. Esse potevano scagliare dardi di 3 cubiti (132 cm) che potevano viaggiare per 650 metri prima di toccare il suolo.


Scorpione

SCORPIONE

I Romani, per essere precisi, non usavano sempre le balistae, ma una loro semplificazione più piccola e compatta: lo scorpione che poteva scagliare dardi standardizzati fino a 3 spanne (69 cm), che potevano essere scagliati con precisione ad una distanza di 100 metri, mentre la gittata utile era di 400 metri. Normalmente vi erano più scorpioni o balistae su una singola nave a seconda della sua mole.


Stanga


La Stanga era una trave sottile e lunga, con entrambe le estremità di ferro, appesa all'albero della nave come un'antenna. Le navi, quando si scontravano, lanciavano con violenza le loro stanghe a destra o a sinistra, quasi fossero degli arieti, uccidendo i marinai nemici e sfondando la nave stessa.
La Falce era un ferro ricurvo ed appuntito, come una vera e propria falce, che era montato su lunghe aste, atto a recidere l'attrezzatura velica avversaria, rendendo le navi più lente.
La Bipenne è invece una scure, con alle due estremità una punta in ferro molto larga ed appuntita, che i classiarii utilizzano durante la battaglia per tagliare di nascosto le funi alle quali erano legati i timoni delle navi nemiche. Ciò rendeva la nave nemica ingovernabile e quindi facilmente catturabile e disarmabile.

SEZIONE MACCHINE DA GUERRA

Balista

BALISTA

Macchina bellica impiegata, soprattutto negli assedi, per lanciare giavellotti, pietre, frecce o dardi infuocati, palle di piombo, mediante lo scatto di un arco di grandi dimensioni. L’ arco della balista romana era costituito da due aste di legno, imperniate in un telaio posto su un cavalletto. Queste due aste erano tenute in pressione da due fasci di fibre intrecciate, che fungevano da mezzo di propulsione, essendo tese al massimo, come molle. Una robusta corda, agganciata alle due aste, veniva tesa e fissata all’ estremità di un carrello mobile, trattenuta da un grilletto o pernio. Il giavellotto, o altro, era collocato in una scanalatura del carrello, cosi che, sganciando di colpo dal pernio la corda tesa dalle due aste dell’arco, veniva spinto violentemente in avanti e scagliato ad una distanza di qualche centinaio di metri (un giavellotto o dardo fino a m. 350; una pietra di 800 grammi fino a m. 180).

La struttura della balista era mobile, entro certi limiti, sia nel piano orizzontale che in quello verticale, in modo tale che il lancio del proiettile poteva essere orientato secondo le necessità.

Posta su un apposito carro, trainato da cavalli, la balista era impiegata anche in battaglie campali e, in tal caso, era denominata CARROBALISTA.

Questa macchina non è una invenzione romana, dato che era già conosciuta dagli Assiri, dai Greci e dagli Egiziani.

Onagro

ONAGRO

Macchina bellica da assedio, impiegata per lanciare grossi sassi o proiettili di piombo a distanza. Era simile alla catapulta, ma differiva da questa per avere una traiettoria di lancio molto più curva, tale che l’oggetto scagliato poteva superare ostacoli alti e colpire i nemici riparati dietro recinti o all’ interno delle mura della città assediata. Era inoltre impiegata per l’indebolimento delle fortificazioni o contro le truppe d’ attacco e l’artiglieria nemica. La macchina era così chiamata per la violenta scossa che aveva nello sparo, paragonata al calcio di un onagro, asino selvatico allora presente in Grecia.

Nell’ onagro il palo che imprimeva la forza propulsiva al proiettile terminava in un secchiello appeso a funi e nel cui cavo veniva collocato l’oggetto da scagliare. Il palo, in posizione orizzontale prima del lancio, liberato dal gancio che lo tratteneva e tirato da un fascio di fibre in tensione, scattava in verticale e andava con un colpo secco ad urtare contro una barra. Nel contraccolpo lasciava partire dal suo alloggiamento il proiettile che, salendo ad una altezza di circa 40 metri cadeva a parabola ad una distanza di circa 30 metri. L’ oggetto piombando con tutto il suo peso nel bel mezzo di un gruppo di nemici, provocava conseguenze devastanti, sia in senso fisico, sia come effetto psicologico, poiché nessuno si sentiva più sicuro all’ interno di una cinta muraria.

Il peso del proiettile, secondo Vitruvio, poteva arrivare fino a 60-80 Kg. Secondo Vegezio ogni legione recava con sé 10 onagri trainati da cavalli o buoi. Ma le macchine più grandi spesso venivano costruite sul posto oppure portate in pezzi e montate poi sul campo di battaglia.

Catapulta

CATAPULTA

Macchina d’ assedio, usata per scagliare grossi sassi (anche di un quintale), proiettili o sostanze infiammabili, con molta violenza. Era costituita da un braccio di legno che terminava con un secchio contenente il proiettile. L’ altra estremità era inserita in corde torte che fornivano al braccio la forza propulsiva. Le catapulte venivano solitamente assemblate o del tutto costruite sul luogo dell’ assedio, impiegando il legno ivi disponibile.

NAVE LUSORIA

Una navis lusoria (che in latino significa danza/nave giocosa, era una piccola nave militare del tardo Impero Romano fungeva da trasporto truppe che avevano il compito di pattugliare il LIMES (il confine) dalle orde barbariche che si nascondevano nelle foreste e assalivano all’improvviso le legioni romane. Era alimentato da una trentina di soldati di guerra e da una vela ausiliaria. Agile, maneggevole e veloce, dimostrò la sua fama nel pattugliamento dei fiumi settentrionali Reno e Danubio vicino al Limes Germanicus, il confine germanico. Lo storico romano Ammiano Marcellino menzionò la navis lusoria nei suoi scritti, ma non si poteva averne un’idea precisa fino alla scoperta di queste barche a Mainz (Magonza) in Germania nel 1981-82.


Ricostruzione della Navis lusoria (della Classis Germanica) nel Museo delle navi romane di Magonza (Mainz).

La nave romana di Mainz (Magonza)

Nel novembre del 1981, durante gli scavi nel corso di una costruzione di un hotel Hilton a Magonza, furono trovati e identificati resti di legno come parti di una vecchia nave. Prima che la costruzione riprendesse tre mesi dopo, il sito produsse resti di cinque navi datate al IV secolo usando la dendrocronologia. I relitti furono misurati, smontati e, nel 1992, portati al Museo dell’antica marineria (in tedesco: Museum für Antike Schifffahrt ) del Museo Centrale Romano-Germanico ( Römisch-Germanisches Zentralmuseum ) per ulteriore conservazione e studio.

Scientificamente i relitti venivano chiamati Mainz 1 attraverso Mainz 5 e generalmente chiamati Mainzer Römerschiffe, le navi Mainz Roman. Furono identificati come vascelli militari che appartenevano alla flottiglia romana in Germania, la Classis Germanica. Le navi possono essere classificate in due tipi, ovvero piccoli trasporti di truppe (Mainz 1, 2, 4, 5) denominati navis lusoria e una nave pattuglia (Mainz 3). La lusoria è più stretta della actuaria navis, un tipo precedente e più ampio di nave da carico romana.

Una nave ricostruita a grandezza naturale è esposta al Museum of Ancient Seafaring, a Mainz, e serve come rappresentante della lusoria. Per la ricostruzione di questa nave in particolare Mainz 1 e 5 sono serviti come modelli. La replica misura 21,0 per 2,8 m mentre il parapetto misura 0,96 m Di nuovo si usa la quercia. Le doghe hanno uno spessore di 2 cm, generalmente 25 cm (10 in) e sono costruite in carreggiate.

La chiglia ha uno spessore di soli 5 cm e è costituita da tavole; contiene un canale centrale per la raccolta dell'acqua. Il mast-frame contiene un foro per posizionare l'albero. Mentre la nave poteva essere navigata, il metodo principale di propulsione era il canottaggio di una fila aperta di rematori su ciascun lato. L'effetto protettivo dei cannoni è ulteriormente esteso dagli scudi dei soldati appesi all'esterno. Le barche erano guidate da un doppio timone a poppa. Una navis lusoria era armata dal timoniere, due uomini per maneggiare la vela e circa 30 soldati che manovravano i remi.

È stato calcolato che la lusoria stretta e relativamente lunga poteva raggiungere una velocità di marcia da 11 a 13 km / h (da 6 a 7 nodi) e una velocità massima di 18 km / h (10 nodi).

Bibliografia

- I Porti Romani sul Mare - Imperium Romanun

- Miseno Bacoli – Classis misenensis – ARCHEO rivista archeologica

- I Porti Romani dei Campi Flegrei – ARCHEO FLEGREI

- L'arte della guerra romana Flavio Renato Vegezio

- Testimonianza storiche dell’eruzione di Pompei del 79 d.C.- Plinio il Vecchio

Osservatorio Vesuviano-L’Italo Americano

- L’Evoluzione navale – Imperium Romanun

- Armi d’assedio- Storia Romana – Approfondimenti-Circolo dei Saggi

- La Marina Militare Romana tra il I e il III Sec. D.C. di Roberto Petriaggi

- Le navi lusorie di Alberto Angela

- Le Liburne – Varie font

 

Carlo GATTI

Rapallo, 17 Maggio 2018


 

 

 


ENRICO DANDOLO - UN MITO SU CUI RIFLETTERE

ENRICO DANDOLO

(1107-1205)

IL CORAGGIO E LA FORZA DA LEONE DI UN DOGE VECCHIO E CIECO

UN MITO SU CUI RIFLETTERE…

Da un po’ di tempo in Italia e solo qui da noi, si parla di “rottamazione” come soluzione di numerosi problemi della politica italiana ma, a noi di una certa età, certe parole, così come certi slogan partoriti e abusati con troppa fretta e poco buon senso, ci spingono a scrutare con attenzione la storia del nostro Paese e scoprire, ad esempio, che tra tanti formidabili “vecchietti” ce n’é uno che manda a gambe all’aria l’intero mondo della rottamazione. Si tratta del veneziano Enrico Dandolo che diede alla SERENISSIMA il meglio di sé quando era ormai ottuagenario e per di più menomato dalla cecità.


Di antichissima e aristocratica famiglia veneziana Enrico Dandolo venne eletto 41° Doge a 82 anni. Fu uomo di fine intuito politico, ma anche condottiero valoroso e marinaio di grande esperienza e coraggio. Conquistò Costantinopoli a 94, dopo essere stato uno dei più grandi ammiragli della Serenissima.

I fortunati che arrivano a 82 anni d’età, in genere sono bisnonni e molto vicini alla conclusione della loro vita terrena.

Ma il nostro Grande Ammiraglio era un vegliardo molto VISPO di mente e di spirito ed aveva miracolosamente mantenuto un fisico asciutto, nervoso e molto forte. Dicono che avesse le mani grandi e forti e i suoi occhi azzurri fossero due fari capaci d’indagare severamente in profondità chiunque si parasse davanti a lui.

Enrico Dandolo era stato Ammiraglio della flotta, nobilomo da mar, vincitore di battaglie marittime, e poi Ambasciatore duro ed energico a Palermo presso Guglielmo II di Sicilia e a Costantinopoli presso l’Imperatore Emanuele Comneno. Così duro ed energico che Comneno, per punirlo dell’ardire e dell’arroganza con cui pretendeva la restituzione di Venezia di alcuni prigionieri, lo fece arrestare e “abbacinare” (antica forma di supplizio) con gli specchi ustori. Ne rimase semicieco e anche questa infermità si aggiungeva alle preoccupazioni di coloro che vedevano salire alla massima autorità della Repubblica Serenissima un uomo di età così avanzata e persino limitato in quei suoi occhi che lo resero celebre.

Ma il destino aveva ormai scritto per lui pagine luminose di storia e come per incanto la sua anagrafe subì dei sussulti mostrando subito a tutti quanto fosse brillante il suo smalto e decisa la sua volontà.

Era il 1192 quando giunse al soglio dogale. La stipula della “promissione dogale” fu il suo primo atto quasi rivoluzionario: un documento con il quale s’impegnava a concedere libertà popolari mai prima godute dai cittadini, a rispettare tradizioni e consuetudini, a limitare il suo stesso potere sovrano eletto. Il suo debutto fu sensazionale!

Subito dopo dovette affrontare il primo problema militare e non perse tempo nel prendere decisioni immediate.

I pisani avevano occupato Pola di sorpresa, una città del dominio veneto. L’affronto era molto grave, soprattutto perché si era consumato in acque troppo vicine a Venezia. Era un imperdonabile provocazione.

Dandolo prese il comando della flotta ma, da grande marinaio quale era, si accorse subito che con quel naviglio non sarebbe andato lontano… Organizzò allora un deciso quanto astuto colpo di mano: requisì tutte le navi che si trovavano alla fonda dentro e fuori la laguna, le armò e ne affidò il comando a Giovanni Baseggio e a Tomaso Falier.

Quindi, con quella squadra mercantile, in fretta e furia militarizzata, mosse verso Pola, colse di sorpresa i pisani, distrusse gran parte delle loro navi e costrinse il resto dei legni alla fuga. Non ancora soddisfatto della punizione, inseguì gli invasori e li raggiunse nelle acque della Morea e li sconfisse definitivamente, rompendo il blocco del canale d’Otranto che i pisani avevano posto a Venezia, con l’aiuto dell’imperatore Enrico VI, re di Sicilia.

Si trattò di un eccellente debutto, un trampolino di lancio che lo proiettò molto in alto destando la preoccupazione non solo delle altre Repubbliche Marinare italiane, ma anche di tutti i rivali di Venezia che non erano pochi e studiavano segretamente le mosse della Serenissima tra le quattro sponde del Mediterraneo e dell’intera Europa.

L’esordio al dogato fu così eclatante da spingere i principi cristiani d’Europa a presentarsi a Venezia per chiedere l’appoggio e l’alleanza della Serenissima in vista della IV Crociata.

A questo punto Dandolo condusse molto abilmente una trattativa che si concluse con un contratto in base al quale Venezia s’impegnava a fornire ai crociati, entro la fine di giugno 1202, il trasporto delle truppe crociate: 33.000 soldati, un numero ambizioso, in cambio di un sostanzioso pagamento; il contratto fu ratificato dal papa.

Era un vero e proprio contratto di trasporto e rifornimento e, per soddisfare la corposa richiesta, i veneziani garantirono anche la costruzione di 50 navi da guerra e 450 vascelli da carico.

Inoltre, la Repubblica di Venezia si sarebbe assunta l’onere di armare in proprio 50 galere partecipando ai rischi dell’impresa ed agli eventuali profitti nella misura del cinquanta per cento, con la clausa del possesso delle terre conquistate durante la spedizione.

Tutti si dichiararono soddisfatti e lo storico Michaud scriverà del Doge: “… e Dandolo, accoppiando le passioni più generose alle idee di calcolo e di economia, proprie dei suoi compatrioti, dava un’aria di grandezza a tutte le imprese di un popolo commerciante”.

A questo punto sorge un problema piuttosto grave. I crociati non hanno danaro sufficiente a mantenere gli impegni presi. Il Doge propone astutamente un baratto: Venezia fornirà il trasporto e i viveri pattuiti, purché i guerrieri della croce l’aiutino prima a conquistare Zara.


La Resa di Zara

di Domenico Tintoretto

Tutti si ritrovano d’accordo! Invece della crociata, avviene la sanguinosa espugnazione della città dalmata, che alla Serenissima non costa una sola vittima.

Ma Zara non fu una tappa pacifica, l’ostilità degli abitanti e delle truppe ungheresi conclusero in un assedio, sfociato in assalto e saccheggio. I veneziani furono incolpati e quindi scomunicati dal Papa.

Nel frattempo, mentre le truppe crociate svernano sull’Adriatico nell’attesa di rimettersi in viaggio, Alessio Angelo, figlio dell’imperatore Isacco II di Costantinopoli, incontra Enrico Dandolo per raccontargli che il padre é stato destituito da suo fratello Alessio III, acerrimo nemico di Venezia.

Il giovane Alessio chiede aiuto per rimettere in trono il genitore: in cambio promette di mandare le forze bizantine alla crociata e propone inoltre, fatto d’importanza assoluta, di unire le chiese romana e greca dopo il devastante scisma del 1054.


1204, La Presa di Costantinopoli

di Palma il Giovane

Dandolo, senza alcuna esitazione, coglie l’occasione al volo ed accetta. L’ammiraglio riprende il comando della flotta e fa vela verso il Bosforo. Assedia Costantinopoli, prende una parte delle mura e subito in città scoppia la rivoluzione, Alessio III é cacciato, Isacco é ristabilito sul trono. Ma quando si tratta di mantenere fede all’impegno di unire le due chiese, Costantinopoli si ribella violentemente: allora il Doge decide di conquistarla e nel 1204, a 94 anni d’età, l’indistruttibile Enrico Dandolo, che ha guidato personalmente la battaglia, pianta la bandiera di Venezia con il leone di San Marco sulla fortezza della capitale dell’Impero d’Oriente. Una delle massime conquiste militari della storia.

A questo punto non vi é il minimo dubbio Enrico Dandolo diventa l’uomo più potente d’Europa, forse del mondo. Ottiene per sé e i suoi successori il titolo di “signore di una quarta parte e mezza dell’Impero romano”, con le terre di tutta la regione costiera dell’Albania fino al Mar di Marmara, le isole Ionie, le Cicladi, Negroponte, un terzo di Costantinopoli e, per baratto l’isola di Candia, più l’Epiro e Gallipoli.


L’Europa che conta si esalta e vuole eleggerlo IMPERATORE, ma il vegliardo rifiuta, indicando al suo posto Baldovino di Fiandra; in compenso il veneziano s’impossessa del meglio che può esserci nella città conquistata e, tra l’altro, invia a Venezia i famosi quattro cavalli di San Marco, che erano statue romane portate a Costantinopoli dopo la scissione dell’Impero.

Fanno rotta per Venezia anche innumerevoli icone, gemme, perfino i corpi di santi ai quali intende far erigere chiese in patria. Il bottino di guerra é immenso, come la gloria del Doge.

Venezia, grazie a questo vecchio e incrollabile nobilomo da mar, é ora la più grande potenza coloniale e marittima del Mediterraneo.

In questo contesto di gloria e di grandi risultati militari e politici, Dandolo non ha mai dimenticato di essere stato fatto accecare dall’imperatore di Costantinopoli, solo così si comprende fino in fondo la sua terribile vendetta…


Ma il capolavoro di ASTUZIA che passò alla storia fu: La presa di Costantinopoli ad opera dei crociati si realizzò in cambio del trasporto via mare supportato dalla Serenissima e nemmeno fino in Terra Santa.

In quella intrepida operazione militare, nulla era stato studiato ed eseguito per “servire” il Papa, ma il risultato finale fu quello di aumentare la potenza militare e commerciale di Venezia.

Il 14 giugno 1205, a 95 anni d’età, Enrico Dandolo morì, quasi all’improvviso, mentre guidava con straordinaria abilità le truppe in Tracia contro il re dei Bulgari che aveva fatto prigioniero e assassinato Baldovino di Fiandra, appena eletto imperatore di Costantinopoli.

L’eccesso di stress di quell’ultima impresa causò probabilmente l’abbattimento della vecchia quercia eppure, fino a quel momento, il grande Doge era rimasto lucido e determinato, accentrando nelle sue mani il supremo comando. Dandolo aveva tenuto la massima magistratura di Venezia per tredici anni; non fu un lungo periodo, ma  i successi ottenuti lo fecero balzare sul podio più alto nella storia della Serenissima.

La lapide del sepolcro del Doge

Non fu riportato in patria: Il suo corpo, quello di uno dei più grandi marinai d’ogni tempo venne sepolto a Costantinopoli, la città che lui aveva conquistato, sotto il portico della basilica di Santa Sofia.

Scrisse di lui il Laugier: “Pervenne al supremo grado in età decrepita, e vi si distinse con tutte le qualità che formano l’uomo vigilante senza inquietudine, giusto senza rigore, buono senza debolezza. Era riservato a lui solo il vedere gli estremi della caducità divenire l’epoca della maggiore sua gloria. In età di oltre novant’anni, fu generale di una grande flotta, motore ed agente della più meravigliosa azione di guerra che mai si fosse intrapresa: diede battaglie, comandò assalti; le sue fatiche, le sue vigilie, le sue imprese rovesciarono un grande impero, decisero della fortuna di due grandi nazioni, e portarono la potenza veneziana a quella sublimità di splendore, al quale sia ella mai pervenuta…”.

Il giudizio della Storia:

Oggi Enrico Dandolo è considerato uno dei più grandi Dogi nella storia di Venezia. Prese il controllo di una potenza commerciale in declino, minata dalla corruzione e dall'inefficienza e sfidata da potenze grandi e piccole in tutta la regione. Il commercio era andato in declino e la sua potenza militare era quasi nulla. Alla sua morte Dandolo aveva posto fine a tutte le minacce esterne all'influenza veneziana, facendone ancora una volta la più grande potenza commerciale del Mediterraneo. Gli storici hanno definito Dandolo "fondatore dell'impero coloniale veneziano". La città rimase prospera, stabile e sicura per tutto il secolo successivo.



L'Enrico Dandolo (S 513) è stato un sottomarino italiano della classe Toti costruito negli anni sessanta e messo in disarmo negli anni novanta.  Si trova oggi esposto presso L’Arsenale di Venezia.

Questo è il secondo sommergibile intitolato ad Enrico Dandolo e la terza unità della Marina Militare a portarne il nome. La prima unità fu una corazzata progettata da Benedetto Brin e costruita nell'Arsenale di Spezia tra il 1873 e il 1882. La nave era stata intitolata all’Ammiraglio veneziano e le fu dato il motto:

Qui si deve vincere

parole attribuite al Doge durante l'assedio di Costantinopoli del 1203.

Questa nave partecipò alla Guerra Italo turca e alla Prima guerra mondiale per essere radiata nel 1920.

In seguito ebbe il nome di Enrico Dandolo un sommergibile della classe Marcello, entrato in servizio nel 1938. Il battello partecipò attivamente alla Seconda guerra mondiale, prima nel Mediterraneo e poi nell'Atlantico dalla famosa base di Betasom. Dopo l'8 settembre fu trasferito negli USA ed impiegato per addestramento delle Marine alleate; rientrato in Italia nel dopoguerra fu radiato in osservanza delle clausole armistiziali.


Il nome del grande DOGE é stato sempre presente nelle varie epoche anche nella Marina Mercantile italiana. In questa foto ricordiamo la bella nave da carico ENRICO DANDOLO della Società di Armamento SIDARMA di Venezia.

Bibliografia:

- - GRUPPO WSM

- - CIVILOPEDIA Online

- - Enciclopedia TRECCANI

- - Wikipedia

- - L’Occidentale-Orientamento Quotidiano

- - Navi e Marinai

Carlo GATTI

Rapallo, 5 Aprile 2018

 

 

 

 


L'ANTICO PORTO DI CESAREA MARITTIMA

CESAREA MARITTIMA

ISRAELE

Dopo aver visitato ed esplorato gli antichi porti di Claudio, Ostia, Traiano, Mileto, Nemi ed altri, oggi andiamo a Cesarea Marittima per riscoprire altre novità sull’ingegneria degli antichi romani che non finiscono mai di stupirci.

"Il sogno di Re Erode: Cesarea sul Mare"




Questo mosaico, rinvenuto a Caesarea Maritima, di epoca romano-bizantina, dà l'idea della bellezza della città  e dei suoi monumenti. Il mosaico policromo é abbellito con animali, piante, alberi e motivi geometrici. Al suo centro regna una divinità femminile locale, di nome Kalokeria, un nome sicuramente grecizzato di una Dea locale, che mostra, come Dea della fertilità e della prosperità,  un cesto di frutti della terra, che doveva assicurare la ricchezza alla bellissima città.

Questo libro: "Il sogno di Re Erode: Cesarea sul Mare" pubblicato negli anni ottanta, tratta del materiale raccolto per una mostra in Israele, ed offre una splendida narrazione della rinascita archeologica di una delle città più belle dell’Impero Romano di Oriente e del suo porto di prima grandezza: Cesarea Marittima, la quale competeva dunque con Leptis Magna, il Pireo-Atene, Ostia, Alessandria, Rodi e molti altri, per tutta una circolazione straordinaria di beni ed il passaggio di idee e dottrine Oriente-Occidente e viceversa.

Oggi CESAREA si presenta così…






Oggi Cesarea ce la possiamo solo immaginare in tutta la sua bellezza con le ricostruzioni degli studiosi.




La fonte principale di informazioni é lo storico ebreo Giuseppe Flavio. Situata 40 km a nord dell’attuale Tel Aviv, Caesarea Maritima venne fondata lungo una delle più importanti vie di comunicazione che collegavano le aree popolate del Medio Oriente con la costa mediterranea. La costruzione della grande città fu condotta a ritmi sostenuti con il lavoro di migliaia di operai e schiavi, e terminata in tempi davvero brevi (nove o dieci anni prima di Cristo).

Un acquedotto forniva a Cesarea l’acqua potabile, e un sistema di fogne sotto la città portava al mare acqua e liquame. L’impresa più importante però fu la costruzione del porto artificiale.

UN PO DI STORIA:

Erode il Grande (regnate tra il 40 e il 4 a.C.) aveva ricevuto in dono il sito da Cesare Augusto insieme a Samaria e ad altre città minori. Dopo avere ricostruito Samaria, che chiamò Sebaste, rivolse l’attenzione alla costa e iniziò la costruzione di una città e di un magnifico porto presso la Torre di Stratone, costruzione che richiese 10-12 anni; l’inaugurazione avvenne (secondo alcune fonti autorevoli) verso il 10 a.C. Trattandosi di opere costruite in onore di Cesare Augusto, Erode chiamò la città Cesarea e il porto Sebastos (che in greco significa Augusto). La città era bellissima, sia per i materiali edili impiegati sia sotto il profilo architettonico; c’erano un tempio, un teatro e un anfiteatro abbastanza grandi da ospitare una folla numerosa.

La città venne costruita ampliando a dismisura il piccolo porto villaggio di Straton (detto anche “Torre di Straton”), nato secoli precedenti come scalo per i traffici marittimi tra Fenicia ed Egitto. Tra alterne vicende Cesarea durò fino al 1265, quando le truppe musulmane, guidate dal sultano mamelucco Baybars, posero fine alla sua millenaria esistenza allo scopo di privare i crociati di una formidabile base di penetrazione in Terrasanta. La città era già stata conquistata da Saladino nel 1187; ripresa dai crociati francesi dopo circa vent’anni, venne fortificata nel 1251 per volere di re Luigi IX di Francia, ma le possenti mura, tutt’oggi visibili attorno al nucleo centrale della cittadella, non bastarono a fermare la furia dei Mamelucchi, decisi a ributtare in mare gli invasori. Da quel momento le rovine di Cesarea divennero il regno della sabbia e della salsedine. Il sogno di Erode fu inghiottito dalle dune costiere.

La città possedeva un porto molto grande con un molo che proteggeva gli attracchi da sud e da ovest. Sul porto si ergeva il tempio di Augusto e Roma, in posizione sopraelevata. Un doppio acquedotto portava l'acqua in città dalle sorgenti del Monte Carmelo. I ruderi di un imponente anfiteatro sono ancora visibili oggi come resti del citato acquedotto. La città era fiorente e abitata da popolazioni di varia etnia, ebrei, greci, romani, samaritani. Fu molto ben descritta da Flavio Giuseppe nei suoi libri Guerra giudaica e Antichità giudaiche.


Il Teatro di Cesarea Marittima (sopra e sotto)

Cesarea Marittima, Israele: colonne del parco archeologico

Il suo porto fu inaugurato nel 10 a.C. dallo stesso Erode in onore di Cesare Augusto. Per costruirlo si usò un tipo di cemento idraulico messo a punto dai romani: la «pozzolana», un miscuglio di polvere vulcanica del Vesuvio, fango e pietrisco che si indurisce a contatto con l'acqua. Ci vollero dodici anni e migliaia di uomini per portare a termine l'opera: molti furono fatti venire anche da Roma. Tra loro si distinguevano i tuffatori che si immergevano trattenendo semplicemente il fiato oppure in campane subacquee.

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CONCLUSIONE

La prosperità si ebbe finché resse l'impero romano che senza razzismi o preclusioni, favorì i commerci ed ogni tipo di arte in ogni parte e ad ogni gente del suo impero. Quando però questo decadde vennero a mancare cultura, scuole, leggi, commerci e ricchezze, e tutto ricadde nella barbarie. Da qui l'oscuro medioevo.

Bibliografia:

-Geografia e Archeologia

-Biblioteca on line

-I porti romani sul mare

-Associazione culturale Liutprand: il cemento degli antichi romani

-Il sito archeologico di Cesarea Marittima

-Daniele Mancini Archeologia

-Terrasanta.net

-Archeologia Viva-vivere il passato. Capire il presente.

-IMPERIUM ROMANO

-FELICI: La ricerca sui porti romani in cementizio.

 

Carlo GATTI

Rapallo, 22 Marzo 2018

 

 

 

 


LA BALENIERA CHARLES W.MORGAN

LA BALENIERA CHARLES W.MORGAN

Museo Mystic River  - Connecticut (USA)

COMUNICAZIONE:

Sabato 24 Marzo, alle ore 17,30, presso la sede della Lega Navale Italiana – Sezione di Chiavari (Porto turistico di Chiavari, box 51), si conclude la rassegna “Uomini e Navi”.

Ernani Nanni Andreatta parlerà di “Charles W. Morgan, La ricostruzione dell’ultima Baleniera”: la baleniera Charles W. Morgan costruita nel 1841 nei cantieri di F. Zacharias Williams a Bedford, USA. Era lunga 33,5 metri e aveva una stazza di circa 300 tonnellate. L’equipaggio era composto di 35 persone. La Morgan ha avuto una vita di 80 anni navigando in tutti gli oceani del mondo.

L’incontro è aperto a tutti.

Un po’ di Storia …

LA CHARLES W. MORGAN E LA CACCIA ALLE BALENE

Scritto da admin il 22 agosto 2010

Considerata una delle navi più antiche degli Stati Uniti d’America, dal suo varo nel 1841 la Charles W.Morgan è stata utilizzata per quasi un secolo per dare la caccia alle balene.
Quando l’avvento di nuovi combustibili sostitutivi del grasso di balena, la diminuzione degli esemplari e l’introduzione di alcune innovazioni tecnologiche nella caccia segnarono il declino delle baleniere di stampo classico, la Charles W. Morgan finì la sua carriera.

Semi-distrutta da un incendio negli anni ’20 l’imbarcazione fu messa a riposo, per poi essere acquistata dal Mystic Seaport Museum del Connecticut, il più grande museo marittimo del mondo.
L’ente museale si è interessato della restaurazione della nave e, dopo più di cinque anni di lavoro, la Charles W. Morgan è stata allestita come uno spazio museale sull’acqua dedicato alle balene, volto a informare e sensibilizzare le persone sulla vita, le abitudini e sul critico stato di conservazione di questi cetacei.

Quando, il 6 settembre del 1841 il Charles W.Morgan salpò per il suo viaggio inaugurale dal porto di New Bedford, nel Massachusetts; erano trascorsi solo nove mesi da quando un’altra nave, la baleniera Acushnet aveva imbarcato per la sua prima esperienza di caccia un giovane scrittore rispondente al nome di Herman Melville. Oggi, quel che di più tangibile resta dell’epopea delle baleniere americane è quanto di vero Melville scrisse in “Moby Dick“, e poi c’è la Morgan, ultima superstite di una flotta che contava 2700 navi dedicate alla sola caccia ai cetacei.

E’ dal 1967 che il Charles W. Morgan è diventato per volere del ministero degli Interni Usa, Monumento di Interesse Nazionale; aperto alle visite del pubblico al Mystic Seaport Museum, nel Connecticut. Ma c’è dell’altro, perché da pezzo da museo, il veliero che per gli storici è tra le baleniere americane quella andata più lontano, tornerà a vivere, che per una nave significa tornare a prendere il mare. E questa volta non sarà più per arpionare balene.

Apprendiamo dal New York Times che ciò avverrà all’inizio dell’estate prossima, alla fine (quasi) di quei complessi lavori di restauro (e non sono i primi) che col costo di dieci milioni di dollari e con l’uso delle tecnologie più sofisticate, apriranno all’imbarcazione un nuovo capitolo della sua ultracentenaria storia.

Una storia che merita di essere raccontata, e inquadrata in quel contesto ottocentesco che vedeva gli Stati Uniti come paese giovanissimo e dall’economia ancora tutta da consolidare. Nel corso del secolo, l’industria delle balene finì allora per diventare talmente importante che la vita del cacciatore di balene divenne un segno distintivo dell’esperienza americana, segnalando – per la prima volta – la presenza a stelle e strisce in tutto il pianeta. Dalle balene si ricavavano olio per illuminazione, lubrificanti per macchinari, grasso per candele, aste flessibili per gli usi più disparati, mentre i fanoni e le ossa erano usati come oggi la plastica. In sintesi, il gigante marino poteva essere considerato come un vero e proprio pozzo di petrolio. E non a caso, attorno al 1920, con la raffinazione dei prodotti petroliferi, l’industria baleniera cessò di essere. Ma non prima d’aver messo in grave pericolo la sopravvivenza del gigantesco animale. Si ritiene che nel XVIII secolo, prima che cominciasse la decimazione (operata non solo da americani, ma pure da olandesi, norvegesi etc) gli Oceani ospitassero almeno 4 milioni e mezzo di balene, scese a un milione e mezzo nel 1930. E così si sono estinte razze che la scienza neppure ha avuto il tempo di scoprire, come la balena grigia atlantica, la balena scrag per i balenieri del New England, che l’annientarono.

Ma facciamo un passo indietro, torniamo sulla Morgan in quel 6 di settembre del 1841. A bordo ci sono 33 persone, più il capitano con famiglia. C’è una grande scorta di viveri ed anche animali vivi, che assicureranno cibo anche dopo mesi di navigazione. Quello inaugurale sarà uno dei viaggi più lunghi della nave, dopo aver attraversato Capo Horn ed essere entrata nel Pacifico: tre anni e quattro mesi dopo ritornerà a New Bradford con un carico di 2.400 barili d’olio di balena e 5 tonnellate di stecche per un valore di 56.000 dollari (del tempo).

Cominciò così per il veliero una storia di navigazione lunga 80 anni per 37 campagne che durarono da nove mesi a cinque anni. Al termine della sua carriera aveva portato a casa 54.483 barili d’olio e 70 tonnellate di stecche di balena prendendo all’arpione 2500 giganti marini. Aveva solcato tutti gli oceani, era sopravvissuta agli uragani, al fuoco, al ghiaccio artico e alle razzie dei Confederati; la storia ci dice che nelle isole del Sud Pacifico fu anche attaccata dai cannibali e l’equipaggio prese le armi per respingere le canoe cariche di indigeni.

Con la crisi dell’industria baleniera, nel 1921 la Morgan, andò in disarmo ma la sua vita non si spense del tutto, non subito. Prima fu adoperata come set cinematografico di film muti – Java Head (1921) e Down to the Sea in Ships (1922) –  martoriata da un urgano nel 1938, quando ancora era ancorata a South Darmouth, affidata alle “cure” di un erede dei costruttori; nel 1941 venne rimorchiata nel porto di Mystic, per essere preservata dalla Whaling Enshrined Inc.
Alla fine del 1973 venne restaurata e nella primavera del 1974 fu rimessa in mare all’ancora al Molo Chub, continuando i lavori di restauro.

Oggi ad occuparsi della baleniera sono esperti di scansioni laser e di macchine portatili a raggi X. Per rimetterla in sesto sono al lavoro specialisti di medicina legale, storici e artisti grafici per scovare i dettagli nascosti della sua costruzione e le sue condizioni. “Il progetto, iniziato nel 2008, sta producendo un ritratto rivelatore che mostra la posizione esatta e lo stato di molte migliaia di tavole, costole, travi, chiodi, perni di rinforzo, pioli di legno e altre parti vitali del Morgan, dando maestri d’ascia una guida ad alta tecnologia per la ricostruzione della storica nave […]
Se tutto va come previsto, il rinnovato Morgan sarà dotato di sartiame nuovo alla fine del 2012
”. Ma prima di allora, nell’estate 2011, la baleniera potrebbe tornare a prendere il mare per un viaggio lungo la costa del New England, toccando cioè quei luoghi che hanno avuto un significato particolare per la caccia alle balene, come New Bedford che ne fu la capitale.

Nota finale: non abbiamo raccontato la storia del Morgan per fare apologia della caccia alle balene, attività che riteniamo disgustosa e che oggi viene effettuata ancora da alcuni paesi con viltà e l’uso di mezzi sempre sofisticati quali radar, sonar e arpioni dalla lunghissima gittata che hanno pericolosamente decimato la specie. (A.D)

Da TVDaily.it

ALBUN FOTOGRAFICO

Foto di GIUSEPPE SORIO


A cura di GATTI CARLO

Rapallo, 20 Febbraio - 2018

 


I PESCATORI DI MERLUZZI A TERRANOVA

I PESCATORI DI MERLUZZI

TERRANOVA

Charly aveva toccato almeno quindici volte Lisbona e Punta Delgado (Azzorre) con gli “evergreen” Saturnia e Vulcania.


Merluzzi al vento…

Da questi due siti portoghesi, le due navi trasportavano alcune migliaia d’isolani ogni anno; erano pescatori destinati alle campagne del merluzzo sui banchi di Terranova. Lo scambio degli equipaggi avveniva nel porto di Halifax (Nuova Scotia-Canada), scalo preferenziale della Soc. Italia.



Museo Navale di Lisbona – Un gozzo dei pescatori di merluzzo

“Era il 1962” -  racconta Charly – “… ricordo con nostalgia i racconti del mio capo guardia e carissimo amico, Baj Schiaffino di Camogli; quando mi anticipava che i nostri amici portoghesi pescavano ancora su piccoli gozzi con i classici  bolentini. La fittissima nebbia, che per lunghi mesi gravava sui banchi di Terranova, era il loro vero pericolo, ma non l’unico; le zone di pesca, infatti, si trovavano proprio sulle rotte dei famosi liners europei e americani che sfilavano a tutta velocità, preoccupati soltanto dei loro ETA (estimate time arrival).

Il corno da nebbia era l’unico strumento a disposizione dei pescatori di merluzzo per tenersi in contatto tra loro ed anche l’estrema difesa per urlare la loro presenza. Molti di loro, purtroppo, sparivano travolti nelle acque gelide dalle navi in transito, del tutto ignare dei loro drammi. Un brigantino ancorato solitamente a ridosso di qualche ansa tra i banchi, era la loro base. Quante disperate ricerche,  vane attese  e veglie in preghiera ogni anno!

Quante tragedie colpirono nei secoli i pescatori di tutto il mondo e le loro famiglie lontane! Grandi uomini ed eroi del Mare, cancellati  sull’altare dell’oblio e della modernità, sepolti troppo in fretta dalla memoria di chi oggi neppure riconosce la loro lunga scia di sangue versata sugli oceani ...

Il brigantino a palo portoghese Sagres in navigazione sul fiume Tejo a Lisbona.


TORRE DI BELEM – LISBONA

Già! Avete capito bene, si trattava proprio di un brigantino che Charly e Baj, in una splendida giornata di Giugno, videro scivolare a Lisbona con le vele gonfie di vento in processione sul fiume Tejo. A bordo c’era il Cardinale che inaugurava, con la benedizione della statua della Madonna di Fatima, la stagione della pesca”.

Carlo GATTI

Rapallo, 1 febbraio 2018

 

UN PO’ DI STORIA

Dal blog si ASPO-Italia, sezione italiana dell'associazione internazionale per lo studio del picco del petrolio e del gas (ASPO) riassumiamo:


Una delle storie più emblematiche é quella dei merluzzi di Newfoundland.

Cinque anni dopo la scoperta dell'America da parte di Cristoforo Colombo, dunque nel 1497, un altro italiano, Giovanni Caboto, navigatore al soldo degli inglesi, raggiunse le coste americane. Sbarcò molto più a nord, probabilmente nell'attuale Newfoundland (Terranova), in territorio canadese. Al suo ritorno in Gran Bretagna raccontò, fra le altre cose, che "lassù il mare è coperto di pesci".

Qualche decina di anni dopo, chi sfruttò al meglio quello che Caboto aveva scoperto riguardo alla pescosità dell'Atlantico nord occidentale furono però i francesi. A metà del sedicesimo secolo, 150 imbarcazioni francesi attraversavano ogni anno l'Atlantico per raggiungere quel paradiso della pesca. Gli inglesi seguirono a ruota, espandendo quei territori di pesca più a sud, al largo di quelle che oggi sono le coste del Massachusetts. Pescavano moltissimo, e soprattutto merluzzi. Al punto che chiamarono una di quelle località, un promontorio, Cape Cod: cod è il nome inglese del merluzzo, appunto.

Nei successivi 3-400 anni la pesca continuava a prosperare, sebbene le tecniche di pesca, in qualche modo ancora artigianali, restassero più o meno immutate. Pescavano praticamente con la lenza; molte lenze per ogni barca, ma pur sempre lenza, cioè filo da pesca con in fondo un amo e un'esca. I pesci pescati venivano puliti e messi sotto sale.

Nel diciannovesimo secolo si erano ormai uniti al banchetto anche americani e portoghesi, e fu in questo periodo che le semplici lenze lasciarono il passo alle longline (in italiano sono i palamiti). Lenze lunghe anche chilometri, ognuna delle quali attrezzata con migliaia di ami. Una tecnica molto efficace che permette bottini spaventosi. Nel solo New England, nel 1895 furono pescate 60.000 tonnellate di merluzzi. Che sembravano non finire mai. Addirittura un grande biologo e ricercatore come Huxley affermava: credo che la pesca dei merluzzi, così come le altre risorse del grande mare, siano inesauribili...

Nel 1905, una nave da pesca, guardata con sospetto, se non peggio, dagli altri pescatori, salpò dal porto di Boston. Era la prima nave americana equipaggiata con uno strumento che già si usava in Inghilterra, e che per la prima volta arrivava in quelle acque: una rete a strascico. I merluzzi sono pesci che amano mangiare sul fondale, e dunque la rete a strascico, che sul fondale corre e raccoglie tutto quello che trova, serviva benissimo a pescare merluzzi. Talmente bene che nel 1914 la Commissione della Pesca degli Stati Uniti formò un comitato per indagare quali danni potesse fare agli stock ittici. La risposta fu che, almeno nel Mare del Nord, le nuove tecnologie stavano già causando un declino del pescato, anche se ancora non dei prolifici merluzzi. Non furono prese contromisure.

In quegli anni, il principale obiettivo divenne un altro pesce, l'eglefino, parente stretto del merluzzo e dal sapore simile. Negli anni '20 poi furono introdotti sul mercato i filetti surgelati (come li mangiamo ancora oggi). Era un bel salto dal classico merluzzo sotto sale, e soprattutto i pescatori del New England corsero a riempire la nuova nicchia di mercato: nel 1929 si pescarono 120.000 tonnellate di eglefino, in quella zona. Cinque anni dopo le catture saranno già crollate a 28.000 tonnellate.

I merluzzi intanto continuavano a essere regolarmente pescati, a cifre attorno alle 8.000 tonnellate all'anno. Questo fino al 1954, l'anno in cui tutto accelerò verso il baratro. Fu quando arrivò in quelle acque la Fairtry. Era una nave enorme fatta costruire da un'industria baleniera scozzese, la quale vedendo diminuire sempre più le catture dei grandi cetacei, decise di buttarsi in altri mercati. La Fairtry era una nave industria che permetteva di pulire e congelare i merluzzi già a bordo, stoccandone in grandi quantità. E le sue reti erano enormi. Talmente ampie che, in un mare ancora così pescoso, a volte si rompevano sotto al peso delle tonnellate di pesce pescato. Quella nave, e quelle che seguirono poi, poteva pescare in un'ora quanto una tipica imbarcazione del sedicesimo secolo faceva in una stagione. La Fairtry venne presto raggiunta da altre navi industria, provenienti dalla Germania, dall'Unione Sovietica e da altri paesi stranieri. Nel 1968 i merluzzi pescati raggiunsero la cifra impressionante di 810.000 tonnellate! La fine era scritta, bastava sapere leggere i segnali.

A metà degli anni '70 gli eglefini erano ormai scomparsi, e la "produzione" di merluzzi era scesa a meno di 250.000 tonnellate. I pescatori locali, impotenti e in ginocchio, implorarono l'aiuto dei loro governi, canadese e statunitense. Questi risposero estendendo il limite delle acque territoriali a 200 miglia. In pratica, il dominio delle navi straniere sui grandi banchi dell'Atlantico nord-occidentale era finito. Adesso USA e Canada avevano l'occasione per salvaguardare le loro risorse ittiche, instaurando finalmente una pesca sostenibile. Ma non lo fecero.

L'euforia dell'allontanamento degli stranieri colpì soprattutto la gente del Newfoundland, che viveva solo e soltanto di pesca. Il futuro ora sembrava roseo e il DFO (Department of Fisheries and Oceans), cioè il Dipartimento della Pesca e degli Oceani canadese, in qualche modo cavalcò l'onda e sbagliò le previsioni, calcolando che le catture di merluzzi, scese a 139.000 tonnellate nel 1978, sarebbe risalite a 350.000 nel 1985. Ma adesso, a posteriori, sappiamo che nel 1977 il numero di merluzzi in fase riproduttiva, al largo di Newfoundland, era diminuito del 94% rispetto ai valori del 1962. La catastrofe era ormai pronta.


I pescatori canadesi, nei primi anni ottanta non riuscirono mai a raggiungere la quota di pescato permessa dal governo, ma stavano comunque pescando molto più di quanto la popolazione residua di merluzzi potesse sostenere. Con la cacciata degli stranieri, la pesca aveva ripreso vigore e gli strumenti migliorarono ancora, con l'introduzione dei sonar che permettono di localizzare i grossi banchi di pesce. A metà anni '80 la DFO continuò a sostenere che gli stock sarebbero cresciuti, e il 1986 fu un anno eccezionalmente produttivo, e quindi alimentò le certezze di alcuni e le speranze di altri. Che vennero però duramente colpite dalle previsioni per gli anni successivi: i ricercatori erano certi, ci sarebbe stato un crollo. Nel 1989 biologi e studiosi cercano di convincere la DFO a dimezzare la quota di merluzzi, abbattendola a 125.000 tonnellate. Ma l'industria della pesca era all'apice dell'espansione e il Dipartimento canadese non se la sentì di infierire il colpo. La quota venne ridotta solo di un decimo.

Ma di merluzzi ne erano rimasti pochi, e per mantenere i loro guadagni i pescatori li cercavano molto più duramente, avventurandosi sempre più al largo e anche in condizioni di mare spaventose. Nel 1991 vennero pescati 180.000 tonnellate di merluzzi: erano, oggi lo sappiamo, più della metà di tutti quelli rimasti là fuori.

Il DFO stabilì questa quota anche per il 1992. Ma ogni quota era ormai inutile, la festa era finita. Non c'era più niente da pescare, e a luglio del 1992 il ministro fu costretto a chiudere completamente la pesca al merluzzo.

Dall'oggi al domani 30.000 persone persero il lavoro. Il disastro si era compiuto.

A tutt'oggi la pesca al merluzzo a Newfoundland non si è più ripresa, oggi l'economia di quel paese è basata sulla pesca alle aragoste e soprattutto sullo sfruttamento delle risorse boschive e minerarie. I merluzzi non sono più tornati. Pesci come i capelin, un tempo prede dei merluzzi, oggi sono divenuti molto comuni, e mangiano i merluzzi appena nati. Quell'ecosistema oggi è dominato da granchi e gamberi.

FINE

 


Le “31.500”: LE SUPERCISTERNE DEGLI ANNI '50 -Work in progress-

Le

“31.500”:

Le supercisterne degli anni ‘50

PRIMA PARTE

di

Francesco ULIVI

Ai CSLC Ernani Andreatta,

al Pilota Carlo Gatti

al DM Vittorio Massone,

A perenne ricordo del Comandante Lazzaro Parodi   e del suo Equipaggio,

T/c “Luisa”, Bandar Mashur, 5 Giugno 1965.

Sommario

Introduzione............................................................pag. 8

Gli anni 50’ e la ricostruzione della Marina Mercantile... pag. 9

Cenni progettuali sulle nuove petroliere. ....................pag.17

Cantieri e commesse................................................pag.37

Introduzione alla rassegna delle unità.........................pag.46

Le turbocisterne della “Villain & Fassio”.......................pag.47

Quattro petroliere per il “Comandante” Lauro..............pag.65

Tre turbocisterne per i D’Amico..................................pag.83

Argea Prima e Miraflores: le 31.500 della Flotta Cameli pag.83

Le due “Purfina”. .................................................... pag.122

Una t/c Italo–Liberia: Il Silverspring e la Flot. Ravano...pag.134

Angelo Moratti: Petroliere ed Armatore........................pag.140

1958: L’anno del “Mirador”.........................................pag.149

Il Santa Isabella della Messana Soc. Nav......................pag.152

Il Sicilmotor: un Diesel tra le turbine...........................pag.156

Una turbocisterna d’oltrecortina..................................pag.183

Le petroliere “sfortunate” della Co. S. Arma.................pag.191

Le Eredi delle “31.500”..............................................pag.206

Ringraziamenti ........................................................pag.210

Appendici ...............................................................pag.211

Alcuni cenni generali sulle petroliere degli anni ‘50........pag.211

Le Livree Sociali sui fumaioli delle “31.500”. ................pag.214

L’Evoluz.nav.cistern.Ital.profili di alcune petroliere.........pag.217

Piani costruttivi della turbocisterna Mirella d’Amico........pag.220

Ripartizione delle unità per Armatore...........................pag.231

Ripartizione delle unità per Cantiere di Costruzione........pag.231

Elenco Generale delle Unità.........................................pag.232

Bibliografia...............................................................pag.233

Siti Internet Consultati...............................................pag.235

INTRODUZIONE

Nel 2017, a definire “Supercisterna” una nave di 31.500 tonnellate di portata lorda, più che curiosità si potrebbe suscitare ironia in un ascoltatore anche solo minimamente edotto di argomenti marittimi. In effetti in questo periodo di gigantismo navale imperante, che oserei definire fin troppo esasperato, le navi che questo lavoro si accinge a descrivere possono davvero sembrare dei moscerini, se poste a confronto con navi che hanno una portata più che decuplicata rispetto a quella di cui disponevano tali unità.

Ma considerando la situazione da altri punti di vista, le “31.500” erano e restano “Grandi Navi”, nel senso più nobile del termine, vere e proprie palestre di vita e mestiere per almeno due generazioni di marittimi Italiani ma non solo, nel periodo forse più radioso del nostro Armamento Mercantile sia Libero che Sovvenzionato; quando sui fumaioli di queste eleganti turbocisterne capeggiavano alcune delle livree più gloriose della Marina Mercantile nazionale quali: Villain & Fassio, Cameli, Ravano, Lauro, d’Amico ed innumerevoli altri.

Molti aggettivi potrebbero essere accostati a queste navi che furono definite come eleganti, robuste, veloci, affidabili e via dicendo, ma un altro riconoscimento della bontà del progetto di questa prolifica classe di petroliere può essere dato dal fatto che la prestigiosa compagnia britannica B.P. Tankers Co. di Londra, in seguito alle brillanti caratteristiche di queste navi, ne fece costruire una versione leggermente ingrandita e migliorata, per un totale di tre esemplari commissionati al cantiere Ansaldo di Genova Sestri.

Questo mio lavoro vuole essere un’umile omaggio a queste navi ed ai marittimi che a bordo di esse vissero momenti a volte lieti, a volte tragici e su cui, purtroppo, in taluni casi vi trovarono la morte. Un Omaggio che vorrei estendere alla Marina Mercantile, cercando di ricordarla nel suo momento di gloria quando, da un Paese devastato da un conflitto immane, seppe risorgere con nuovo slancio verso le sfide di un futuro all’inizio radioso ma che già a metà degli anni 60’ assunse tinte molto fosche e che nel decennio successivo fece molte vittime illustri nel settore marittimo, generando una crisi settoriale che, a mio avviso, tranne qualche rara eccezione, ha provocato una grave perdita di competitività da parte della nostra Marina Mercantile, la quale soffre davvero troppo la concorrenza dei Gruppi Armatoriali esteri; nella mai sopita speranza che questa tendenza si possa invertire al più presto.

Infine una precisazione di carattere pratico: in questo lavoro ho voluto privilegiare in modo particolare l’apparato iconografico, tratto da pubblicazioni, siti internet e simili, in quanto la fotografia è uno dei maggiori strumenti, se non il maggiore, a disposizione degli storici ed appassionati navali per approfondire la conoscenza di questa branca della storia navale così ricca e affascinante ma spesso poco considerata quale è la marineria mercantile.

Francesco Ulivi

GLI ANNI '50 E LA RICOSTRUZIONE DELLA MARINA MERCANTILE

Il secondo conflitto mondiale tracciò una netta linea di demarcazione nella storia della Marina Mercantile Italiana, si passò infatti dall’avere, nel 1940, un flotta mercantile che assommava a 3.400.000 di tonnellate di stazza lorda (pari al 5% del tonnellaggio mondiale[1]) ad una che alla fine del conflitto poteva disporre di 385.716 t.s.l., pari all’11,3% del tonnellaggio d’anteguerra.

Ugualmente drammatica si presentava la situazione per quanto riguardava le condizioni dei porti e delle loro infrastrutture che in ogni parte della penisola avevano subito ingenti danni ed impedimenti, basti pensare agli innumerevoli relitti affondati per i numerosi bombardamenti o per sabotaggio, senza dimenticare la complessa questione del minamento dei porti nazionali.

A mero titolo d’esempio può essere utile riportare la situazione del Porto di Genova a fine conflitto (Aprile 45), in modo da dare un’idea degli ingenti danni subiti da uno dei maggiori porti italiani e che ebbe poi un ruolo fondamentale nel processo di ricostruzione.

Situazione dei danni subiti dal Porto di Genova al 25/4/1945

Genova

Opere Foranee (m)

Banchin (m)

Arred. Portuali (N°)

Bacini di Carenag (N°)

Edifici Portuali (N°)

Distrutti

Gravi Danni

Lievi Danni

 

650

7.062

229

3

17

49

24

Le acque del porto erano disseminate di 139 mine magnetiche e di circa 900 imbarcazioni affondate mentre erano ostruite, da relitti di grandi dimensioni, le due imboccature principali; la diga foranea presentava una breccia di 80m  e gravissima, come già riportato nella tabella sopra, era la situazione delle banchine (distrutte per un 38%) ed analoghe erano quelle di magazzini ed impianti meccanici quali gru ecc. (ambedue subenti perdite pari all’86% del totale). Ma venne da subito intrapresa un rapida ed incessante opera di ricostruzione e sminamento delle acque tale che il 13 Giugno 1945, la prima nave poté attraccare nel porto Ligure.

Disastrosa era inoltre la situazione della cantieristica nazionale che alla fine del conflitto vedeva grandissima parte del suo apparato produttivo quasi totalmente distrutto o gravemente menomato. L’azione aereo navale nemica non risparmiò quasi nessuna azienda cantieristica piccola o grande che fosse da danni o dalla quasi totale distruzione ma tra esse è doveroso citare alcuni di quei cantieri che tanta sofferenza patirono ma che furono alla base della rinascita dell’industria cantieristica nazionale e di conseguenza motore della ricostruzione della nostra flotta mercantile, gruppi cantieristici quali “Ansaldo” S.A. di Genova – Muggiano – Livorno (quest’ultimo assorbito nel gruppo dal 1949) , “C.R.D.A.” di Trieste – Monfalcone, gli stabilimenti di Ancona e Palermo del gruppo “Cantieri Navali Riuniti” di Genova, ed infine il cantiere di Castellammare di Stabia (più orientato sulle costruzioni militari che mercantili).

Anche in questo caso il processo di ricostruzione fu rapido e consistente, tale che nel 1950, a soli 5 anni dalla fine del conflitto, la cantieristica nazionale aveva superato i valori d’anteguerra come illustrato dalla seguente tabella.

Situazione delle Costruzioni Navali nel 1938 e 1950

Anno di Riferimento

1938

1950

Navi Impostate

119

312

Navi sugli Scali

68

329

Navi Varate

126

210

Questi dati possono già dare un’efficace idea dell’incessante processo di ricostruzione e di ritrovata produttività della nostra industria cantieristica e del relativo indotto.

Ma se ciò non bastasse, è significativo il dato relativo alle costruzioni navali prodotte dai nostri cantieri per committenti esteri che nel solo periodo tra il 1 Gennaio 1948 e il 31 Dicembre 1951 ammonta a 64 unità per un totale di 225.947 t.s.l. così suddivise:

-      45 motonavi per 175.454 t.s.l.

-      6 turbonavi per 29.000 t.s.l.

-      6 motocisterne per 14.378 t.s.l.

-      6 motochiatte per 5.794 t.s.l.

-      1 motopeschereccio per 1.321 t.s.l.

 


[1] Fonte: Annovazzi G., La Flotta Mercantile Italiana, Genova, Siglia Effe, 1959, Pag. 15 (op. cit. bibl.)

La motonave mista Rio Jachal, consegnata nel 1950 dai cantieri Ansaldo di Genova Sestri per la Compagnia "Flota Mercante del Estado" di Buenos Aires. fece parte di una commessa di tre motonavi da 11.300 da parte del governo Argentino per la linea Sud America - Europa. (fonte: www.navie armatori.it)

Tra i maggiori committenti esteri del periodo si possono citare l’Argentina, la Norvegia, la Turchia, la Grecia (i costi delle costruzioni vennero scalati nei confronti del governo ellenico) ed altri ancora.

Altre commesse estere dell’Ansaldo nell’immediato dopoguerra: La motonave Tarifa (sopra), costruita per l’armatore norvegese “Whil. Wilhelmsen” di Tonsberg.

(fonte: www.naviearmatori.it),

e la motonave Verna Clausen (sotto) costruita per l’armatore “C. Clausen” di Svendborg in Danimarca (fonte: www.shipsnostalgia.com).


Quello delle commesse dall’estero nell’immediato secondo dopoguerra, ovviamente, non fu un successo solo genovese ma anzi fu esteso a numerosi cantieri nazionali quali l’ex “Orlando” di Livorno ora in orbita Ansaldo, restando nelle acque Tirreniche. Mentre passando sull’altro lato della penisola non si poté non constatare con gioia la ripresa dell’attività navalmeccanica nelle città di Trieste e Monfalcone e quindi del grande gruppo dei Cantieri Riuniti dell’Adriatico (C.R.D.A.) il quale ricevette, come l’Ansaldo, numerose commesse estere approfittando dei bassi costi dovuti alla favorevole congiuntura economica per gli acquirenti esteri, causata dalla delicata fase di ri mpegno dei cantieri Giuliani per nell’ottica della ricostruzione del tessuto industriale nazionale nonché delle costruzioni navali è assolutamente di rilievo assoluto, fatto questo ancor più rimarcabile se si considera la delicatissima situazione politica della città di Trieste  e del Territorio Libero Triestino che perdurò dal 1947 al 1954, fonte di tesissimi contrasti e preoccupazioni tra la neonata Repubblica Italiana, l’Onu e la Jugoslavia. E non è un caso se al giorno d’oggi il cantiere navale di Monfalcone è uno dei più importanti al mondo nella costruzione del moderno naviglio crocieristico.costruzione industriale e sociale in cui il paese era al tempo impegnato. L'impegno dei cantieri Giuliani per nell’ottica della ricostruzione del tessuto industriale nazionale nonché delle costruzioni navali è assolutamente di rilievo assoluto, fatto questo ancor più rimarcabile se si considera la delicatissima situazione politica della città di Trieste  e del Territorio Libero Triestino che perdurò dal 1947 al 1954, fonte di tesissimi contrasti e preoccupazioni tra la neonata Repubblica Italiana, l’Onu e la Jugoslavia. E non è un caso se al giorno d’oggi il cantiere navale di Monfalcone è uno dei più importanti al mondo nella costruzione del moderno naviglio crocieristico.

Costruzioni Monfalconesi per l’estero: la motonave per carichi refrigerati Sumatra costruita nel 1949 per la compagnia “A/B Svenska Ostasiatiska Kompaniet” di Goteborg; Nella pagina successiva, la petroliera Janus costruita nel 1947 per la compagnia “Western Chartering Co SA.” di Panama. (fonte per entrambe le immagini: www.mucamonfalcone.it)

Non fu certamente minore l’impegno dei cantieri navali nazionali rivolto al mercato interno, anche se per via della già citata congiuntura economica sfavorevole per il mercato nazionale, le principali commesse nazionali vennero piazzate ai cantieri a partire dai primi anni 50’ in poi. Nel quinquennio precedente i cantieri si impegnarono piuttosto in un’opera di recupero e riallestimento di costruzioni danneggiate più o meno gravemente durante l’ultimo conflitto, un’alternativa sicuramente più economica per gli armatori nazionali rispetto a costruzioni ex novo.


Il Marco Polo della Soc. Italia, originariamente varato nel 1942 come Niccolò Giani, affondato nel 1944 e recuperato nel 1947, venne immesso in servizio nel 1948 dopo il suo recupero.

Fonte: (www.naviearmatori.it)

Un fortissimo impulso alla rinascita della nostra marina mercantile venne dall’attuazione del “Piano Marshall” e dal conseguente famoso viaggio della M/n Sestriere dell’Italnavi conosciuto come “La seconda spedizione dei mille” che salpata dal porto di Genova l’8 Novembre 1946 condusse circa 1000 marittimi, tra cui 50 Comandanti e 50 Direttori di Macchina, a Baltimora per ritirare 50 navi Liberty. Infatti nell’immediato dopoguerra il governo statunitense aveva promulgato il cosiddetto “Sales Ships Act” per consentire la vendita di una consistente aliquota dei Liberty assegnati alla Reserve Fleet, a ciò vennero però posti due condizioni:

- Il mantenimento in “naftalina” di una parte della Reserve Fleet ovvero in condizioni di essere posti in armamento in breve tempo.

P   Privilegiare nelle consegne le nazioni ex-alleate

@   Numerosi Armatori Italiani parteciparono alla “Spedizione” tra i quali è doveroso citare: Fassio, Ravano, Lauro, Parodi, Lloyd Triestino, Soc. Italia, Bibolini, D’Amico, Garibaldi ed altri ancora.

Il "Sestriere" dell'Italnavi, per molti questa nave è il simbolo della rinascita della nostra Marina Mercantile dal massacro del conflitto.

(fonte:www.naviearmatori.it)

Ogni Liberty aveva un costo di 530.000 dollari che al cambio in Lire dell’epoca ammontava a circa 135.150.000 Lire. I primi Liberty vennero consegnati a quelle compagnie che avevano subito le maggiori perdite durante il conflitto, come ad esempio Lauro, Ravano e Fassio che alla fine del conflitto dovettero praticamente riprendere da zero la loro attività armatoriale, alla fine saranno 162 i Liberty che dal 1946 inalbereranno il tricolore sui mari di tutto il mondo e che resero ai loro armatori un servizio quasi trentennale praticamente continuo, un fatto ancor più sorprendente se si pensa che queste navi erano progettate per durare pochi viaggi.

Il Liberty Emanuele V. Parodi ex Joseph E. Wing, assegnato alla Soc. V. E. Parodi di genova.

(fonte:naviearmatori.it)

Con maggiore parsimonia vennero concesse all’Italia alcune petroliere turboelettriche del tipo T2, circa una ventina, che insieme ai Liberty consentirono la ripresa dell’attività commerciale dei nostri armatori fino ad arrivare ai primi anni ‘50 quando una nuova fase di crescita economica e la sempre maggiore solidità della classe armatoriale nazionale consentì di cominciare un grande processo di rinnovamento del nostro naviglio mercantile, che permise di guardare con rinnovata fiducia alle sfide degli anni a venire.

La T2 Maria Cristina D. dell'armatore D'amico. (fonte:www.naviearmatori.net)

All’inizio degli anni ‘50 la ricostruzione nazionale era oramai ben avviata e l’ottimismo derivante contagiava gran parte dei settori economici ed industriali del Paese.

Non fu da meno il settore navale mercantile che, grazie all’azione sinergica del Ministero della Marina Mercantile, dell’armamento statale e libero, conobbe un’incredibile incremento, sia dal punto di vista numerico che dal punto di vista del tonnellaggio, il quale in un lasso di tempo di 8 anni risultato praticamente decuplicato; infatti si passò dalle 385.716 tonnellate di naviglio del 1945 ad un tonnellaggio di 3.582.739 tonnellate nel 1953.

Ed è proprio in questo nuovo periodo di fulgore che vengono concepite e successivamente costruite  le navi che sono le protagonista di questo breve lavoro.

La turbonave Andrea Doria sullo scalo del Cantiere Ansaldo di Genova Sestri, pronta al varo. Ritenuta uno dei più famosi simboli della rinascita del paese e della marina mercantile nello specifico.

(fonte:www.naviearmatori.net)

CENNI PROGETTUALI SULLE NUOVE PETROLIERE

Le petroliere da 31.500 t.p.l., cui questo lavoro è dedicato, rivestono un ruolo importante nel novero delle costruzioni mercantili nazionali a cavallo tra gli anni 50’ e i primi anni 60’. Il progetto, caratterizzato da una linea elegante, capace di un’elevata velocità di circa 16 nodi ad andatura normale e dalla buona capacità di carico pari a 42.800mc circa, ebbe un ottimo successo commerciale tale da venir replicato in un totale di 24 esemplari sia per Armatori nazionali e sia per Armatori esteri.

Di seguito viene riportata una breve descrizione della disposizione degli spazi a bordo e le caratteristiche generali delle nuove costruzioni, basandosi sulla monografia del Cantiere Ansaldo SA. Di Genova relativa alla costruzione N°1521 per la Compagnia Internazionale di Genova (Villain & Fassio) che prenderà il nome di Italia Martelli Fassio.

- Lunghezza fuori tutto: 200 m (per altre unità viene riportato il valore di 203 m)

- Lunghezza fra le perpendicolari: 188,80 m

- Larghezza massima fuori ossatura: 26,20 m

- Altezza in fianco al ponte di coperta: 13,90 m

- Altezza del castello di prora: da 2,95 m a 4,45 m

- Altezza del cassero poppiero: 2,50 m

- Altezza delle tughe di centro nave e poppa: 2,50 m

- Immersione media alla portata lorda contrattuale dalla linea di costruzione: 10,30 m

- Portata lorda corrispondente: 31.500 t

- Stazza lorda: 19.000 t circa

- Capacità delle cisterne di carico alla massima capienza: 42.000   mc

- Potenza massima dell’apparato motore (circa 114 giri/1’): 16.000 ca

- Potenza normale dell’apparato motore (circa 110 giri/1’): 14.500 ca

- Velocità alle prove con dislocamento corrispondente alla portata lorda contrattuale e con potenza normale: 16,10 nodi

La portata lorda, all’immersione media di 10,30 m, era calcolata in 31.500 tonnellate metriche, comprendente i seguenti pesi:

- Carico liquido imbarcato nelle cisterne

- Olio combustibile e lubrificanti

- Acqua distillata

- Acqua dolce di lavanda e di alimento

- Acqua potabile

- Equipaggio con relativi effetti personali

- Viveri e dotazioni di consumo sia per il servizio di Coperta che per il servizio di Macchina

- Materiali di dotazione e parti di rispetto aggiuntive a quelle previste dai registri di classifica

Non sono conteggiati nella portata lorda e quindi vengono computati nel peso della nave i seguenti carichi liquidi:

- Acqua a livello nelle caldaie

- Acqua nel generatore di vapore di bassa pressione

- Acqua nei condensatori e negli evaporatori

- Acqua nei deareatori / riscaldatori

- Acqua di mare nelle tubazioni di circolazione

- Acqua dolce, nafta nelle tubolature

- Liquidi non pompabili in sentina

La portata lorda di progetto era ovviamente soggetta a variazioni in seguito ad aumenti o diminuzioni di peso seguenti a lavori extra o modifiche richieste durante la costruzione.

Gli spazi a bordo dedicati ai vari carichi liquidi erano così suddivisi:

- Olio Combustibile: nelle cisterne prodiere e poppiere, nelle celle del doppio fondo N°1 e nelle cisterne di decantazione alla massima capienza (3.300 mc)

- Cassa olio lubrificante per il riduttore: cella N°3 del doppio fondo (13 mc)

- Acqua dolce d’alimento per le caldaie: nel doppio fondo N°2 e nelle due casse a prora del locale timoneria; queste ultime potevano essere anche destinate a contenere acqua distillata (250 mc)

- Acqua dolce di lavanda o eventuale acqua d’alimento: nel doppio fondo N°4 nel gavone di poppa e nella cassa posta all’estrema poppa (320 mc)

- Acqua dolce di lavanda: nelle due casse poste a poppavia del cofano turbine sul ponte di coperta (80 mc)

- Acqua dolce potabile: contenuta in due casse, una nella tuga di mezzanave ed una sul ponte di coperta a poppavia del cofano turbine (55 mc)

- Acqua di zavorra: nelle cisterne d’assetto prodiere e nel gavone di prora (1.530 mc)

- Eventuale acqua di zavorra poteva essere contenuta nelle cisterne prodiere dell’olio combustibile (2.080 mc)

- Cisterne per il carico, in numero di 30 (42.800 mc)

L’ammontare totale dei carichi liquidi presenti a bordo era quindi di circa 50.428 mc; era inoltre disponibile uno spazio per il carico asciutto posto sotto il castello di prora, servito da un apposito boccaporto, della capacità complessiva fuori ossatura di 800 mc.

Viene ora dato un breve accenno all’apparato motore che fu destinato ad equipaggiare queste unità, è opportuno specificare che tutte le navi di questa serie erano turbonavi tranne il Sicilmotor, costruito dall’Ansaldo di Genova - Sestri ed armato dalla società “Sicilnaviglio” di Genova, facente parte del gruppo Italnavi, infatti questa unità venne dotata di un apparato motore a combustione interna che per le sue caratteristiche e peculiarità merita un paragrafo a parte.

Imbarco di una caldaia Foster Wheeler tipo D prodotta dallo Stabilimento Meccanico Ansaldo di Sampierdarena, destinato ad una cisterna in costruzione presso l'omonimo cantiere (fonte:www.fondazioneansaldo.it)

L’apparato evaporatore di queste turbocisterne era formato da due caldaie Ansaldo – Foster Wheeler tipo D (analoghe a quella nella figura poco sopra), dotate di surriscaldatore, economizzatore e desurriscaldatore. Il vapore all’uscita del surriscaldatore aveva una pressione di 42 kg/cm2 ed una temperatura di 450°C (corrispondenti in misure anglosassoni rispettivamente a 600 psi e 850°F).

Il gruppo turboriduttore era composto da una turbina di AP (Alta Pressione) e una di BP (Bassa Pressione) che trasmettevano la potenza alla singola linea d’asse per mezzo di un riduttore ad ingranaggi a doppia riduzione. La turbina per la marcia AD (Indietro) era incorporata nella turbina di BP ed era capace di fornire una potenza pari a circa il 50% di quella della marcia avanti.

Le due turbine era poste a proravia del riduttore e collegate ad esso tramite un giunto elastico a denti. La turbina di AP era di tipo misto, ad azione e reazione , con una ruota ad azione parzializzata e un tamburo a reazione composto da 24 coppie aventi un diametro variabile da 368 a 540 mm.

La turbina di BP era del tipo a reazione a doppio flusso, costituita per la marcia avanti da un tamburo palettato con 16 coppie per parte, aventi un diametro variabile da 760 a 110 mm, e per la marcia addietro da due ruote tipo Curtis del diametro di 1000 mm. I rotori delle due turbine era realizzate in acciaio fucinato ad elevato limite d’elasticità mentre ugelli e palettature fisse erano realizzate in acciaio inossidabile.

Le casse delle turbine erano realizzati in acciaio fuso per quella di AP e per la turbina della marcia AD, mentre quella di BP era realizzata tramite una struttura mista di acciaio fuso e di lamiera saldata. Il sistema era dotato di opportuni collegamenti tra le turbine tali che in caso di emergenza fosse possibile l’utilizzo di una sola turbina. Gli spillamenti del vapore erano tre:

- Dalla turbina di BP per il funzionamento del generatore.

- Dallo scarico della turbina di BP per il supplemento alla tubolatura di scarico vapore dei macchinari rotativi.

- Dalla turbina di BP per l’alimento del primo stadio del riscaldatore d’alimento e per l’impianto evaporatore.

Gruppo Turboriduttore Ansaldo al banco (tratto da Macchine Marine Vol.III op. cit. bibl)

Il complesso dei ruotismi era composto da due pignoni di prima riduzione a dentatura bielicoidale collegati a mezzo di prolungamenti ai pignoni mediante accoppiatoi, due ruote di prima riduzione ingranavano sui detti pignoni e una ruota lenta su cui agivano due pignoni di seconda riduzione facenti parte degli alberi delle ruote di prima riduzione. Per la trasmissione del moto alla singola elica quadripala era inoltre installato a bordo un cuscinetto reggispinta, a poppavia del riduttore, del tipo a doppia serie di pattini oscillanti.

Come già detto tale apparato consentiva di disporre, a pieno carico, di una potenza normale di 14.500 cavalli asse a 114 giri al minuto dell’elica per una velocità di 16 nodi circa, l’elica era di tipo quadripala ed il consumo normale giornaliero di combustibile ammontava a circa 85 tonnellate[1].

Lo scarico del vapore, dopo il passaggio in turbina, avviene il un condensatore di tipo rigenerativo

 


[1] Costigliola T. La Flotta che visse due volte (op. cit. bibl.) pag. 485.

Nella pagina seguente: il gruppo turboriduttore della T/c Adriana Augusta, a destra sullo sfondo è visibile il pannello di controllo della motrice con i due volanti d’immissione del vapore alla turbina. (fonte:www.naviearmatori.net)

Passiamo ora ad illustrare brevemente le peculiarità dell’apparato motore dell’unica motocisterna di questa serie: il Sicilmotor; essendo la Sicilnaviglio, armatrice della nave, facente parte dell’Italnavi ed essndo entrambe di proprietà Fiat, era più che logico che la medesima azienda torinese provvedesse alla fornitura degli apparati motori delle navi della flotta.

Il Sicilmotor occupa di buon diritto un posto d’onore nella tecnica della motoristica navale nazionale del secondo dopoguerra in quanto fu uno dei primi esempi di applicazione di un motore Diesel a semplice effetto, con un potenza superiore ai 10.000 cv/asse ottenuta su un singolo asse di propulsione, questo motore denominato 7512 S fu davvero un brillante esempio di motore diesel a due tempi sovralimentato, tale che la Fiat Grandi Motori che ne curò progetto e costruzione ricevette il premio ANIAI 1959 quale migliore realizzazione di ingegneria meccanica.

Il 7512 S era un motore diesel a 2 tempi, a semplice effetto e sovralimentato, dotato di 12 cilindri del diametro di 750 mm e dalla corsa di 1320 mm, funzionante con nafta da caldaie. Al regime di 132 giri/min la potenza risultava di 14.400 cv. La sovralimentazione era fornita da tre turbosoffianti  tipo “Brown Boveri”, costruiti dalla Fiat su licenza, che realizzavano il primo stadio di compressione dell’aria, il secondo stadio avveniva nelle 12 pompe d’aria a stantuffo affiancate ognuna ai rispettivi cilindri. A pieno carico ad un numero di giri variabile dai 110 ai 130 giri/min la potenza all’asse variava da 9.200 a 14.000 cv/asse, le relative velocità da 14,6 a 16,7 nodi e le temperature dei gas di scarico da circa 260 a circa 340° C. Il consumo orario di nafta variava da 1400 a circa 2350 kg/h ed aumenta di 200 kg/h includendo il consumo degli apparati ausiliari.

Alla velocità di 16 nodi, il consumo giornaliero di nafta era nell’ordine di 50 t/24h, inclusi i consumi degli ausiliari, con un consumo orario specifico di 173 g/cv asse, mentre le turbocisterne della medesima serie avevano un consumo giornaliero nell’ordine di 80 - 85 t/24h.

Una spiegazione più dettagliata sarà fornita nel capitolo dedicato alla singola nave.


Il motore diesel Fiat 7512 S destinato al Sicilmotor, fotografato in officina di montaggio (fonte: Bollettino Tecnico Fiat)

Piano testate del FIAT 7512 S (fonte: Bollettino Tecnico Fiat)

Schema dell’Apparato Motore

della

M/c Sicilmotor

Tratto da: Caocci O., Macchine Marine – Vol. IV: I Motori a Combustione Interna (Op. cit. bibl) fig. 438 - 439


Le unità di questa serie avevano un’equipaggio che ammontava ad una cinquantina di  elementi, la già citata Italia Martelli Fassio, secondo i documenti del cantiere, aveva un’equipaggio cosi suddiviso: 15 Ufficiali, 10 Sottufficiali e 26 uomini della Bassa Forza, per un totale di 51 elementi, compreso il pilota (se imbarcato), lo standard degli alloggi a bordo era elevato per le costruzioni navali dell’epoca, basti pensare che cabine, mense ed aree comuni erano dotate di aria condizionata. Inoltre la turbocisterna Adriana Fassio fu la prima nave mercantile Italiana a disporre di alloggi singoli per ognuno dei membri del suo equipaggio, un segnale importante del cambiamento in atto nello stile di vita dei marittimi imbarcati che potevano ora disporre a bordo di maggiori comodità e comfort atti ad alleviare la monotonia dei lunghi imbarchi in special modo a bordo delle petroliere. Tra gli altri comfort presenti a bordo vanno ricordati una biblioteca ed il cinematografo.


La sala equipaggio della turbocisterna Adriana Fassio in cui si può notare l'elevato standard degli allestimenti interni di queste unità.

(fonte: Vocino M., La nave nel tempo, op. cit. bibl.)

Vista dell'elegante Sala da pranzo Ufficiali del Ginevra Fassio.

(fonte: Vocino M., La nave nel tempo, op. cit. bibl.)

Di seguito viene fornita per sommi capi una descrizione generale di queste navi; costruite mediante il sistema a due paratie longitudinali gemelle e del tipo a singolo ponte con copertini inferiori e con castello, tuga centrale su più livelli e cassero poppiero con ulteriori tughe sullo stesso. Il ponte di comando era posto sulla tuga di centro nave mentre l’apparato motore, come anche il fumaiolo di forma elegante ed aerodinamica , era posto a poppa in corrispondenza del cassero di poppa, la propulsione era affidata ad una singola elica quadripala.

Lo scafo aveva una prora inclinata in avanti con bulbo nella parte immersa e poppa del tipo “a incrociatore”; il ponte di coperta non aveva insellatura per tutta la lunghezza della nave mentre il castello presentava un’insellatura pronunciata, il ponte di coperta e quelli delle sovrastruttura avevano un bolzone di 520 mm mentre i copertini non lo avevano.

Il camminamento da prora a poppa era facilitato, specialmente in condizioni di mare agitato, dalla presenza di una passerella metallica, soprelevata rispetto al ponte di coperta, che univa il castello alla tuga di centronave e quest’ultima al cassero poppiero.

Nel locale dell’apparato motore, per quasi tutta l’estensione dello stesso, era presente un doppio fondo cellulare atto a contenere acqua dolce ed olio per i servizi di macchina e di scafo.

Le dotazioni per la movimentazione del carico prevedevano due coppie di bighi (l’Adriana Augusta ne imbarcava una ulteriore coppia per un totale di sei) e quattro turbopompe da 1000 mc/ora per la caricazione e la discarica, mentre il Sicilmotor aveva due elettropompe e due motopompe, ognuna di esse capace di una portata di 1.200 mc/ora.

Per sostenere l’antenna del radar e per le segnalazioni a bandiere era installato in controplancia un’alberetto metallico di forma aerodinamica.

Ingrandimento in cui viene mostrato l'alberetto della M/c "Sicilmotor", armata dalla Italnavi di Genova. (tratto da: Bollettino tecnico fiat A. 11 – N° 4, op. cit. bibl.)

Gli spazi compresi sotto il ponte di coperta erano suddivisi per mezzo di paratie stagne trasversali nei seguenti compartimenti, di seguito elencati, a partire da prora:

-      Gavone di prora con soprastanti depositi del nostromo e pozzo delle catene.

-      Cisterne prodiere, di sinistra e dritta, per acqua di zavorra.

-      Cisterne prodiere, di sinistra e dritta, per olio combustibile ed eventualmente acqua di zavorra, nello stesso locale era sito il locale pompe prodiero con il relativo cofano.

-      Intercapedine prodiera.

-      Gruppo delle cisterne del carico, che era costituito da dieci cisterne centrali e venti cisterne laterali.

-      Intercapedine poppiera.

-      Cisterne alte poppiere per olio combustibile, nelle stesse era ricavato il locale pompe poppiero con relativo cofano.

-      Locale Caldaie ed Ausiliari.

-      Locale turboriduttore, turboalternatori ed ausiliari.

-      Gavone di poppa, con soprastante locale della macchina del timone, e casse d’acqua d’alimento.

I locali al disopra del ponte di coperta erano disposti nel castello, nella tuga di mezzanave e nel cassero poppiero erano disposti nel seguente ordine da prora a poppa:

-      Nel castello di prora: lo spazio per il carico asciutto, il deposito del nostromo, la fanaleria (proiettore Suez) e la cala delle vernici. Adiacente alla paratia del castello si trovava la tuga del locale pompe di prora.

-      Nella tuga di mezzanave sul ponte di coperta:depositi di vario genere, il laboratorio del carpentiere, il locale igiene per il personale di terra, la cassa d’acqua potabile, la cassa di raccolta degli scarichi e lo spazio per lo stivaggio delle manichette.

-      Al secondo livello della tuga di mezzanave: gli alloggi per i quattro Ufficiali di coperta con relativo locale igienico; i locali medici comprendenti ambulatorio, infermeria cabina d’isolamento, il locale di disinfezione e locali igienici attigui; la segreteria di coperta , due depositi ed il locale condizionatori d’aria.

-      Al terzo livello della tuga di mezzanave: gli appartamenti del comandante e dell’armatore composti entrambi da salotto, cabina e locale igienico; il salone con riposteria attigua, le cabine del pilota, del cameriere ed un’altra ad uso di un’ufficiale di coperta, due depositi.

-      Nella tuga di navigazione: plancia, sala nautica, stazione R.T., cabina del marconista , locale radar, locale girobussola e locale delle batterie di accumulatori.

-      Sul cassero di poppa: le cabine e i locali igienici dei sottufficiali e della bassa forza, due depositi per le cerate, lavatoio per la bassa forza, il locale dei macchinari frigoriferi, cabina ristoro, cambusa, le celle frigorifere per la conservazione dei cibi, la stazione CO2 e due depositi.

-      Adiacente alla paratia del cassero di poppa era sita la tuga del locale pompe di poppa.

-      Nella tuga del cassero di poppa: l’alloggio del direttore di macchina con salotto, cabina e locale igienico; gli alloggi degli ufficiali di macchina con i relativi locali igienici, le mense dei sottufficiali e bassa forza, la segreteria di macchina, la sala soggiorno per l’equipaggio, la cucine ed un deposito.

-      Sul ponte delle imbarcazioni poppiero: la mensa ufficiali con annesso riiposto e la relativa sala soggiorno ed i cofano di macchina e delle caldaie.

Interno di una cisterna della T/c Adriana Fassio,  fotografata durante la costruzione della nave presso i Cantiere Ansaldo di Livorno.

(fonte:www.fondazioneansaldo.it)

L’allestimento interno di una 31.500 nelle foto dell’Adriana Augusta

Le immagine seguenti sono tratte da sito www.naviearmatori.net

Centrale di controllo del carico

Mensa Ufficiali

Sala Nautica

Sala Radio

Le dotazioni di salvataggio erano composte da quattro lance, di cui due a remi e due dotate di motore monocilindrico Buck, poste a centro nave e due sul ponte imbarcazioni del cassero poppiero, oltre che da dotazioni individuali quali, ad esempio,  salvagenti ed anulari, mentre per le esigenze di servizio e di trasbordo, da e verso la nave, vi era una motobarca da 5,50 m.

Per concludere questa breve descrizione generale di questa serie di turbocisterne, è opportuno soffermarsi brevemente su uno degli elementi distintivi della loro linea ovvero il basso fumaiolo, di forma aerodinamica e slanciata che contribuiva alla generale eleganza di queste costruzioni.

Durante i primi viaggi delle prime unità della serie venne evidenziata l’incapacità del fumaiolo, nella sua forma originaria, nel convogliare adeguatamente i fumi della combustione lontano dalla nave facendo si che le zone aperte verso poppa fossero quasi impraticabili. Gli uffici tecnici dei vari armatori ovviarono al problema installando un canotto di prolunga sulla sommità del fumaiolo.[1]

 


[1] Massone V., Una Vita sul Mare (op. cit. bibl), pag.87

In entrambe le immmagini è raffigurato il fumaiolo della turbocisterna Argea Prima nelle sue diverse versioni, a sinistra la versione originale di cantiere e, a destra, si nota l'aggiunta del canotto di prolunga per risolvere il problema dei fumi.

[1] Massone V., Una Vita sul Mare (op. cit. bibl), pag.87

In questo ingrandimento, la turbocisterna sovietica Dzhuzeppe Garibaldi mostra la nuova forma del fumaiolo, tipico delle più recenti “31.500“. (fonte:www.naviearmatri.net)

Sulle costruzioni più recenti della serie, il problema della ricaduta dei fumi venne ovviato direttamente in cantiere durante l’allestimento delle unità mediante l’adozione di un nuovo fumaiolo di forma leggermente troncoconica e di altezza maggiore, in alcune di queste nuove realizzazione era altresì posto un canotto di prolunga e nel caso della “Picci Fassio” vi era anche un piccolo alettone che si protendeva verso poppa per massimizzare l’efficienza nella dispersione dei fumi.

In questo ingrandimento, la turbocisterna sovietica Dzhuzeppe Garibaldi mostra la nuova forma del fumaiolo, tipico delle più recenti “31.500“.

(fonte:www.naviearmatri.net)

Il fumaiolo della turbocisterna Picci Fassio, ove si può ben vedere il piccolo alettone alla sua sommità (fonte:www.naviearmatori.net)

CANTIERI E COMMESSE

Siccome il progetto di massima di queste turbocisterne fu realizzato dell’Ufficio Tecnico dell’Ansaldo, lo stesso cantiere genovese operò come capo commessa, compresi i cantieri del Muggiano e di Livorno sempre di proprietà dell’Ansaldo, per un totale di 22 unità, mentre i cantieri di Trieste e Monfalcone del gruppo C.R.D.A. ebbero la commessa di una nave ognuno.

Nella seguente tabella viene riportata l’esatta ripartizione delle commesse tra i vari cantieri.

Cantiere

Numero di Unità Commissionate

Ansaldo – Stabilimento di Genova Sestri

14

Ansaldo – Stabilimento del Muggiano

5

Ansaldo – Stabilimento di Livorno

3

CRDA – Cantiere Navale di Monfalcone

1

CRDA – San Marco di Trieste

1

E’ opportuno prima di continuare spendere qualche parola su questi cantieri, limitandoci all’immediato secondo dopoguerra quando videro la luce le “31.500”, in modo da rendere giustizia a queste grandi imprese che rappresentarono la punta di un settore industriale che il mondo invidiava all’Italia e di cui oggi, per scelte politiche e/o aziendali sbagliate, ne rimane una troppo piccola parte.

· Stabilimento Ansaldo di Genova Sestri

Duramente provato dai danni del conflitto, il cantiere Ansaldo di Genova Sestri seppe, in breve tempo, tornare a ricoprire un ruolo di primaria importanza nel settore cantieristico nazionale dando molta importanza alla produzione di elementi prefabbricati a terra. Dagli scali di questo antico cantiere scesero in mare alcune delle più famose realizzazioni navali italiane tra le quali si possono leggere i nomi di Rex, Littorio, Duilio, Bolzano, Roma, Augustus, AndreaDoria, Cristoforo Colombo, Gripsholm ed innumerevoli altre sia per armatori nazionali che stranieri. Tra le maggiori costruzioni mercantili dell’immediato secondo dopoguerra, oltre le 15 navi cisterna da 31.500 tpl., si possono ricordare le sette motonavi da carico secco costruite per la “Villain & Fassio” (Serie “Angela Fassio” e “Gimmi Fassio”), la turbocisterna Agrigentum da 52.000 tpl. E le già citate turbonavi passeggeri Andrea Doria e Cristoforo Colombo per la Società Italia.

Aveva, nel 1958, un’estensione di 240.000 mq di cui 80.000 mq di fabbricati coperti, quali uffici, officine e magazzini, e 160.000 mq di aree scoperte. Capace di una potenzialità annua di 45.000 tonn. di materiale da scafo e 16.000 tonn. di materiale d’allestimento e apparati motore, potendo costruire navi mercantili di qualunque tipo fino a 65.000 tpl.

Antistante al cantiere vi era uno specchio acqueo riservato e delimitato da dighe, per un’area complessiva di 250.000 mq, suddiviso in due distinti bacini: quello a levante servente le officine di allestimento e quello di ponente destinato all’effettuazione dei vari in condizioni di calma e sicurezza.  Il cantiere disponeva di due scali fissi in muratura da 250 m di lunghezza utile e tre volanti con taccate mobili da 200 m di lunghezza utile.


Pianta del Cantiere Ansaldo di Genova Sestri (tratto da "Ansaldo Navi" op. cit. bibl)

L’area degli scali e quella del piazzale di prefabbricazione erano servite da un impianto di sollevamento costituito da 33 teleferiche correnti su funi tesate lungo una travata che poggia su quattro piloni a monte ed altri quattro a mare.

La banchina di allestimento, della superficie di 16.000 mq, veniva utilizzata per lo stoccaggio od il montaggio delle strutture prefabbricate o dei materiali in attesa di imbarco, era servita da gru mobili su rotaie, di cunicoli per il passaggio di tubature ed era connessa alla rete ferroviaria mediante tre binari tronchi.

Vista del Cantiere Ansaldo di Genova Sestri durante il varo della turbocisterna Agrigentum da 52.000 tpl.

· STABILIMENTO ANSALDO DEL MUGGIANO

Gravemente toccato dagli eventi bellici, come del resto l’intero golfo della Spezia, questo moderno cantiere seppe in breve tempo dotarsi di infrastrutture e macchinari d’avanguardia tali da essere uno dei pionieri della moderna tecnica della prefabbricazione in campo navale. Il cantiere prima del conflitto costruì numerose unità militari tra cui l’incrociatore leggero Duca degli Abruzzi e numerosi sommergibili e naviglio sottile. Tra le maggiori costruzioni navali del dopoguerra prodotte da questo stabilimento si possono ricordare una serie di dodici rimorchiatori d’alto mare per l’Unione Sovietica, la motonave Europa del Lloyd Triestino, il rimorchiatore fluviale Riode La Plata per l’Argentina e soprattutto la fortunata serie delle motonavi da carico della serie “Capitani d’Industria” per Bibolini a cui seguirono i tipi similari migliorati della serie “Laminatore” per la Ilva – Sidermar. Attrezzato per la costruzione di unità mercantili fino a 45.000 tpl, con un potenzialità annua di 20.000 tonn di materiale da scafo e 7.000 tonn di materiale d’allestimento e di apparati motore. Il cantiere si estendeva su una superficie complessiva pari a 185.000 mq di cui 50.000 mq di fabbricati e 135.000 mq di aree esterne per le lavorazioni. Gli scali principali del cantiere adiacenti al piazzale di prefabbricazione erano in cemento armato, della lunghezza utile di 185 m, ed erano serviti da otto gru scorrevoli di cui 4 da 35 t e quattro da 5 t; in aggiunta agli scali principali, il cantiere era dotata nella parte orientale dello stabilimento di ulteriori quattro scali, della lunghezza utile di 190 m, usati come ausilio ai primi o per costruzioni minori e serviti da cinque gru a colonna da 5 t.

L’area attigua alla darsena d’allestimento raggiungeva la superficie di 19.000 mq e veniva usata come deposito o per il montaggio degli elementi a bordo, che avveniva sull’attigua banchina che si sviluppava per 650 m ed servita da gru scorrevoli ed altri servizi.

Pianta del cantiere Ansaldo del Muggiano (Tratto da "Ansaldo Navi" op. cit. bibl.)


La motonave Oscar Sinigaglia della serie “Capitani d’Industria” costruita per la compagnia "Carboflotta" (Bibolini) di Genova, pronto al varo da uno degli scali del cantiere del Muggiano (fonte:www.naviearmatori.net)

STABILIMENTO ANSALDO DI LIVORNO

Il cantiere navale di Livorno era capace di costruire qualunque tipo di nave mercantile fino a 85.000 tpl, con una potenzialità annua di 15.000 tonn di materiale da scafo e 7.000 tonn tra materiale d’allestimento e apparati motore. Tra le principali costruzioni navali del cantiere possiamo citare l’esploratore sovietico Tashkent e nel secondo dopoguerra numerose navi militari minori per la Marina Militare e per marina estere, la motonave Enotria dell’Adriatica, oltre che a navi passeggeri per la Grecia e la Turchia. La superficie occupata dal cantiere era di 235.000 mq totali ripartiti in 65.000 mq di fabbricati e 170.000 mq di aree aperte. Nella zona nord-est del cantiere vi era una darsena per l’allestimento delle nuove costruzioni per un’area di 40.000 mq.

Un’altra banchina d’allestimento era situata all’interno del porto Mediceo collegato all’attigua darsena d’allestimento da un canale con ponte girevole. Il cantiere disponeva di quattro scali in cemento armato di lunghezza utile fino a 265 m, uno rivolto ad occidente verso il mare aperte ed i rimanenti tre verso la darsena interna del porto mediceo, questi ultimi erano del tipo a fossa con porta stagna e uno di essi era del tipo a rotaie con carrello centrale. I mezzi di sollevamento a disposizione degli scali comprendevano due gru scorrevoli da 60 t, due da 35 t, una da 25 t più altre di minore portata. Le aree delle banchine d’allestimento della darsena e del molo mediceo si estendevano su una superficie di 13.000 mq, le banchine avevano una lunghezza totale di 400 m rispettivamente di 190 m sulla darsena e di 210 sul molo mediceo, entrambe le banchine sono servite da gru scorrevoli, da 5 t per quelle sulla darsena e da 30 t quelle del molo mediceo.

Pianta del cantiere Ansaldo di Livorno

(tratto da "Ansaldo Navi" op. cit. bibl.)

· IL CANTIERE C.R.D.A DI MONFALCONE

Come praticamente tutti i cantieri nazionali, anche lo stabilimento isontino sito nel Golfo di Panzano subì devastanti danneggiamenti in seguito al conflitto ma, grazie alla competenza professionale ed allo spessore umano di dirigenti quali Nicolò Costanzi ed Egone Missio, seppe velocemente riprendersi fino a raggiungere un ruolo di primissimo piano nel novero della cantieristica giuliana prima e nazionale poi.

Nell’immediato secondo dopoguerra da questi scali scesero i primi transatlantici fatti costruire in Italia dalla fine della guerra ovvero le motonavi Giulio Cesare per la Soc. Italia e Africa per il Lloyd Triestino, ed innumerevole altro naviglio quale le turbonavi merci Pia Costa e Maria Costa per la Costa Armatori di Genova unitamente a molte altre unità sia mercantili che militari, diventando un centro di rilievo specialmente nella costruzione di navi cisterna. Nel medesimo periodo nel suddetto cantiere si verificarono due eventi molto significativi, quasi un passaggio di consegne, per la Marina Mercantile quali la demolizione di ciò che rimaneva del Conte di Savoia e la ricostruzione del Conte Biancamano.

Nel 1958 l’area del cantiere si estendeva per 673.200, comprendendo anche le strutture ricettive ad uso dei dipendenti; gli scali di costruzione erano dieci, tutti in muratura, di cui uno di 218 m, tre di 215 m, tre di 160 m ed uno di 120 m. Lo scalo principale era servito da gru della capacità di 50 t, cinque scali era serviti da dodici gru fisse e mobili da 20 t ed i restanti quattro da un sistema a teleferica “Bleichert” da 4 t.

Le banchine d’allestimento avevano uno sviluppo lineare di più di un chilometro ed erano dotate di tredici gru fisse e semoventi, una delle quali era capace di sollevare fino a 90 t, per l’imbarco di materiali a bordo delle costruzioni in allestimento, il cantiere disponeva inoltre di un piccolo bacino galleggiante e di un raccordo alla rete ferroviaria che lo collegava alla stazione di Ronchi dei Legionari Sud.

Due istantanee raffiguranti il varo della m/c Taormina costruita a Monfalcone per l’armatore Cameli di Genova, originariamente pensata come nave fattoria venne modifica in petroliera in corso d’opera.

(fonte per entrambe le immagini:www.naviearmatori.net)

Pianta del cantiere navale di Monfalcone del 1958. (tratto da "Storia del cantiere navale di Monfalcone" op. cit. bibl.)

IL CANTIERE C.R.D.A SAN MARCO DI TRIESTE

La situazione nell’immediato dopoguerra del grande stabilimento Triestino fu più complessa in quanto ai problemi insiti nel processo di ricostruzione bisognava aggiungere la travagliata situazione della città di Trieste posta sotto il controllo militare alleato, unitamente al Territorio Libero Triestino, e la situazione diplomatica molto tesa con la Jugoslavia di Tito.

Non si può parlare adeguatamente di questo cantiere senza citare alcune delle costruzioni navali varate dai suoi scali tra le due guerre, nomi scolpiti a caratteri dorati in un ipotetico albo d’oro delle costruzioni navali mondiali, quali la M/n Victoria per il Lloyd Triestino, Il Conte di Savoia per ltalia Flotte Riunite e molte costruzioni militari quali, a mo di esempi, l’incrociatore leggero Giuseppe Garibaldi e le navi da battaglia Vittorio Veneto e Roma.

Tra alti e bassi comunque il cantiere seppe risollevarsi dalla grave situazione in cui versava alla fine del conflitto ed a metà degli anni 50’ si estendeva su di una superficie di 195.400 mc e disponeva di tre scali lunghi rispettivamente 160, 200 e 280 m, serviti da tredici gru semoventi a torre con bracci mobili capaci di 25 t. Per l’allestimento delle unità si poteva contare su circa 565 m di banchine servite da gru, era inoltre collegato alla rete ferroviaria da un tratto di 2500 m circa di binari.


Cantiere San Marco, Varo della M/n Victoria (II) per il Lloyd Triestino.

(fonte:www.naviearmatori.net)

INTRODUZIONE ALLA RASSEGNA DELLE UNITA'

Finita questa breve rassegna dei cantieri che furono i costruttori delle petroliere da 31.500 tpl, prima di cominciare la rassegna della unità è opportuno fare qualche precisazione.

Innanzitutto è opportuno precisare che le tonnellate di portata lorda possono variare, in eccesso oppure in difetto, di qualche centinaio di tonnellate dal valore “medio” di 31.500 tpl.

I dati per le navi costruite entro il 1960 sono presi, principalmente dall’annata 1959/60 del “Lloyd’s Register of Shipping”(op. cit. bibl.), per quelle successive generalmente viene usata come fonte primaria “L’Almanacco Marittimo Italiano 1963”(op. cit. bibl.).

Per quanto riguarda le varie date inerenti la “vita” delle singole navi verranno inserite solo quelle conosciute, è quindi possibile trovare qualche data mancante per qualche unità e di ciò l’Autore si scusa.

Come è ben risaputo, una nave mercantile quale è una nave cisterna non ha una vita “movimentata”, più tipica magari delle navi militari per una serie di ragioni direttamente legati al tipo e all’uso di questa tipologia di naviglio, le unità mercantili siano esse navi passeggeri in servizio di linea o all’estremo opposto carrette del mare svolgono un servizio silenzioso ed incessante che poco si presta ad eventi eclatanti tranne che, purtroppo nella maggioranza degli eventi, in casi drammatici. Per questi motivi descrivere la storia di una nave mercantile non è cosa facile, specie se non si dispone di testimonianze di marittimi imbarcati o comunque testimonianze in presa diretta, ad ogni modo in questo lavoro si cercherà di mettere il massimo impegno nel descrivere la “vita” delle unità che ci si accinge a trattare.

Come già ribadito verrà dato conto di eventi particolari, se conosciuti, occorsi alle varie unità in oggetto oltre a fornire un breve cenno, limitatamente al ramo cisterniero se non per inevitabili richiami ad altro tipo di naviglio, sulle varie compagnie armatoriali, se non altro per quelle maggiori.


Silhoutte di una "31.500" tpl. (fonte:www.mucamonfalcone.it)

LE TURBOCISTERNE DELLA VILLAIN & FASSIO

La  “Villain e Fassio," Società anonima italiana di navigazione mercantile” venne fondata il 24 Luglio 1929, da Ernesto Fassio, a Genova in Via Garibaldi 2 con un capitale sociale di 3.000.000 di Lire e attiva principalmente nel trasporto petrolifero. In concomitanza alla prima venne fondata anche la “Villain e Fassio, Società anonima di navigazione”, con  4.000.000 di Lire di capitale sociale, che aveva in gestione la nave passeggeri Franca Fassio, impiegata sulla linea sovvenzionata a cadenza settimanale Genova – Barcellona.

La flotta cisterniera della società prima del conflitto arrivò ad una consistenza di 24.000 t affrontò una delicata fase iniziale dovuta alla grave depressione imperante all’epoca ma comunque perseverò nel suo operato incoraggiata dall’incremento del mercato petrolifero nazionale e dei traffici che di conseguenza si rendevano necessari per il suo sostentamento, non disponendo all’epoca, l’Italia, di giacimenti petroliferi nazionali, che vennero scoperte nel secondo dopoguerra (uno dei più noti fu quello di Cortemaggiore nel piacentino), a riprova della bontà di questa scelta, la richiesta d’importazione di prodotti petroliferi continuò a crescere dalle 461.000 t importate nel 1926 fino ai circa 4 milioni di tonnellate (di cui 1,5 – 2 milioni erano usati per bunkeraggio) alla vigilia del conflitto così come la consistenza della flotta petroliera nazionale che passò da 101.000 t nel 1924 a 400.000 t nel 1939, pari al 12% del tonnellaggio nazionale complessivo.

Il conflitto rappresentò una tragedia per le fortune della compagnia Genovese che si vide provata di tutte le sue navi per eventi bellici, tre vennero affondate per azione nemica (Alberto Fassio, Franca Fassio e Picci Fassio) e due requisite dagli alleati in seguito al loro internamento in Messico (Giorgio Fassio) e Venezuela (Jole Fassio). Alla fine del conflitto, Fassio cominciò un’incessante opera di ricostruzione della sua flotta, il cui ramo cisterniero rinacque  nel 1950 con la fondazione, a Genova in Via Balbi 2, della “Compagnia Internazionale di Genova per il Commercio, Industria e Navigazione” anche conosciuta come “Cia Marittima Effe S.p.A.), dedicata alla gestione delle petroliere della Compagnia, la quale riuscì ad ottenere tre TE-2 dagli Stati Uniti (Alberto Fassio, Federico G. Fassio e Franca Fassio) con cui riprendere il trasporto di prodotti petroliferi.

L’ampliamento della flotta cisterniera Fassio proseguì con l’acquisto, tra il 1952-53, di tre motocisterne da 17.000 tpl costruite in Germania (Ferdinando Fassio, Giovanni Fassio ed Itala Fassio), che rappresentarono le prime navi petroliere fatte costruire ex novo dalla compagnia e non acquistate di seconda mano.

La Turbocisterna "Ernesto Fassio Jr." al passaggio del Canale di Suez (fonte:www.naviearmatori.net)

Successivamente la flotta sociale venne ampliata con l’acquisto di due nuove turbocisterne da 19.000 tpl (Ernesto Fassio Jr. e Giorgio Fassio) costruite dai CNR di Ancona nel 1954.

E, finalmente, nel 1957 venne intrapresa la costruzione della prima delle cinque “31.500” per quella che era una delle maggiori compagnie marittime dell’Armamento Libero Italiano, nello stesso anno vi fu un riassetto societario che vide la “Villain e Fassio” (gestore delle navi da carico e bananiere) fondersi con la “Compagnia Internazionale di Genova” formando la “Villain e Fassio – Compagnia Internazionale di Genova” con un capitale sociale di 450.000.000 di Lire.

Le altre quattro “31.500” vennero costruite tra il 1959 ed il 1961, rispettivamente 2 nel 1959, una nel 1960 e l’ultima nel 1961. L’entrata in servizio di queste cinque turbonavi coincise con un fortunato periodo caratterizzato da un noleggio quinquennale di tutte le petroliere di Fassio da parte della “Shell” a condizioni vantaggiosissime per la compagnia genovese.

Nel suo periodo di massimo fulgore la società assurse ad una posizione di primissimo piano nella gerarchia degli armatori italiani, con una flotta che nel 1962 assommava a 21 navi per un totale di oltre 369 mila tonnellate di stazza lorda. Dalla seconda metà degli anni 60’, incominciò un periodo di grave crisi per via della contrazione del prezzo dei noli, la società genovese si vide costretta a disarmare e/o vendere gran parte delle sue navi, la già grave situazione venne ulteriormente aggravata dalla morte improvvisa di Ernesto Fassio nel Luglio 1968. Tra alterne vicende la società, oramai un lontano ricordo di quella dei tempi d’oro, continuò l’attività fino al 1978 quando venne avviata la procedura di fallimento, ponendo fine a quella fu una delle più grandi compagnie marittime genovesi e nazionali del secondo dopoguerra.

Nella Pagina Seguente: La M/c Ferdinando Fassio (fonte:www.naviearmatori.net)

Bandiera sociale della Villain & Fassio

Al 1963 la società aveva i seguenti riferimenti societari:

Villain & Fassio – Compagnia Internazionale di Genova –

Società Riunite di Navigazione,

Genova, Via De Amicis 2,  Telefono 590.441,  Telegrafo “Villanto


Il Cav. Ernesto Fassio fotografato al termine del varo della bananiera Marzia Tomellini Fassio, Riva Trigoso, 15 Giugno 1957.

La turbocisterna Italia Martelli Fassio alla fonda (fonte:www.naviearmatori.net)

 

Anno di Costruzione

Cantiere di Costruz.

N° di Costruz.

Armat.

 

1957

Ansaldo -      Genova Sestri

1521

Villain & Fassio – Compagnia Internazionale di Genova

 

Stazza Lorda (t)

Stazza Netta

(t)

Portata Lorda (t)

Nominativo Internazionale

20.762

12.180

31.395

IBIC

 

Prima nave delle cinque “31.500” che comporranno la spina dorsale della flotta cisterniera della “Villain & Fassio” nel periodo di massimo splendore del gruppo genovese. All’atto della sua consegna, il fumaiolo venne dipinto con i colori della “Cia Marittima Effe S.p.A., essendo stata consegnata prima del riassetto societario avvenuto successivamente nello stesso anno.

Lo scafo della costruzione 1251 prende forma su uno degli scali del cantiere Ansaldo di Genova Sestri (Fonte:www.fondazioneansaldo.it)

La nave venne varata il 18 Novembre 1956 e consegnata all’Armatore nel Luglio dell’anno successivo venendo immediatamente impiegata per viaggi a noleggio per la “Shell”.

Nel 1969, dopo dodici anni al servizio della “Villain & Fassio”, in un periodo di grave crisi societaria segnato ad un profondo ridimensionamento della flotta sociale, l’Italia Martelli Fassio venne venduta alla società “Victoria Tpt Corp.” di Monrovia (Liberia) e registrata nel medesimo porto con il nome di Minos, navigò sotto bandiera liberiana per altri otto anni, fino all’Agosto del 1977, quando venne disarmata e venduta per demolizione al cantiere di demolizione “Desguaces Cataluna” di Barcellona.

Riepilogo dei cambi di Nome / Armatore

Nome della Nave

Armatore

Periodo di Proprietà

Italia Martelli Fassio

Cia Marittima Effe S.p.A. – Genova

1957

Italia Martelli Fassio

Villain & Fassio – Compagnia Internazionale di Genova - Genova

1957 - 1969

Minos

Victoria Tpt Corp.

1969 - 1977

La petroliera Italia Martelli Fassio fotografata durante una manovra di ormeggio, assistita da due rimorchiatori, si noti che mostra ancora i colori della “Cia Marittima Effe”, fumaiolo arancione con banda bianca e due bande blu più sottili poste sia sopra che sotto la prima e parte superiore nera. (fonte:naviearmatori.net) Nella pagina seguente: Una bella immagine della nave nel 1957, infatti ha ancora la livrea di cui sopra al fumaiolo. (fonte:www.naviearmatori.net)

La turbocisterna Adriana Fassio in navigazione (fonte:www.naviearmatori.net)


Anno di Costruzione

Cantiere di Costruzione

N° di Costruzione

Armatore

Bandiera

1959

Ansaldo -       Livorno

1538

Villain & Fassio – Compagnia Internazionale di Genova

Italiana

Stazza Lorda (t)

Stazza Netta

(t)

Portata Lorda (t)

Nominativo Internazionale

Porto di Registro

21.064

12.454

31.405

IBTN

Genova

La seconda “31.500” per i Fassio venne impostata sullo scalo “Morosini” del cantiere Ansaldo (ex Orlando) di Livorno, il 28 Giugno 1958; nello stesso momento in cui lo scalo stesso veniva sottoposto a lavori di ampliamento, per cui i tecnici del cantiere furono costretti a puntellare i blocchi prefabbricati dello scafo metro per metro.

La nave, prima unità della “Villain & Fassio” costruita nel cantiere della città labronica, venne varata il 22 Febbraio 1959 con la complicità di una bella giornata di sole, madrina fu la Signora Jole Fassio, moglie del Cav. Ernesto Fassio. Numerosi furono gli invitati illustri tra i quali vanno ricordati: il Sottosegretario alla marina mercantile, On. Francesco Tornaturi, in rappresentanza del Ministro Jervolino, il Sindaco di Livorno, Prof. Badaloni; in rappresentanza della società armatrice erano presenti l’armatore Ernesto Fassio, il Gr. Uff. Vittorio Fassio (fratello di Ernesto e presidente della “Vitfassio – Società di Navigazione”), il Dott. Alberto Fassio ed inoltre era presente anche Mr. Drew, presidente della “Shell Tankers Ltd.”, società a cui la nave era, già dal varo, noleggiata.

Non mancavano anche rappresentanze dell’Ansaldo tra cui il Presidente Avv. Federico De Barbieri, dal direttore generale Federico Lombardi  e il Direttore del cantiere di Livorno, Ing. Mauceri.

Dopo la benedizione impartita dal Vescovo di Livorno, Mons. Pancrazio, prese la parola l’Avv. De Barbieri annunciando l’impostazione ormai prossima, sullo stesso scalo, di una nuova turbocisterna da 52.000 tpl per lo stesso armatore Fassio (che sarà l’Antonietta Fassio), con il varo dell’Adriana Fassio saliva a otto il conteggio delle navi costruite dall’Ansaldo per la “Villain & Fassio”.

Nel successivo discorso tenuto dal Cav. Fassio, dopo i ringraziamenti, sempre dovuti e graditi a quelle maestranze operose che formavano l’organico dei nostri cantieri navali, fu posto l’accento sulle difficoltà dell’industria cantieristica ed armatoriale dell’epoca. Il discorso, di grande acume e sensibilità viene di seguito riportato[1]:

“Chiunque affronti in terra o in mare iniziative che comportano enormi investimenti non solo in denaro ma anche in energie, che devono essere altrettanto, se non di più, considerata e valutate, ha diritto, Signori, di poter lavorare in tranquillità di animo e di poter contare sulla piena efficienza delle leggi in base alle quali si è fiduciosamente impegnato. Orbene, noi tutti sappiamo che questo non si è realizzato. La legge Tambroni, foggiata per costruire uno strumento organico e permanente di potenziamento delle costruzioni navali, ha conseguito, in un primo tempo, brillanti risultati ed arricchito la marina mercantile italiana di numerose modernissime unità. Ma questa legge è stata violata nel suo spirito informatore ed addirittura manomessa, quando si è preteso di far decorrere i benefici accordati ai cantieri dalla data di impostazione sullo scalo, dimenticando, e questo farà certamente sorridere quanti di Voi attendono alle costruzioni navali, che la nave medesima è in gran parte prefabbricata e che la sua vita, con le conseguenti, ingentissime esposizioni di capitali, comincia con la lavorazione a terra.

E’ facile comprendere come questa nuova ed assolutamente arbitraria interpretazione della legge rappresenti un gran danno per i cantieri e per quella parte dell’armamento che si è spinta nelle commesse ed ha voluto, con piena dignità, mantenerle,  facendo affidamento sulla parola e sugli impegni dello Stato legislatore.

 


[1] Si veda il volume “ Cantiere Flli. Orlando: 130 Anni di storia dello stabilimento e delle sue costruzioni navali” (op. cit. bibl.) alle pagg. 557-558.

Ove questa fiducia venga meno, nessuno si meravigli se assisteremo alla contrazione di queste commesse; per quanto mi concerne con il mio più vivo rammarico ho rinunciato ad ogni nuova iniziativa. Di fronte ai gravi ed evidenti errori che sono stati commessi, il nuovo Governo si decida a correggerli ed a rimediare senza indugi, con prontezza ed energia, riconducendo la legge Tambroni alla sua forma iniziale di applicazione e restituendo alle imprese marittime quello che vorrei definire “il diritto di avere fiducia” nella continuità e nella coerenza delle leggi.

E poiché a nessuna tribuna più idonea di questa, che sorge in mezzo alle concreta realtà di lavoro, potrebbe partire l’invito ad una più coraggiosa politica marittima, mi sia consentito augurare che la saggezza del nuovo Governo e il personale impulso del Ministro Jervolino, che quale relatore del bilancio della Marina Mercantile al Senato, ha data perspicue prove di una chiara visione delle nostre necessità. Valga a conseguire prontamente, nell’interesse superiore dei Cantieri e della Marina Mercantile, quelle indispensabili provvidenze che pongano l’armamento nazionale in condizioni di battersi nella competizione del marcato marittimo mondiale.

Signori, Dirigenti, Lavoratori di Livorno, rinnovo a Voi Tutti il più cordiale saluto, il più caldo ringraziamento per l’opera geniale e solerte data dalla costruzione di questa nave.”

(Ernesto Fassio)

Alla fine della cerimonia del varo che vide la nave battezzata con il nome di Adriana Fassio, conclusa con piena soddisfazione di Armatore, Maestranze ed Invitati, la nave venne rimorchiata alla banchina allestimento del molo mediceo[1] dove ebbe inizio il processo di allestimento che proseguì per i successivi cinque mesi, quando fu pronta per eseguire le prime prove in mare.

A fine Giugno del 1959 furono eseguite le prove agli ormeggi e quelle preliminari in mare, successivamente la nave venne trasferita a Genova, il 1° di Luglio, dove venne immessa in bacino per preparare la carena alle imminenti prove in mare ufficiali del 4 Luglio seguente, che dovevano essere eseguite in condizioni di mezzo carico come previsto dalla, già citata, legge Tambroni.

Il giorno delle prove erano presenti a bordo ben 233 persone, per la società armatrice erano presenti l’armatore Ernesto Fassio, insieme all’omonimo nipote e l’Ing. Martinoli dell’Ufficio Tecnico della “Villain & Fassio”, per la “Shell Tankers Ltd” erano presenti i Sigg. Griparos e Millburn, presenti inoltre i periti dei più importanti enti di classifica quali Lloyd’s Register, American Bureau of Shipping e il R.I.Na ed infine era presente in rappresentanza del cantiere costruttore l’Ing. Mauceri.

Uscita in mare alle 6:30 del mattino, effettuò il primo passaggio sulla base misurata di Portofino alle 11:41, l’ultimo passaggio venne effettuato alle 17:43. Durante le sei ore di prova, la nave confermò i già lusinghieri risultati delle prove preliminari e si allineò ai risultati conseguiti poco tempo prima dalla gemella Polinice costruita al Muggiano per Lauro, a riprova della bontà del progetto di queste petroliere. Tra l’altro i consumi risultarono minori di 25 grammi rispetto ai 220 grammi/cv ora dell’Italia Martelli Fassio.

 


[1] Si veda la breve descrizione del cantiere di Livorno alle pagg. 33 e 34.

Le prove si svolsero su quattro corse doppie, sviluppando 14.300 cv/asse corrispondenti a 17,7 nodi; due giorni dopo si svolsero le prove ufficiali a pieno carico che videro la nave superare di nuovo i 17 nodi (la velocità di contratto era fissata a 16,3 nodi) con somma soddisfazioni di tutti.

Dopo pochi giorni la nave venne consegnata alla “Villain & Fassio”, una gradita innovazione di questa nave fu, come già citato precedentemente, che poteva disporre di alloggi singoli per ciascun membro del suo equipaggio, evidenziando una volta di più l’interesse della società armatrice al benessere dei suoi marittimi, una qualità per cui al giorno d’oggi è ancora con nostalgia ricordata.

Posta immediatamente sotto contratto con la “Shell”, espletò tale compito fino al 1963 quando tornò sul normale mercato dei noli, navigò per la “Villain & Fassio” fino al 1975 quando venne trasferita alla “Compagnia Marittima Effe S.p.A.”, sempre facente parte del gruppo Fassio e creata in seguito al riassetto societario dovuto alla crisi del periodo, fino al 1978 quando venne disarmata e venduta per la demolizione, che avvenne presso i cantieri Santa Maria di La Spezia.

La poppa dell'Adriana Fassio scende in acqua dallo scalo "Morosini" del cantiere di Livorno. 

(fonte:www.naviearmatori.net)

Riepilogo dei cambi di Nome / Armatore

Nome della Nave

Armatori

Periodo di

Proprietà

Adriana Fassio

Villain & Fassio – Compagnia Internazionale di Genova - Genova

1959 -

1975

Adriana Fassio

Compagnia Marittima Effe S.p.A.

1975 -

1978

Due immagini, che riprendono rispettivamente in navigazione

e alla fonda, l'Adriana Fassio

(fonte per entrambe le immagini: www.marina-mercantile-italiana.net)


Due immagini, che riprendono rispettivamente in navigazione e alla fonda, l'Adriana Fassio.


Ginevra Fassio in navigazione

fonte:www.naviearmatori.net

Anno di Costruzione

Cantiere di Costruzione

N° di Costruzione

Armatore

 

1959

Ansaldo - Sestri Ponente

1537

Villain & Fassio – Compagnia Internazionale di Genova

Stazza Lorda (t)

Stazza Netta

(t)

Portata Lorda (t)

Nominativo Internazionale

 

20.760

12.180

31.500

ICTQ

Seconda turbocisterna della serie costruita dallo Stabilimento Ansaldo di Sestri Ponente per il gruppo armatoriale “Villain & Fassio”, viene impostata il 3 Dicembre 1957, varata il 7 Settembre 1958, madrina ne fu la Sig.ra Adriana Fassio, e consegnata alla compagnia il 9 Marzo 1959, dopo le prove di accettazione.

Il "Ginevra Fassio" in una rada, notare i due picchi di carico, posti sulla passerella centrale, armati e alati.

(fonte:www.marina-mercantile-italiana.net)

La nave restò in armamento con la “Villain & Fassio” fino al 1973 quando venne venduta alla società “Sicula Partenopea di Nav SpA” di Palermo e rinominata Ginevra, nel 1976 cambiò nome in Gin restando in armamento alla medesima compagnia. Nello stesso anno venne venduta per demolizione, avvenuta presso il cantiere della Zui Feng Steel Corp. di Kaohsiung.

Riepilogo dei cambi di Nome / Armatore

Nome della Nave

Armatore

Periodo di Proprietà

Ginevra Fassio

Villain & Fassio – Compagnia Internazionale di Genova - Genova

1959 - 1973

Ginevra

Sicula Partenopea di Nav SpA

1973 - 1976

Gin

Sicula Partenopea di Nav SpA

1976

Il Ginevra Fassio in navigazione

(fonte:www.naviearmatori.net)

La poppa del Ginevra Fassio, raffigurata all'ormeggio in banchina, in una bella foto a colori, dove tra l'altro si può apprezzare la particolare livrea del fumaiolo della "Villain & Fassio"-

(fonte:www.naviearmatori.net)

 

Il Ginevra Fassio, fotografata da sottobordo, alla fonda (fonte:www.marina-mercantile-italiana.net)

Il Maria Fassio in navigazione a forte andatura (fonte:www.naviearmatori.net)

Anno di Costruzione

Cantiere di Costruzione

N° di Costruzione

Armatore

 

1960

Ansaldo -    Muggiano

1556

Villain & Fassio – Compagnia Internazionale di Genova

Stazza Lorda (t)

Stazza Netta

(t)

Portata Lorda (t)

Nominativo Internazionale

 

20.593

12.208

31.417

ICNX

Non ci sono molte informazioni sulla vita di questa petroliera, si sa solamente che venne varata nel Maggio 1960 e completata nel Novembre successivo, navigò solamente per la compagnia originaria fino al 1977, quando venne venduta per demolizione ai “Cantieri Navali del Golfo” di La Spezia, nell’Aprile dello stesso anno.

Il Picci Fassio in manovra assistito da un rimorchiatore (fonte:www.naviearmatori.net)

 

Anno di Costruzione

Cantiere di Costruzione

N° di Costruzione

Armatore

1961

Ansaldo -    Muggiano

1557

Villain & Fassio – Compagnia Internazionale di Genova

Stazza Lorda (t)

Stazza Netta

(t)

Portata Lorda (t)

Nominativ Internazion.

20.704

12.222

31.368

ICUP

 

Varata il 27 Novembre 1960 e consegnata nel Luglio dell’anno successivo, navigo solamente per la “Villain & Fassio” fino al 1977 quando venne disarmata e demolita nell’Aprile 1977 presso il cantiere “Santa Maria” di La Spezia. Da notare la differenza nella forma del fumaiolo rispetto alle altre navi della serie, come già evidenziato nel paragrafo dedicato di pagina 28.

QUATTRO PETROLIERE PER IL "COMANDANTE" LAURO

Un soprannome, quel “Comandante” che nell’ambiente armatoriale prima e nella storia marittima poi ha assunto dei connotati quasi leggendari ma che a tutti fa venire in mente una e una sola persona: Achille Lauro, sindaco, presidente del Napoli ma soprattutto armatore.

Con eccezionale acume imprenditoriale sia prima del conflitto che dopo, seppe portare la sua azienda ad assoluti vertici tra le compagnie marittime nazionali ed internazionali, risultando ancora oggi la più grande azienda del Mezzogiorno.

Fondata nel 1920, la Flotta Lauro cominciò la sua attività acquistando navi sul mercato dell’usato, arrivando, alla vigilia del conflitto, a possedere ben 59 unità per circa 354.000 t tra nuove costruzioni e navi usate, tali da rappresentare il 12% del tonnellaggio privato italiano che ammontava a 1.956.257 tsl, è incredibile la crescita che caratterizzò questa società vista anche la recessione imperante all’epoca, una società che nel 1938 dava lavoro a circa 3000 persone tra personale amministrativo e marittimi imbarcati.

Lauro nel suo modello di business aziendale diede molta importanza alla comproprietà delle navi, da condividere con parenti, dipendenti, amici ed equipaggi, che de facto furono tra i primi caratisti della navi della Flotta.

Anche Achille Lauro, come pure Fassio di cui era amico ed estimatore, si trovo una situazione societaria disastrosa al termine del conflitto che vide la grande flotta, dal fumaiolo color “Blu Lauro” e la stella bianca a cinque punte, completamente annientata dagli eventi bellici. La ricostruzione della flotta cisterniera cui rimaneva solo la motocisterna “Fede”, varata nel 1943 e consegnata nel 1948, seguì più o meno le stesse orme di molti armatori nazionali, cioè acquisendo delle turboelettriche TE-2 sul mercato americano, a tassi agevolati grazie agli incentivi garantiti dal Piano Marshall.

La Flotta Lauro si dotò di tre TE-2 che presero i nomi di Achille Lauro, Amalfi e Verbania che consentirono alla Flotta di riprendere il trasporto del greggio che raggiunse in quel periodo quantitativi inimmaginabili, tra il 1946 e la prima metà degli anni 50’ furono impiegate sulle più disparate rotte, potendo contare su noli sempre più alti, Nello stesso periodo veniva impostato il piano di rinnovamento della flotta cisterniera Lauro, comprendente anche le “31.500”, che formavano la spina dorsale della compagnia per i trasporti petroliferi.

A partire dal 1955-56, a seguito dell’entrata in servizio nella Flotta, di petroliere sempre più moderne, le tre T2 vennero convertite al carico granario, per evitarne il disarmo, tra i porti Statunitensi e del Nord Europa fino al 1962 quando a seguito di un rialzo dei noli sul mercato petrolifero vennero riconvertite al ruolo originario fino all’anno successivo quando vennero disarmate e poi demolite.

La TE2 Achille Lauro, ex Sharpsburg (fonte:www.marina-mercantile-italiana.net)

Dopo l’acquisizione delle T2, il programma di potenziamento del settore cisterniero della compagnia proseguì con l’ordine al cantiere Ansaldo di Genova Sestri, tra il 1951 ed il 1953, di tre motocisterne da 17.000 tpl (M/c Volere) e 17.250 tpl (M/c Tenacia e Coraggio) che possono essere considerate come le prime “Supercisterne”, caratterizzate dai primi aspetti dell’embrionale innovazione tecnologica che caratterizzerà le petroliere del secondo dopoguerra, tra i quali l’ampio uso della saldatura elettrica in luogo della chiodatura, la costruzione mediante blocchi prefabbricati e l’installazione a bordo di turbopompe per il carico che andarono a sostituire quelle alternative.

La costruzione del Volere venne intrapresa dall’Ansaldo, fin dalla fase progettuale, sotto forti pressione della Flotta Lauro per avere la nave consegnata in breve tempo data la carenza di petroliere della stessa compagnia, consegnando quindi una nave che presentava difetti non indifferenti.

Tra i principali inconvenienti che si presentarono è opportuno citare:

- Notevoli problemi di discarica e di caricazione dovuta alla posizione a bordo del locale pompe, doveva essere eseguito un adeguato zavorramento sia a poppa che a prora per favorire il lavoro delle pompe, a seconda delle cisterne che andavano scaricate o viceversa.

- Si riscontrarono gravi difetti nelle saldature delle lamiere che risentivano della novità nell’applicazione di questa nuova tecnica, tali difetti portavano alle creazione di cricche sulle lamiere stesse, favorite anche dalla non eccelsa qualità dell’acciaio disponibile in Italia nell’immediato dopoguerra.

A causa di questi problemi sorse un non trascurabile contenzioso tra la Flotta Lauro e l’Ansaldo che ebbe per la compagnia partenopea un epilogo favorevole consistente in un indennizzo per gli inconvenienti riscontrati e la priorità negli ordini delle nuove turbocisterne, che saranno le 31.500, in un periodo in cui in cantieri navali erano al limite della loro capacità produttiva e gli armatori godevano di un momento molto favorevole del mercato dei noli.

Il Volere all'ormeggio in banchina

(fonte:www.naviearmatori.net)

Varo della m/c Tenacia Cantiere Ansaldo - Genova Setri, 11 Gennaio 1953 (fonte:www.naviearmatori.net)

La T/c Aretusa in rada a Genova, 18 Novembre 1963, al comando del C.L.C Vito Gargiulo.

(fonte:www.naviearmatori.net)

Costruz

Cantiere di Costruzione

N° di Costruzione

Armatore

Bandiera

1957

Ansaldo -   Genova Sestri

1517

Aretusa Soc. di Navigazione per Azioni  - Palermo

Italiana

Stazza Lorda (t)

Stazza Netta

(t)

Portata Lorda (t)

Nominativo Internazionale

Porto di Registro

20.729

12.211

30.996

ICUA

Palermo

Prima di quattro turbocisterne della serie delle “31.500” costruite per la Flotta Lauro, venne impostata il 15 Marzo 1956, varata il 28 Aprile 1957 e consegnata all’armatore il 15 Novembre successivo.

La nave venne data in gestione alla societa “Aretusa” di Palermo che gestiva questa sola nave, è da notare che all’epoca molte grandi gruppi armatoriali per motivi amministrativi e fiscali davano in gestione singole navi a società a loro dedicate e la Flotta Lauro non fece eccezione, sotto vengono riportati i principali riferimenti amministrativi della società:

“Aretusa” Soc. di Navigazione per Azioni

Palermo, Via Roma 386, Tel. 40.541,  Telegr. Aretusa.

L’Aretusa fu la prima delle quattro 31.500 che venne noleggiata a lungo termine alla BP insieme alle gemelle che erano in costruzione . Dopo 15 anni di continuo impiego tra noleggi al servizio di grandi majors petrolifere venne venduta alla società “Cala Sinzias S.p.A.” di Cagliari, per la somma di 980.000.000 di Lire e consegnata ai nuovi armatori nel porto di Taranto, l’8 Maggio 1973, venendo rinominata Barbagia e navigando sotto i nuovi colori fino al 1975 quando venne nuovamente venduta alla “Forest Maritime Inc.” e cambiando nome in Aretussa, venne demolita nel Giugno 1976 a Santander presso il cantiere “Recuperaciones Submarinas”.

Riepilogo dei cambi di Nome / Armatore

Nome della Nave

Armatore

Periodo di Proprietà

Aretusa

Aretusa Soc. di Navigazione per Azioni  - Palermo

1957 - 1973

Barbagia

Cala Sinzias SpA - Cagliari

1973 - 1975

Aretussa

Forest Maritime Inc.

1975 - 1976

 

La T/c Aretusa va ad ormeggiare ad un pontile per la discarica del greggio.

(tratto da "La flotta che visse due volte" op. cit. bibl.)

L'Aretusa in una rada, con delle imbarcazioni che attorniano lo scalandrone di dritta.

(fonte:www.marina-mercantile-italiana.net)

Dicembre 1963, la turbocisterna Aretusa alle prese con un Atlantico infuriato (tratto da: "La flotta che visse due volte" op. cit. bibl.)

28 Aprile 1957, la turbocisterna Aretusa pronta per il varo al cantiere Ansaldo di Genova Sestri (tratto da:"La flotta che visse due volte" op. cit. bibl.)

L'Elios in rada (fonte:www.naviearmatori.net)

Anno di Costruzione

Cantiere di Costruzione

N° di Costruzione

Armatore

Bandiera

1958

Ansaldo – Genova Sestri

1523

Elios Società di Navigazione per Azioni - Palermo

Italiana

Stazza Lorda (t)

Stazza Netta

(t)

Portata Lorda (t)

Nominativo Internazionale

Porto di Registro

20.725

12.217

30.845

IBJE

Palermo

Impostata, sempre presso il cantiere Ansaldo di Genova Sestri, il 27 Aprile 1957, venne varata il 22 Dicembre dello stesso anno e consegnata alla compagnia armatrice “Elios Società di Navigazione per Azioni, il 20 Maggio del 1958. Anche questa società, come la “Aretusa”, era deputata alla gestione di questa singola nave (e più tardi anche della M/c Raffaele Cafiero, a partire dal 1962).

La società aveva i seguenti riferimenti che tra l’altro erano identici, per indirizzo e numero telefonico a quelli dell’Aretusa:

“Elios” – Soc. di Navigazione

Palermo, Via Roma 386, Tel. 40.541


1965, L'Elios durante un viaggio dal Golfo Persico al Giappone. In seguito ad un grave infortunio, un marinaio viene prelevato da un'elicottero Sikorsky S-58 del corpo dei Marines, circa 300 miglia al largo dell'Isola di Okinawa.

(tratto da: "La flotta che visse due volte" op. cit. bibl.)

Come la gemella Aretusa anche questa turbocisterna venne noleggiata alla BP, per un quinquennio, ancora prima della sua consegna all’armatore Lauro, successivamente navigò per la medesima compagnia fino al 1973 quando anch’essa venne venduta alla società “Cala Sinzias S.p.A.” di Cagliari, per la somma di 882.000.000 di Lire e consegnata al nuovo armatore nel porto di Aden, il 25 Maggio 1973. In seguito al cambio di bandiera prese il nome di Cabras e navigò per i nuovi armatori fino al Luglio 1975 quando venne venduta per demolizione, eseguita presso il cantiere navale Lotti di La Spezia.

Riepilogo dei cambi di Nome / Armatore

Nome della Nave

Armatore

Periodo di Proprietà

Elios

Elios Soc. di Navigazione per Azioni  - Palermo

1958 - 1973

Cabras

Cala Sinzias SpA - Cagliari

1973 - 1975

Nella pagina seguente: La petroliera Elios mette in mostra l'eleganza della sua costruzione (fonte:www.naviearmatori.net)

Il Felce, galleggiante immediatamente dopo il varo, Livorno, 15 Giugno 1958. (tratto da: “La Flotta che visse due volte” op. cit. bibl.)

Anno di Costruzione

Cantiere di Costruzione

N° di Costruzione

Armatore

1958

Ansaldo - Livorno

1534

Nereide Società di Navigazione per Azioni - Palermo

Stazza Lorda (t)

Stazza Netta

(t)

Portata Lorda (t)

Nominativo Internazionale

 

20.519

12.141

31.488

ICJF

Impostata il 25 Giugno 1957 sullo scalo Morosini dell’ex cantiere Orlando di Livorno, ora Ansaldo, venne varata nella mattinata del 15 Giugno 1958. Alla già suggestiva cerimonia, quale è un varo “tradizionale”, fecero da contorno tre aerei da turismo che sorvolarono ripetutamente il cantiere mentre gli altoparlanti dello stesso diffondevano le note di “O Sole Mio”, nella più tradizionale atmosfera musicale partenopea. Poco prima delle 10 venne officiata la benedizione della nuova unità alla presenza di numerose autorità sia civili che militari tra le quali vanno citate, per la Società Armatrice il Sen. Achille Lauro, l’On. Raffaele Cafiero , il Dott. Gioacchino Lauro e l’A.D. della “Nereide” Avv. Paolo Diamante ed in rappresentanza del cantiere tra gli altri erano presenti il presidente Avv. De Barbieri e i direttori, dei tre stabilimenti Ansaldo, Casaccia, Cristofori e Rougier.

Madrina della nave fu la Sig.ra Maria Castellano Cafiero, moglie dell’On. Raffaele Cafiero, braccio destro del Comandante Lauro; il varo ebbe esito pienamente favorevole e la nuova unità venne rimorchiata alla banchina d’allestimento, ove restò fino a fine Ottobre 1958 quando lasciò Livorno per Genova, dovendo essere immessa in bacino per carenare in previsione delle prove in mare che furono eseguite il 22 Ottobre con cattive condizioni meteo; ben 280 persone erano a bordo del Felce, che prese il nome di un piroscafo della Flotta Lauro affondato nel 1941 per attacco aereo nemico.

Le prove diedero un esito molto soddisfacente evidenziando un notevole progresso nell’apparato motore rispetto alla nave prototipo della serie che fu la Mina D’Amico, costruita sempre a Livorno, registrando un consumo di nafta che si ridusse da 280 a 220 g/cv ora, inoltre il riuscito progetto dell’apparato motore di queste turbocisterne attirò notevoli attenzioni da parte di cantieri ed armatori Inglesi e Svedesi.

La nuova unità, completate tutte le prove in mare, venne consegnata alla società “Nereide” il 24 Ottobre 1958, in anticipo di ben 37 giorni rispetto alla data termine concordata nel contratto di costruzione.

La società “Nereide”, cui competeva la gestione del Felce, aveva in gestione anche la gemella Polinice e dal 1961 anche la t/c Ercole (da 60.000 tpl), di seguito ne viene riportato qualche riferimento amministrativo per completezza d’informazione, che anche in questo caso risultano identici a quelli delle società “Aretusa” ed “Elios” tranne che per la denominazione societaria, evidenziando ancor di più una differenza di tipo esclusivamente amministrativo tra le diverse società del Gruppo Lauro.

“Nereide” -  Soc. di Navigazione per Azioni

Palermo, Via Roma 386, Tel. 40.541

La nave cominciò, come le sue gemelle, i noleggi “a tempo” per la BP e negli anni successivi anche per l’AGIP ed altre grandi compagnie petrolifere, resto in armamento con la Flotta Lauro fino al 21 Aprile 1972, quando venne venduta alla “Kirno Hill Corp.” di Panama per la somma di 2.133.333,333 dollari e rinominata Acquarius. Fu nuovamente rivenduta l’anno successivo alla “North Tankers Sg Corp.” di Monrovia (Liberia) e cambiò nome in White Ranger, navigò con questo nome fino al Maggio 1975 quando venne disarmata e demolita presso il cantiere “Industrial y Comercial de Levante” di Valencia.

 

Riepilogo dei cambi di Nome / Armatore

Nome della Nave

Armatore

Periodo di Proprietà

Felce

Nereide Soc. di Navigazione per Azioni  - Palermo

1958 - 1972

Acquarius

Kirno Hill Corp. - Panama

1972 - 1973

Polinice

Il "Polinice" in navigazione (fonte:www.marina-mercantile-italiana.net)

Anno di Costruzione

Cantiere di Costruzione

N° di Costruzione

Armatore

1958

Ansaldo - Muggiano

1533

Nereide Società di Navigazione per Azioni - Palermo

Stazza Lorda (t)

Stazza Netta

(t)

Portata Lorda (t)

Nominativo Internazionale

 

20.690

12.183

31.193

ICBP

Palermo

 

Varata il 23 Febbraio 1958 e consegnata nel Luglio successivo, il Polinice, gestito dalla già citata “Nereide”, venne subito inserita nei viaggi a noleggio per conto della BP ed altre Majors, ricalcando quasi integralmente la carriera delle sue gemelle, venendo anche sporadicamente impiegata su contratti di trasporto di vario tipo.

Restò in armamento con la Flotta Lauro fino al 17 Marzo 1972, quando venne venduta alla “Kirno Hill Corp.” di Panama (che il mese successivo acquistò anche il Felce) per la cifra di 2.133.333,33$ (la stessa identica cifra che sarà pagata per il Felce), fu consegnata ai nuovi armatori nel porto di Anversa in Belgio e rinominata Mabruk.

L’anno successivo venne rivenduta alla “North Tanker Sg Co” di Panama e rinominata Blue Ranger (probabilmente una società affiliata all’omonima panamense presso cui fu registrato il White Ranger ex Felce), nel 1976 viene nuovamente rivenduta alla “Navalcarena SpA” di La Spezia e cambia nome in Ecol Spezia ed infine l’ultimo trasferimento la vide passare, nel 1981, alla “Soc. Navale Spezzina SpA” che ne mantenne il nome.

Nel 1982 venne rimosso l’apparato motore e la nave venne adibita a pontone.

Nella pagina seguente: Ansaldo Muggiano, il Polinice sullo scalo in una suggestiva immagine a colori

(tratto da "Ansaldo Navi" op. cit. bibl.)


TRE TURBOCISTERNE PER I D'AMICO

La Fratelli d’Amico Armatori nasce agli inizi degli anni ‘30 ad opera di Massimino Ciro d’Amico e del figlio Giuseppe con funzione marginale rispetto alla principale attività di famiglia: importazione e commercio di legname. Successivamente si fa strada la consapevolezza che disporre di una propria flotta avrebbe significato l’affrancamento nel trasporto di legname proveniente dalla Yugoslavia e dal Mar Nero e quando arrivano le prime navi all’azienda gradualmente si uniscono i sei fratelli maschi di Giuseppe (altre due sorelle non saranno mai attive nell’impresa di famiglia).

La seconda guerra mondiale ne decima la flotta che rimane con sole due unità, nel 1947 grazie alle agevolazioni garantite dal Piano Marshall, la compagnia riesce a dotarsi di due Liberty (Ariella ed Eretteo) con cui rilancia l’attività armatoriale, continuando il commercio del legname. L’ordine ai Cantieri Breda di Marghera di 2 motonavi da 5.000 tpl segna l’inizio di una linea merci dall’Italia al Mediterraneo orientale, mentre la flotta cresce acquistando navi liberty, fino a possederne 20 mentre per quanto riguarda la flotta cisterniera, a metà anni 50’, era composta da quattro unità per 59.000 tsl, più una motocisterna da 17.000 tsl in costruzione.


Il Liberty Eretteo della società “Fratelli d’Amico Armatori”, riconoscibile dalla croce maltese blu su fumaiolo giallo (la d’Amico soc. nav come simbolo sociale aveva una rosa dei venti blu su fumaiolo giallo), in manovra nel Bacino di San Marco, inconfondibile, sullo sfondo, il simbolo della Serenissima. (fonte:www.naviearmatori.net)

A questo punto è necessario fare una regressione, infatti ad inizio anni ‘50 i sette fratelli d’Amico decidono consensualmente di dar vita a due distinte società facenti parte del Gruppo Armatoriale: La “Fratelli d’Amico Armatori” di Roma, che è stata descritta brevemente nel precedente paragrafo e la “d’Amico Società di Navigazione, sempre registrata nella città capitolina, che armò una delle tre “31.500” che portarono sui loro fumaioli, per i mari del mondo, la rosa dei venti blu su sfondo giallo, simbolo sociale della gloriosa società romana.

Tra il 1954 ed il 1960, il gruppo armò tre turbocisterne della serie delle “31.500”, tra cui le prime due della serie, il Mina d’Amico ed il Mirella d’Amico, veri e propri prototipi di questa prolifica serie di primordiali supertankers.

La ripartizione delle navi tra le unità era la seguente:

· “d’Amico” Soc. di Nav. – Palermo: “Mirella d’Amico”

· “Lilibeo” Soc. Armatoriale p. A. – Palermo: “Mina d’Amico”

· “Ortigia” Soc. di Nav S.p.A. – Palermo: “Cristina d’Amico”

A queste 3 unità se ne aggiunse un’altra, il Maria Adelaide che poi divenne il Dzhuzeppe Garibaldi, che viene citata in un capitolo a parte in quanto la sua vita operativa risulta più attinente alla marina mercantile sovietica, sotto la cui bandiera passò circa 24 anni.

E degno di nota il fatto che in pochi anni, la “d’Amico Soc. Nav.” riuscì con notevole acume ed intraprendenza ad arricchire il tonnellaggio della nostra marina mercantile di circa 95.663 tpl. Con l’ordine del Mirella d’Amico, prima nave della serie, la “d’Amico” Società di Navigazione, validamente diretta dal Dott. Ciro d’Amico, si pose all’avanguardia nella politica economica del trasporto petrolifero nazionale.

Il Mirella d'Amico alle prove di macchina (www.marina-mercantile-italiana.net)

Anno di Costruzione

Cantiere di Costruzione

N° di Costruzione

Armatore

Bandiera

1953

C.R.D.A. – Monfalcone

1775

d’Amico Società di Navigazione - Palermo

Italiana

Stazza Lorda (t)

Stazza Netta

(t)

Portata Lorda (t)

Nominativo Internazionale

Porto di Registro

20.417

12.504

31.717

IBGN

Palermo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Insieme al Mina d’Amico, impostato poco dopo presso il cantiere Ansaldo di Livorno, il Mirella d’Amico può considerarsi come la capostipite di questa prolifica classe di navi petroliere, all’epoca della sua costruzione risultava essere una tra le più grandi turbocisterne del mondo.

Impostata l’1 Ottobre 1952, venne varata il 14 Giugno 1953, alla presenza del Ministro della Marina Mercantile On. Cappa, e consegnata all’armatore il 29 Dicembre successivo.

I dati societari della società armatrice, come già detto facente parte del Gruppo d’Amico, erano i seguenti:

“d’Amico” - Società di Navigazione

Palermo, Via Gen. Magliocco 19, Tel. 16.426, Telegr. Damiconavi

Nel 1972 la nave venne venduta alla compagnia “Galissa Cia Maritima SA”, fu ribattezzata Galissa ed immatricolata sotto bandiera greca, presso il compartimento marittimo di Syros.

L’anno seguente viene nuovamente venduta alla società greca “Camelford Sg Co Ltd”, cambiando il nome in Georgios K., mantenendo il medesimo porto di registro. Il 1976 vide la nave, con stesso nome e porto di registro, cambiare nuovamente armatore, venendo acquistata dalla “Hill Samuel & Co Ltd”. Ad inizio Dicembre dello stesso anno venne venduta per demolizione al cantiere “Keun Hwa Metal Industries Ltd” che inizio lo smantellamento della nave ad inizio Gennaio 1977.


Riepilogo dei cambi di Nome / Armatore

Nome della Nave

Armatore

Periodo di Proprietà

Mirella d’Amico

D’Amico Soc. Nav. - Palermo

1953 - 1972

Galissa

Galissa Cia Maritima SA - Syros

1972 - 1973

Georgios K.

Camelford Sg Co Ltd - Syros

1973 - 1976

Georgios K.

Hill Samuel & Co Ltd - Syros

1976

Nella pagina seguente: Lo scafo del Mirella d'Amico, costr. 1557, fotografato sullo scalo del cantiere CRDA di Monfalcone (fonte:www.naviearmatori.net)


Il Mina d'Amico, la prima delle tre "31.500" costruite a Livorno (fonte:ww.marina-mercantile-italiana.net)

Prima grande unità mercantile costruita dall’Ansaldo di Livorno, sullo scalo Morosini, dalla fine del secondo conflitto mondiale.

Ordinata dalla società Lilibeo di Palermo, facente parte del gruppo d’Amico, venne impostata il 4 Gennaio 1953; la nuova nave scese in mare il 28 Marzo 1954, alla presenza del Presidente della Camera dei Deputati On. Giovanni Gronchi (l’anno successivo diventerà il III° Presidente della Repubblica Italiana) e del Ministro della Marina Mercantile On. Fernando Tambroni, dopo la benedizione impartita dal Vescovo di Livorno, lo scafo di 9.600 t, ora nominato Mina d’Amico, era pronto a scivolare in mare dallo scalo Morosini ma a causa del peso eccesivo gravante su di una taccata non fu possibile effettuare il varo e si rese necessaria la demolizione della taccata stessa. La nave venne poi varata nel pomeriggio dopo un’alacre lavoro del personale del cantiere, con un forte ritardo sul programma ma comunque con piena soddisfazione delle moltissime persone presenti a questo evento che dimostrava la ritrovata efficienza del cantiere Livornese, capace di costruire una nave di cosi rilevanti dimensioni, all’epoca era considerata tra le dieci più grosse navi petroliere in servizio, a così breve distanza dalla fine di un conflitto che aveva quasi annientato la più grande e prestigiosa industria della città labronica. La nave, dopo un rapido allestimento durato circa 52 giorni, venne consegnata alla società armatrice il 19 Maggio 1954.

La “Lilibeo” che aveva in gestione la nave, oltre alla motocisterna Marinella d’Amico, nel 1963 risultava avere i seguenti dati societari:

“Lilibeo” – Società Armatoriale p. A.

Palermo, Via Gen. Magliocco 30, Tel. 16.426, Telegr. Damiconavi

La nave restò in armamento con la “Lilibeo” fino al 1971, quando venne venduta alla società liberiana “Eastern World Sg Ltd” che la rinominò Permina Samudra VIII, registrandola a Monrovia sotto bandiera liberiana.

Navigò con il nuovo armatore per altri quattro anni, fino al Settembre 1975, quando venne venduta per demolizione al cantiere Yung Tai Steel & Iron Works Co Ltd che ne cominciò in Dicembre.

Riepilogo dei cambi di Nome / Armatore

Nome della Nave

Armatore

Periodo di Proprietà

Mina d’Amico

Lilibeo Soc. Arm. p. A. - Palermo

1954

Perm ina Samudra VIII

Eastern World Sg Ltd - Monrovia

Nella pagina seguente: Il Mina d'Amico in manovra (fonte:www.naviearmatori.net)

Il Cristina d'Amico in navigazione (www.marina-mercantile-italiana.net)

Anno di Costruzione

Cantiere di Costruzione

N° di Costruzione

Armatore

Bandiera

1960

Ansaldo - Muggiano

1540

Ortigia Soc. di Nav. S.p.A.

Italiana

Stazza Lorda (t)

Stazza Netta

(t)

Portata Lorda (t)

Nominativo Internazionale

Porto di Registro

20.693

12.210

31.800

ICNT

Palermo

 

 

 

 

 

Il Cristina d'Amico ripreso al traverso di dritta

Argea Prima e Miraflores: le 31.500 della Flotta Cameli

Prima di dare una sommaria visone d’insieme della storia della società armatrice di queste due navi è opportuno fare qualche doverosa precisazione.

La prima vuole essere un ringraziamento al D.M. Vittorio Massone di Recco, purtroppo recentemente scomparso, le cui memorie (Una Vita sul mare, op. cit. bibl.) sono state davvero utilissime per ricreare, purtroppo mai troppo approfonditamente quanto sarebbe giusto e meritevole, la vita e soprattutto alcuni episodi particolari di queste due navi sulle quali navigò, alternativamente, dal 1955 al 1963.

La seconda precisazione è relativa alla storia della società armatrice, di quella grande realtà marittima che fu il Gruppo Cameli, infatti se per la turbocisterna Argea (poi Argea Prima), armata dalla società omonima, si è riusciti a reperire fonti ed informazioni abbastanza complete, per il Miraflores, armata dalla società “Miraflores – Cia Naviera Panamena SA” e gestita dalla società elvetica “Navimar” di Lugano per conto dei Cameli, la ricerca si è presentata maggiormente nebulosa e di questo l’Autore si scusa.

La società “Carlo Cameli & C.” viene fondata nel Luglio 1927 a Genova, si presentava all’inizio del secondo conflitto mondiale forte di una flotta di cinque motocisterne per oltre 13.000 tsl.

Alla fine del secondo conflitto mondiale, la flotta versava in una situazione catastrofica avendo perduto praticamente la totalità del suo tonnellaggio d’anteguerra ma a seguito di un programma di ricostruzione del naviglio sociale efficiente ed ambizioso, già nel 1953, la società poteva contare su un tonnellaggio leggermente superiore a quello dal 1940, circa 13.665 tsl. L’aliquota maggiore del nuovo tonnellaggio societario era rappresentato dalla T2 Montallegro (ex Crater Lake), la quale ebbe una vita molto avventurosa nel secondo dopoguerra, esplosa in due tronconi mentre era sotto discarica nel porto di Napoli nel 1951, venne riparata e continuò a navigare fino al 1965.

Il Montallegro alla fonda

Tra le altre società satellite che il Gruppo controllava è opportuno citare la “Navigazione Toscana S.p.A.” che esercitava le linee da e per l’Arcipelago Toscano (Linea 81, 82, 82 bis, 83, 84)[1], anch’essa duramente colpita dagli eventi bellici che la videro per perdere il suo intero tonnellaggio ammontante a circa 4000 tsl, nel primo dopoguerra si dotò di due ex corvette della U.s. Navy riadattate al servizio passeggeri (Porto Azzurro e Portoferraio) e della motonave Pola, acquistata nel 1953.

 


[1] Secondo l’ordinamento per i servizi marittimi del 1953 le suddette linee a carattere locale erano così ripartite Linea 81: Livorno – Gorgona – Capraia – Marciana M. – Portoferraio – Piombino – Rio Marina – Porto Azzurro – Campo Elba – Pianosa (Settimanale); Linea 82: Portoferraio – Cavo – Portovecchio (giornaliera feriale); Linea 82 bis: Portoferraio – Cavo - Piombino – Portovecchio (domenicale); Linea 83: Porto Azzurro – Rio Marina – Portovecchio (giornaliera / domenicale); Linea 84: Isola del Golfo – Porto S. Stefano (giornaliera / domenicale).

La T/c Argea Prima, in navigazione a forte andatura

Anno di Costruzione

Cantiere di Costruzione

N° di Costruzione

Armatore

Bandiera

1955

Ansaldo – Genova Sestri

1494

Argea - Compagnia di Navigazione S.p.A. - Palermo

Italiana

Stazza Lorda (t)

Stazza Netta

(t)

Portata Lorda (t)

Nominativo Internazionale

Porto di Registro

20.771

12.173

31.619

ICAP

Palermo

 

 

 

La turbocisterna Argea, ordinata al cantiere Ansaldo di Genova Sestri dall’omonima compagnia, venne varata nell’Ottobre 1954 e consegnata alla società armatrice nel Febbraio successivo, quando iniziò i primi viaggi con caricazione in Golfo Persico e discarica in Nord Europa. Poco dopo il varo, il nome della nave venne modificato in Argea Prima.

I dati societari della società armatrice, al 1963, risultavano essere i seguenti:

“Argea” – Compagnia di Navigazione S.p.A.

Palermo, Via G. Magliocco 1, Tel. 15.428 / 40.357, Telegr. Marinese

Un curioso aneddoto relativo ai primi viaggi di questa bella petroliera è narrato dalla penna del D.M. Massone e faceva riferimento ad un curioso inconveniente causato dalla tromba del fischio, infatti il leggero mare incontrato dalla nave faceva muovere leggermente la parte alta del fumaiolo avanti ed indietro, mandando di conseguenza in tensione il cavetto d’acciaio (vi era anche l’azionamento elettrico mediante pulsante) che dalla plancia era collegato con la tromba stessa, causando una curiosa quanto fastidiosa sequela di fischi sincronizzati con il moto ondoso incontrato durante la navigazione. L’inconveniente venne risolto puntellando la base del fumaiolo, che corrispondeva al cielo del locali caldaie, con dei travi.

L'Argea Prima in rada con le ancore appennellate (fonte:www.shipsnostalgia.com)

Poco tempo dopo l’Argea Prima fu protagonista, suo malgrado, di un grave accadimento che vale la pena di riportare di seguito.

Il 19 Maggio 1955, intorno alle 04:30, all’inizio del terzo viaggio in uscita dal Golfo Persico, poco prima di arrivare al traverso delle isolette di Jazireh Ye Forur e Jazireh Ye Sirri (si trovano a circa 125 miglia, per SSO  dall’imbocco dello Stretto di Hormuz), l’Argea Prima navigava in una fittissima coltre di nebbia quando venne investita, sul lato sinistro, dalla motonave olandese Tabian che navigava con rotta opposta alla petroliera italiana; la collisione avvenne approssimativamente alle coordinate di 26°09’36’’ N / 54°18’00’’ E.

Il Tabian investì la nave italiana sul lato di sinistra ,a centro nave tra il cassero centrale e quello poppiero, innescando un violento incendio del greggio contenuto nelle cisterne poste a centronave, venne subito disposto l’abbandono nave che avvenne in due distinte fasi:

- Il personale presente a prora e sul cassero centrale si imbarcarono sulla lancia a remi posta sul lato dritto del medesimo cassero e giunsero per primi a bordo della nave investitrice che si era fermata nelle vicinanze sia per la nebbia che per verificare i danni subiti.

- Il personale del cassero poppiero abbandonò la nave mediante la lancia a motore di dritta e giunsero per ultimi sul Tabian a causa del tempo impiegato per prendere coscienza della situazione, giù in macchina, e di abbandonare i locali relativi.

Viene riportato di seguito uno stralcio tratto dalle memorie del D.M. Massone, al tempo imbarcato come Primo Macchinista, in modo da riportare una testimonianza di prima mano riguardo l’abbandono della nave e gli eventi successivi.

“Alle quattro ero sceso in macchina per iniziare il mio turno di guardia e dopo aver dato un’occhiata agli strumenti del quadro di manovra e prese le consegne dal terzo macchinista che smontava, feci il mio consueto giro di controllo dei macchinari in funzione. Poco dopo le quattro e mezza, si udì un fischio che, a differenza del solito potente fischio della sirena, assomigliò più ad un sordo brontolio a cui, dopo pochi secondi, ne seguì un altro. Non ebbi tempo di pensare al motivo di quei brontoli che avvenne la botta, come una specie di tuono cui si accompagnò un forte scrollone.

In macchina era tutto fermo, ferma la pompa spinta nafta, fermi i ventilatori del tiraggio forzato e quelli del locale, inoltre anche i forni delle caldaie si erano spenti. I travi che formavano il puntello del fumaiolo erano finiti sulle griselle del locale provocando più di uno spavento. Fallito il tentativo di riavviare le caldaie, andai a fermare la motrice, permettendo così al vapore residuo di fornire alimentazione alle turbodinamo per garantire ancora un po’ di luce a bordo, intanto dall’osteriggio di macchina si cominciava ad intravedere il buio della notte ammantato di un alone rosso, evidente segno di un incendio.

Di comune accordo con l’allievo ed il fuochista decidemmo di abbandonare il locale, anche perché non potevamo farci un’idea della situazione in coperta dato che non vi era comunicazione con il ponte di comando, salimmo le tre rampe di scale per tentare di uscire dalla parte più alta del locale apparato motore, sul lato sinistro del cassero poppiero ma appena aperta la porta stagna ci trovammo di fronte un muro di fiamme, era infatti quello il lato interessato dalla collisione; richiusa subito quella porta, provammo con quella sul lato dritto trovandola libera dalle fiamme e percorso il caruggetto interno e, salita una scaletta, ci trovammo sul ponte lance appena in tempo per saltare sulla lancia di dritta che stava per essere ammainata, gremita all’inverosimile da quasi tutto l’equipaggio.

Quando fummo in acqua, dopo alcuni comprensibili momenti di agitazione e sconforto, fermammo il motore per meglio sentire i suoni delle sirene intorno a noi, ciò fu provvidenziale perché riuscimmo ad individuare la nave investitrice, l’olandese Tabian, a bordo di essa erano già presenti gli occupanti del cassero centrale tra i quali vi era il Comandante che, mente salivamo a bordo, faceva la conta; eravamo tutti salvi”.

L’arrivo del giorno e il diradarsi della nebbia vide l’Argea Prima in fiamme e il Tabian fortemente appruato ed in precarie condizioni di galleggiabilità, nel frattempo erano giunte sul posto due unità militari pronte a fornire assistenza, identificate come la fregata britannica Hms Loch Killisport (K 628), al comando del Comandante[1] E. N. Forbes (DSC, RN) e la corvetta statunitense Uss Valcour (AVP-55)

 


[1] In inglese “Commander”

 

La motonave olandese Tabian costruita nel 1930, appartenente alla società "NV Stoomvaart Mij - Nederland", che investi l’Argea Prima (fonte:www.shipspotting.com)

Qualche ora dopo arrivò in zona la petroliera Esmeralda, di proprietà dello stesso armatore dell’Argea Prima, che fornì alloggio e ristoro al provato equipaggio.

 

L'Esmeralda dell'armatore Cameli

(fonte:www.marina-mercantile-italiana.com)

Il Tabian con la prora mutilata dalla collisione (fonte:www.shipsnostalgia.com)

La corvetta Uss Valcour della marina statunitense in una bella foto a colori (fonte:www.shipsandharbours.com)

L'Hms Loch Killisport, fregata della classe Loch, all'epoca della collisione dell'Argea Prima era di stanza a Muscat in Oman    (fonte: www. Candoo.com)

Con l’arrivo delle due unità militare fu possibile attuare una serie di operazione atte a mettere in sicurezza la nave italiana, per prima cosa il Loch Killisport mise a mare il suo motoscafo, dotato di una potente motopompa, che cominciò a gettare acqua sul cassero poppiero che ancora bruciava, dopo qualche ora l’incendio a poppa poté considerarsi estinto mentre quello in coperta a centro nave destava ancora gran preoccupazione per della sua eccezionale intensità rendendo inefficace l’azione della motopompa.

A quel punto intervenne il comandante del Valcour che propose un ardito tentativo che viene meglio descritto, nuovamente dalle parole del D.M. Massone.

“Si trattava di salire in coperta tra i boccaporti in fiamme, trovare qualche portellino o flangia per ogni cisterna, aprirlo e mandare all’interno un getto di CO2[1]; pur con non poche preoccupazioni ritenemmo questa l’unica scelta da perseguire. Ci trasferimmo, una dozzina di volontari, sulla corvetta americana e dopo aver discusso gli ultimi dettagli partimmo alla volta della nostra nave, imbarcando su una grossa motolancia che aveva a bordo due grosse bombole di CO2 con manichette e relativi accessori.

Saliti in coperta, scoprimmo che la cosa più sicura era di introdurre il CO2 attraverso la tubolatura antincendio presente in coperta, normalmente funzionante a vapore; scelta la cisterna meno pericolosa, allentammo due flange della suddetta tubolatura, introducendo subito dopo la manichetta che col suo violento getto di anidride carbonica spense in brve tempo il fuoco che usciva dal boccaportello con un sonoro “puff”.

Con lo stesso metodo procedemmo allo spegnimento di tutte le cisterne interessate dalle fiamme ed in poche ore non vi erano più fiamme in coperta. Poco dopo scesi giù nei locali dell’apparato motore per verificarne le condizioni che giudicai buone ad un’ispezione superficiale, dettata dalle difficili circostanze”.

Spenti tutti i focolai a bordo fu quindi possibile fare una prima stima dei danni, il cassero poppiero, dal ponte di coperta in su, era completamente bruciato e ridotto ad un ammasso di lamiere contorte.

 


[1] Anidride Carbonica

Il cassero poppiero dell'Argea Prima mostra chiaramente le distruzioni dell'incendio (tratto da Una vita sul Mare, op. cit. bibl scafo, a proravia del cassero poppiero, in corrispondenza del punto d’impatto, presentava uno squarcio lungo una quindicina di metri ma non valutabile in altezza in quanto interessava anche la parte immersa dello scafo. Le lamiere di cinta e controcinta, pur essendo molto deformate avevano retto all’urto mentre il cassero centrale e la zona prodiera non avevano subito danni.

Il centronave dell'Argea Prima, evidenziato dalla lettera "A" si può vedere lo squarcio generato dalla collisione e dalla lettera "B" è evidenziata la posizione della cabina del primo macchinista Massone (tratto da Una vita sul mare op. cit. bibl.)

Stabilizzata la situazione della nave, il comandante dispose per il rientro a bordo dell’equipaggio, nel tentativo di rimorchiare la nave nel vicino porto di Bahrein, prima passando il cavo di rimorchio alla petroliera Esmeralda ma in seguito a numerose rotture del cavo, venne poi passato il rimorchio alla corvetta Valcour, più manovriera, l’Argea Prima procedeva, durante il rimorchio, a zig zag, tentando di seguire le manovre della corvetta mediante accostate col timone asservito alla pompa d’emergenza manuale, con notevoli ritardi nell’esecuzione della manovra.

Nel frattempo nei locali macchine si provvedeva a tutta una serie di verifiche volte al tentativo di ripristinare la forza motrice, come racconta Massone.

“Avevo avviato il diesel d’emergenza, dato luce ai locali e controllato i macchinari che risultarono in ordine, le due caldaie potevano essere accese e le turbine, innescate sul viratore[1], erano libere di girare come anche l’elica e il relativo asse, si poteva quindi tentare di “accendere”. Andai quindi a prora, dove il comandante, con gli ufficiali e da buona parte dell’equipaggio, stava cercando di rimediare ad un ennesimo strappo  del cavo di rimorchio.

La notizia che la nave sarebbe stata in grado di muovere con i propri mezzi, generò davvero sollievo ed entusiasmo. Aspettando che il vapore in caldaia raggiungesse la pressione necessaria per essere immesso nelle turbine, riparammo un tratto di tubo del telemotore del timone che dalla plancia correva in coperta, sotto la passerella, fino a poppa, ripristinando quindi la manovra dal ponte di comando. Prima di muovere la nave venne opportunamente livellata spostando del carico nelle cisterne centrali e di dritta, essendo quelle di sinistra sfondate e lesionate dalla collisione.

Mollato il rimorchio procedemmo con l’elica a 50 giri/min, arrivando nel porto di Bahrein dopo un giorno e mezzo di navigazione”.

La nave giunse nel porto di Bahrein, sotto scorta delle fregate Hms Loch Killisport e Loch Insh, quest’ultima giunta successivamente, e vi rimase in riparazione per circa un mese, in modo da poter effettuare in sicurezza il viaggio di rientro in Mediterraneo; salpata usando vari accorgimenti in navigazione, per preservare l’apparato motore ed in particolare asse portaelica e cuscinetti, passò senza problemi il canale di Suez, dove salì a bordo una commissione d’inchiesta per chiarire la dinamica della collisione che venne così definita: a seguito di un residuo di condensa nella tubolatura del fischio a vapore dell’Argea Prima, al momento di inviare un singolo fischio, per segnalare al Tabian di far accostare a dritta entrambe le navi, ne usci un brontolio seguito da un’altro pochi secondi dopo (i sordi brontolii sentiti da Massone) identificato dal Tabian come due fischi, segnalanti un’accostata a sinistra che venne eseguita dalla nave olandese andando a collidere con la petroliera italiana; la colpa venne divisa equamente su entrambe le navi.

Arrivata in Mediterraneo, la nave procedemmo ad una regolare discarica del greggio presente nelle cisterne centrali e di dritta, nel porto petrolifero di Martigues, vicino Marsiglia; per poi andare ai lavori a Genova, presso il Cantiere OARN (Officine Allestimenti Riparazioni Navali), per i successivi otto mesi. Terminati i lavori e ripreso servizio, la nave cominciò un periodo di viaggi fissi con caricazione a  Mina Al-Ahmadi e discarica a Napoli.

L’Armatore Cameli in ringraziamento dell’aiuto prestato dalla corvetta Uss Valcour all’Argea Prima, donò al comandante una placca ricordo dell’avvenimento; mentre per quanto riguarda la fregata Hms Loch Killisport, secondo quanto riportato dal quotidiano “Portsmouth Navy News” del 18 Novembre 1955, vennero decorati con la “Queen’s Commendation for bravery” il Senior commissioned mechanician Harold Ward (RN) ed il Chief engineering Mechanic Aneurin R. James, entrambi provenienti da Portsmouth. Di seguito vengono riportate due pagine di un quotidiano olandese relative alla collisione tra le due navi.


[1] Motore elettrico che mediante un pignone agiva sulla ruota lenta, facendo muovere tutto il gruppo turbo riduttore a lento moto, garantendo quindi un riscaldamento ottimale della motrice a nave ferma.

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Novembre 1955, vennero decorati con la “Queen’s Commendation for bravery” il Senior commissioned mechanician Harold Ward (RN) ed il Chief engineering Mechanic Aneurin R. James, entrambi provenienti da Portsmouth. Di seguito vengono riportate due pagine di un quotidiano olandese relative alla collisione tra le due navi.

 

FINE PRIMA PARTE

Autore: FRANCESCO ULIVI

Rapallo, 10 Gennaio 2018

Webmaster: Carlo GATTI

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


NAUFRAGI DIMENTICATI

Naufragi dimenticati

Quando si scappava dalla fame…

La storia “marinara” ufficiale la conosciamo, o dovremmo... ma alcuni capitoli, quelli brevi e sconosciuti, sono stati scritti, raccontati o indagati solo da alcuni decenni a questa parte.

Sul sito di Mare Nostrum Rapallo, abbiamo dedicato molti articoli sui “Naufragi che non passarono alla Storia”, citiamo solo alcuni esempi: P.fo Donizzetti, P.fo Ardena, M/n Mario Roselli, M/n Sinfra, P.fo Petrella, P.fo Oria. Soltanto queste navi sono state affondate durante la Seconda guerra mondiale ed il numero delle vittime ammontò ad oltre 12.356. Di questi naufragi avvenuti improvvisamente e spesso di notte, non si nulla o quasi.

Oggi se ne sa di più grazie all’opera meritoria di chi, figli, nipoti, eredi e storici onesti, sono tornati su quei fondali dell’Egeo a scavare e cercare reperti, indizi che potessero in qualche modo portare all’identificazione dei loro cari per ricordare ciò che è già dimenticato.

Trovate questi articoli nella sezione “Articoli di Storia-pag.4.

Se andiamo ancora più indietro nel tempo e, precisamente al capitolo dell’emigrazione dei nostri avi verso le Americhe, c’inabissiamo anche noi nelle sofferenze spesso inenarrabili, di soprusi, ingiustizie, calvari, malattie e morti. Le piccole storie di questa gente spesso finivano in fondo al mare, senza neppure riuscire a mettere piede sull’agognata terra redentrice, altro che cercar lavoro o delinquere.

Oggi vi raccontiamo alcuni di questi lontani naufragi che sono purtroppo ritornati d’attualità sulle nostre coste e ci fanno capire quanto la POLITICA internazionale sia incapace di risolvere il grande problema delle emigrazioni ricorrenti nella Storia dell’umanità.

Tutto ciò accade nonostante siano stati compiuti progressi ENORMI nella sicurezza delle costruzioni navali, nella navigazione strumentale e, soprattutto, nell’alimentazione, nell’igiene e vivibilità di bordo, dopo che la scienza ha sconfitto tutte le malattie esantematiche.

Eppure si continua a morire!

ALCUNI CELEBRI NAUFRAGI DI EMIGRANTI…

L’Ortigia, piroscafo carico di emigranti, viene speronato dal mercantile Oncle Ioseph e affonda al largo della costa argentina: 149 morti.

La nave italiana ORTIGIA

Una nave “maledetta”

Apparteneva alla Compagnia siciliana Florio, fu varata a Livorno nel 1873, e da subito era apparsa una nave piuttosto pericolosa. Spesso capitava che nelle manovre in porto travolgesse piccole imbarcazioni o finisse per urtare contro la banchina.

Il 24 novembre 1880 - alle tre di notte si scontrò con la nave passeggeri francese Oncle Joseph affondandola in otto minuti e provocando più di 200 morti.

Nel 1885 si scontrò con un’altra nave francese, la Martignan, ci furono 12 morti. Dopo ogni incidente veniva cambiato l’intero equipaggio, compreso il Comandante, ma gli incidenti continuavano a verificarsi.

Nel 1890 un'altra collisione, questa volta con una nave norvegese e i morti furono cinque.

Il 21 luglio 1895, la Maria P., piccola nave passeggeri, all’entrata del golfo della Spezia, a largo dell’Isola del Tino, si scontrò con l’Ortigia. La Maria P. affondò in tre minuti provocando la morte di 144 persone. Lo scontro si verificò all’1h e 30m in una notte particolarmente buia e lOrtigia dovette aspettare l’arrivo della luce del giorno per riuscire a portare in salvo 14 membri dell’equipaggio e 28 passeggeri naufraghi. Da quest’ultimo incidente nessuno volle mai più salire a bordo dellOrtigia, creduta, forse non a torto, un nave davvero maledetta.

Il 24 agosto del 1880 il piroscafo Ortigia piroscafo carico di emigranti viene speronato dal mercantile Oncle Ioseph al largo della costa argentina: 149 morti.

«Accovacciati sulla coperta, presso le scale, con i piatti tra le gambe e il pezzo di pane tra i piedi, i nostri emigranti mangiavano il loro pasto come poveretti alle porte dei conventi.

E’ un avvilimento dal lato morale e un pericolo da quello igienico, perché ognuno può immaginarsi che cosa sia una coperta di piroscafo sballottato dal mare, sul quale si rovesciano tutte le immondizie volontarie ed involontarie di quella popolazione viaggiante. L’insudiciamento dei dormitori è tale che bisogna ogni mattina far uscire sul ponte scoperto gli emigranti per nettare i pavimenti. Secondo il regolamento, i dormitori sono spazzati con segatura, occorrendo si mescolano disinfettanti, sono lavati diligentemente e asciugati. Ma tutte le deiezioni e le immondizie che si accumulano sui pavimenti, corrompono l’aria con forti emanazioni e la pulizia sarà difficile».

E’ un passo della relazione stilata da Teodorico Rosati, ispettore sanitario sulle navi degli emigranti, che getta un fascio di luce sulla penosa situazione in cui erano costretti i nostri emigranti, imbarcati su navi di infimo ordine. Le stive delle «navi di Lazzaro», ove si assiepavano, in carenza di luce e di adeguata aerazione, uomini, donne e bambini in condizione di deplorevole promiscuità, si trasformavano, con l’affollamento, in ricettacoli ad alto rischio patogeno, dai quali si sviluppavano frequenti infezioni malariche e broncopolmonari, epidemie di febbri tropicali, che mietevano vi ime, sopra u o tra i bambini.

Il 4 luglio del 1898 il piroscafo francese Bourgogne affonda al largo della Nuova Scozia: 549 morti.

28 maggio 1914: il piroscafo inglese Imperatrice d’Irlanda, nel Golfo di San Lorenzo, causa la fitta nebbia, entra in collisione con la nave norvegese Storstad. Nell’affondamento muoiono 1012 passeggeri, tra cui molti emigranti italiani. Tra i pochi scampati al naufragio figurano Egildo Braga, emigrato nel Minnesota come minatore, e la moglie Carolina, ambedue di Turbigo.

Nel 1888 naufraga il Sud America, della compagnia genovese “La Veloce”, nei pressi delle Canarie: vi muoiono una novantina di liguri. Piccola storia dimenticata e ora riemersa dal fondo dell’oceano grazie allo storico ligure Sandro Pellegrini e al suo impegno in questo senso. Perché tutti questi morti? Molte le cause, ma una in particolare colpisce per la sua “modernità” (ci si passi l’espressione): in molti casi, le navi che trasportano gli emigranti sono vere e proprie “carrette del mare”, navi mercantili riadattate alla bene e meglio per trasporto passeggeri, navi vecchie, sgangherate, fatiscenti, costose da rimettere a posto.

IL NAUFRAGIO DEL SIRIO (4agosto 1906)

Lo chiamarono il Titanic dei poveri.



Il piroscafo “Sirio” come appariva in navigazione nella sua snella silhoutte.



ll Sirio è un po’ l’emblema delle piccole storie che finiscono in fondo all’oceano.

4 agosto 1906: Il Sirio, un vecchio bastimento di proprietà della Navigazione generale italiana N.G.I., affonda speronando gli scogli che si trovano al largo di Capo de Palos (Spagna): 500 morti circa.

Non è che un breve elenco, parte di una ben più lunga lista di naufragi, in cui persero la vita moltissimi nostri connazionali, partiti in cerca di fortuna. Non c’era però solo fatalità o imperizia dei comandanti in quelle sciagure, bensì anche colpevole incuria. Il trasporto degli emigranti era infatti diventato un grande affare e su questo specularono le compagnie di navigazione, me finendo in mare vecchie carrette, sommariamente riattate, ma prive di quei requisiti previsti dalla legge.

Per non parlare delle malattie, anzi delle epidemie che scoppiano a bordo di questi inferni galleggianti, tanto da giustificare un’espressione coniata all’uopo, i “vascelli della morte”. E anche in questo caso, c’è un emblema della tragedia, ed è la Carlo Raggio”. Partita nel 1896 dal porto di Napoli, mentre in città infuria il colera, la nave si dirige a Genova, poi a Barcellona per imbarcare altri emigranti, infine in Brasile, la meta finale. A bordo, durante la traversata, si sviluppa l’epidemia. Messa in quarantena a Rio de Janeiro, la nave viene respinta indietro e attraversa di nuovo l’oceano, seminandolo dei cadaveri che quotidianamente butta fuori bordo, e così avanti per tre mesi, finché il colera non si spegne. Ma che dire, allora, dell’analogo caso della “Matteo Bruzzo”, contro cui le autorità uruguayane sparano cannonate per non farla attraccare, e poi ancora nel 1893 la difterite sulla “Remo”, nel 1889 l’avvelenamento dei cibi sulla “Giava”, sempre nel 1889 l’asfissia sulla “Frisia”. Piccole storie tragiche ora riscoperte con agghiacciante pietà da autori come Gian Antonio Stella (Odissee, Rizzoli), Augusta Molinari (Le navi di Lazzaro, Franco Angeli), Emilio Franzina (Merica Merica, Feltrinelli), e tanti altri.
Certo, la Storia di quell’Italia che si sposta alla scoperta del Grande Mondo, la storia della “grande proletaria” che si è mossa, è diversa dalla storia della Germania, della Gran Bretagna, della Francia, dell’Irlanda di fine secolo. Allo stesso modo, è diversa dall’Italia di questi anni, così come è diversa dalla storia dei paesi emergenti alle soglie del terzo millennio. Come si usa dire: “cambia il contesto di riferimento”, e dunque ogni attualizzazione, ogni revisionismo in un senso o nell’altro, ogni analisi che tenda a rimarcare inquietanti analogie tra passato e presente sono tutte operazione estremamente rischiose e soggette all’accusa di “ideologia” e di “strumentalizzazione”. Eppure il dubbio rimane, e riguarda le piccole storie. Storie di miserie, di disperazione, di rifugiati politici, di carrette del mare e di miti collettivi, che aiutano a sperare, almeno per un po’, in una delle tante “Meriche delle cento lire” disseminate per il mondo.

Partire per emigrare non era certamente una scelta che si poteva prendere a cuor leggero. Il ruolo della famiglia era determinante. Si poteva, infatti, scegliere di andar via da soli o con alcuni dei parenti più stretti, ma si poteva anche emigrare perché richiamati da un familiare,  il padre o il marito, che già risiedevano da tempo all’estero.
Molto spesso il far partire un componente della famiglia e mandarlo a cercare fortuna in America  era visto, da parte di chi rimaneva, come una sorta di investimento per il futuro, reso possibile grazie ai dollari che l’emigrante avrebbe poi mandato a casa.
Una volta che la decisione era stata presa, occorreva trovare i soldi per acquistare il biglietto del bastimento ed avere poi a disposizione una piccola somma per le prime necessità (negli Stati Uniti era obbligatoria). Anche a questa incombenza, normalmente, provvedevano amici e parenti con un prestito: il più delle volte si firmavano alcune cambiali con l’impegno che   il denaro sarebbe stato restituito, con i dovuti interessi. In mancanza di tali finanziatori per così dire, “familiari” si era costretti a ricorrere a persone esterne alla propria cerchia di parenti. In questo caso si correva il rischio di incappare in soggetti poco raccomandabili che potevano anche costringere il futuro emigrante ad impegnare o vendere la propria casa o il piccolo pezzo di terra. In ogni caso, comunque, era sempre in agguato il rischio, tutt’altro che remoto, di vedere le masserizie sottovalutate o, nella peggiore delle ipotesi, di venire truffati da mediatori senza scrupoli.
Durante i primi anni della grande emigrazione, quando ancora le leggi non prevedevano un’adeguata tutela dell’emigrante, questi doveva vedersela anche con gli emissari di alcuni governi stranieri (ad esempio quello brasiliano) che per convincerli a partire per quel Paese promettevano viaggi gratuiti e retribuzioni favolose.
Da ultimo, ma non meno insidiosi per i nostri emigranti, erano gli agenti e i rappresentanti delle compagnie di navigazione che, non di rado, assicuravano comodi viaggi in nave e un lavoro sicuro e qualificato,  pur di vendere un biglietto.

QUANDO L’EMIGRANTE ERA UN POLLO DA SPENNARE…

E’ triste dover raccontare certe cose… ma sentite questa:

Spesso erano le Banche a farsi carico dei soldi necessari per il solo biglietto di andata dell’emigrante, al quale veniva chiesto in garanzia del prestito la casa e l’appezzamento di terreno, un rudere di pietra che, al momento, aveva ben poco valore. Quando poi l’emigrante arrivava sul posto si rivolgeva al fiduciario della Banca collegata con l’Italia che, naturalmente era ignaro delle trattative intercorse e di contratti stipulati in merito… In questo modo l’emigrante ligure capiva immediatamente di essere stato raggirato!

Una volta sistemato negli States, l’avo rivierasco non pensava più di ritornare in patria dove non aveva più nulla, e poi c’erano le guerre e ancora tanta fame. Le sue proprietà nel frattempo erano passate definitivamente a certe Banche locali che, al momento opportuno, pensarono bene di “rapallizzare” e sappiamo quanto...(???). Molte storie tutte identiche ci sono state raccontate persino a Portofino, Santa Margherita e Rapallo che testimoniano quanto all’epoca dell’emigrazione nostrana la povertà dei nostri avi andasse di pari passo con il basso valore delle loro proprietà.

 

Ringrazio ENTELLA TV e l’impagabile Trasmissione FRA AMICI che ci ha raccontato questi sconcertanti retroscena anche attraverso interviste e testimonianze di discendenti di quei “poveri cristi” la cui maggioranza non tornò più in Italia per non “sporcarsi le mani”…

Forse un giorno, qualcuno sopra le parti, oppure sotto… non ha importanza, ci racconterà con dovizia di particolari i meccanismi che regolarono l’emigrazione del passato ma che, a quanto sembra, persistono ancora oggi con altri sistemi, magari paralleli.

Certo, oggi il FENOMENO lo vediamo da “estranei” ogni giorno in TV, ma siamo proprio sicuri di “colpire i veri responsabili” con le nostre critiche, ansie, paure e voglie di cambiamenti?

 

Carlo GATTI

Rapallo, 19 Ottobre 2017

 

 


IL PUNTO NAVE - DAL SESTANTE AL GPS ESCLUSO...

IL PUNTO NAVE

DAL SESTANTE AL GPS … escluso

Ricordi e Testimonianze

Introduzione

di Ernani Andreatta

 


NEMESILancia senza Madonnina…

Fanno parte delle collezioni del Museo Marinaro oltre 15.000 fotografie in cartaceo di tutte le navi militari del mondo con particolare attenzione a quelle della nostra Marina Militare Italiana sin dall'unità d’Italia del 1861.  La collezione apparteneva a Giuliano Gotuzzo di Santa Margherita Ligure, storico e appassionato collezionista navale di ottimo livello.

La documentazione storica del Museo attraverso pubblicazioni, fascicoli e giornali di guerra, data sin dai primi dell’ottocento ed è straordinaria così come le oltre 250.000 fotografie quasi tutte a tema marinaro che fanno parte degli archivi informatici del Museo.

Molti grandi armatori dell’epoca eroica della vela come gli Accame, i Raffo, Bacigalupo ed altri hanno affidato al Museo Marinaro tutti i loro archivi storici dell’800 che sono stati messi in ordine di data e rilegati. Il traffico commerciale, le avarie, le polizze di carico e altre curiose documentazioni come “il codice dei telegrammi cifrati degli armatori ai tempi della vela” sono, nel loro genere, un patrimonio unico e importante per rarità e complessità di reperti.

Ma la produzione letteraria potrebbe non fermarsi dato che è in via di realizzazione un libro dal titolo “I 500 bastimenti di Chiavari”. “…Perché è un assurdo, che il "Campanino", ideatore di seggiole, sia diventato più famoso dei Gotuzzo e dei Tappani costruttori di navi”.

Così scrisse il Comandante Pro Schiaffino Presidente onorario del Museo Marinaro di Camogli e storico di grande fama con profonda conoscenza delle cose di mare. Certamente ritorneremo su questo argomento anche per “onorare” la verità storica.

Il buon Dio e la natura hanno dato, fin dagli albori, la possibilità al navigante di stabilire la latitudine misurando la latitudine misurando di notte l’altezza della stella Polare, oppure misurando di giorno l’altezza massima che il sole raggiunge sopra la sua testa.

IL ROMANZO DELLA LONGITUDINE

UNA SOLUZIONE ATTESA MILLENNI

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=547;lapi&catid=36;storia&Itemid=163

Intervista del Comandante-webmaster Carlo GATTI al Comandante Ernani ANDREATTA

Inserita il 23.05.11 sul sito di Mare Nostrum Rapallo, quell’intervista oggi conta 11.500 visitatori! Ciò significa che l’interesse per l'argomento esiste in tutto il mondo, eccetto che nelle Scuole dedicate...

Come sarebbe a dire? Ve lo spiego subito!

Nel frattempo, sono passati solo sei anni e si é saputo, con molto rammarico, che all’Istituto Tecnico Nautico di Camogli, il quale oggi non si chiama più così, del PUNTO NAVE fatto con le rette d’altezza misurate con il SESTANTE, non se ne parla proprio più.

Pare che gli studenti nautici non abbiano mai preso il SESTANTE IN MANO, neppure una volta nei cinque anni previsti dal corso.

A nostro modesto avviso si tratta di una sacrosanta vergogna, in genovese: di una belinata colossale!

Il “nostro" sistema stellare é sicuramente antiquato, ma dovrebbe essere tuttora “TRASFERITO”, almeno sul piano culturale, ai nuovi allievi come "sapere marinaro" del “passato prossimo". Tutti infatti siamo consapevoli, in particolare i naviganti che, in caso di necessità, (spegnimento dei satelliti per motivi bellici) i metodi cosiddetti antiquati come le RETTE D’ALTEZZA dei nostri tempi…, potrebbero ritornare “necessariamente” di moda perché erano e si basano tuttora su metodi scientifici, quindi esatti! Ed é quindi molto “imprudente” considerare “superati” certi calcoli astronomici basati sulla matematica più avanzata.

Ben vengano i nuovi sistemi tecnologici, ma io farei molta attenzione ad eliminare la VERA ARTE DEL NAVIGARE e dei suoi strumenti basilari:

- la conoscenza del cielo stellare,

- uso di un buon sestante,

- uso del cronometro,

- uso delle Effemeridi Nautiche dell’anno in corso.


Quando i Velieri si arenavano sugli scogli perché non conoscevano la Longitudine.

Per la soluzione della longitudine c’è stato invece il buio totale fino alla metà del 1700.

E’ impossibile sapere quante navi siano naufragate nei millenni per l’errata valutazione della longitudine.

Questo fantastico capitolo della storia della navigazione ha inizio, pensate, con la soluzione trovata da un orologiaio, l’inglese John Harrison che affermò:

“E’ sufficiente che ogni nave sia equipaggiata con un cronometro in grado di misurare l’ora esatta, quella di Londra per esempio, ed un semplice confronto con l’ora locale del punto dove si trova la nave, fornirebbe istantaneamente il “FUSO ORARIO”, cioè quanti gradi e primi, e dunque la longitudine della nave e quindi anche la sua distanza dal meridiano 0° convenzionale-politico di riferimento”. Ma quell’uomo ci mise tutta una vita per fare accettare questo semplice concetto ai grandi astronomi del 1700.


Il Comandante Ernani Andreatta mostra il cronometro navale della “Texaco Arizona” varata nel 1949 presso il celebre Cantiere Navale Bethlehem Steel Corporation di Quincy, Massachusetts (USA)

Ci troviamo in compagnia del Comandante Ernani Andreatta, fondatore e conservatore del Museo Marinaro Tommasino-Andreatta di Chiavari.

Comandante, nel 1999 siamo stati entrambi folgorati dal piccolo libro “Longitudine” di Dava Sobel, non tanto per l’aspetto scientifico che avevamo già analizzato al Nautico, ma per la storia “sofferta” di Harrison che ignoravamo totalmente.

E’ vero! Del piccolo libro di Dava Sobel, “Longitudine”, mi affascinò soprattutto l’argomento trattato che mi stimolò per avviare ulteriori ricerche sull’argomento che culminarono con una conferenza, della quale fui relatore nello stesso anno alla Scuola Telecomunicazioni di Chiavari.

Sicuramente abbiamo in comune un ricordo: il primo ordine che veniva impartito all’Allievo ufficiale di coperta del dopoguerra, fino all’avvento del GPS, era quello di dare la carica, ogni mattina, al cronometro di bordo.

Questo fa parte della nostra storia di naviganti. Per anni abbiamo navigato usando il sestante per trovare la posizione della nave, misurando cioè l’altezza degli astri e soprattutto usando quel famoso cronometro, da lei accennato, a cui occorreva dar la carica tutte le mattine. Lo ritenevo un normale strumento che, come la bussola, faceva parte della strumentazione di bordo. A quel tempo non sapevo che il cronometro di bordo era stato, dopo infiniti anni di naufragi e disastri, la soluzione ai fondamentali problemi del calcolo della posizione della nave.

A pensare che Harrison era nato falegname…

John Harrison, nato falegname e non orologiaio, ebbe ragione addirittura su certi Astronomi Reali che non credevano anzi, guardavano con sospetto alla sua “piccola scatola magica”. Quel piccolo oggetto meccanico rappresentava la scoperta scientifica più importante della storia marittima e mai più avrei immaginato che dietro a quel cronometro che maneggiavo quasi con fastidio, si era consumata una durissima vicenda esistenziale per un uomo straordinario e testardo come il nostro eroe.

Spieghiamo ai nostri lettori la principale necessità di dover calcolare la longitudine.

Agli inizi del 1700, il problema di tutte le navi era calcolo della longitudine, in pratica la distanza lungo un parallelo, da un meridiano di riferimento, e di conseguenza la posizione esatta della nave. Questo era il vero problema che assillava tutti i naviganti.  Agli occhi degli uomini del settecento, il mondo aveva un aspetto molto lontano da quello che gli atlanti, i mappamondi e le fotografie scattate dai satelliti ci hanno reso familiare. Non si contavano i capitani ed i loro equipaggi che avevano perso la vita schiantandosi sugli scogli di una costa che secondo i calcoli sbagliati non doveva essere lì.

Per fortuna dei marinai, all’orizzonte apparve John Harrison il quale fornì la soluzione e la sostenne fin da subito: ogni nave doveva essere equipaggiata con un cronometro in grado di segnare sempre l’ora “esatta” di Londra che, messa a confronto con l’ora locale-solare, avrebbe istantaneamente fornito il “Fuso Orario” e dunque la Longitudine della nave.

Purtroppo, trovata la soluzione teorica, si presentava un altro problema di ordine pratico: un cronometro così preciso non esisteva nemmeno sulla terraferma.

Quanto tempo impiegò J. Harrison a vincere la sua personale scommessa?

E’ la storia avvincente di quarant'anni di sforzi che furono necessari a John Harrison non solo per costruire e perfezionare quel cronometro, ma soprattutto per persuadere la comunità scientifica dell’efficacia del suo metodo semplice e definitivo.

Occorre sottolineare che a quel tempo la mentalità prevalente era per le soluzioni avanzate dagli astronomi illustri, tra cui G.Galilei.

I grandi astronomi dell’antichità insegnarono a calcolare la latitudine, ma poi indirizzarono le loro ricerche nei meandri dell’universo. Forse la longitudine non era così importante nei limiti geografici della navigazione costiera conosciuta prima delle grandi scoperte geografiche.

Già nel 150 D.C. il cartografo e astronomo Tolomeo aveva tracciato le latitudini e le longitudini nelle ventisette carte geografiche che rappresentano una pietra miliare e un punto di riferimento importantissimo.

Per far capire meglio ai nostri lettori, ci può definire la differenza cruciale tra la Latitudine, misurata a partire dall’equatore, verso nord e verso sud e la Longitudine, misurata invece da un meridiano 0° convenzionale?

Il parallelo di Latitudine di grado ZERO vale a dire l’equatore è fissato da leggi della natura; infatti, osservando i moti apparenti dei corpi celesti, il sole, la luna e i pianeti passano quasi esattamente sopra l’equatore.  L’identificazione del meridiano fondamentale Zero, invece, è una decisione squisitamente politica.  Nel tempo, da Tolomeo in avanti si stabilirono come meridiano Zero, di volta in volta: le Canarie, l’arcipelago di Madera, Le Azzorre, Le Isole di Capo Verde, Roma, Copenaghen, Gerusalemme, San Pietroburgo, Pisa, Parigi, Filadelfia, prima di fissarlo, in modo universale, a Londra e precisamente a Greenwich.

L’esempio più eclatante d’errore di Longitudine ce lo diede C. Colombo che Salpò il Parallelo e credette di essere arrivato a Cipango. Ci può chiarire il rapporto tra tempo orario, longitudine e distanza geografica?

Cristoforo Colombo nel 1492 “Salpò il Parallelo” ed è fuor di dubbio che, sulla sua rotta, se non ci si fosse messa di mezzo l’America, avrebbe sicuramente trovato le Indie. Pertanto, la misura della longitudine è fortemente influenzata dall’ora e per calcolare la longitudine in alto mare bisogna sapere non soltanto che ora è a bordo della nave in un dato momento, ma anche che ora è, in quello stesso istante, nel porto di partenza o in un altro luogo di cui si conosca la longitudine. Le ore segnate dai due orologi rendono possibile al navigante la trasformazione di differenza oraria in distanza geografica. Poiché la terra impiega 24 ore per completare un’intera rotazione di 360 gradi, un’ora equivale a un 24esimo di giro, ovvero a 15° (gradi). Quindi, la differenza di un’ora tra la posizione della nave e il punto di partenza indica un avanzamento di quindici gradi di longitudine verso oriente o verso occidente. Quando in mare, il navigante, regola l’orologio della sua nave sul mezzogiorno - il momento in cui il sole raggiunge il punto più alto nel cielo, cioè lo Zenit - e quindi consulta l’orologio del punto di partenza, sa che la discrepanza di un’ora si traduce in 15 gradi di longitudine. Quegli stessi 15° (gradi) corrispondono anche ad una certa distanza percorsa. All’equatore, dove la circonferenza della terra è massima, equivalgono a mille miglia nautiche. A nord e a sud di tale linea, il valore di ciascun grado misurato in miglia diminuisce. Un grado di longitudine equivale a quattro minuti in tutto il mondo, ma in termini di distanza si contrae dalle 68 miglia all’equatore ad uno zero virtuale ai poli.

Un orologio preciso e trasportabile è stato quindi il “segreto” che ha rappresentato la vera svolta nella sicurezza della navigazione?

La conoscenza simultanea dell’ora esatta di due luoghi diversi – un pre-requisito del calcolo della longitudine - che oggi, riusciamo ad ottenere con economici orologi da polso, era una meta irraggiungibile sino a che non furono inventati gli orologi a pendolo. Ma sul ponte di una nave, che stava rollando, tali orologi diventavano pressoché inservibili perché acceleravano o rallentavano enormemente e non parliamo poi dell’influenza della temperatura tra le zone fredde e i tropici.

Possiamo affermare che la sola conoscenza della latitudine non solo fu un grande limite per i grandi navigatori, ma possiamo aggiungere che essi arrivarono dove arrivarono per “benevolenza della fortuna”?

Quasi tutti i grandi navigatori, da Vasco de Gama a Vasco Munez de Balboa, da Ferdinando Magellano a Sir Francis Drake, arrivarono dove arrivarono, volenti o nolenti, per grazia di Dio e benevolenza della fortuna. Anche il Re Giorgio III d’Inghilterra e lo stesso Luigi XIV cercarono di risolvere questo problema ed il grande James Cook fu uno dei primi esploratori a dar fiducia a Harrison con ben tre lunghi viaggi sperimentali, prima d’incontrare una morte violenta alla Hawai.

Che parte ebbero nella vicenda “Longitudine” i famosi astronomi dell’epoca?

Astronomi famosissimi s'ingegnarono in ogni modo e maniera per risolvere il problema del calcolo della longitudine. Ne cito alcuni come G. Galilei, Jan Dominique Cassini, Cristian Huygens, Sir Isaac Newton, Edmond Halley (lo scopritore della cometa…) ma tutti sbagliarono, perché rivolsero i loro studi alla luna e alle stelle, forse travisati dal calcolo squisitamente astronomico della latitudine. In realtà, Galileo studiò un metodo per calcolare la longitudine, ma era complicatissimo e del tutto inapplicabile a bordo alle navi.

Non c’è dubbio che questa ricerca portò anche ad altre straordinarie scoperte come il peso della terra, la distanza delle stelle e la velocità della luce.

Comandante, ci racconti alcune tragedie marinare che furono causate dalla pessima conoscenza della longitudine.

Il problema era sempre lo stesso!  Soltanto attraverso il calcolo della longitudine si sarebbe arrivati alla conoscenza della “vera” posizione della nave. Nel 1707, l’ammiraglio di Sua Maestà Sir Clowdisley perse quattro navi (su cinque), e oltre duemila uomini d’equipaggio in prossimità delle Isole Shilly a sud dell’Inghilterra (Lands End). Quando l’Alto Ufficiale scoprì con sgomento d’aver calcolato male la longitudine, era già tragedia… E pensare che un membro dell’equipaggio li aveva insistentemente avvertiti che stavano sbagliando e fu impiccato per insubordinazione.

C’è da notare che la non conoscenza della longitudine allungava i viaggi a dismisura, dipanandosi in mille episodi orripilanti di uomini uccisi dallo scorbuto e dalla sete, di spettri fra il sartiame, di approdi di navi ridotte a relitti con le chiglie frantumate sulle rocce e cumuli di cadaveri di annegati a imputridire sulle spiagge. In moltissimi casi l’ignoranza della longitudine portava un vascello ad una rapida fine. Infine possiamo aggiungere che l’incapacità di calcolare la longitudine influiva negativamente sull’economia: le navi erano costrette a seguire solo determinate rotte conosciute e così, sulle stesse rotte, si affollavano baleniere, mercantili, navi da guerra e corsari naturalmente, cadendo preda uno dell’altro.

Personalmente fui colpito dalla tragedia del Madre de Deus. Ci può raccontare brevemente quel tragico episodio?

Nel 1592, il gigantesco galeone portoghese Madre de Deus, armato con ben 32 moderni cannoni di ottone, mentre si trovava al largo delle Azzorre, di ritorno dall’India, s’imbatté al largo delle Azzorre nella flotta inglese che lo colò rapidamente a picco. Da notare che la flotta Inglese stava aspettando quella spagnola e non il Madre de Deus.

Il galeone trasportava sotto coperta ogni ben di Dio: oro, argento, perle, brillanti, ambra, arazzi, ebano, tela di cotone stampata e le preziose spezie, quantificate in quattrocento tonnellate di pepe, quarantatré di chiodi di garofano, trentacinque di cannella e tre di noce moscata e macis. Il carico del Madre de Deus valeva circa mezzo milione di sterline che era la metà del gettito fiscale di tutta l’Inghilterra a quell’epoca.

Nel 1641 il Commodoro Anson, al comando del Centurion, perdette ben tre navi delle cinque che erano al suo comando, oltre agli equipaggi di circa 600 uomini. La sua disavventura nel passare dall’Atlantico al Pacifico, attraverso Capo Horn, fu causata dal non conoscere la longitudine quindi la posizione della sua nave, ma fu anche straordinariamente aggravata da 58 giorni di terribili burrasche.

Gli uomini migliori, insomma, perdevano l’orientamento una volta che la terra non era più visibile ed il mare non offriva nessun indizio utile a calcolare la Longitudine. A causa dei numerosi naufragi e delle perdite di uomini e navi si diffuse persino il timore, o la superstizione che alla soluzione di quel problema si opponesse qualche divieto divino.

Il Parlamento Inglese, con il celebre “Longitude Act” del 1714, stanziò l’astronomica somma di 20.000 sterline, circa 20 miliardi di vecchie lire, a chi avrebbe inventato un sistema pratico e utile per il calcolo della longitudine. Qui cominciò l’avventura di J. Harrison?

L’orologiaio inglese John Harrison, un genio della meccanica, fu il pioniere della scienza della misurazione del tempo, mediante strumenti precisi e portatili. Il tecnico dedicò la sua vita a questa ricerca realizzando ciò che Newton riteneva impossibile: inventò un orologio che, come una fiamma eterna, avrebbe trasportato l’ora esatta dal porto di partenza ad ogni remoto angolo della terra. Senza preparazione teorica né apprendistato pratico presso un orologiaio, Harrison costruì una serie di orologi quasi del tutto privi di attrito, che non abbisognavano di lubrificazione o pulizia, fatti di materiali inattaccabili dalla ruggine, in grado di mantenere le parti mobili in perfetto equilibrio reciproco, a prescindere da come, intorno a loro il mondo si impennava o rollava. Abolì naturalmente il pendolo e accostò differenti metalli all’interno del suo congegno in modo che quando un componente dell’orologio si espandeva o contraeva per variazioni di temperatura, l’altro componente ne neutralizzava gli effetti mantenendo costante il ritmo dell’orologio.

Harrison ebbe molti nemici che fecero carte false contro di lui, a tutti i livelli!

Infatti, i risultati conseguiti dal nostro eroe furono vanificati dai membri della comunità scientifica, che diffidavano della “scatola magica” di Harrison. I commissari, incaricati di assegnare il premio stanziato, Nevil Maskelyne tra loro, cambiavano le regole della gara tutte le volte che lo ritenevano opportuno, così da favorire sempre gli astronomi rispetto a Harrison e ad altri meccanici. Alla fine, la precisione e l’efficienza dei cronometri di Harrison trionfarono. I suoi seguaci migliorarono la splendida e complessa invenzione con qualche modifica che consentì in seguito di produrla in serie e di diffonderne l’uso.

Il Re d’Inghilterra, un monarca illuminato, intervenne in soccorso di Harrison!

E’ vero! Nel 1773 un Harrison vecchio e sfinito reclamò, al riparo dell’ala protettiva di Re Giorgio III, il premio che gli spettava di diritto. Erano trascorsi quarant’anni tumultuosi, segnati da intrighi politici, guerre internazionali, ripicche accademiche, rivoluzioni scientifiche e crisi economiche.

La vita di Harrison fu costellata di delusioni e colpi bassi di ogni specie. Gli ammiragli e gli astronomi della Commissione per la Longitudine appoggiarono sempre apertamente il metodo delle distanze lunari di Maskelyne perché lo vedevano come lo sviluppo logico delle esperienze in mare e negli osservatori. Dopo il 1750, grazie agli sforzi congiunti dei molti che contribuirono a questa grande impresa internazionale, sembrava finalmente che il sistema fosse applicabile a bordo.

Ci parli ora della produzione dei cinque prototipi di Harrison.

Harrison costruì cinque prototipi di orologi che identificò con la sigla H-1, H-2, H-3, H-4 e negli ultimi anni della sua vita l’H-5. Per l’H-3 soltanto impiegò ben 19 anni. Ne uscì una macchina perfetta che sgarrava di appena un secondo, dopo numerosi giorni. Durante tutti questi anni di durissimo lavoro non accettò mai altre commissioni più redditizie, ma costruì soltanto qualche “volgare” orologio per sbarcare il lunario. Soltanto il 30 novembre del 1749, Harrison lasciò il suo banco da lavoro per ricevere un’alta onorificenza che era la Copley Gold Medal, una medaglia d’oro che fu in seguito assegnata a personaggi come Benjamin Franklin, James Cook e Albert Eistein, tanto per citarne alcuni. Il penultimo di una stirpe di questi gioielli in ottone, l’H-4 ha un diametro di soli dodici centimetri e pesa soltanto un chilo e trecento grammi; sembra più un grosso orologio da taschino che non un cronometro di bordo.  All’interno delle sue due custodie d’argento finemente decorate c’è la meraviglia delle sue minuscole parti con rotelle dentate che girano sorrette da rubini e diamanti per evitare l’attrito. Come Harrison sia riuscito ad inserire i gioielli nell’Orologio, rimane a tutt’oggi un mistero del quale non fornisce spiegazioni della tecnica usata, per dare alle gemme la loro caratteristica e cruciale configurazione.

L’H-4 è tuttora esposto al National Maritime Museum di Londra e attira ogni anno, assieme all’H-1-2-3 circa otto milioni di visitatori.


I Cronometri di Harrison

Eccoci arrivati al primo esperimento del cronometro di Harrison. John delegò il figlio William?

Finalmente, nel 1762 ci fu la prova del nove per l’H-4. Fu imbarcato sulla nave di sua Maestà il Deptford. Sulla nave s’imbarcò il figlio minore di Harrison, William. La traversata Atlantica durò quasi tre mesi, il 19 Gennaio del 1762 il Deptford arrivò a Port Royal in Jamaica. Salì a bordo il rappresentante della commissione che doveva giudicare l’orologio di Harrison. Robinson e William Harrison confrontarono i due orologi per stabilire la Longitudine. Dopo 81 giorni di mare, l’H-4 aveva perduto soltanto 4 secondi! Ma Nevil Maskeline, l’alto prelato amico degli astronomi e nemico dichiarato del “nostro” orologiaio, per ironia della sorte, era lì ad aspettare il cronometro per giudicarne l’efficienza nel calcolo della longitudine! Le discussioni con William furono interminabili. Pensate! Il calcolo della longitudine si era ridotto ad una discussione tra un astronomo e un orologiaio su una desolata spiaggia delle Barbados.

Come si concluse il viaggio?

L’orologio ritornò a Londra, sempre ben custodito da William Harrison sul Merlin. Il viaggio di ritorno fu altrettanto disastroso per il mare in burrasca e spesso William, che soffriva il mare, doveva avvolgere l’orologio in un plaid e tenerlo al caldo col proprio corpo. Il 26 Marzo, giorno dell’arrivo a Londra l’H-4 ticchettava ancora.

Che fine fece il tanto agognato Premio?

Invece delle 20.000 sterline Harrison ne ricevette soltanto 1.500 con la scusa che, disse la commissione, “gli esperimenti finora condotti sull’Orologio non erano stati sufficienti per determinare la Longitudine”. Avrebbe ricevuto altre 1000 sterline quando l’H-4 fosse tornato dalla sua seconda missione in mare. Un certo Bliss, astronomo, che faceva parte della commissione giudicante, affermò che la cosiddetta precisione dell’orologio, era stata una “fortunata coincidenza”. Cosi, l’orologio di Harrison dovette subire ancora numerose prove e controprove sotto la diffidenza dei grandi astronomi del tempo. Poi Harrison, finalmente, sempre per intercessione di re Giorgio III riuscì ad ottenere tutto il premio messo in palio dal Longitude Act.

Ha inizio una nuova era. L’Inghilterra diventa la “Signora dei Mari”, grazie all’orologio di Harrison.

Quando John Harrison, il 24 Marzo del 1776 morì, esattamente a 83 anni dopo la sua nascita avvenuta nel 1693, egli assurse allo stato di “martire degli orologiai”. Per interi decenni era rimasto in disparte, praticamente solo, come l’unica persona al mondo seriamente impegnata a risolvere il problema della Longitudine facendo ricorso alla misurazione del tempo. Poi all’improvviso, sulla scia del successo dellH-4, legioni di orologiai cominciarono a dedicarsi alla costruzione di orologi marini. Dopo tre secoli di “sicura navigazione” per i sette mari, la totalità degli studiosi sostiene che Harrison ha favorito la conquista dei mari da parte dell’Inghilterra, e quindi contribuito alla creazione dell’impero britannico, perché fu grazie al cronometro che le navi inglesi divennero le signore degli oceani.

Si sciolse la commissione per la Longitudine. Il cronometro, nonostante l’antipatia degli astronomi, venne assegnato a tutte le navi e, nel giro di pochi decenni, entrò negli inventari di bordo e vi rimase fino ai giorni nostri. Comandante ci avviamo alla conclusione di questo revival storico, ma prima di ringraziarla, lasciamo ancora a lei la parola per trarre alcune conclusioni.

Nel 1828 la Commissione per la Longitudine si sciolse e l’assegnazione dei cronometri a bordo passò all’Istituto Idrografico della Marina, vale a dire ai cartografi. Era un compito non da poco, dato che oltre all’assegnazione, l’Istituto era anche incaricato di ritirare e riparare i vecchi cronometri. Spesso a bordo alle navi idrografiche incaricate dei rilievi se ne potevano imbarcare anche una quarantina in modo da avere dei calcoli di longitudine più precisi. Evidentemente l’idea del cronometro aveva finito per fare breccia. L’estrema praticità dell’approccio del nostro John Harrison era stata dimostrata in modo tanto esauriente che tutta la concorrenza di astronomi e scienziati era svanita come per incanto. Una volta installatosi stabilmente a bordo, il cronometro finì ben presto nell’inventario, come ogni altra cosa essenziale compresa la bussola. La sua storia controversa insieme con il nome del suo inventore venne molto presto dimenticata dagli uomini di mare, che ne facevano uso ogni giorno.

Oggi, il calcolo della Longitudine è finalmente venuto agli onori della storia e reso finalmente giustizia a quel fuoriclasse che fu John Harrison!

Carlo Gatti


Dal Corriere Mercantile del 21 Maggio 2011 apprendiamo che al Comandante Ernani Andreatta é stato assegnato il Premio Nazionale "Nonno dell'Anno". Il famosissimo riconoscimento arriva dall'Associazione "O Leudo" di Sestri Levante e la motivazione sulla targa "Un salvataggio per i posteri" si riferisce alla grande opera di salvataggio, restauro e catalogazione di migliaia di reperti marinari del Tigullio che ora sono conservati nel Museo Marinaro Tommasino-Andreatta che ha trovato finalmente ospitalità e grandi spazi presso la Scuola Telecomunicazioni delle Forze Armate, Caserma Leone di Chiavari.

Si consiglia a tutti la visione del filmato YOUTUBE creato, studiato e composto dal Comandante Ernani Andreatta a scopo divulgativo.

https://youtu.be/yxCfiaugxhw

Si tratta di un sistema molto semplice che viene spiegato al Museo Marinaro per capire che cosa sono le rette d’altezza che, quando non si vedeva più la costa, era l’unico sistema affidabile per ottenere il punto nave, prima della diffusione del sistema GPS.

Vi segnalo il LINK di un ottimo articolo del nostro sito, MARE NOSTRUM RAPALLO, autore Comandante Nunzio CATENA titolo:

ANNI '60 - RICORDI DI BORDO E DINTORNI...

che si attaglia perfettamente all’argomento in oggetto. Nunzio ci parlerà di questo trasporto, del quale segnaliamo anche un video e altri simpatici aneddoti. Riteniamo pertanto che molti anziani “lupi di mare”, leggendo questi ricordi, rivivranno una parte della loro gioventù, ma siamo inoltre convinti che anche le nuove generazioni di studenti nautici e giovani ufficiali in servizio troveranno in queste “testimonianze” notevoli spunti di riflessione su come si navigava al tempo dei loro nonni, senza strumenti elettronici, con il radar che andava in avaria nel momento in cui serviva, con il radiogoniometro inattendibile... molto spesso affidandosi soltanto al sestante e al buon senso marinaresco.

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=312;ricordi&catid=54;saggi&Itemid=160

Riporto anche la “succosa” testimonianza dell’Amico Direttore di Macchina dott. Vittorio CIVITELLA, compagno di nuoto e di bordo. GRAZIE Vittorio!

Carlo

Mio impagabile Comandante,

ti ringrazio molto della istruttiva lezioncina sulle alchimie del punto nave, delle rette d’altezza e quant’altro: un dvd accattivante, esaustivo e diligente come pochi. Peccato che, in buona misura, i potenziali interlocutori da te raggiunti valendoti maliziosamente d’una mia mailing-list a cui era indirizzato un mio personale invito d’altra natura, avendo interessi presumibilmente diversi da certe esclusive specificità marinaresche, non avranno modo di apprezzare come si conviene lo spessore della tua profferta. Cosa che, invece, non ho mancato di fare io che della materia sono sempre stato un attento modesto estimatore. Mi sovviene, non senza tradire un certo spleen, d’un tempo in cui, durante le lunghe navigazioni oceaniche (ho fatto quasi 10 anni di petroliera prima di entrare in Adriatica), giovane Terzo Macchinista, chiudevo la seconda guardia della notte (come ti sarà noto in marina libera il Terzo copriva la seconda guardia e il Secondo copriva la terza) e dopo un breve spuntino andava in plancia e mi intrattenevo col collega di Coperta il quale, dietro mia insistente preghiera, mi metteva al corrente dei rudimenti dell’arte della navigazione. Amavo allora capire tutto ciò che era possibile capire anche se i miei studi erano stati di ben altra natura: rette d’altezza, l’orizzonte ponderale, la disposizione delle stelle, le effemeridi nautiche... Accarezzavo con timore referenziale il sestante Platt di cui egli era munito e che era per me uno strumento esoterico. Al momento fatidico del “punto nave” chiedevo curioso: “Cosa mi prendi stasera: Capella, Betelgeuse, Aldebaran...?” Il mio preferito era Arcturus da cui traevo benefici auspici. Di buon grado sostavo davanti al cronografo in sala carteggio o davanti alla chiesuola della Magnetica attendendo con trepidazione il suo “Lesta?” a cui io prontamente rispondevo “Lesta!” in attesa dello stentoreo “Stop!”. Dopodichè seguivano tutti i calcoli che io mi bevevo come un assetato. Il manuale delle Effemeridi era per me come un libro sacro al punto che ogniqualvolta veniva rinnovato (ogni anno, mi pare di ricordare) chiedevo la copia scaduta e me la mettevo in valigia come un oracolo, e qualche collega sorrideva con commiserazione: So much water has passed in the Giordan! dicono gli Ebrei. Ognuno forgia e segue il suo destino: il mio è stato molto diverso dal tuo ma gli studi universitari gli hanno dato almeno un senso. Compiuto o incompiuto che sia ormai è troppo tardi per dolersene o per compiacersene.

Se avrò tempo farò un salto al Museo: sarà un’occasione per salutarci da vecchi marinai. O da marinai vecchi...

Un abbraccio,

Vittorio

ALBUM FOTOGRAFICO DI

ERNANI ANDREATTA

Sulle rette d’altezza e varie…


Ottanti

OTTANTE molto raro

 

Cielo Stellato

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Le sei foto a seguire sono la rappresentazione didattica del concetto delle RETTE DI ALTEZZA SU CUI SI BASANO I CALCOLI STELLARI PER OTTENERE IL PUNTO NAVE (FIX). Opera di Giancarlo Boaretto

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Cronometro di bordo Hamilton Anni ‘60

Sestante di bordo

Ottica del Sestante

Lesta ... Stop!

I calcoli stellari di Nunzio Catena in navigazione da Marsiglia a Rosario, il 10 ottobre 1966. In alto: Retta d'altezza di sole alle 10.00 che a mezzogiorno viene "trascinata" ad incrociarsi con la retta di MERIDIANA fornendo il punto nave che, tuttavia,  sarà più preciso al crepuscolo serotino, quando saranno osservati più astri ed il Punto Nave risulterà da un incrocio perfetto di Rette d'altezza (come da disegno).

NAVIGAZIONE SATELLITARE

GPS

The Global Positioning System

 

Comandante Ernani Andreatta

(Autore e Regista del DVD: Il Punto Nave dal Sestante al GPS)

Hanno collaborato:

Comandante:................ Carlo Gatti

Comandante:................ Nunzio Catena

Comandante:................ Giancarlo Boaretto

Direttore di Macchina:.... Vittorio Civitella

Rapallo, 24 Ottobre 2017

 

 


NAVI LAPIDARIE

NAVI LAPIDARIE

E "NAVIGAR" ...
M'E' DOLCE IN QUESTO MAR

Fra i grossi “pesi” trasportati dalle navi mercantile ONERARIE che arrivavano e partivano da Ostia, dal Porto di Claudio e poi da quello di Traiano, vi erano i sarcofagi: in alcuni di essi vi erano scolpiti i volti delle persone defunte infatti, furono i romani ad inventare il ritratto. Ma i carichi più pericolosi da trasportare via mare erano le colonne destinate ai Templi sacri delle grandi e ricche città del Mediterraneo romano.

Le navi lapidarie, mediamente lunghe dai 25 ai 40 metri e capaci di un carico utile fra le cento e le trecento tonnellate, erano imbarcazioni appositamente rinforzate per reggere ai pesi immani a cui erano sottoposte.



Ricordiamo che per trasportare l’obelisco egiziano del Vaticano, Come racconta Plinio, Caligola fece costruire nel 37 d.C. una nave gigantesca per l’epoca.


Ivi infatti fu affondata dall’imperatore Claudio e sopra vi fu edificata una triplice torre (il celebre Faro di Ostia Antica) costruita con pietra di Pozzuoli...”.

Era lunga 128 mt. e per tenere bloccato il monolito ci vollero 4 macigni di granito a bordo e una zavorra di 2.800.000 libbre di lenticchia egiziana, che comunque andò a ruba una volta che la nave giunse ad Ostia. Con la sua lunghezza si ricoprì quasi tutto lo spazio del molo sinistro del porto Ostiense. Quella nave lapidaria fu usata solo per quel viaggio e poi fu affondata come base per il celebre Faro di Ostia, la cui posizione topografica é stata finalmente individuata in questi ultimi anni con sistemi di fotogrammetria satellitare.

I numerosi relitti identificati di navi lapidariae hanno permesso di ricostruire anche i criteri di carico, orientati per ragioni di sicurezza ad assicurare il massimo riempimento delle stive. Questa esigenza, dovuta al pericolo di spostamenti del carico in mare, comportava la scelta di effettuare carichi non omogenei (ad esempio solo fusti di colonne), ma diversificati, con blocchi di varia forma che consentissero di occupare per intero il volume delle imbarcazioni.

VENEZIA. Questa stupenda immagine subacquea racconta la ricostruzione delle navi romane grazie alle fotografie in 3D di carichi di marmi naufragati sui fondali del Mediterraneo.

“Le rotte del marmo”

I ricercatori di Ca’ Foscari e IUAV hanno esplorato l’enorme carico lapideo, uno dei più grandi in assoluto del Mediterraneo antico, lasciato in fondo al mare da una nave nei pressi dell’Isola delle Correnti-(Sicilia).
Sotto indagine archeologica, 290 tonnellate di marmo (stando alle stime), proveniente dall'isola di Marmara, antica Proconneso, in Turchia. Le informazioni tratte da questa spedizione si aggiungeranno a quelle già raccolte a Punta Scifo, Calabria, e nel 2014 a Marzamemi e Capo Granitola, in Sicilia. In tutti questi casi si tratta di relitti di navi romane datati preliminarmente al 3° secolo d.C., con carichi di marmi orientali.

Il legno delle navi è andato quasi completamente perduto. Il loro carico, invece, è rimasto sui fondali a ricordare i naufragi. I ricercatori, guidati da Carlo Beltrame, docente di archeologia marittima del dipartimento di Studi Umanistici dell'Università Ca' Foscari Venezia, stanno applicando dei metodi innovativi per ricomporre la disposizione del carico e da questa ricostruire la nave. La prima ricostruzione preliminare in 3D è stata realizzata per il relitto di Marzamemi, mentre per gli altri siti lo studio è in corso.

In aiuto ai ricercatori arriva la fotogrammetria, tecnologia già usata in architettura e nel rilevamento topografico. Il progetto “Le rotte del marmo”, invece, porta la fotogrammetria sperimentale in fondo al Mediterraneo, avvalendosi della consulenza di Francesco Guerra, responsabile del laboratorio di fotogrammetria dell'Università IUAV di Venezia.


I blocchi di pietra diventano immagini tridimensionali mentre i campioni di marmo vengono studiati dal gruppo di Lorenzo Lazzarini, direttore del Laboratorio per l'Analisi dei Materiali Antichi dello IUAV. L'originalità di questa applicazione è stata di recente premiata come miglior paper al ISPRS/CIPA workshop "Underwater 3D recording & modeling" di Sorrento.

Rilievo del carico della navis lapidaria e ipotesi su forma dello scafo e posizione di arenamento (adattamento da immagine Archeogate).Il carico è composto da cinquantanove blocchi disposti su otto file, per un volume totale di cinquantacinque metri cubi: tra i monoliti appena intagliati di forma parallelepipeda o trapezioidale vi sono anche tre podii destinati a sorreggere statue onorarie, forse evergeti;

Evergetismo è un termine coniato dallo storico francese André Boulanger (1923) e deriva dall'espressione greca εεργετέω ("io compio buone azioni"); indica la pratica, diffusa nel mondo classico, di elargire benevolmente doni alla collettività apparentemente in modo disinteressato.

probabilmente vi sono anche dei capitelli, quelli tempo addietro recuperati dai sommozzatori dei Vigili del Fuoco di Mazara ed ora esposti nell'acropoli di Selinunte forse in ragione di una semplicistica sovrapposizione dell'ipotesi sulla destinazione al dato della vicinanza geografica con l'antica colonia magno-greca.


Panoramica sui blocchi della navis lapidaria (foto Archeogate).

L'equipaggio è composto da una decina di uomini. "Li possiamo immaginare in affanno mentre manovrano le vele e i remi-timone per riguadagnare il largo: un vortice, in zona Puzziteddu, deve aver fatto perdere al comandante il governo della nave, che adesso i flutti di libeccio spingono verso la spiaggia del faro. E' alla deriva: prosegue la sua corsa mentre il fondale si fa sempre più basso. D'un tratto si fa troppo basso per il pescaggio dello scafo: l'attrito di una secca sabbiosa ne arresta il convulso tragitto. Gli uomini, scaraventati in mare, riescono a trarsi in salvo perchè l'acqua è alta poco meno di un metro. Il comandante impreca. Gli altri, ammutoliti, osservano dalla spiaggia i frangenti, lo schiaffo del mare. La nave e il suo carico sono oramai perduti...”

Monolite in marmo proconnesio (foto Archeogate).

Il marmo proconnesio (marmor proconnesium in latino) è una varietà di marmo bianco tra le più utilizzate nell’Impero romano.

La varietà presenta un colore bianco, con sfumatura cerulee, uniforme o con venature grigio-bluastre ed ha cristalli grandi.

Le cave si trovavano nell'isola del Proconneso (nome antico in greco Prokonnesos, nel mar di Marmara, dal greco marmaros, "marmo") e dipendevano amministrativamente dalla città antica di Cizico, sulla vicina costa anatolica.

Le prime esportazioni del marmo dalle cave dell'isola, utilizzate localmente già in epoca greca, risalgono alla seconda metà del I Secolo d.C.: tra i più antichi esempi di esportazione sono gli elementi architettonici del restauro del tempio di Venere a Pompei, dopo il terremoto del 62.

Le cave erano di proprietà imperiale e le più importanti si trovavano presso le località di Monastyr, Kavala, e Saraylar. Producevano in serie elementi architettonici, vasche e sculture decorative, e sarcofagi. Nelle cave stesse i manufatti venivano sbozzati secondo le indicazioni dei committenti, per essere poi completati al loro arrivo. Dal IV secolo si svolsero sul posto tutte le fasi della lavorazione e i manufatti erano esportati ad uno stadio di lavorazione quasi completo.


Podio in marmo proconnesio (foto Archeogate).

Il carico di marmo è noto all'accademia degli archeologi dal 1977 ma è difficile pensare che sia sempre stato ignorato dal giorno del naufragio. 1500-1600 anni fa, il sito di arenamento si trovava, verosimilmente, in corrispondenza dell'allora linea di costa. Certo, lo scafo ligneo non deve aver resistito a lungo all'instancabile azione dei flutti, ma il suo pesante carico, di compattissimo marmo, è probabilmente rimasto lì, in quel limbo terri-marino in cui gli oggetti vengono di continuo coperti e scoperti dalle maree. E forse, con quel "Granitolis", l'umanista G. G. Adria, senza andare troppo per il sottile sulle tipologie di marmo, si riferiva al carico (che oggi, grazie ad analisi petrografiche, sappiamo non essere di granito) della navis lapidaria. Oppure - cosa che ci si può attendere da un umanista - il toponimo Capo Granitola ("Caput Granitolis", con "Granitolis" nella sua accezione mineraria in senso lato, ad indicare più che altro le rocce tufacee dell'era quaternaria) è la traduzione di quella locuzione araba "Ras-el-Belat" (capo roccioso) il cui cruento ricordo doveva suonare ancora fastidioso.

Il relitto di Kartibubbo (Sicilia Sud Occidentale) è una specie di mausoleo sottomarino in cui ogni monolite commemora un naufragio, uno scafo ingoiato, “digerito dal grande intestino acquatico e mai restituito”. Un tratto di mare navifago, capace di usare le sue indomabili correnti e i suoi bassi fondali come trappole mortali per i legni in transito. Già in epoca greca, intorno al V secolo a. C., una nave carica di zolfo sarebbe naufragata tra Kartibubbo ed il Puzziteddu; alcune parti della sua chiglia con chiodi di rame ed il carico di anfore frantumate sarebbero state individuate dal professor Gianfranco Purpura. In epoca romana, oltre alla navis lapidaria, qui conclusero il loro tragitto almeno due navi: una probabilmente durante la battaglia delle Egadi (249 a.C.), e l’altra, in età imperiale, nel II-III secolo d.C.- Storie tragiche raccontano i cocci d’anfora ed i pezzi di piombo (coi quali si equilibravano gli scafi ovvero le ancore) che di tanto in tanto il cestello di qualche raccoglitore di ricci riporta in superficie.

Anche in Liguria, nel Golfo di La Spezia, abbiamo la nostra nave lapidaria

Un riferimento importante alla romanità del Promontorio del Caprione ci è stato fornito dal ritrovamento della nave romana affondata alla Caletta, il seno di mare posto fra le punte di Maralunga e Maramozza, (al centro della mappa) detta nel Medioevo Cala Solitana. La nave trasportava tre grandi pezzi di colonne di marmo lunense (rocchi), di cui uno già recuperato ed abbandonato presso il Museo di Luni (vedi foto). Il naufragio sembra occasionale, ma analizzando bene la scogliera esterna del promontorio di Maralunga si scopre uno strano intaglio, assai grande, di decine di metri, molto antico perché dello stesso colore della scogliera, perfettamente piano, che induce a pensare ad un piano di appoggio di grandi pesi. Diviene quindi logico pensare che si sia tentato, in epoca romana, di costruire qualche tempio, dedicato forse alla Venere Ericina, nella splendida natura del promontorio di Maralunga. La nave, lì ormeggiata per il trasbordo dei grandi pesi, sarebbe stata colta da un fortunale e sarebbe finita contro la scogliera.

Ciò che in ogni modo è strano, è che la colonna, offerta dalla Sovrintendenza al Comune di Lerici, sia stata rifiutata dal Sindaco pro-tempore che tenne nascosto il fatto. Forse perché era troppo oneroso fare il relativo basamento, che ovviamente avrebbe dovuto sopportare il peso di tutti e tre i rocchi? Secondo altri si sarebbe dovuto creare un parco archeologico sottomarino, ma nulla è stato fatto di tutto ciò. Secondo altri le colonne non verrebbero mai tirate su, per non far emergere il fatto increscioso dei cercatori di datteri che le avrebbero in parte rovinate. In ogni modo si tratta di una devalorizzazione ignobile, rispetto alla ipotesi di vedere svettare al tramonto del Sole una alta colonna romana, testimone della nostra storia!

La Caletta. Scavo e recupero di relitto di Navis Lapidaria


Documentazione fotografica del recupero


Breve ricostruzione storica

In seguito a segnalazione vennero effettuati nella zona di Lerici - Baia della Caletta, diversi sopralluoghi che hanno permesso di individuare tre corpi lapidei approssimativamente cilindrici, parzialmente ricoperti dal fondale sabbioso ad una profondità di circa 8-9 m.

Tali ricerche, realizzate nel luglio 1990 con l’ausilio del Nucleo Carabinieri Subacquei di Genova e del circolo “Duilio Marcante”, permisero di riconoscere e documentare i tre massicci elementi, misure in centimetri:

n. 1: 210/198 x 380;

n. 2: 195/190 x 495;

n. 3: 185/178 x 260),

ricoperti dalla sabbia per circa un terzo del loro diametro. La loro sovrapposizione grafica permise poi di capire che si trattava di tre rocchi relativi ad un’unica colonna, dal fusto alto oltre 11 m. Le analisi nel contempo effettuate su alcune porzioni prelevate dal manufatto

lapideo, consentirono di stabilire che si trattava di marmo proveniente dalle Alpi Apuane, cioè dalle cave dell’antica Luni.


Negli anni successivi 1990, '91, '92, '93 e '97 sono state effettuate numerose campagne di scavo che hanno permesso anche il recupero di uno dei tre rocchi di colonna, l’elemento n. 2.

Un saggio effettuato nello spazio compreso fra i rocchi n. 2 e n. 1 restituì, ad una profondità corrispondente al piano d’appoggio di questi ultimi, numerosi resti metallici, fra cui chiodi, lunghi fino a 20-23 cm, abbondanti frammenti di lamina plumbea e piccoli chiodini di rame, destinati al fissaggio della lamina. I frammenti ceramici erano tutti relativi ad anforacei, tra i quali prevalevano quelli relativi ad anfore del tipo Dressel 2-4.


Il rocchio di colonna della nave romana affondata si trova ora nel

MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE E ZONA ARCHEOLOGICA DI LUNI

Il territorio comunale è posto ai piedi della Alpi Apuane, nell'estrema propaggine della Riviera di Levante, in prossimità del confine con la regione Toscana.



LUNI – Ricostruzione grafica di come era nell’Epoca Imperiale.

Notare la zona portuale


Questo museo apre le porte di una città: Luni, fondata dai Romani nel II secolo a. C.

Il Museo Archeologico Nazionale di Luni, inaugurato nel 1964, è stato costruito all’interno dell’area dell’antica città di Luna, fondata nel II secolo a.C. come colonia romana e divenuta in seguito il principale porto d’imbarco per il marmo bianco proveniente dalle vicine cave apuane e destinato a Roma. I materiali archeologici in esposizione consentono di seguirne l’evoluzione, dall’impianto della colonia nel 177 a.C. alla fase di massimo splendore raggiunto durante la prima metà del I secolo d.C, passando attraverso la trasformazione in sede episcopale nel V secolo d.C., fino al definitivo abbandono nel 1204.


Anche i Romani guardavano l’orologio! Solo che non era a molla o a pile come i nostri, ma funzionava grazie alla luce del sole. Questa meridiana è stata rinvenuta in una ricca domus della città: nel foro superiore si inseriva l’asta di metallo che, proiettando la propria ombra sulla parte concava, divisa in spicchi da sottili incisioni, indicava l’ora.


Particolare del mosaico di Oceano, la decorazione musiva che ha dato il nome all’intera domus in cui è stato trovato. Nella parte centrale è raffigurato il dio del mare, attorniato da una grande varietà di pesci resi in modo molto realistico. Tra le onde ci sono anche due amorini a cavallo di un delfino: qui ne puoi vedere uno, il solo che si è conservato per intero, mentre regge un tridente nella mano destra.


Incredibile ma vero...

L’anfiteatro, costruito in epoca imperiale, è uno dei monumenti meglio conservati della città: ne resta solo il primo piano, ma probabilmente ce n’erano altri due, per un totale di 7.000 spettatori! Qui si svolgevano i giochi gladiatori, combattimenti tra lottatori dotati di gladius, una spada corta e larga, e tra animali feroci. Si trattava di spettacoli assai violenti, ma che i Romani amavano molto!

Ringraziamo:

La Soprintendenza Archeologica della Liguria ed il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo per averci concesso la pubblicazione di materiale a scopo divulgativo.


Carlo GATTI

Rapallo,  28 settembre 2017


M/V ANTONIO LANDI, UNA TRISTE STORIA!

Motoveliero

“ANTONIO LANDI”

Una Triste Storia!


Motoveliero-goletta Antonio Landi

Sul sito di MARE NOSTRUM RAPALLO abbiamo dedicato molte pagine alla storia del porto di Genova, ma il suo percorso è così lungo e articolato che molti sono ancora gli autori e i testimoni di questa lunga catena che dovranno documentare tanti fatti che emergono ogni giorno ed interessano non solo gli studiosi, ma anche coloro che nel porto vivono, lavorano e respirano la sua cultura.

Il palcoscenico del porto più importante del Mediterraneo cambia infatti ogni giorno: nuovi arrivi, nuove partenze, navi che si spostano al suo interno per ragioni diverse ma sempre necessarie per alimentare quella fama di operosità che lo ha reso famoso nel mondo.

Ci sono poi le libecciate, i danni alla lunga diga e alle banchine fino ad allora ritenute sicure, navi che naufragano sulla diga, petroliere che s’incendiano, altre che scoppiano, trombe d’aria che abbattono gru gigantesche. Insomma, i giorni felici si alternano a giorni infausti, periodi di pace lunghi e produttivi che sono seguiti da tremendi anni di guerra.

Sfogliando questo “antico manoscritto” che ogni giorno volta pagina per raccontare episodi nuovi e sempre diversi, oggi ci soffermiamo sul triste epilogo di una piccola nave: la ANTONIO LANDI e del suo equipaggio. 12 ragazzi italiani che morirono in un lontano giorno di 73 anni fa nell’anfiteatro portuale di Genova. Una storia poco nota perché le vittime erano marinai, appartenenti a quella categoria definita in tanti modi. Per noi, la più realistica è questa:

I VIVI, I MORTI E I NAVIGANTI

In terra, quando succedono delle calamità naturali, incidenti, bombardamenti e crolli c’è sempre qualcuno pronto ad immortalare la tragedia, a diffondere le immagini e ad intervistare superstiti e testimoni.

In mare si muore in modo diverso: si viene colpiti dai marosi o dalle bombe e si affonda senza lasciare tracce; si toglie semplicemente il disturbo senza rilasciare dichiarazioni, giustificazioni, senza avere il tempo di chiedere perdono dei propri peccati.

In quei tristi giorni del 1944 i genovesi di terra, di porto e di mare vivevano sotto i bombardamenti aero-navali degli Alleati, mentre gli invasori tedeschi minavano oltre 10 chilometri di diga ed anche le sue banchine principali, affondavano le navi militari e mercantili più importanti sulle due imboccature di quel tempo per impedire agli alleati, ormai alle porte, d’impossessarsi dell’intero porto e respingere l’esercito di Hitler oltre i confini italiani.

Il capitolo che oggi vi raccontiamo non fa parte della grande storia. Non si tratta infatti di un argomento al centro di risonanti convegni, ma riporta e ricorda un fatto bellico che provocò pochi morti. Un numero “quasi” insignificante rispetto al mezzo milione di vittime italiane della Seconda guerra mondiale.

Perché scriverne allora? Semplicemente perché erano ragazzi imbarcati su un vecchio veliero disarmato che pendolava in mezzo al golfo con il compito di avvistare i sottomarini inglesi.

Dodici marinai che si sono inabissati nell’oscuro silenzio delle acque di Genova, avvolti nelle vele del pacifico veliero ANTONIO LANDI.

La goletta, 415 tonnellate di stazza lorda, fu varata nel 1919 per l’armatore Carlo Landi di Savona e per un ventennio veleggiò tra i porti del Mediterraneo come nave da carico. La sua insignificante carriera fu interrotta dall’entrata in guerra dell’Italia il 10.6.1940. Requisita dalla Marina Militare fu adibita ad un servizio umile e di poco prestigio; un tempo il suo ruolo era noto come “nave civetta” che aveva il compito di avvistare il nemico nel raggio di poche miglia dal porto di Genova e di allertare le postazioni costiere. Ma ora entriamo in cronaca diretta.

Alla goletta militarizzata viene assegnata la sigla V-106. Pare sia stato riconfermato lo stesso equipaggio mercantile che ha una buona pratica di vele e di manovre “silenziose”. Qualcuno, posto nelle alte sfere della M.M. decide che V-106 meriti un “aggiornamento militare” per far fronte alle nuove tecnologie adottate dai sottomarini inglesi. L’operazione di restyling avviene presso l’Arsenale di Spezia con l’imbarco di innovative apparecchiature tedesche. L’arrivo del fatidico 8 settembre 1943 stravolge la situazione politica nazionale. La flotta italiana si consegna a Malta e la piccola V-106 rimane intrappolata nella base spezzina. La marina di Salò, d’accordo con i tedeschi, può armare solo naviglio minore che non dia nell’occhio. La “nave civetta” cambia padrone ed imbarca giovani marinai della Marina del Nord. Sono genovesi, amici tra loro ed abitano nei caruggi di Genova.

Si provvede all’installazione della artiglieria leggera ed inizia il suo lavoro di “sentinella costiera”. Improvvisamente le si dà un nuovo ruolo operativo tra Spezia e Genova e tra Genova e Savona, trasporta munizioni, scorta motozattere e le KT tedesche, sfila nel buio tra le mine, sempre di notte per non essere avvistata dagli aerei inglesi. Per queste missioni ha cambiato sigla e prende una nuova identità: C.S.13.

Colpo di scena. La goletta ha anche il suo giorno di gloria abbattendo un aereo nemico. Passa di grado e diventa un “Caccia Sommergibili”, piccolo, ma insidioso!

Formazioni di Bombardieri USA Consolidated B-24 Liberator

L’Epilogo. Il 4 settembre 1944, quel maledetto giorno, 144 aerei americani arrivano da NE, si abbassano ad una quota di precisione e sganciano, dalle 12.50 alle 14.10, uno sproporzionato numero di bombe che fu definito “il più distruttivo bombardamento che la città dovette subire nella sua storia distruggendo case, monumenti, industrie, affondando navi e uccidendo oltre 300 persone”.


Molo Giano-Ormeggio della Antonio Landi. Sullo sfondo la Torre Piloti ricostruita con lo stesso disegno, per due volte, dopo i bombardamenti della Seconda guerra mondiale.

La ANTONIO LANDI, poi V-106 ed infine C.S.13 é ormeggiata a Molo Giano vicino alla TORRE DEI PILOTI che quel giorno crolla sotto i bombardamenti, per la seconda volta, in quella famigerata Seconda guerra mondiale. (Nota dell’autore: Come il lettore sa, in quella zona … dimenticata da Dio, anche la terza Torre di controllo dei piloti fu abbattuta dal cargo Jolly Nero il 7 maggio 2013).

Già nella prima mattinata, il suono stridulo delle sirene lacera l’aria più volte segnalando con largo anticipo l’avvicinarsi di una incursione aerea che poi si rivela

falsa.


Bombardieri (Consolidated B-24 Liberator)provenienti dal primo quadrante (NE) perlustrano il porto prima di sganciare le bombe


Sirena

Nel dubbio che prima o poi si realizzi l’incursione aerea nemica, l’equipaggio del veliero viene evacuato e convogliato nelle gallerie scavate nella roccia alla radice del Molo Giano. Ma i giovani, si sa, sono impazienti e quando indossano la divisa militare diventano veri soldati che non accettano di scappare verso il rifugio. Temerari e ardimentosi ritornano a bordo. Tradire quella “Bandiera vecchia, Onor di Capitano” non rientra nei loro sogni di gloria!


Bombardamento navale di Genova (aree più scure: zone ove registrò una maggior concentrazione dei punti di caduta dei colpi britannici)

1 – Molo Principe Umberto (attuale “diga foranea”)

2 – Ponti Eritrea e Somalia

3- Ponte Parodi

4- Zona Bacini

5- Zona dell’Ospedale Galliera

6- Stazione Brignole

7- Stazione Principe

8- Zona industriale della Valpolcevera

9- Cantieri Navali Ansaldo

10- Batteria “Mameli”

L’appuntamento con la morte è ormai vicino. Passano pochi minuti quando le prime bombe, urlando e fischiando devastano il porto. Colonne d’acqua si alzano in cielo sollevando corpi e pezzi di nave a centinaia di metri.

La goletta A. LANDI ed il suo esiguo equipaggio di valorosi vengono inesorabilmente colpiti. Affondano insieme, abbracciati come amanti e vittime dello stesso destino. Veliero e marinai hanno la stessa età, quella età in cui nei giorni di guerra si muore senza sapere il perché!


“Dodici ragazzi che non torneranno più”. Rinaldo abitava in vico della Croce Bianca, viene trasportato cadavere da mani pietose, fino all’ospedale di Sampierdarena. Di Ugo, Alvaro, Pietro, Vittorio, e Giuseppe che abitava in Vico Monte di Pietà, non si ha più traccia. Alla ferocia dei bombardamenti si aggiunge anche l’egoismo del mare che non vuole restituire quei poveri corpi ai loro cari e alla città, ma trattiene questa piccola storia per sé, forse per raccontarla a modo suo… in eterno!

Carlo GATTI

Rapallo, 14 Aprile 2017