SUL CASTELLO DI RAPALLO SOPRAVVIVE UN SIMBOLO RELIGIOSO

SUL CASTELLO DI RAPALLO

SOPRAVVIVE UN SIMBOLO RELIGIOSO


Il Castello, simbolo per eccezione della città, sorge sullo specchio d'acqua del golfo di Rapallo, sul lungomare Vittorio Veneto. Il castello sul mare è una postazione difensiva di Rapallo, nella città metropolitana di Genova. È denominato anche come “castello medievale”, definizione errata visto che la costruzione è risalente alla seconda metà del XVI secolo.

I lavori per la sua costruzione, si conclusero sotto il Podestà Benedetto Fieschi Raggio nel 1551. All'interno è presente anche una piccola cappella dedicata a San Gaetano, costruita nel 1688, con la caratteristica cupoletta con campana ben visibile all'esterno. Nella sua storia il Castello è stato sede di importanti organi statali fino al secolo scorso, quando è stato dichiarato "Monumento Nazionale" e ceduto al Comune.

Una locale tradizione, inserita tra gli eventi più celebri durante le festività patronali in onore di Nostra Signora di Montallegro, nei primi tre giorni di luglio, vede il Castello cinquecentesco protagonista di un fantastico spettacolo pirotecnico.

In ambito territoriale è il simbolo per eccezione della cittadina rapallese e dichiarato monumento nazionale italiano dal Ministero dei Beni Culturali.

SAN GAETANO

in un dipinto di Giambattista Tiepolo

Vicenza, ottobre 1480 - Napoli, 7 agosto 1547

Fondatore dell’Ordine dei Chierici regolari teatini; nel 1671 è stato proclamato santo da papa Clemente X - E’ detto il Santo della Provvidenza.



All'interno del castello era presente, sino alla metà degli anni ’50, una piccola cappella dedicata a San Gaetano costruita nel 1688 con la caratteristica cupoletta con campana, ben visibile all'esterno del castello, ancora oggi, come mostra la freccia.

Perché fu scelto San Gaetano?

Non siamo certo noi a poter dare questa risposta, tuttavia, spulciando qua e là… abbiamo ritenuto che fosse importante segnalarvi alcuni passaggi della sua vita che lo collocano molto in alto nelle gerarchie della chiesa per il valore delle sue imprese…

San Gaetano fu uno dei più significativi riformatori della Chiesa del Cinquecento.

. Papa Giulio II lo nominò protonotario apostolico e suo segretario particolare.

. Fondò la Compagnia del Divino Amore

. Fondò l’Ospedale Nuovo degli Incurabili

. Fu uno dei fondatori dell’Ordine dei Teatini

. Fondò l’Ordine dei Somaschi

. Ideò ed istituì il Monte di Pietà (l’odierno Banco di Napoli)

. Diede un impulso formidabile al presepe partenopeo

. Realizzò il primo presepe vivente

. San Gaetano anticipò e mise in pratica molte delle riforme che il Concilio di Trento avrebbe deciso in seguito.

Assieme a San Gennaro, è compatrono di Napoli, e patrono di Chieti.

Il Giubileo dei carcerati

«Attraversare la Porta santa è un gesto simbolico, carico di significato, vuol dire andare al di là della posizione in cui si era un attimo prima”.

San Gaetano dedicò la propria esistenza a lottare a favore degli orfani, degli incurabili, dei carcerati, dei poveri; preferì sempre la compagnia dei meno abbienti e dei derelitti. Questo amore infinito che provava per gli sfortunati trovò espressione anche in un gioco semplice poi battezzato "Il gioco di San Gaetano": un gioco che amava fare con chiunque e nel quale scommetteva preghiere o rosari che avrebbe compiuto un servizio per loro - ci riusciva sempre, ed essi dovevano sempre 'pagare' con preghiere.


San Gaetano fu uno dei più significativi riformatori della Chiesa del Cinquecento, Gaetano da Thiene, nasce a Vicenza nel 1480, da famiglia-nobile.
Da giovane dava tutto ciò che poteva ai bisognosi e spesso chiedeva a parenti e amici di donare anch'essi ai poveri. Era umile, obbediente e sottomesso; ma, al momento opportuno, sapeva anche essere fiero delle sue credenze e risoluto nell’affermarle.

Studiò diritto a Padova, dove non cedette alle molte tentazioni tipiche di una grande città. Tutte le mattine si recava a messa, poi frequentava le lezioni all’Università e si dedicava alle visite prolungate ai poveri nei tuguri, negli ospedali e nelle carceri.

 

A differenza di altri giovani della sua età, gli anni trascorsi a Padova gli rinforzarono il sentimento religioso e Gaetano decise che sarebbe diventato sacerdote. E tale sarebbe stata la sua dedizione pastorale che sarebbe diventato una roccia di fede alla quale molti si aggrapperanno saldamente. Eppure, celebrerà la sua prima Messa soltanto a trentasei anni e la sua umiltà era così grande che gli ci vorranno parecchi mesi di preparazione e di preghiera prima di riuscirci: considerava una "gran superbia" l'essere salito all'altare.

 

Terminò brillantemente gli studi con la doppia laurea in diritto canonico e civile e gli fu conferita la "corona d’alloro", sogno di tutti i laureandi del tempo. Poi, nel 1506, mentre cercava di vivere umilmente, tra i poveri a Roma, fu chiamato dal  Papa Giulio II (di Albisola), il quale non tenne conto di vari aspiranti più anziani e lo nominò a protonotario apostolico e suo segretario particolare, posizione che terrà per 13 anni.

Fu allora che iniziò la sua riflessione sugli usi e costumi della Chiesa che sarebbe sfociata in propositi di riforma, e con il futuro Papa Paolo IV, Gian Pietro Carafa, si unì alla Compagnia del Divino Amore, un ristretto cenacolo di sacerdoti e di laici impegnati nella carità verso il prossimo.

Gaetano, pur essendo di famiglia ricchissima, vestiva con semplicità, e il suo alloggio era una semplice cameretta spoglia arredata da un tavolo e una sedia - il suo materasso un sacco di paglia.

Dopo un'apparizione della Vergine, la notte di Natale del 1517, decide di portare fino in fondo l'impegno assunto. Gaetano stava pregando nella Chiesa di Santa Maria Maggiore, nella cappella del Presepio davanti ad un'immagine di Maria col Figlio, quando, improvvisamente, la Vergine posò Gesù sulle sue braccia tese. La visione si ripeté altre due volte in altre circostanze.

Forte di questa esperienza sconvolgente, proseguì il suo peregrinare tra Vicenza, Verona e Venezia. A Venezia Gaetano rimarrà solo due anni, abbastanza però per dar vita a due istituzioni: quella del "Divino Amore" e l’altra, più grande, dell’Ospedale Nuovo degli Incurabili.
Verso la fine del 1523, Gaetano tornò a Roma, dove si riunì al vescovo Giampietro Carafa, a Bonifacio Colli e a Paolo Consiglieri. I quattro condividevano un ideale fondamentale: vivere da poveri per i poveri.

Di lì a poco, maturarono l'idea di fondare un nuovo ordine basato sulla povertà, sulla obbedienza e sulla castità. Fu così che i quattro fondarono l'"Ordo Regularium Theatinorum", la congregazione dei Teatini, la prima congregazione di chierici regolari. Presero il nome di 'Teatini' dal nome latino di Chieti (Teate), di cui Carafa era il vescovo. Era il 1524, e il nuovo ordine aveva come scopo preciso anche quello di riformare il clero, e sarebbe diventato un tassello fondamentale nel rinnovamento della Chiesa.

Comunemente si dice "Riforma" quella iniziata da Lutero e “Controriforma" quella operata in seno alla Chiesa, per tornare all’osservanza degli antichi principi. Sarebbe più giusto dire Scisma Protestante e Riforma della Chiesa.

In detta Riforma, Gaetano Thiene ha un suo posto: preciso, autorevole, nobilissimo. A differenza della riforma luterana, che partiva dall'alto, la riforma di Gaetano partiva dal basso, dalla strada, dai poveri.
Non predicò la riforma: preferì attuarla Carafa che fu il primo superiore generale dell'Ordine, sebbene l'idea della fondazione era di don Gaetano da Thiene, ma, umile com'era, quest'ultimo si tenne in disparte. I teatini volevano vivere da poveri, affidando la loro vita interamente alla Divina Provvidenza, senza mai chiedere aiuto a nessuno, vietandosi perfino di mendicare. Gaetano rinunciò a tutti i suoi beni per dedicarsi completamente ad una vita per gli altri.

Nel 1527, dopo aver subito inenarrabili soprusi e violenze durante il Sacco di Roma, i teatini fuggirono a Venezia. Qui il nobile Girolamo Emiliani li aiutò e, contemporaneamente, condividendo l'esperienza di Gaetano, scoprì la propria vocazione, il proprio grande amore per i disereditati.
Più tardi diede origine all’Ordine Somasco che, per molti versi, rispecchiò gli ideali dei teatini. I Padri Somaschi si dedicheranno all’educazione degli orfani e dei ragazzi in genere.

E proprio a Napoli sta per nascere un Museo permanente del presepe, che avrà sede nella chiesa di San Paolo Maggiore, in piazza San Gaetano, nel cuore del centro storico. Luogo perfetto per una simile esposizione, sito al termine di via San Gregorio Armeno, la via dei presepi, e in quel complesso teatino dove si insediò San Gaetano da Thiene, il primo che a Napoli si impegnò nella realizzazione di un presepe vivente, e che sempre a Napoli per primo costruì, nell’oratorio di Santa Maria della Stalletta presso l’Ospedale Incurabili, un presepe con figure in legno abbigliate secondo la foggia del tempo.

Sempre a Napoli, Gaetano ebbe anche un'importanza fondamentale nello sviluppo del presepe partenopeo. Costruì, per primo, nell'oratorio di Santa Maria della Stelletta presso l'Ospedale degli Incurabili, un presepe con figure in legno abbigliate secondo la foggia del tempo. A questo fatto, considerato rivoluzionario, seguì poi l'ampliamento della rappresentazione mediante personaggi che appartenevano sia al mondo antico sia all'epoca contemporanea, senza alcun timore di eventuali anacronismi: in tal maniera il Santo dava vita a quella che sarebbe rimasta come una delle principali caratteristiche del presepe, cioè la sua atemporalità, che permette di far rivivere la nascita del Cristo in ogni epoca.

Inoltre, si impegnò nella realizzazione del primo presepe vivente di cui si ha testimonianza a Napoli.
Anche in questo Gaetano anticipò il Concilio di Trento (1545-1563), il quale avrebbe favorito la diffusione del presepe quale espressione della religiosità popolare.
Per opera dei Gesuiti il presepe divenne strumento didattico per l’evangelizzazione dei popoli.
Nel 1540, Gaetano tornò a Venezia, aprì ospizi per i vecchi e fondò altri ospedali a Vicenza e Verona.
Infine tornò a Napoli dove c'era più da lavorare. Vi rimase fino alla morte, che sopraggiunse all'età di sessantasette anni. In punto di morte, in preda a forti sofferenze fisiche, vide di nuovo la Sacra Vergine che si rivolse a lui dicendo:
"Gaetano, Mio Figlio ti chiama, andiamo in pace".

Prima di morire, Gaetano espresse il desiderio di essere sepolto in una fossa comune nella Chiesa di San Paolo. Era il 1647.
Otto anni dopo, Carafa fu eletto papa col nome di Paolo IV. Presto si sarebbe rivelato un vero riformatore.
Beato nel 1629 per volere di Papa Urbano VIII, Gaetano fu poi canonizzato da Clemente X nel 1671.
Nel 1980, Papa Giovanni Paolo II fece notare come il messaggio di San Gaetano fosse sempre attuale:

  • Per il suo spirito altamente sacerdotale, inteso ad una permanente riforma dell'"uomo interiore";
  • Per il suo ardore per la riforma della Chiesa del suo tempo, Chiesa "semper reformanda";
  • Per il suo ritorno alle genuine fonti del Vangelo alla maniera di vivere degli Apostoli;
  • Per lo zelo posto nel decoro della Casa di Dio e nel servizio liturgico;
  • Per la sua instancabile dedizione al servizio degli infermi, dei poveri, degli emarginati;
  • Per il suo fiducioso abbandono alla provvidente Bontà del Padre Celeste.

Per la Chiesa fu esempio vivente di come votare la propria vita all'essere servi di Dio, di come vivere secondo i valori predicati da Gesù. Si ritiene unanimemente che San Gaetano anticipò e mise in pratica molte delle riforme che Il Concilio di Trento avrebbe deciso in seguito.
Si mosse verso Dio con fiducia, sapendo che Dio lo stava aspettando e che lo avrebbe aiutato, convinto che fosse dovere del fedele cercare Dio, andargli incontro, convinto che fosse facile farlo - per tutta la vita cercò di convincere gli altri, quasi incredulo che si potesse ignorare Gesù e il suo amore: "Cristo aspetta ma niun si muove".
Per questa sua illimitata fiducia nell'Onnipotente, è venerato come il
Santo della Provvidenza.


L'iconografia tradizionale mostra San Gaetano abbigliato da monaco con un cuore alato sul petto. A volte viene rappresentato con un libro, una penna, un giglio, un cuore ardente, oppure con Gesù in braccio. Assieme a San Gennaro, è compatrono di Napoli, e patrono di Chieti. E' il santo protettore dei disoccupati, di chi cerca lavoro, e dei donatori di sangue.

A questo punto, il lettore ha il diritto di chiedersi quale sia il motivo che ha spinto la nostra curiosità ad occuparci di questo santo protettore dei carcerati, ma evidentemente anche dei carcerieri…

Rispondiamo segnalando a seguire il LINK del racconto “drammatico” di quanto accadde nelle segrete del Castello cinquecentesco di Rapallo che fino ai primi anni ’50 erano adibite a carcere: sei celle in tutto.

Forse anche a voi verrà fatto di pensare all’intercessione di quel Santo della Provvidenza che intervenne evitando vittime ed un bagno di sangue innocente!

Sito di Mare Nostrum Rapallo

L’ULTIMO PRIGIONIERO DI RAPALLO

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=529;segrete&catid=52;artex&Itemid=153

Rapallo, domenica 22 luglio 2018

A cura di CARLO GATTI

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Rapallo: LO SCIOGLIMENTO DEL VOTO....

08 Luglio 2018

Rapallo: lo scioglimento del voto chiude le ‘Feste di Luglio’

COSA E' LO SCIOGLIMENTO DEL VOTO?

Un rito secolare che risale al 29 agosto 1657. Rapallo scampò alla peste e i suoi abitanti, in segno di riconoscenza alla Madonna, fecero VOTO SOLENNE di recarsi in processione al Santuario "in un dì dell'ottava del 2 luglio" (giorno dell'Apparizione della Madonna al contadino Giovanno Chichizola nel 1557), di celebrarvi una MESSA e di offrire un OBOLO in segno di gratitudine alla Vergine. Da allora il rito si ripete ogni anno.

Nel nostro servizio fotografico, emerge la grande partecipazione dei rapallesi, delle Autorità, di molte Associazioni cittadine e dei MASSARI che sono il vero cuore  e motore di questi giorni di LUGLIO.

La comunità rapallese si è radunata al Santuario di N.S. di Montallegro per la cerimonia dello Scioglimento del Voto, ultimo atto dei Festeggiamenti in onore della Patrona di Rapallo e del suo Capitaneato.

Un rito secolare, quello celebrato questa mattina in una bella giornata di sole e con una grande e sentita partecipazione. Per la civica amministrazione erano presenti il sindaco Carlo Bagnasco, il vicesindaco Pier Giorgio Brigati, il presidente del consiglio comunale Mentore Campodonico, l’onorevole Roberto Bagnasco, il consigliere metropolitano Agostino Bozzo, gli assessori Arduino Maini, Elisabetta Lai e Umberto Amoretti, i consiglieri comunali Filippo Lasinio, Alessandro Mazzarello, Walter Cardinali, Elisabetta Ricci, Giorgio Costa, Mauro Mele, la dirigente Anna Maria Drovandi. Nutrita anche la presenza dei massari dei Sestieri rapallesi, il “motore” delle Feste di Luglio in onore della Vergine di Montallegro, dei rappresentanti delle forze dell’ordine e delle realtà associazionistiche cittadine: tra queste, il Gruppo Storico che ha preso parte alla cerimonia con i figuranti in costume d’epoca.

La cerimonia dello Scioglimento del Voto (vedi foto sotto) della Comunità Rapallese riporta al lontano 29 agosto 1657: quando la Magnifica Comunità di Rapallo, dopo aver manifestato riconoscenza alla Vergine di Montallegro per aver preservato la città dalla terribile pestilenza che in quel periodo aveva falcidiato l’intera Liguria, fece voto solenne di recarsi processionalmente al Santuario in un dì dell’ottava del 2 luglio (giorno in cui la Madonna apparve al contadino Giovanni Chichizola nel 1557), di celebrarvi una Messa e di offrire un obolo in segno di gratitudine alla Vergine.

Il vescovo di Chiavari Mons. Alberto Tanasini ed il Sindaco di Rapallo Carlo Bagnasco


 


 

Il Sestiere di San Michele ha organizzato, da calendario, il PANEGIRICO 2018

Da allora il voto venne ininterrottamente e regolarmente adempiuto tutti gli anni. Questa mattina, per l’appunto, la Comunità ha rinnovato il rituale, recandosi ufficialmente al Santuario di Nostra Signora di Montallegro. La Santa Messa è stata officiata dal vescovo di Chiavari, Mons. Alberto Tanasini. Al termine della funzione religiosa e dopo la consueta firma degli atti a testimonianza dell’offerta dell’obolo, il Sacro Quadretto donato dalla Madonna di Montallegro è stato condotto processionalmente sul piazzale del Santuario dal rettore don Gianluca Trovato, accompagnato dal vescovo diocesano e dal parroco don Stefano Curotto: qui, l’Icona è stata rivolta verso il Golfo per la Benedizione della Città.

 

ALBUM FOTOGRAFICO

La bandiera di Montallegro garrisce al vento

Sentiero dedicato a Giovanni Chichizola

Ostensione del Quadretto miracoloso

OSTENSIONE ALL'INTERNO DEL SANTUARIO

OSTENSIONE E BENEDIZIONE ALLA CITTA'


Al termine della funzione religiosa e dopo la consueta firma degli atti a testimonianza dell’offerta dell’obolo, il Sacro Quadretto donato dalla Madonna di Montallegro è stato condotto processionalmente sul piazzale del Santuario dal rettore don Gianluca Trovato, accompagnato dal vescovo diocesano, dal parroco don Stefano Curotto, dal sindaco Carlo Bagnasco e  dal presidente del consiglio comunale Mentore Campodonico. l’Icona è stata poi rivolta verso il Golfo  per la commovente Benedizione della Città di Rapallo.


Ha accompagnato la funzione il coro della basilica dei SS Gervasio e Protasio

Sestiere San Michele


Sestiere Cerisola

I rappresentanti di Cerisola e Costaguta

Qualcuno scrisse:

"Una rivalità non é necessariamente una ostilità"

Sestiere Seglio


Sestiere Cappelletta


Sestiere Costaguta

Gruppo Storico di Rapallo


Il Vescovo di Chiavari Alberto Tanasini

Catino absidale del Santuario

La telecamera inquadra la Sacra Icona



Il racconto della giornata con le immagini di Marino Scarnati – Carlo Gatti – Ettore Pelosin

 

CARLO GATTI

Rapallo, domenica 8 luglio 2018


RAPALLO, LA DEVOZIONE, I SESTIERI, I FUOCHI DI LUGLIO

RAPALLO

LA DEVOZIONE

I SESTIERI

I FUOCHI DI LUGLIO

 

LO SPIRITO DEI FUOCHI

La settimana scorsa abbiamo parlato del rito della NOVENA che tanti rapallini dedicano alla Madonna di Montallegro salendo al Santuario ogni anno, in questi giorni, con ogni mezzo.

Oggi é il primo di luglio e i SESTIERI DI RAPALLO si schierano presso le loro postazioni “geografiche” assegnate, si presentano, si salutano a distanza e si raccontano, ancora oggi, dopo 461 anni, il GRANDE AVVENIMENTO DELL’APPARIZIONE DELLA MADONNA ad uno dei nostri concittadini, forse il più umile, un certo Giovanni Chichizola, popolano di S. Giacomo di Canevale, situato alle spalle di Rapallo: una scelta evangelica!?!

Già! Un grande MIRACOLO avvenuto in tempi difficili di pestilenze, di miseria, di assalti saraceni, di tanta paura…! Oltre alla confusione religiosa creata dal protestantesimo che s’insidiava e nidificava con le sue navi nordiche nel porto di Genova.

Sono passati cinque secoli da quel tempo in cui non esistevano sistemi di comunicazione che non fossero le campane, le torri di vedetta, i castelli e  postazioni militari da cui salivano segnali di fumo e di fuoco per avvertire la popolazione su quanto stava per accadere: era una chiamata alle armi, alla difesa delle famiglie e del proprio territorio.

Ma in quel fatidico 2 luglio 1557 si materializzò un segnale di speranza: un dono che era sceso direttamente dal cielo.

Rapallo era entrata nelle GRAZIE di Gesù che aveva incaricato la Sua Madre Celeste di consegnare un SIGILLO D’AMORE alla nostra città: una Icona da viaggio.

Siamo nel 2018 e quel DONO miracoloso incastonato nel blu di quel cielo che scende fino a confondersi con il nostro mare, é tuttora presente, intatto, nelle anime dei rapallini che, dopo 461 anni desiderano ancora comunicare tra loro quella “novità”, con lo stesso stupore e con quella devozione che é rimasta inalterata nel tempo.

l’Apparizione Mariana di Montallegro é sentita dai rapallini come un dono esclusivo per loro, per la loro vallata racchiusa tra i lecci e gli ulivi, come una conchiglia tra le alghe e gli scogli e lo percepiscono come un “PRIVILEGIO” da difendere anima e corpo contro qualsiasi forma d’intrusione, sia essa politica, laica, religiosa infarcita di tanti termini antichi e moderni come il secolarismo, l’anticlericalismo, l’integralismo e il sincretismo.

Già! Cielo e mare! Ed é proprio in questo scenario che il dialogo tra i SESTIERI si attua ai piedi del Santuario di N.S. di Montallegro che osserva amorevolmente da lassù i suoi figli operosi e affaccendati che la invocano e la festeggiano “a loro modo” come lo fecero già i loro avi a partire da quel lontano luglio 1557, quando erano ancora psicologicamente impreparati ad accettare quel DONO DIVINO che continua a vivere oggi, anche in modo “profano” nella sua esteriorità, per chi non sa o non vuol entrare nella spiritualità sociale che tiene unita una cittadinanza marchiata con il Monogramma di Maria.

QUALCHE ORA DA MASSARO …

“Navigare necesse est”Per questo inderogabile motivo professionale, pur essendo “rapallino” del Sestiere di Cerisola, ho presenziato a meno della metà dei miei anni alle Feste di Luglio. I miei ricordi sono pertanto “sparpagliati” ma sempre vivi e appassionati.


L’invito della cara amica Maura Arata, (al centro nella foto tra il sindaco ed il vicesindaco), ad intrufolarmi tra i massari del nostro Sestiere, é giunto graditissimo e fornitissimo di dati tecnici, storici, romantici e devozionali che ignoravo da sempre e, un po’ (tanto), me ne vergogno…!

RINGRAZIO di cuore Maura, (siamo entrambi di S. Agostino), per avermi regalato questa opportunità che ha colmato un gap nel mio cuore e nel mio sentirmi “rapallino” dalla testa ai piedi.

Ringrazio anche mio genero Ettore Pelosin che con la sua carica di entusiasmo e dedizione alla tradizione di MASSARO di Cerisola mi ha trascinato in questa bellissima avventura che, con tutti i miei limiti…

cercherò di raccontare in queste pagine a tutti coloro che ne sanno meno di me: in particolare i furesti che ci seguono ormai da tanti anni su questo sito enciclopedico dedicato alla città di Rapallo!

In questi giorni la stampa ritorna molto spesso sulla Tradizione dei Fuochi di luglio:

«Le Feste di Luglio si confermano tra i massimi eventi pirotecnico-turistici in Italia, sicuramente è il primo nel Nord Italia per numero di spettacoli – sottolinea ancora l'assessore Lasinio – Le feste sono in ognuno di noi, ciascuno le vive e le sente a modo suo. E continueranno ad esistere finché questo accadrà e finché i rapallesi apriranno la porta ai massari durante la questua».

Della figura del massaro ha parlato Maura Arata, presidente del Comitato Sestieri Rapallesi, che ha ringraziato tutte le persone che sostengono i Sestieri per portare avanti la secolare tradizione e ha dato appuntamento a Montallegro, all’alba di ieri, per l’inizio della Novena. Durante il Triduo, dal 29 al 1 luglio, sarà in funzione anche la funivia con corse dalle 4.30 del mattino.

Intervista a Maura Arata

I massari e la tradizione del fuoco: un'antica regola non permetteva alle donne di farne parte, oggi la solita burocrazia rischia di farli sparire per sempre.

Ne abbiamo da pochi giorni ammirato il lavoro con l'evento che per tre giorni a Rapallo ricorda l'apparizione della Madonna di Montallegro al contadino Giovanni Chichizola (2 luglio 1557): parliamo dei “massari” dei Sestieri rapallesi, San Michele, Seglio, Borzoli, Cerisola, Cappelletta e Costaguta, che con le loro casacche colorate e l'impegno profuso per tutto l'anno contribuiscono a portare avanti la tradizione secolare. Tra loro c'è Maura Arata, una dei veterani del Sestiere Cerisola, che ci spiega il significato dell'essere massaro, basandosi sulla propria e quanto mai particolare esperienza.
‘Tu no! perché sei una femmina’, e invece Maura diventa la prima massara.
«Diciamo che io sono nata massara. Ma ho deciso di diventarlo dopo un episodio particolare. Un giorno mio padre disse ai miei due fratelli di prepararsi per andare “a turno”, ovvero, a bussare alle porte delle case per la questua:
“Tu no, perché sei una bambina”, mi disse. In quel momento scattò qualcosa e decisi che sarei dovuta diventarlo anch'io, anche se allora era un ruolo riservato esclusivamente ai maschi. Così, un giorno, mi presentai ad una riunione del Sestiere. Il massaro più anziano, quando mi vide, chiese a che titolo una donna fosse lì. Poi, però, mi prese sotto la sua ala protettiva. Diciamo che sono stata una “pioniera”».


Ora è più semplice entrare a farne parte?
«Sì. I problemi però sono due. Il primo: tanti ragazzi, per esigenze lavorative, sono andati a vivere fuori Rapallo. La seconda è la più ostica e ha a che fare con il conseguimento del “patentino da fuochino”, che autorizza al contatto con la polvere da sparo. Vista la concentrazione di “patentini” tra Tigullio e Golfo Paradiso, le autorità competenti non ne rilasciano più».


Quindi si rischia di perdere la tradizione per questioni burocratiche?
«Sì, perché non ci saranno più giovani abilitati a portare avanti la tradizione che va avanti da secoli. Ben inteso: maneggiare la polvere da sparo è pericoloso. Ma ci è stato insegnato fin da piccoli a fare molta attenzione:
“Quando a püe a parla, l'è tardi” (quando la polvere da sparo parla, è tardi), ci dicevano i vecchi per avvertirci. E poi il conseguimento del patentino, in teoria, è stato previsto per chi vuol diventare fuochino di professione, cosa che a noi non interessa. Magari bisognerebbe istituire un albo apposito per situazioni come la nostra, che siamo “fuochini” ma solo per tre giorni all'anno, per portare avanti una tradizione. Ma per questo servirebbe un appoggio dalla politica, dalle istituzioni. Forse ora, con il discorso delle “Città dei fuochi”, potrebbe sbloccarsi qualcosa a livello regionale. Siamo una specie in estinzione, speriamo che qualcuno ci tuteli (ride)».


Ci sono figure “storiche” a cui si collega il suo percorso di massara?
«Tra i “mitici”, di sicuro “Michelin” (Michele Campodonico) di Costaguta, e poi Püe (Alfredo Solari): sono cresciuta sotto la sua ombra. Ma anche Vitto “U ferrâ”, con le sue bombe improponibili».
E la storia del “baggio”?
«Tutto è nato tanto tempo fa, proprio per via della rivalità tra Cerisola e Cappelletta:
“Mangiâ u baggiu” (ingoiare il rospo) era l'espressione riferita a chi, dei due Sestieri, sparava peggio durante le Feste. Lo sfottò andava avanti fino a tarda notte sotto le finestre di casa degli sconfitti: non a caso, generalmente la sfida finiva a cazzotti [ride]. Ricordo due “grandi vecchi” che giocavano assieme a carte per tutto l'anno, ma nei giorni delle Feste non si rivolgevano il saluto: appartenevano uno a Cerisola, l'altro a Cappelletta. Da qualche anno, al Sestiere che per gli addetti ai lavori si classifica ultimo per qualità di sparate e fuochi d'artificio viene consegnato un rospo in pietra, di quelli che si adoperano come ornamento per i giardini. Prima, però, viene colorato con le insegne del Sestiere che se lo è aggiudicato...».

 

Essere massari in tempo di crisi...
«Non è semplice. Ad esempio dal 23 maggio al 1° luglio siamo impegnati nella questua, e non sempre la gente ci accoglie a braccia aperte. Vista la situazione economica, poi, quest'anno le persone hanno dato quello che hanno potuto. Poi, nei tre giorni di festa la fatica diventa disumana. Ma ben inteso: non ci mettiamo in tasca niente come è giusto che sia. E a ripagarci è l'emozione di fare qualcosa di bello per la città, di non deludere i nostri padri e quello che ci hanno insegnato. Mio zio, fuochino storico, abita sulla collina di Sant'Agostino, non scende in centro da 30 anni e guarda i fuochi da casa sua. Eppure, ancora oggi è il nostro metro di giudizio: a fine spettacoli andiamo a chiedere a lui se abbiamo sparato bene oppure no».


È vero che ai più anziani, durante il rito dell'Alzabandiera la mattina del 1°luglio, scende sempre qualche lacrima?
«Non solo ai più anziani. Succede anche a me: quando Cerisola spara il primo mortaletto dalla spiaggia dei bagni Lido, l'emozione è sempre fortissima. Anche se assisto al rito da 30 anni».

 

Mentre racconta l'ultimo aneddoto, a Maura si inumidiscono gli occhi. L’amore per le tradizioni è anche questo.

 

I mortaletti

Cenni-storici
Protagonista ludico – popolare delle Feste di Luglio, il
mortaletto, estinto nella gran parte del mondo, resiste (almeno, per quanto ad oggi sappiamo) nella sola zona di Rapallo, Recco e comuni limitrofi. Si presenta come un piccolo cannone antico, a canna cortissima, costruito e dimensionato per il solo utilizzo a salve. Antica è anche la sua carica: polvere nera, il primo esplosivo prodotto dall’uomo. Lo stesso che, più di quattrocento anni fa, armava le galee genovesi ed i temibili vascelli del pirata Dragut, flagello delle popolazioni costiere. Per caricare il mortaletto ligure, si versa semplice polvere nera nella canna, quindi la s’intasa con materiale leggero ed inerte (ad esempio segatura) in modo da ottenere, all’accensione, un colpo a salve, “impreziosito” da spettacolari quanto innocue vampe e fumo denso, di sapore antico. Una volta caricati i mortaletti si aguginano: s’innescano cioè versando nel foro d’accensione (agugino) polvere nera finissima. Disposti a terra, sono poi collegati da strisce, ancora della medesima polvere, che bruciano più o meno lentamente a seconda della direzione della brezza di mare… Ecco quindi l’abilità del massaro il quale, per intuito ed esperienza, sa quando, come e dove posizionare i mortaletti, grossi o piccoli, in modo da salutare con giusto ritmo la Santa Patrona. Come in tutte le arti, solo pochi posseggono il dono di saper disporre al meglio la sparata, che per riuscir veramente gradita deve attagliarsi, secondo tradizione, ad ogni singola tipologia d’evento celebrativo. Col mortaletto si cresce, ascoltando i colpi rituali dell’1,2,3 luglio o delle Feste Frazionali; si celebra il matrimonio di amici e parenti, preparando brevi ed allegre sparate; si saluta questo o quell’altro evento, sacro o profano; si dà l’estremo saluto ad un caro estinto disponendo un’austera sparata di 21 colpi, lenti e cadenzati: gli stessi ventuno che, con diverso spirito, ogni mattina di Novena accompagnano con sacralità l’Elevazione del Santissimo al Santuario di Montallegro.

 

RECIAMMI - I festeggiamenti iniziano alle otto di mattina del primo luglio, quando la statua d'oro e d'argento della Madonna viene “messa in cassa”, cioè collocata sull'arca argentea in chiesa. Sul lungomare, l'evento è salutato da colpi fragorosi (reciammi - richiami) prodotti dai mortaretti (mascoli) sparati dai rappresentanti di due dei sei sestieri cittadini e da una sparata di fuochi artificiali “a giorno”, mentre gli altri quattro sestieri rispondono con ventun colpi di mascoli.

Maura Arata ci spiega che il saluto “esplosivo” con 21 colpi di  mascoli é sicuramente quello che ci proviene dalla tradizione dei vascelli da guerra del 1600, ma per noi é soprattutto il SALUTO, l’omaggio ed il ricordo che in quel momento rivolgiamo  a tutti i MASSARI di tutti i SESTIERI che ci hanno preceduto in questi cinque secoli.

Rapallo - Feste di luglio 2018 – MURALES di ARTISTI DI STRADA a cura del Sestiere di San Michele.

Il Monogramma della Madonna tra le sei caravelle con i colori dei Sestieri di Rapallo.

La speranza è che bellezza e armonia, trasformando l’ambiente fisico, inducano chi ne usufruisce ad uno stato d’animo più positivo e gioioso. Un obiettivo alto, dunque. Graffiti e murales non solo per abbellire e RICORDARE, ma per educare alla bellezza, quasi “lezione vivente” di educazione religiosa, civica, di legalità e di tutela del bene comune e dei valori fondanti della nostra civiltà.


Il disegno del mortaletto con l’esplosione simbolica dei fuochi d’artificio in foglie di acanto.


Don Salvatore Orani:

il “vero” dono della Madonna è il Quadretto: unico Segno tangibile della Presenza che nel tempo si rivela come materna e continua mediazione.
Questa piccola
Icona da viaggio che sovrasta l’altare maggiore è, così, l’unica grande eredità lasciata dalla Madre di Gesù alla Rapallo di sempre. Ne consegue che, a ridare forte impulso alla devozione mariana - lungi da preoccupazioni devozionali mirate a chiedere favori e miracoli in tempo reale - dovrebbe essere la riscoperta del messaggio che il Quadretto continua a suggerire ai cercatori di Dio che si soffermano davanti all’Immagine in pura e contemplativa gratuità. Perché solo ai contemplativi può essere rivelata l’originalità del messaggio di un’Icona: forte invito a riconsiderare la vita; la pienezza di una vita che va oltre la morte.
L’Amore Trinitario che avvolge con tenerezza l’umanità ferita (la Madonna distesa sul letto funebre) ricorda al contemplativo che la vita prevale sempre; prevale già ora, nell’arco dell’esistenza che quotidianamente sperimenta le tragiche conseguenze della sofferenza e del dolore.

L’intero disegno ripreso dal monumento a Cristoforo Colombo


Sestiere Cerisola -Lido - L’attesa del rintocco della campana darà il via all’ALZA BANDIERA

Sono le 08.00 in punto – Il campanile della Basilica di San Gervasio e Protasio di Rapallo batte i rintocchi delle ore e dà il via al rito dell’alza bandiera e agli spari di rito.

Nelle foto a seguire: i SALUTI e i RECIAMMI

 




ENTRANO IN AZIONE LE CHIATTE ANCORATE NEL GOLFO





Due massari del sestiere di Cerisola alle polveri...


Carlo Gatti ed Ettore Pelosin



Tipico alloggiamento degli "STUCCI" sulla chiatta

Rapallo – Zona Lido - RAMADAM su un eccellente Murales di una edizione precedente

«…Il toponimo “Cerisola” compare per denominare due cappelle rurali site nel cuore dell’attuale Sestiere…

…Erano sicuramente zone destinate alla coltura dei ciliegi in un borgo dall’economia diversificata, ma basata essenzialmente sull’agricoltura.

Nel successivo evolversi della città, il nome “Cerisola” va a denominare uno dei Sestieri nati dalla divisione del più antico Quartiere Amandolesi (XII secolo N.D.R.)…» (tratto dal libro “In burgo Rapalli” di Antonella Ballardini da Maura Arata, massara del Sestiere Cerisola)

L’odierno Sestiere Cerisola comprende la parte centro occidentale del centro storico rapallese, con monumenti quali la Chiesa Parrocchiale dei Santi Gervasio e Protasio e gli Oratori detti Dei Bianchi e Dei Neri, quest’ultimo dominato dalla medioevale Torre Civica.

La zona rurale di Cerisola si sviluppa sulla ridente collina di San’Agostino, ove risiede l’omonima chiesetta, centro religioso del Sestiere; Sestiere che, tuttavia, ha come patrono tradizionale San Giuseppe.

Durante le Feste di Luglio Cerisola saluta la Vergine di Montallegro dalla Spiaggia dei Bagni Lido con i secenteschi mortaletti liguri.

Da questo sito, che sempre rimane nel cuore e… nella progettualità dei suoi massari, il Sestiere tradizionalmente lanciava anche i suoi fuochi colorati, oggi preparati su chiatta galleggiante.

I fuochisti che hanno sparato per Cerisola negli ultimi anni sono: Albano & Russo di Melito (NA), Ferreccio di Avegno (GE) e La Rosa di Bagheria (PA) ed in epoca meno recente Perfetto di Sant’Antimo (NA).

Il Panegirico del Sestiere Cerisola sfila per la passeggiata a mare e termina col tradizionale e fragoroso Ramadan ai piedi della Statua di Cristoforo Colombo, presso i Bagni Lido e quindi entro i confini del Sestiere.


Il gonfalone dei Sestieri

Rapallo - I Sestieri per chi non è di Rapallo sono semplicemente le sei zone in cui anticamente era divisa la città. In realtà sono qualcosa di più. I Sestieri sono amicizie, passioni, tradizioni, fede.

I Sestieri di Rapallo (Sestê de Rapallo nella parlata locale) sono le antiche divisioni territoriali del nucleo storico della cittadina rivierasca di Rapallo, nel Tigullio. I sei sestieri cittadini sono ufficialmente riconosciuti dallo statuto comunale del Comune di Rapallo.

L'origine e la creazione dei primi due quartieri storici risalgono al Medioevo quando, nel 1143, i territori tra Rapallo e Zoagli furono divisi in due blocchi distinti; nel XIII secolo vengono istituiti, in questa parte di territorio, i quartieri di Borculi (pron. Borsuli, Borzoli in lingua italiana) e Mandulexi (pron. Manduleji, Amandolesi in lingua italiana).

Fu con la creazione della podesteria e del successivo capitaneato di Rapallo (1608), inserito nei territori della Repubblica di Genova, che il territorio comunale subì un maggiore incremento della giurisdizione annettendo borghi, villaggi e località appartenenti al precedente capitaneato di Chiavari. Nei nuovi confini geografici-politici rientrò quasi interamente la media Val Fontanabuona e il Tigullio occidentale, dividendo il vasto territorio in sei principali sestieri:

  • Pescino (zona sud-ovest comprendente l'attuale Santa Margherita Ligure e frazioni, Portofino);
  • Olivastro (zona nord comprendente tutte le località dell'entroterra rapallese);
  • Borzoli (zona sud-est comprendente anche il borgo di Zoagli);
  • Oltremonte (zona est comprendente quasi interamente la media val Fontanabuona);
  • Borgo (il centro storico racchiuso dalle mura).

Allo scioglimento del capitaneato, a seguito della dominazione francese (1797) di Napoleone Buonaparte, che causò tra l'altro la caduta della repubblica genovese e l'annessione della costituita Repubblica Ligure al Primo Impero francese (1805), si ridisegnarono i confini cittadini suddividendoli in sei sestieri locali: Borzoli, Cappelletta, Cerisola, Costaguta, Seglio e San Michele, divisione storica tuttora in vigore.

Dal XVII secolo, secolo dove ufficialmente presero il via i festeggiamenti pirotecnici alla santa patrona di Nostra Signora di Montallegro, tutti i sestieri sono impegnati a turno nel celebrare la festa più importante per il comune rapallese.

BORZOLI

Il sestiere è uno dei più antichi e originariamente le sue terre erano affacciate sulla costa che si estendevano fino ai confini con Chiavari. Fu presente già dal XII secolo assieme all'antico quartiere di Amandolesi e maggiore importanza l'assunse nel 1608 quando la città divenne sede dell'omonimo capitaneato; compare infatti nella nuova divisione cittadina, necessaria dopo l'annessione di nuove terre, assieme ai sestieri comprensoriali di Pescino, Olivastro, Amandolesi, Oltremonte e Borgo.

Il sestiere, oggi ridimensionato, è riuscito inoltre a mantenere nei secoli l'antico toponimo a differenza delle altre divisioni storiche che, anch'esse ridimensionate, mutarono nelle attuali nomenclature.

I territori di Borzoli sono in gran parte ubicati lungo le colline che degradano verso la sponda sinistra del torrente San Francesco, detto anche Fossato di Monte, sboccando infine verso il mare nella piccola spiaggia antistante il cinquecentesco castello sul mare. I suoi possedimenti comprendono inoltre, oltre allo stesso castello, la passeggiata a mare (lungomare Vittorio Veneto) fino al molo dello scalo dei vaporetti adiacente il Chiosco della musica in piazza Martiri per la libertà.

L'intero territorio, confinante con i due sestieri di Cerisola e Seglio, appartiene oggi esclusivamente alla parrocchia dei santi Gervasio e Protasio. Il vessillo - di colore rosso – ritrae san Bartolomeo, santo patrono del sestiere, e la raffigurazione del quadretto bizantino Dormitio Mariae che secondo la leggenda locale fu donato dalla Vergine maria al contadino Giovanni Chichizola nell'apparizione mariana del 2 luglio del 1557. Il colore rosso è tipico anche delle divise dei "massari", coloro che sparano nello spettacolo pirotecnico, ricordanti le insegne scarlatte caratteristiche del santo Bartolomeo.

CAPPELLETTA

Così come Borzoli anche il sestiere Cappelletta è uno dei più antichi della città, originariamente inglobato nei territori dell'antico quartiere di Amandolesi sorto nel XII secolo. Nel XVI secolo appare con il toponimo de la Villa di Cappelletta, sempre inserito nel vasto sestiere cittadino. Dei sei sestieri è l'unico che non ha sbocchi diretti al mare in quanto precluso dal sestiere Cerisola.

La prima citazione ufficiale del sestiere Cappelletta appare verso la fine del XIX secolo quando venne menzionata come una delle sei cappelle che dividevano il paese. Oggi il suo territorio comprende approssimativamente la zona tra il rio Cereghetta, la zona meridionale del quartiere Laggiaro (la parte a nord è compresa nel sestiere Cerisola), il torrente Boate ed il suo affluente San Pietro. Nei confini rientra il popoloso quartiere di Sant’Anna, inglobando tra l'altro la zona del golf cittadino.

Non avendo di fatto una postazione idonea per poter sparare durante le feste patronali di luglio, a causa della massiccia urbanizzazione presente in tali quartieri, un accordo con il confinante Cerisola ha permesso al sestiere di poter usufruire della zona presso il Lido (spiaggia di Rapallo) compresa nei territori della prima.

CERISOLA

Il toponimo Cerisola deriverebbe molto probabilmente dalla denominazione di due cappelle rurali, ancora oggi situate nel cuore dell'attuale sestiere. La nascita del sestiere si deve alla successiva scorporazione dei confini territoriali a seguito dell'istituzione del capitaneato rapallese (1608); Cerisola nacque infatti dalla divisione dei due più antichi quartieri di Rapallo, Amandolesi.

Il suo territorio è ad oggi compreso interamente nella parrocchia dei santi Gervasio e Protasio, confinando ad ovest con Cappelletta, ad est con Borzoli e a sud con Costaguta. Il confine occidentale è delimitato da tutto il corso del rio Cereghetta; la punta di Serrato (623 m) costituisce il punto più elevato del territorio e lo separa da quello delle parrocchie di San Pietro di Novella e di San Quirico, frazioni di Rapallo.

l vessillo - di colore bianco – rappresenta sant’Agostino e San Giuseppe, entrambi compatroni del sestiere, oltre alla raffigurazione del quadretto bizantino. Un documento, ritrovato nel 1991, sancisce la fratellanza storica tra il sestiere e la locale Confraternita dei Bianchi nonché il culto per il dottore della chiesa Agostino.

COSTAGUTA

Anticamente denominato Costa Acuta è caratterizzato, specie nel territorio che va dalla parte destra del torrente cittadino Boate, da una vasta area di ulivi e castagni. Costaguta fu in passato compreso nell'antico sestiere detto Olivastro, creato nella nuova divisione dopo la costituzione del capitaneato rapallese.

Il sestiere confina con la frazione sammargheritese di San Lorenzo della Costa e con quella rapallese di San Massimo, arrivando allo sbocco verso il mare dove oggi sorge il porto turistico. La maggior parte del suo territorio ricade oggi nei confini della parrocchia dei Santi Gervasio e Protasio e, per un piccolo tratto, in quelli della parrocchia di sant’Anna con la località Ronco.

Anticamente nei suoi territori fu eretta nel 1737 una piccola chiesa, ma pochi anni dopo ridotta in rovina. Per la ricostruzione di un nuovo tempio religioso si dovette attendere il 5 agosto del 1934 quando, alla presenza delle autorità ecclesiastiche e civili, fu benedetta la nuova chiesetta dedicata ai santi Gervasio e Protasio. Secondo la leggenda locale i due santi passarono per il sestiere durante la loro opera apostolica.

L'edificio subì negli anni settanta un completo restauro, ma nel 2000 un incendio doloso danneggiò vistosamente la struttura e il dipinto posto sull'altare. Nel rogo fu rovinata inoltre l'antica e storica bandiera del sestiere datata al 1908. Oggi l'edificio si presenta completamente restaurato.

Il nuovo vessillo, di colore verde ed inaugurato nel 2005, e lo stemma rappresentano i due santi nonché la rappresentazione dell'apparizione mariana.

SEGLIO

Detto anche sestiere San Rocco dal nome del suo santo patrono, fa parte della parrocchia dei santi Gervasio e Protasio occupando il settore orientale di Rapallo e al confine amministrativo con Zoagli. Il toponimo deriverebbe dal dialetto genovese seggio (tradotto in lingua italiana nella parola sedile) ricordante la conformazione del territorio.

Anticamente il sestiere faceva parte dello storico sestiere di Borzoli e tale accorpamento durò ben oltre il 1930. Nel suo territorio è presente una cappella, dapprima intitolata a santa Maria del Poggio e solo in seguito dedicata a san Rocco, costruita nel 1497 su una piccola altura; fa inoltre parte del sestiere l'antico quartiere delle Nagge, uno dei più antichi della città.

Il nuovo vessillo - di colore giallo ed inaugurato il 25 aprile del 1999 - e lo stemma rappresentano il santo Rocco, patrono del sestiere. Il colore giallo deriverebbe a seguito della pestilenza che colpì la cittadina tra il 1656 e il 1657; adiacente la cappella era presente un ospitale dove venivano trattenuti in quarantena i viandanti transitanti per Rapallo e proprio la bandiera gialla segnalava lo stato di quarantena.

SAN MICHELE

Anticamente il sestiere faceva parte, come il confinante Costaguta, del sestiere Olivastro nella primitiva divisione cittadina. Il sestiere confina oggi ad ovest con il comune di Santa Margherita Ligure e ad est con Costaguta. I suoi confini rientrano nell'odierno abitato di San Michele di Pagana, unica frazione rapallese che si affaccia sul golfo del Tigullio.

Il sestiere è l'unico fra i sei che non appartiene alla parrocchia dei santi Gervasio e Protasio, bensì alla locale parrocchia di san Michele Arcangelo, santo patrono della frazione e del sestiere.

Il vessillo - di colore azzurro - e lo stemma rappresentano il santo Michele che trafigge il diavolo.

Quando le sparate si facevano qui in passeggiata a mare

Ramadam – zona lido


Quando il MASCOLO era usato per avvisare l’avvistamento dei leudi di ritorno dalla campagna delle acciughe dall’Isola della Gorgona.

Il giorno del rientro veniva stabilito da ciascun padrone in modo da poter essere a casa per la festa dell’Assunta, il 15 Agosto.

Nei giorni precedenti i ragazzi di San Nicolò, della Punta e di Camogli si ritrovavano all’estremità di Punta Chiappa e facevano a gara per avvistare per primi i leudi di ritorno dalla Gorgona. All’avvistamento, uno dei “massari” di San Nicolò sparava un mascolo (mortaretto) per avvisare la popolazione camogliese del rientro dei pescatori.

L’arrivo era una festa, non solo per i familiari, ma per tutta la Città; festa che continuava per molti giorni sino a concludersi ai primi di settembre con la ricorrenza di S. Prospero alla quale si univano anche i festeggiamenti per la Madonna del Boschetto, che erano stati celebrati il 2 luglio quando i leudi erano fuori, così la festa diventava doppia.

Un po’ di tecnica: Le Sparate oggi

La letteratura tecnica afferma che "I mortaretti (o masti) sono strumenti che si sparano a salve in occasione di festività varie. Essi sono in sostanza dei cilindri d'acciaio del diametro esterno di 5-10 cm con un foro interno di circa 3 cm di diametro; la lunghezza varia da 12 a 30 cm con un peso da uno a 10 chilogrammi; il cilindro è di solito un po' rastremato verso l'alto ed una base leggermente allargata; vicino alla base vi è un foro in cui inserire una piccola miccia o del polverino per innescare lo sparo. Essi, appoggiati a terra verticalmente o leggermente inclinati, vengono caricati fino a circa metà dell'altezza con polvere nera, che viene poi intasata con sabbia o altro materiale.
In molte zone sono in uso, in luogo dei mortaretti, dei corti tromboni, con un calcio di fucile che consente di imbracciarli o, quantomeno, di sostenerli con due mani (talvolta vengono chiamati trombini). Nel linguaggio dei pirotecnici il termine mortaretti, o mortaletti, indica degli sbruffi grandi (cioè dei tubi di cartone) che servono per lanciare in aria piccole granate o granatine, mentre che per il lancio di artifici più grossi si usano i mortai."
Alla prima definizione va sicuramente ascritto il mascolo rituale, nella forma che conosciamo tuttora.

Quello che segue è una breve panoramica sul moderno uso rituale del mascolo a Sori, nella sua vallata, nel golfo Paradiso e nei suoi dintorni (in ispecie Tigullio ed entroterra del Levante). Laddove prescritto, disposizioni di Pubblica Sicurezza e norme di buona condotta professionale da parte dei fochini possono determinare l'adozione di scelte progettuali, esecutive o stilistiche conformi agli standard richiesti nelle singole e precipue situazioni.

Il mascolo rituale (o "antico mortaretto ligure", o ancora meglio "antico mortaletto ligure") utilizzato nel Levante ed espressamente realizzato per le sparate è nella sua forma più ricorrente un cilindro metallico svasato alla base, anche se a volte ha forma troncoconica. Pesa circa 1,5-2 Kg, è alto circa 12-15 cm, ha un diametro esterno di circa 6-7 cm al fusto e 8-9 cm alla base. Il calibro è ordinariamente compreso fra 1,5 e 2 cm. A circa 1,5 cm dalla base e parallelamente ad essa è praticato il focone ("l'agguggino") dal diametro di qualche mm, usualmente con l'imboccatura conica di base 3-4 mm e profonda circa 2-3 mm. Il mascolo moderno è prodotto in acciaio in quanto la regolamentazione vigente proibisce i mascoli che non siano di buon acciaio tenace (generalmente acciaio balistico, ma anche gli acciai da carpenteria metallica ordinaria hanno una buona resistenza alla frattura in termini di energia G di Griffith).  Gli acciai poco tenaci (usualmente sono acciai incruditi e/o temprati), le ghise e gli ottoni hanno una scarsa resistenza ai fenomeni di frattura e possono finanche causare l'esplosione dei mascoli con proiezione di frammenti. I mascoli di ghisa subiscono inoltre fenomeni di corrosione importanti (le "camôe") che ne pregiudicano rapidamente la soglia di collasso. E' notorio nella meccanica dei solidi come i fenomeni di frattura siano notevolmente agevolati dalla presenza di irregolarità geometriche, in cui i fattori di intensificazione degli sforzi Kic possono superare la soglia critica di attivazione delle fratture (motivo per cui in qualunque membratura cimentata a trazione è sconsigliata, laddove non espressamente proibita, la realizzazione di spigoli vivi o poco arrotondati). Il moderno mascolo in acciaio tenace può essere prodotto per tornitura o per fusione. Fino a qualche anno addietro l'utilizzo di mascoli di ghisa o di ottone era frequente, questi ultimi più raramente a causa del costo del materiale. Tali erano formati per fusione, avevano dimensioni esterne maggiori di quelli  in acciaio, e peso compreso fra i 2 e i 3 Kg, pur contenendo lo stesso quantitativo di polvere. Notevoli per estetica sono i mascoli di ghisa realizzati fino alla prima metà del Novecento, ottenuti da stampi le cui forme elaborate presentavano spesso il nome o l'emblema del comitato di appartenenza riportato in rilievo sulla canna.


Parata di moderni mascoli in acciaio pronti al caricamento, soffiati e disostruiti; in secondo piano sacchi e "cuffe" di segatura per i tappi.

Due cannoni in acciaio inossidabile nuovi di fabbrica e pronti per il battesimo del fuoco; si noti il carrello per movimentare il più grande, che pesa circa 100 chilogrammi e subito dietro il ciosun di legno di dimensioni adeguate. E' uso che i cannoni nuovi vengano "sbruffati" al loro battesimo. In occasione della prima sparata a cui prendono parte non vengono caricati ordinariamente, ma solo con una manciata di polvere e senza tappo, tali cioè da produrre all'accensione, anziché il colpo tonante, la sola colonna di fumo rovente (lo sbruffo, per l'appunto). Lo scopo dello sbruffo è quello di eliminare dalla canna vergine qualunque sfrido metallico della tornitura. A Sori è uso sbruffare i cannoni nuovi durante la sparata del 14 agosto, per averli a completa disposizione la sera successiva.

Più grande del mascolo è il cannone (in alcune località di Levante chiamato bomba), oggetto funzionalmente identico, la cui taglia può andare dal cannoncino (alcuni chilogrammi, per una lunghezza di 20 cm ed un calibro di 2-3 cm) al grande cannone (anche più di 100 kg per 40-50 mm di calibro, ma non mancano esempi di cannoni da 200 e passa chilogrammi, realizzati in genere in onore di importanti avvenimenti o illustri personaggi). I cannoni più grandi potrebbero contenere fino ad alcuni chilogrammi di polvere nera, ma la regolamentazione vigente vi pone severissime limitazioni per motivi di sicurezza; nella pratica attuale l'uso dei cannoni ha scopo prettamente ornamentale, in quanto caricati con quantità irrisorie di polvere rispetto alla mole dei pezzi. Per tale motivo alcuni dei più grossi cannoni sono stati addirittura messi in "disarmo" ed utilizzati per ornamento degli stand gastronomici.


Alcuni dei cannoni utilizzati durante la sparata del 2005. A sinistra un assortimento di tutte le taglie, i pezzi piccoli addirittura realizzati in acciaio inossidabile; a destra tre pezzi grossi. Purtroppo per lo spettacolo oggi i cannoni, conformemente alla regolamentazione vigente, vengono caricati con quantità di polvere che potremmo definire "simboliche". Si notino le diverse proporzioni e forme di finitura, dalla più semplice (il cilindro grezzo dello storico cannone sorese detto "Muria") a quelle più elaborate.

I cannoni in acciaio sono prodotti quasi sempre per tornitura a partire da grossi cilindri; hanno forma usualmente troncoconica e sono decorati da elaborate cerchiature. Riportano in genere, incisa sulla canna o sulla bocca, una dedica col nome del proprietario o del comitato a cui appartengono, o con la data di un evento gioioso quali battesimi, matrimoni ed anniversari. I cannoni di ghisa, oggi desueti, erano ancora più eleganti, provenendo da stampi e quindi potendo assumere forme non legate alle simmetrie cilindriche della tornitura. 

La polvere utilizzata per le sparate è di due tipi, detti la "lucida" e la "scura". La polvere cosiddetta lucida è venduta allo stato granulare e per essere utilizzata necessita di setacciatura con maglia di circa 2-3 mm. La parte grossolana viene impiegata per il caricamento dei mascoli, la parte fine per la realizzazione della riga. La polvere cosiddetta scura è commercializzata allo stato pulverulento e viene impiegata come "reffino" ovverosia polvere per innesco. Il reffino può essere prodotto anche per macinazione, con le dovute cautele, della polvere lucida.

Il caricamento avviene secondo la seguente sequenza. Per prima cosa il fochino soffia all'interno dell'agguggino per due scopi: per verificare che il mascolo non sia ostruito e per liberare l'interno dalla sporcizia accumulatasi col tempo. Se riscontra che l'agguggino "soffi" poco, potrà pulirlo con un piccolo pezzo di filo di rame (non di ferro in quanto i materiali che producono scintille sono banditi). A questo punto il mascolo viene caricato di polvere nera, a mano o mediante l'utilizzo di un dosatore (tipicamente il bussolotto dei rullini fotografici). Il mascolo moderno contiene circa 15 grammi di polvere granulare (la "lucida"). La canna viene in seguito riempita fino alla bocca con segatura, su cui si impongono, con una mazzetta, i primi due colpi di pestello ("ciosun", noto altrove anche come "stia"). A tale proposito è doveroso ricordare che, per l'incolumità dei fochini, ciosun e mazzetta debbano essere in materiale antiscintilla, secondo la vigente regolamentazione ed il comune buon senso. La parte di canna liberata dal rientro della polvere e della prima segatura compattate viene nuovamente riempita con segatura, terra o una miscela delle due, e battuta energicamente ma non troppo per formare il tappo definitivo. Si noti che in passato per formare il tappo si usava finanche il calcinaccio ("zetto") setacciato. Oggi la vigente regolamentazione prescrive l'uso della sola segatura, al fine di creare un tappo sicuramente frantumabile e proiettabile dalla deflagrazione; questo per prevenire due possibili malfunzionamenti: lo sfiato dall'aggugino (si dice che l'agguggino "sciuscia", soffia) che crea un dardo di fiamma in grado di investire le gambe del fochino, ed addirittura il cedimento violento per frattura del mascolo nel caso questo presenti difetti interni notevoli, generabili da un'eccessiva ed incontrollata corrosione, e scarsa tenacità del materiale base (problema tipico di ghise ed ottoni). L'operazione di caricamento è soggetta a precise disposizioni di sicurezza, così come il trasporto dal sito di caricamento all'area di sparo. E' doveroso rammentare infine che è buona norma controllare in principio la qualità della segatura onde scartare quella che presenti inclusioni di materiali estranei, particole metalliche o sassolini, che potrebbero durante la percussione generare rischio di scintille. A tal uopo si utilizza segatura vagliata di segheria.

La tecnica di caricamento dei mascoli, con mazzetta, ciosun e segatura fina, avviene generalmente poggiandosi su un ceppo di legno (nella foto un tronco di traversina ferroviaria) e prevede il riempimento della canna con la polvere nera fino a circa 3/4 dell'altezza (in un ordinario mascolo moderno questa misura corrisponde a circa 15 grammi di polvere granulare); la canna viene poi intasata con la prima "passata" di segatura, che viene percossa con due colpi. Il rigetto viene nuovamente riempito di segatura e battuto con 2-3 colpi fino ad ottenere un tappo consistente. Mazzetta e ciosun sono in legno, plastica, ottone, alluminio o altre leghe che non producono scintille per sfregamento. I materiali ferrosi sono ovviamente banditi.

Il mascolo carico è inoffensivo fintantoché non venga innescato ("aggugginato"). Ciò si ottiene intasando di reffino l'agguggino. Questa operazione si esegue sui mascoli prima di posizionarli nella sparata. Alcuni preferiscono posizionare i mascoli prima di aggugginarli, nel qual caso i mascoli non ancora aggugginati vengono posati con la canna orizzontale e l'agguggino rivolto verso l'alto pronto a ricevere un pizzico di reffino.

Un piccolo ramadam triangolare a dieci mascoli con cannone, disteso sulla passeggiata a mare di Rapallo(da www.festediluglio.it). Qui, stante il fondo asfaltato ed asciutto, la stesura non necessita di segatura.

Il ramadam è una disposizione circolare di mascoli, in cui questi possono essere distribuiti sulla corona esterna, uniformemente sulla superficie, o secondo geometrie varie. Il tipo a distribuzione uniforme è adatto a piccoli ramadam (da qualche unità a due decine), in cui i mascoli vengono collegati spandendo la polvere in maniera distribuita. Il ramadam a mascoli disposti e collegati sulla corona è utilizzato laddove il circolo debba ospitare una composizione artistica al suo interno, spesso un'effige del santo patrono o l'emblema dell'associazione che realizza la sparata. Infine vi sono i ramadam in cui i mascoli sono disposti e collegati sia all'interno del circolo che sulla corona, secondo geometrie prestabilite a formare composizioni geometriche ed artistiche; usualmente adottato a Sori è il riondino a fiore a sei petali, che viene disteso su un letto di segatura colorata.


A sinistra: un'immagine dell'anteguerra a Rapallo: un massaro (termine rapallino che indica il fochino addetto ai mascoli, e più in generale il membro del comitato del sestiere) porta il bettone (da www.festediluglio.it) mostrandone l'impugnatura; si noti l'altro massaro con il corno (in vero corno!) per distendere la riga di polvere.

L'accompagnamento della sparata col bettone comporta che il fochino debba camminare in prossimità della riga in fiamme e dei mascoli che scoppiano. Per tale motivo portare il bettone in sicurezza richiede l'osservanza di alcuni principi elementari del buon senso, al fine di non ritrovarsi "strinati".  L'abbigliamento del fochino responsabile comprende abiti pesanti, occhiali di protezione, elmetto e scarponi antinfortunistici. E' posta particolare attenzione alla protezione dei polpacci e caviglie da eventuali "soffi" di aguggini erroneamente direzionati. Inoltre, nonostante possa sembrare a prima vista strano, è preferibile mantenersi quanto più vicino possibile al fuoco, poiché le traiettorie degli eventuali frammenti proiettati dal rinculo dei mascoli partono con un alzo non superiore ai 30°, ricadendo a circa 4-5 metri di distanza. Per tale motivo le sparate distese nel greto dei torrenti arginati sono più sicure di quelle a livello della via, nei confronti della proiezione di frammenti. Il problema non si pone dove le sparate hanno la possibilità di percorrere terreni asfaltati, o comunque rivestiti di una pavimentazione resistente al rinculo. Generalmente nelle sparate di lunghezza media e grande il compito di portare il bettone è affidato a più fochini, ognuno con un bettone appena estratto dal fuoco (la sfera di ghisa fa relativamente presto a perdere il calore rosso superficiale e diventare inefficace), che si danno il cambio in una staffetta. Inutile dire che portare il bettone è considerato un grande onore e segno distintivo di virilità.


Spettacolari immagini notturne di due fochini col bettone che si danno il cambio durante la sparata del 2005: a sinistra l'arrivo al punto di cambio, a destra la partenza della staffetta.

Il brandä noto anche come riondino, ramadan, panegirico...) costituisce il finale della sparata. Nella sua forma classica è una disposizione di mascoli realizzata a triangolo isoscele allungato, in cui le due righe esterne, i lati del triangolo, vengono progressivamente affiancate da nuove righe all'interno man mano che si procede verso la base ed il triangolo si allarga. Il brandä attacca al vertice e brucia generando un fragoroso crescendo, che si conclude con il gratïn, la base del triangolo in cui i mascoli sono disposti a file serrate. Chiude lo spettacolo lo scoppio di tre o più cannoni di grandi dimensioni disposti in riga a seguire o, se questo non fosse possibile, allineati in posizione decentrata (nel qual caso vengono accesi da un fochino col bettone non appena il gratïn termina). 

Il brandä può assumere le più svariate dimensioni, da duecento ad oltre cinquemila mascoli, e con la sua mole rappresenta l'orgoglio e la potenza economica del comitato che lo allestisce. Sono rinomatissimi per mole (svariate migliaia di mascoli e decine di cannoni di tutte le taglie) ed accuratezza quelli di Recco, in occasione della festa di N.S. del Suffragio, ed il Panegirico di Rapallo, che conclude la sparata di mezzogiorno del 2 luglio, ed è allestito a turno annuale dai Sestieri della città. A Sori, il Gruppo Festeggiamenti ha, nel corso degli anni, realizzato brandæ (per i foresti: notare il plurale genovese!) da mille a duemilacinquecento mascoli, a seconda delle condizioni metereologiche e delle regolamentazioni di volta in volta vigenti, con pregevole risultato a fronte delle risorse disponibili.


A sinistra: il bellissimo e maestoso brandä (ramadam a Rapallo) decorato posto a conclusione del Panegirico 2004 a Rapallo, allestito dal Sestiere della Cappelletta (da www.festediluglio.it). Si noti la forma classica triangolare (ritenuta la migliore per effetto sonoro e visivo), culminante con un mastodontico gratïn, abbinata al magnifico decoro dipinto sulla pavimentazione stradale della passeggiata a mare. Una tale opera contiene diverse migliaia di mascoli e, a seconda della direzione ed intensità del vento, dura fra i venti secondi ed il minuto.

In talune occasioni il brandä assume forme elaborate ed ornamentali molto decorative; è questo il caso fra l'altro dei finali di sparata realizzati a Rapallo in occasione delle festività di luglio in onore di N.S. di Montallegro. Avendo i rapallini la possibilità di allestire il brandä (nell'uso della vallata di Rapallo nominato "ramadan") sull'asfalto della passeggiata a mare, colgono l'occasione per impreziosirlo con pregiati disegni.


Qui sopra il brandä ("ramadan") del Panegirico 2006 a Rapallo, allestito dal Sestiere di San Michele (da www.festediluglio.it). La citazione di quest'opera è doverosa per la sua forma originale. L'attacco è classico triangolare, ed il rombo in crescendo che se ne genera è in seguito mantenuto pressoché costante da un corpo centrale trapezoidale in cui le righe vengono raddoppiate una sola volta a metà percorso. Il culmine è in guisa di un doppio arco che inquadra il nome del sestiere. Il gratïn ha l'inconsueta forma della croce di malta. L'effetto sonoro complessivo è molto articolato, con un crescendo veloce che rallenta, si smorza quando il fuoco passa per gli archi e termina con una successione di ruggiti in corrispondenza della consumazione non contemporanea delle braccia del gratïn. il tutto è condito dai colpi dei cannoni disposti lungo il ramadan.

2 luglio 2018 – Festa di Ns. di Montallegro: al Santuario la Messa del cerimoniere del Papa Mons. Guido Marini (a sinistra). “Salire al monte - ha detto - per pregare e per chiedere a Maria di essere sempre più vicini a suo figlio Gesù”.


Messa al Santuario di N.S. di Montallegro

Mons. Guido Marini (al centro della foto)

GIORNO DELL’APPARIZIONE DELLA MADONNA

A Rapallo oggi il Panegirico, i fuochi e domani processione

Rapallo sta festeggiando da ieri Nostra Signora di Montallegro. Oggi a mezzogiorno è avvenuta la sparata del Panegirico seguita dallo spettacolo a giorno a cura del Sestiere San Michele. Alle 22.45 il saluto dei Sestieri alla Madonna con l’accensione degli antichi mortaletti liguri. Alle 23 il Palio dei Sestieri con spettacoli pirotecnici a notte, a cura dei Sestieri Cerisola e Cappelletta.

Domani 3 luglio invece tra i momenti più attesi la solenne processione  presieduta dall’arciprete don Stefano Curotto che alle ore 21 accompagnerà per le vie cittadine l’arca argentea, con la compartecipazione delle confraternite e dei crocefissi processionali tra cui – in via eccezionale – il celebre Cristo bianco del Maragliano, invitato a Rapallo dai Massari di San Michele. Il percorso della processione, a fronte della presenza del cantiere sul torrente San Francesco, non transiterà sul lungomare. Una volta giunta all’incrocio tra via della Libertà e corso Matteotti, svolterà a sinistra, in direzione della Basilica e raggiungerà via Milite Ignoto per assistere alla “Sparata dei Ragazzi”, allo spettacolo pirotecnico “a notte” e al sempre suggestivo “Incendio del Castello”. Protagonisti saranno il Sestiere Borzoli, Seglio e San Michele. Il 1° invece è toccato ai Sestieri Costaguta e Borzoli.

UN PO’ DI STORIA….

Nella Riviera di Levante, le salve di saluto, i colpi per i festeggiamenti nelle feste patronali hanno una tradizione antichissima e sono i sostituti civili delle salve di cannone militari e il loro utilizzo si fa risalire almeno al XVII secolo.

Salve di cannone o il saluto con le braccia rendono l'onore militare o navale. L'usanza ha origine nella tradizione navale, dove una nave da guerra avrebbe sparato i suoi cannoni, senza pericolo, in mare, fino a che tutte le munizioni fossero state spese, per mostrare che era disarmata, a significare la mancanza di intento ostile.

Come si è evoluta in ambito navale, 21 colpi sono venuti ad essere usate per i capi di Stato, con la diminuzione del numero con il grado del beneficiario dell'onore. Mentre 21 salve sono le più comunemente riconosciute, il numero di giri sparati in ogni saluto dato varia a seconda delle condizioni. Le condizioni per effettuare queste variazioni includono la particolare occasione e, nel caso di militari e funerali di stato, il ramo di servizio, e del rango (o ufficio) della persona alla quale sono stati resi gli onori.

Furono proprio gli inglesi a codificarne l'uso.
La prima regolamentazione è datata 1688: si stabiliva che per compleanni e incoronazioni dei Reali si desse voce ai cannoni da ogni nave della flotta.

Il numero 21 compare però nel 1730 (nel British Naval
Regulations) come limite massimo per ogni imbarcazione.
Ma le salve non venivano usate solo per i regnanti.
Il numero era sempre dispari e cresceva di due, secondo il rango del
festeggiato. I numeri pari venivano usati solo in caso di lutto.
Il 21 divenne codice internazionale come rituale diplomatico.
Un vascello da guerra, entrando in un porto straniero, salutava la bandiera della nazione ospite, e da entrambe le parti si sparavano i famosi 21colpi,
come segno di non belligeranza (guai a spararne uno in più o in meno).
Comunque, sul perché sia stato scelto proprio questo numero, si può ipotizzare una componente mistico-religiosa: 3 e 7, che moltiplicati tra loro danno appunto 21, sono cifre dalla forte valenza simbolica.

A Recco questa tradizione risale fino agli inizi del 1400 ed è legata al culto della "SUFFRAGINA", la Madonna del Suffragio, patrona e protettrice della città.

Nella chiesa di Megli è conservata una tavoletta ex voto risalente al 1700 dove si vede un uomo con il cappello a tricorno che segue una sparata di "mascoli".

Inoltre il Sac. Giacomo Olcese nel suo libro del 1896 "Storia di Recco" riporta a proposito dei "mascoli": "…il giorno 8 settembre d'ogni anno è straordinario il numero di forestieri che viene a Recco e per assistere alle solenni religiose funzioni, alle splendide illuminazioni, alle lunghe e tradizionali sparate di migliaia e migliaia di mortaretti, come pure alla solenne e imponente processione, e ai fuochi a mare e di terra…"

E ancora il grande narratore francese Henry Stendhal che visitò Recco nel 1818 nei giorni 8 e 9 settembre scriveva: "C'è stata la festa della Madonna di Recco. Vi sono andato con le nipotine dell'antico Doge S. che furono educate nelle Fiandre in un monastero di cui mia zia fu badessa. Eravamo in dieci montati sopra asini… Qui sento il rumore dei fucili e dei mortaretti sparati in onore della Madonna da questa gente avara e ladra che appena interrompe la solitudine di questi monti… Sono le dieci e lo spettacolo diventa più sublime ad ogni istante…"


Sparate di mascoli a Recco e a Rapallo – Nuove normative

Le salve di saluto in occasione di feste e manifestazioni non potevano essere affidate ai cannoni custoditi nelle fortezze della Repubblica di Genova, spesso mal ridotti e poi nei centri minori non esistevano cannoni.

Si inventarono allora dei congegni metallici di piccole dimensioni definiti nel linguaggio popolare "mascoli", facilmente caricabili con minime quantità di polvere da sparo, trasportabili e sistemabili laddove era necessario collocarli per comporre anche dei disegni che scoppiavano in grande stile: i cosiddetti "ramadam".

L'uso di questi congegni è generalizzato nei giorni di festa in tutti i centri liguri.

Il "mascolo" è un cilindro di ferro con una base piatta che si adatta al suolo, con un'altezza compresa tra 8 e 15 cm, con uno spessore adeguato all'altezza (camicia) di almeno 1 cm e con un foro all'estremità inferiore sul lato verticale detto "aboggino" per il collegamento della striscia di polvere nera che unisce i vari "mascoli" di una sparata che rumoreggiano in rapida successione.

Il peso di un "mascolo" è di circa 2 kg, lo spessore della camicia è garanzia contro l'esplosione del "mascolo" e la quantità di polvere da sparo collocata in ogni elemento è di circa 15 grammi che viene pressata e ricoperta con segatura.

Ogni quartiere possiede e conserva gelosamente migliaia di "mascoli", tramandati di generazione in generazione.

Una "sparata" è composta da circa 1000-2500 "mascoli" di cui la metà viene usata per la "riga" e il resto per il "riondino" .

La "riga" consiste in un susseguirsi di "mascoli" posti su un sentiero di sabbia a distanza regolare di circa 40/50 centimetri l'uno dall'altro, collegati dalla riga di polvere nera adagiata su un letto di segatura.

Il culmine della sparata è il "riondino", un insieme di "mascoli" disposti a triangolo isoscele rovesciato, posti a distanza che varia da circa 50 centimetri iniziali fino a circa 10 centimetri e che esplodono sempre più velocemente, in un crescendo di botti.

Al termine del "riondino" vengono collocati una decina di "mascoli" di maggiori dimensioni detti "fulminin" che producono un botto fragoroso e contengono una quantità maggiore di polvere pirica.

La sparata viene accesa con il "bettone", un attrezzo apposito che ha alla sua estremità una palla di ferro che viene arroventata per poter incendiare la polvere e i "mascoli" sono innescati grazie alla riga che una volta incendiata, porta il fuoco all'interno degli stessi tramite l'"abboggino".

La sparata viene "seguita" dai volontari dei Quartieri che, come da antiche tradizioni votive verso la Celeste Patrona, controllano che non si spenga la striscia, passandosi di tratto in tratto il "bettone" stesso, per integrare la polvere che brucia con una maggiore sicurezza.

I "mascoli "sono innocui perché non c'è lancio in aria o lateralmente di materiale infuocato o esplosivo in quanto la forte deflagrazione avviene all'interno del "mascolo" stesso grazie alla forte compressione della polvere nera che viene espulsa provocando rumore.

Non si ricordano nel tempo incidenti di sorta né per lesioni da scoppio né per abrasioni da scottature né tanto meno per danneggiamento di cose.

Non sussiste nessun pericolo di esplosione accidentale o per "simpatia" non essendoci inneschi detonanti ed essendo ogni elemento tenuto a distanza dagli altri.

Oggi le sparate avvengono sul greto del torrente Recco e in zone periferiche su terreni appositamente preparati e puliti adeguatamente dove vengono effettuati i percorsi con l'eliminazione di sassi e pietrisco e con la stesura di un letto adeguato di sabbia fine dove poi vengono posizionati tutti i "mascoli".

La quantità maggiore di polvere nera viene utilizzata per "rigare" la sparata cioè per collegare in serie ogni singolo "mascolo" dando il via con il "bettone" alla suggestiva "lingua di fuoco".

Nel 2001 alla luce delle nuove normative in materia e al termine di una lunga ed epica battaglia conclusasi con successo per il riconoscimento presso il Ministero degli Interni di questa antica tradizione, circa 150 volontari dei 7 Quartieri cittadini capitanati dal sindaco e dal parroco hanno conseguito in seguito ad un esame presso la prefettura, il "patentino" ovvero l'abilitazione tecnica ora necessaria per poter caricare e sparare i "mascoli".

Questo non ha costituito un ostacolo anzi è stata l'occasione per far nascere l'"Università dei Fuochi" di Recco che tutti gli anni prepara i giovani per il conseguimento del "patentino" necessario per proseguire la grande tradizione degli "antichi mortaletti liguri".

L’antiga tradiçion di mortaletti, tòcchi de Liguria che vive ancon.

di Andrea Acquarone

Genova - “Unna vòtta ô fàvan pe avvizâ de l’arrivo di corsæ”, o dixe o Gioanin Rosasco, o zoeno ch’o l’è o massâ de San Bertomê de Sòi, “oua a resta a tradiçion”. Parlemmo di mortaletti, che a Levante î ciàmman ascì màscoi, e che son a còsa ciù importante quande gh’è de feste inte valle de Sòi, de Recco, de Rapallo, do Tigullio e da Fontanabonn-a. “Ma se ti væ solo che a Zena, no san manco còse son”, o continua o Rosasco, “a l’è na còsa che femmo solo niatri”. E i Fùrgari de frevâ a Taggia? “Quella a l’è n’atra còsa”. Saià!

A tutte e mainee pe inandiâ i mortaletti “s’è delongo uzou méttise in çercio”, o ne spiega o Luca Figari, massâ de Rapallo, comme se sente da-a còccina, “donca i s’asséttan in çinque, ciaschedun in sce un çeppo: o primmo çeppo o nettezza o mortaletto, o segondo, co-o pugno da man, o ghe caccia drento a poe, o terso o â sciacca co-a stia (ciöson a S. Bertomê, caregatô Recco, ndr). O quarto çeppo o creuve a poe con da serreuia ò do papê, l’ùrtimo o creuve tutto de tæra”. E coscì pe træ, çinque, dexemìa vòtte, dëxenn-e de personn-e scompartìe in squaddre.

O giorno da sparata – ògni paize o l’à o seu: da-i primmi de luggio a Rapallo, fin a l’iniçio d’otobre a-o Favâ de Mävoæ – i mortaletti végnan portæ in sciô pòsto, s’agogginn-an co’un còrno de bùffao pertuzou, e se ghe dà feugo. Dòppo o scròscio, trei corpi de cannon særan a festa.

De vòtte se fa fadiga a capî o senso de ste còse, che incangio éan tanto sentìe da-i nòstri antighi. Scibben che de feughisti ghe ne segge ancon ciù de mille, i ciù tanti en òmmi in etæ, levou o fæto che no tutti appréxan ciù e sparate. “E pòi gh’è un muggio de burocraçìa”, o dixe o Aurelio Rosasco, poæ do Gioanin, “mi ascì, che l’ò fæto delongo, m’è toccou piggiâ un patentin, ma a m’è anæta ben, perché i zoeni dévan studdiâ pròpio da feughisti. Finisce che a-e gente ghe scappa a coæ. Capiscio o fæto da seguessa, ma coscì meue e tradiçioin”. Son stòie piccinn-e, se se veu, ma a riflescion in sciâ nòstra identitæ a passa da chì ascì.

Glossaio
Agoginn-an (se)
– si innescano con la polvere tramite un buco, detto “agoggin”
Caregatô – vedi “stia”
Ciöson – vedi “stia”
Fùrgari (fùrgai) – mortaretti tipici di Taggia
Màscoi – mortaretti liguri
Massâ – massaro (colui che va a raccogliere i fondi per la sparata)
Mortaletti – mortaretti liguri
Poe (povie) – polvere sa sparo
Scròscio – ultima raffica di esplosioni
Stia – arnese per pressare la polvere da sparo

 

PROGRAMMA

FESTE DI LUGLIO 2018

FESTEGGIAMENTI IN ONORE DI N.S. DI MONTALLEGRO

dal 01-07-2018 al 03-07-2018 - Centro cittadino PATRONA DI RAPALLO E DEL SUO ANTICO CAPITANEATO nel 461° anniversario dell'Apparizione - 251° Incoronazione Sacro Quadretto. Cerimonie religiose, fiera e grandiosi spettacoli pirotecnici nelle tre serate di festa. Treni Straordinari

dal 23 GIUGNO al 1 LUGLIO

SANTUARIO DI MONTALLEGRO ore 05.00 Novena dell’alba predicazione di vari sacerdoti della Diocesi

BASILICA DEI SS. GERVASIO E PROTASIO Sante Messe della Novena

ore 07.00 e 10.30 feriale

ore 07.30 e 10.00 festivo

ore 18.00 Novena – Predicazione di Padre James Walsh del Santuario N.S. della Guardia di Velva e di Padre Attilio Fabris dell'Abbazia di Borzone

23 GIUGNO ore 09.00 Pellegrinaggio dei bambini al Santuario (partenza dalla Chiesa di S. Francesco)

24 GIUGNO ore 15.30 Santa Messa con unzione degli infermi - Basilica dei SS. Gervasio e Protasio

1 LUGLIO

ore 03.00 Pellegrinaggio dei giovani al Santuario (partenza fiaccolata dalla Chiesa di S. Francesco)

ore 7,00-10,00-11.00-12.00-18,00 Basilica dei SS. Gervasio e Protasio – Sante Messe della Novena

ore 08.00 Basilica dei SS. Gervasio e Protasio Esposizione dell’Arca argentea della Madonna alla presenza di S.E. Mons. Alberto Tanasini, Vescovo di Chiavari

Innalzamento dei vessilli dei Sestieri

“Saluto dei Sestieri alla Madonna” con l’accensione degli antichi mortaletti

Spettacoli pirotecnici a cura dei Sestieri BORZOLI e COSTAGUTA (specchio acqueo antistante Lungomare Vittorio Veneto)

ore 08.15 Basilica dei SS. Gervasio e Protasio – Santa Messa celebrata da S.E. Mons. Alberto Tanasini - Vescovo di Chiavari

Sante Messe a seguire ore 10 – 11 – 12;

ore 16.00 Basilica dei SS. Gervasio e Protasio - Omaggio floreale dei fanciulli alla Madonna

ore 18.00 Basilica dei SS. Gervasio e Protasio - S. Messa celebrata da Mons. Pino De Bernardis nel 60° anniversario di ordinazione sacerdotale

ore 21.00 Basilica dei SS. Gervasio e Protasio - Canto dei primi Vespri

ore 21.30 Concerto della Banda Musicale “Città di Rapallo” - Direttore Daniele Casazza (Chiosco della Musica – Lungomare Vittorio Veneto)

ore 22.15 “Saluto dei Sestieri alla Madonna” con l’accensione degli antichi mortaletti

ore 22.30 “Palio dei Sestieri” – Spettacoli pirotecnici a cura dei Sestieri BORZOLI e COSTAGUTA (specchio acqueo antistante Lungomare Vittorio Veneto)

2 LUGLIO

ore 7,00-08.30-18,00 Basilica dei SS. Gervasio e Protasio – Sante Messe

ore 10.00 Basilica dei SS. Gervasio e Protasio - Solenne Pontificale officiato da S.E. Mons. Alberto Tanasini, Vescovo di Chiavari

ore 10.30 Santuario di Montallegro: Santa Messa Solenne celebrata da Mons. Guido Marini Maestro delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice

ore 12.00 “Sparata del Panegirico” a cura del Sestiere SAN MICHELE (Lungomare Vittorio Veneto e specchio acqueo antistante)

ore 18.00 Basilica dei SS. Gervasio e Protasio - Santa Messa solenne celebrata da Don Gianluca Trovato – Rettore del Santuario di Montallegro

ore 21.00 Basilica dei SS. Gervasio e Protasio - Canto dei secondi Vespri

ore 21.30 Concerto della Banda Musicale “Città di Rapallo” - Direttore Daniele Casazza (Chiosco della Musica – Lungomare Vittorio Veneto)

ore 22.45 “Saluto dei Sestieri alla Madonna” con l’accensione degli antichi mortaletti

ore 23.00 “Palio dei Sestieri” - Spettacoli pirotecnici a cura dei Sestieri CERISOLA e CAPPELLETTA (specchio acqueo antistante Lungomare Vittorio Veneto)

3 LUGLIO

ore 7,00-08.30-18,00 Basilica dei SS. Gervasio e Protasio – Sante Messe

ore 10.30 Basilica dei SS. Gervasio e Protasio – Solenne Pontificale officiato da S.Em. Cardinale Angelo Bagnasco – Arcivescovo Metropolita di Genova e concelebrata dai Sacerdoti di Rapallo

ore 18.00 Basilica dei SS. Gervasio e Protasio - Santa Messa celebrata da Mons. Lelio Roveta, Arciprete Emerito

ore 21.00 Basilica dei SS. Gervasio e Protasio - Solenne Processione dell’“Arca argentea della Madonna” presieduta dall'Arciprete Don Stefano Curotto e con la partecipazione delle Confraternite, dei Crocifissi processionali e dei Massari dei Sestieri

ore 22.00 “Saluto dei Sestieri alla Madonna” con l’accensione degli antichi mortaletti in concomitanza con il passaggio dell’”Arca argentea”

ore 22.15 “Sparata dei ragazzi” e “Incendio del Castello” a cura del Sestiere BORZOLI

ore 23.15 “Saluto dei Sestieri alla Madonna” con l’accensione degli antichi mortaletti

ore 23.30 “Palio dei Sestieri” Spettacoli pirotecnici a cura dei Sestieri SAN MICHELE E SEGLIO (specchio acqueo antistante Lungomare Vittorio Veneto)

Nella giornata di martedì 3 luglio e nella notte tra il 3 e 4 luglio 2018, in occasione della Festa
Patronale di Rapallo N. S. di MONTALLEGRO, con il contributo della Regione Liguria l’offerta
orario sarà ampliata come indicato nell'allegato

8 LUGLIO (vedi)

SANTUARIO DI MONTALLEGRO

ore 10.30 “Adempimento del Voto della Comunità Rapallese” – Anno Domini 1657 – Santa Messa all’Altare della Madonna celebrata da S.E. Mons. Alberto Tanasini

“Benedizione della Città” al termine della solenne processione con il “Sacro Quadretto”

Spettacoli pirotecnici dei Sestieri realizzati con il concorso delle rinomate Ditte:

-FIREWORKS LIETO – Visciano (NA) - Sestiere SAN MICHELE

-APULIA EVENTS – San Severo (FG) - Sestiere SEGLIO

-DITTA CATAPANO GIUSEPPE – Ottaviano (NA) – Sestiere BORZOLI

-PIROTECNICA MORSANI – Belmonte in Sabina (RI) – Sestiere CERISOLA

-SCUDO GERARDO – Ercolano (NA) - Sestiere CAPPELLETTA

-SETTI FIREWORKS – Genova – Sestiere COSTAGUTA

BASILICA DEI SS. GERVASIO E PROTASIO – Coro della Basilica diretto da Simona Gardella - organista M° Fabio Macera

GOLFO DI RAPALLO Posa in mare dei Lumetti “Rapallini” a cura del Circolo Pescatori Dilettanti Rapallesi

www.comune.rapallo.ge.it www.sestederapallo.it

Per maggiori informazioni

https://www.comune.rapallo.ge.it/pagina631_festeggiamenti-patronali-1-2-3-luglio.html

http://www.festediluglio.it

http://www.sestederapallo.it

http://www.turismoinliguria.it

“LA CHIESA NON SI RIDUCA A MANIFESTAZIONI ESTERIORI”

Il monito del vescovo Tanasini sembra ritornare sulla polemica per i fuochi e la presenza di troppi Cristi lignei in processione.

Sul lungomare, la presidente del Comitato dei Sestieri Maura Arata non si stupisce delle parole del vescovo che, negli anni, non ha mai nascosto di apprezzare poco le sparate dei fuochi (ma anche tanti Cristi lignei in processione). E riflette:

Il vescovo é uomo intelligente e sa bene che le nostre contadine del passato, che certo seguivano Maria nell’umiltà, a mezzogiorno del 2 luglio, sentendo i mortaretti, fermavano il lavoro nei campi per farsi il segno della croce e pregare. Il Panegirico, i fuochi: siamo tutti uniti nelle nostre Feste, sta andando ogni cosa al meglio”.

Concludiamo questa panoramica "rapallina" lasciando la parola ai turisti e non… di Rapallo.

Durante la festa del paese che si svolge i primi tre giorni di luglio per l'anniversario dell'apparizione della Madonna di Montallegro ogni sera è possibile ammirare un grande spettacolo pirotecnico ma la serata più emozionante è quella conclusiva quando dopo lo spettacolo pirotecnico viene teatralizzato...

Matteo Z.

Nell'ambito delle feste di luglio a Rapallo una tre giorni di fuochi d'artificio con culmine nell'incendio del castello durante la processione con i tipici portatori di pesantissimi crocefissi splendidamente ornati e apparentemente traballanti ma in un equilibrio incredibile.

Farris Alessandro

Tre serate di fuochi indimenticabili! Uno spettacolo che si ripete tutti gli anni e che lascia sempre a bocca aperta. Non sono ancora riuscita a trovare fuochi più belli di quelli di Rapallo e non solo perchè hanno il sapore dell'infanzia!

Elena P.


Ogni estate, la sera del 3 luglio a Rapallo, in occasione delle celebrazioni di Nostra Signora di Montallegro (1-2 e 3 luglio) verso le ore 22:15 viene incendiato il castello. È il momento più emozionante della festa, l'Arca Argentata della Madonna viene portata in processione...

Marina F.

Alla fine della processione del "Quadretto di Maria" viene dato "fuoco" al vecchio castello sul mare. Bagliori rossi compaiono alle finestre e alle pareti una pioggia argentea di fuochi d'artificio e ...fumo fumo fumo. E' uno spettacolo suggestivo ed affascinante.

Giampaolo M.

Serata spettacolare del 3 di Luglio, sempre molto affollata ma da non perdere. La processione dei Crocefissi e della Madonna di Montallegro, l'incendio del castello con i fuochi d'artificio e il palio pirotecnico. Bancarelle in centro. Bellissimo

AlittaM.



Bellissima l'atmosfera che si respira sospesa tra religiosità, rievocazione e spettacolo con la processione. Spettacolari i fuochi d'artificio che sono fatti per tre sere di fila il 1", 2 e 3 luglio. La sera del 3 lo spettacolo nello spettacolo è l' incendio del castello.

Elisabetta464

la processione della Madonna di Montallegro e' una delle più belle attrazioni di Rapallo, incredibilmente ricca di emozioni. essendo nato a Rapallo me la ricordavo sin da quando ero piccolo, me e' sempre bello dopo tanti (troppi) anni rivederla con alla fine l'incendio del castello!!!...

William Gubert

L'incendio del Castello, unito ai fuochi d'artificio che iniziano già dal mattino con i botti dei vari quartieri raggiungono l'epilogo la sera in cui il Golfo di Rapallo s'incendia con il mare che trasmette il riverbero dei fuochi.

giavenomarco

Sacro e profano per una serata indimenticabile, i fuochi artificiali che incantano grandi e piccini e il caratteristico "incendio del castello".

Balacchino

Sempre uno spettacolo a metà tra il religioso e il pagano, con il popolo di Rapallo che adora la sua Protettrice. Da andare apposta a Rapallo a Luglio.

Francesco b

L'incendio del castello e la processione dei crocifissi si tengono entrambi nella serata conclusiva della festa patronale di NS Signora di Montallegro il 3 luglio, l'arca argentea della Madonna viene portata in processione nelle vie del centro, ad essa si accompagnano i portatori dei crocifissi...

MarcoA


Tutti gli anni, nel corso delle feste patronali in occasione della Festa della Madonna di Montallegro, si tiene il 3 luglio la processione dell'arca argentea della Madonna. L'arca è preceduta da alcuni Crocifissi processionali (detti "i Cristi"). Quest'ultima volta erano sette Crocifissi, delle diverse confraternite...

Stefano91

Rapallo. Prima una processione religiosa di Crocifissi, col Cristo Bianco e Cristo Nero, opere d'arte di fino a 400 kili. Straordinario! Poi, L'Incendio del Castello con Fuochi Artificiali che non finiscono mai. Splendido. Fantastico. Non ho parole per la belleza di Rapallo illuminatissimo!

Soncijo

Le foto a seguire sono state scattate da Aurelita Persi Donati






CARLO GATTI

Rapallo, 1 luglio 2018

 

 


SANTUARIO DI N.S. DI MONTALLEGRO LA NOVENA DELL’ALBA

SANTUARIO DI N.S. DI MONTALLEGRO

LA NOVENA DELL’ALBA


Nel sestiere di Borzoli, a circa seicento metri s.l.m., sulle balze del monte Ponzema spicca nel verde delle colline il Santuario di N. S. di Montallegro, testimonianza imperitura della Sua Apparizione in questo luogo.

Era il 2 luglio 1557, quando nelle prime ore del pomeriggio, ad un contadino di San Giacomo di Canevale, Giovanni Chighizola, che tornava dal mercato e sul monte s’era posto a riposare, apparve la Madonna, la quale – così si narra – incaricò Giovanni di avvertire i Rapallesi che ivi voleva essere venerata e come segno tangibile lasciò quel quadretto (una tavola bizantina) rappresentante la dormitio Mariae, mentre dalla vicina roccia sgorgava una limpida sorgente di acqua.

I primi ad accorrere sul luogo furono alcuni contadini della zona e il parroco di S. Ambrogio, Rocco Lucchetti, il quale fu vivamente impressionato dall’avvenimento. La voce del miracolo si diffuse rapidamente e da Rapallo accorsero altri; il Lucchetti, fatta una questua, diede a Nicolosino Bisanino (forse il bargello?) e al magnifico Gio Battista della Torre, una piccola somma, perché provvedessero, a far sorvegliare e custodire il quadretto durante la notte.

La notizia della miracolosa apparizione e fece accorrere folla da ogni luogo e, l’anno seguente, il vicario generale della diocesi di Genova, mons. Egidio Falceta, vescovo di Caorle, ebbe l’incarico di condurre un’indagine accurata sull’ accaduto….

Osservando lo stemma araldico della Città di Rapallo, si nota l’azzurro della sigla Mariana accostata da due grifoni controrampanti sostenenti, con le zampe anteriori, una corona, il tutto d'oro.

Il simbolo indica ovviamente la regalità di Maria e l'eterna riconoscenza che gli abitanti del comune intendono esprimere alla loro celeste Patrona che, da 461 anni, non cessa di ricoprirli di grazie e protezione.
L'inserimento infatti dell'iniziale mariana nel gonfalone cittadino rappresenta un impegno pubblico di devozione e sottomissione. Pochi probabilmente oggi se ne rendono conto ma chi compì tale gesto significativo, il 28 novembre 1948,  certo non aveva gli scrupoli per la "laicità" dello Stato manifestati invece anche purtroppo da molti ecclesiastici di oggi.
Al di là infatti delle vicende che dettero inizio al santuario, i rapallesi, nella semplice saggezza di chi sa davvero leggere, negli avvenimenti storici, i segni del soprannaturale, attribuirono sempre alla protezione di Maria la salvezza del paese rispetto a pestilenze, epidemie di colera e finanche dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale.

I followers del sito di Mare Nostrum Rapallo conoscono i nostri numerosi scritti sulle celebrazioni delle FESTE DI LUGLIO in onore della SS. Vergine. In questi giorni Montallegro diventa una piccola Lourdes, a Rapallo e dintorni si respira aria di fede e devozione: tanti giovani e non più giovani rinnovano ogni anno:

il rito della Novena dell’alba

un antico pellegrinaggio notturno che si snoda sugli impervi sentieri che dalla funivia raggiungono il Santuario (620 mt) cantando e pregando al lume di candele, torce ed oggi di faretti e smartphone.

Gesù disse ai suoi Apostoli:

Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro" (Mt 18,20)-

Questo sembra essere, ormai da molti secoli, il collante che unisce i rapallesi al loro Santuario.

Immagini che rimangono chiuse nello scrigno dei nostri più cari ricordi di gioventù, di amicizia vera e di gioia per essere nati qui…ai piedi di questo sacro Santuario.

I pellegrini di Rapallo sono persone semplici, rimaste ancorate a quei valori ereditati dai loro vecchi e che sicuramente tramanderanno ai loro discendenti, futuri tedofori della stessa FEDE.

Di loro si parla poco, anzi quasi mai! I proiettori dei media sono sempre puntati altrove, dove il male impera e fa notizia…!


NOVENA DEFINIZIONE STORICA

Pratica di devozione in preparazione di una festa o per l'ottenimento di una grazia, consistente in particolari preghiere e meditazioni per nove giorni consecutivi; di origine medievale, è ispirata al periodo di nove giorni passati in preghiera nel Cenacolo dalla Madonna e dagli Apostoli dopo l'Ascensione in attesa della discesa dello Spirito Santo.

Cos’è una NOVENA oggi? La novena è una speciale preghiera che il fedele rivolge a Dio durante nove giorni consecutivi chiedendo l’intercessione particolare della Vergine Maria, di un santo patrono, degli arcangeli o degli angeli custodi. Si è anche soliti pregare le novene in preparazione alle grandi feste liturgiche come il Natale, la Pasqua, la Pentecoste, l’Immacolata o in prossimità di altre solennità importanti.

Una novena molto diffusa è quella in suffragio dei defunti e in favore delle anime del purgatorio secondo una usanza che troviamo nell’Antico Testamento quando Giuda Maccabeo offrì con i suoi uomini un “sacrificio espiatorio” in riparazione dei peccati dei soldati caduti in battaglia.


· La Preghiera a Maria che scioglie i nodi :

Vergine Maria, Madre del bell'Amore, Madre che non ha mai abbandonato un figliolo che grida aiuto, Madre le cui mani lavorano senza sosta per i suoi figlioli tanto amati, perchè sono spinte dall'amore divino e dall'infinita misericordia che esce dal Tuo cuore volgi verso di me il tuo sguardo pieno di compassione. Guarda il cumulo di "nodi" della mia vita.

Tu conosci la mia disperazione e il mio dolore. Sai quanto mi paralizzano questi nodi Maria, Madre incaricata da Dio di sciogliere i "nodi" della vita dei tuoi figlioli, ripongo il nastro della mia vita nelle tue mani. Nelle tue mani non c'è un "nodo" che non sia sciolto.

Madre Onnipotente, con la grazia e il tuo potere d'intercessione presso tuo Figlio Gesù, mio Salvatore, ricevi oggi questo "nodo" (dire il "nodo" che ci opprime). Per la gloria di Dio ti chiedo di scioglierlo e di scioglierlo per sempre. Spero in Te.

Sei l'unica consolatrice che Dio mi ha dato. Sei la fortezza delle mie forze precarie, la ricchezza delle mie miserie, la liberazione di tutto ciò che mi impedisce di essere con Cristo. Accogli il mio richiamo. Preservami, guidami proteggimi, sii il mio rifugio.

"Maria che scioglie i nodi" prega per me.

Novena dell’Alba a Montallegro

PUBBLICATO 19 GIUGNO 2018 · AGGIORNATO 19 GIUGNO 2018

RAPALLO – Inizia sabato prossimo, al Santuario di Montallegro, la novena in preparazione alla festa patronale. Ogni mattina, alle 3.30, il Santuario aprirà le sue porte ai pellegrini, per la preghiera e per celebrare il sacramento della Riconciliazione. Alle 4.20 la recita del Santo Rosario e alle 5.00 la Messa con omelia e la supplica. La novena dell’alba sarà caratterizzata, quest’anno, dalla presenza di sacerdoti e gruppi parrocchiali provenienti da diverse parti della Diocesi. Ad iniziare il cammino di preparazione sarà don Marco Gattorna con i giovani della Val Fontanabuona. Seguirà Don Massimiliano Pendola, con le comunità di Moneglia; Don Andrea Buffoli e i giovani della Val Graveglia; don Alberto Gastaldi e i ragazzi di Chiavari; Don Federico Tavella e i giovani di Lavagna; don Cristiano Princiotta Cariddi e i volontari del santuario; don Paolo Gaglioti e i giovani di Carasco; Don Stefano Mazzini con la comunità del seminario, e per finire, Don Stefano Curotto con i giovani di Rapallo, che concluderanno il cammino domenica 1° luglio. In Basilica, a Rapallo, la Messa di novena sarà celebrata ogni mattina alle 7.00 e alle 10.30 nei giorni feriali, alle 7.30 e alle 10.00 nei giorni festivi; e al pomeriggio alle ore 18.00. La predicazione sarà affidata a Padre James Walsh, del santuario di N. S. della Guardia a Velva, e Padre Attilio Fabris, abate dell’abbazia di Borzone.



ALBUM FOTOGRAFICO


Sull'altare maggiore, è custodita l'immagine miracolosa lasciata dalla Madonna sul luogo dell'apparizione come pegno d'amore alla comunità di Rapallo, insieme allo sgorgare prodigioso di una fonte, le cui acque sono state incanalate in una fontanella che si trova ancora nella cappella laterale del Santuario.

Il quadretto, un'icona bizantina di rara fattura, è protagonista di un altro aneddoto miracoloso: dopo essere stata sistemata nel Santuario, fu notata da alcuni ragusei che vi si erano recati in visita e fu da loro reclamata, sostenendo che provenisse dalla città di Dubrovnic, in Dalmazia. Fu deciso di inviare l'icona a quello che sembrava il suo luogo d'origine ma, durante il viaggio in nave verso la Dalmazia, l’icona sparì misteriosamente e fu ritrovata nel Santuario. I ragusei compresero il segno divino e lasciarono il quadretto miracoloso a Rapallo.



 

LE PUBBLICAZIONI DI MARE NOSTRUM RAPALLO

In occasione dei 450 anni dall’Apparizione della Madonna di Montallegro, Mare Nostrum Rapallo pubblicò:

2007 - MONTALLEGRO, UN FARO SU MARE NOSTRUM

- Quando apparve la Madonna – Quadro Storico -

di Carlo Gatti

- Ex voto marinari – La quadreria del Santuario di N.S. di Motallegro

di Emilio Carta

- Montallegro: ex voto e storia navale

di Maurizio Brescia

 

***

Rapallo: SANTUARIO DI N.S.MONTALLEGRO

Navi, Marinai e la Devozione Mariana

 

 

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=138;navi-marinai-e-la-devozione-mariana&catid=52;artex&Itemid=153

***

La "carretta" BONITAS di Ravano naufraga davanti a Norfolk

 

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=167;bonitas-maria&catid=52;artex&Itemid=153

***

Santuario di Montallegro. VELIERI nella Tempesta

 

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=176;ex-voto&catid=52;artex&Itemid=153

***

 

NARCISSUS - Il Veliero che non voleva morire

 

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=180;narcissus&catid=52;artex&Itemid=153

 

Carlo GATTI

Rapallo, 25 Giugno 2018


I PALAZZI DEI ROLLI - GENOVA

I PALAZZI DEI ROLLI - GENOVA

I ROLLI DAYS

Quando ero in servizio come Pilota del porto di Genova, il mio ruolo era anche definito la “carta parlante del porto e dintorni” e spesso i Comandanti foresti mi rivolgevano questa domanda:

Genova la SUPERBA, Genova la Repubblica Marinara. Ma cosa é Genova per te che la vedi tutti i giorni da molte angolazioni?”

Dovendo fare molta attenzione alla manovra in corso dovevo dare risposte rapide e magari un po’ curiose e stimolanti… per cui mi ero nel tempo affinato una risposta di questo tipo:

“Genova é come quelle signore senza età che non si truccano e non indossano gioielli perché sanno di essere più “affascinanti” di tante realtà moderne e appariscenti che brillano al sole con i loro grattacieli di cristallo senza storia. Genova é nascosta nell’ombra! Per amarla occorre scoprirla camminando con lo sguardo rivolto sempre verso l’alto. Provaci Comandante, ma ti avverto che la Genova che conosco io si dà solo a chi rispetta la sua intimità che si snoda tra simboli misteriosi, scorci improvvisi che ti tolgono il fiato, e silenzi che ti parlano dentro con mille domande…!”

Genova, città portuale del Mediterraneo, cresciuta attorno ad una aggrovigliata ragnatela di vicoli ha accolto, fin dall’inizio della sua storia di potenza marittima, quei “refugees” provenienti dall’Africa e dall’Asia più vicina, ma anche da quella più lontana. Li ha accolti senza ghettizzarli nelle periferie, ma accogliendoli nel cuore del suo centro storico, il più grande ed intrigante d’Europa. Tra questi immigrati c’erano anche futuri ammiragli e armatori diventati famosi e potenti scoprendo, come cantava De André”, che dal letame nascono i fiori”…..

Le città portuali si assomigliano tutte perché nei loro vicoli scorre sangue intriso di mare, dove tutti si capiscono parlando la stessa lingua, raccontando le stesse esperienze vissute a bordo delle navi del loro tempo, nei porti e negli angiporti di tutto il mondo. Queste città portuali hanno una peculiarità internazionale: quella di essere enclave accoglienti per vocazione e per interesse… dove non si fanno domande sulle razze, religioni e guerre, ma si convive pacificamente credendo nel mercato, negli scambi e nelle contrattazioni a tutti i livelli.

Con questa tipica visione prettamente mercantile, a Genova si é strutturata nel tempo una coabitazione non sempre facile, e tuttavia culturalmente feconda, fra genovesi e “foresti”, che si sono suddivisi le stesse strade e gli stessi palazzi. Palazzi un tempo sontuosi, appartenuti all’aristocrazia mercantile della città, e poi lasciati andare (non tutti), ma che portano ancora evidenti i segni della loro bellezza nei portali scolpiti di marmo o ardesia, nei grandi scaloni che salgono verso attici e terrazze dal panorama vertiginoso, nelle edicole votive esposte quasi di nascosto ad ogni angolo di strada.

Quanto finora raccontato é soltanto la PREMESSA per introdurre e presentare una nuova prospettiva storico-culturale del capoluogo ligure che é scaturita dal riconoscimento dell’UNESCO di una parte del suo patrimonio urbanistico e non solo, ovviamente.

COS’E’ L’UNESCO?

Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura, istituita a Parigi 4 novembre 1946, è nata dalla generale consapevolezza che gli accordi politici ed economici non sono sufficienti per costruire una pace duratura e che essa debba essere fondata sull'educazione, la scienza, la cultura e la collaborazione fra nazioni, al fine di assicurare il rispetto universale della giustizia, della legge, dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali che la Carta delle Nazioni Unite riconosce a tutti i popoli, senza distinzione di razza, di sesso, di lingua o di religione.

…………………………………………………………………………………………………………..

Quando sentii per la prima volta parlare dei PALAZZI DEI ROLLI di Genova, rimasi sorpreso e andai subito alla ricerca della genesi di questo nome nei vecchi libri di Genova che ereditai dai miei. Con la massima delusione, devo confessare, non trovai nulla che mi spiegasse l’arcano di questa novità culturale che oggi sta letteralmente incendiando d’amore Genova alla ricerca  della sua cultura nascosta.

Migliaia di turisti stanno arrivando da tutto il mondo nel nostro Capoluogo per scoprire FINALMENTE ciò che, appunto l’UNESCO, ha regalato “in anteprima” a noi liguri e a tutto il mondo dell’arte in generale. Un patrimonio quindi che esce dai salotti, dai club privati di pochi per entrare nelle case di tutti noi per arricchire quella GENOVESITA’ che pare non essere mai sazia di svelarci, passo dopo passo, antichi e incomparabili patrimoni di bellezza, ricchezza e di storia.

La seconda parte del saggio é dedicata ad un nutrito servizio fotografico dei Palazzi dei Rolli, il cui scopo é quello di stimolare il lettore ad incamminarsi lungo il “pellegrinaggio” culturale dei ROLLY DAYS le cui visite guidate sono quanto di più organizzato e stimolante si possa desiderare.

L’invenzione dei Rolli

Con palazzi dei Rolli (alle volte solo Rolli) si intendono le dimore del patriziato genovese utilizzate al tempo della Repubblica come alloggi di rappresentanza per gli ospiti stranieri illustri: la recente fortuna di questa denominazione è legata all’inclusione nel 2006 di una quarantina di tali residenze tra i “patrimoni dell’umanità” censiti dall’UNESCO in quanto primo esempio in Europa di un progetto di sviluppo urbano concepito con struttura unitaria dal potere pubblico, ma attuato da privati secondo criteri di eccellenza artistica e architettonica. Secondo un decreto del Senato genovese risalente al 1576, i proprietari di questi palazzi, iscritti in una serie di elenchi (i “rolli” appunto), erano tenuti ad ospitare a proprie spese i visitatori stranieri di alto rango, essendo la Repubblica, in quanto tale, priva di un “palazzo regio” di rappresentanza confacente a tale scopo: questa caratteristica funzionale contribuì a determinare e a divulgare la fama mondiale dell’architettura privata genovese come modello architettonico e residenziale di prestigio, consacrato tra gli altri da una celebre raccolta di disegni (1622) di P.P. Rubens.

Per i lettori più esigenti, prendiamo a prestito dal Comune di Genova la spiegazione tecnico-storica del termine ROLLI:

La denominazione accolta dall’organizzazione internazionale (“Palazzi dei Rolli”, dunque, o più in esteso “Palazzi dei Rolli degli alloggiamenti pubblici di Genova”) altro non fa che attualizzare una terminologia appartenente al linguaggio burocratico-amministrativo cinquecentesco, utilizzata nel 1576 (e poi, con successive revisioni, nel 1588, 1599, 1614 e 1644), per determinare la classificazione dei palazzi deputati a tale scopo: le dimore erano iscritte in tre “rolli” corrispondenti ad altrettante categorie in rapporto alle loro dimensioni e qualità artistica, e in base a tali criteri erano destinate, mediante estrazione a sorte annuale, a ospitare principi e cardinali, viceré, ambasciatori, governatori e così via; solo tre di esse erano riservate ai papi e imperatori, re e loro diretti rappresentati.

Rollo, dunque, non è altro che la forma genovese e italiana antica del termine moderno “ruolo”, dal francese rôle, derivato a sua volta da ROTŬLUS nel senso di “manoscritto, documento arrotolato”. La voce appare in questa forma, in italiano, a partire dal 1528 col significato originario di “catalogo, registro, elenco di persone facenti parte di un impiego, di un’organizzazione, di una corte”, dal quale derivano gli altri in uso attualmente, di “registro di pratiche”, “parte sostenuta da un personaggio in opere di finzione”, “compito, atteggiamento sociale” ecc.

Invenzione fortunata

Il recupero attuale del termine Rolli non riguarda insomma una voce specialistica, particolarmente legata all’istituzione degli “alloggiamenti pubblici” della Repubblica, ma un termine generico, appartenente al linguaggio burocratico dell’epoca: agli artefici di tale reimpiego, che non pare anteriore alla fine degli anni Novanta del secolo scorso, va in ogni caso riconosciuto il merito di avere appunto “inventato” una definizione di indubbia valenza evocativa per un insieme di beni architettonici e urbanistici dei quali si era ormai da tempo perduta una percezione unitaria, una denominazione ormai entrata stabilmente nell’uso comune non meno che nella letteratura e nella pubblicistica specializzata.

I Palazzi dei Rolli inclusi nel Sito Patrimonio dell'Umanità UNESCO Sono: 42

I documenti dei Rolli, esposti in occasione dei Rolli Days nell'ottobre 2017

Patrimonio dell'Umanità dell'UNESCO

LA MAPPA DEI PALAZZI ROLLI

*Palazzi dei Rolli non ancora entrati nel patrimonio dell'Umanità

*Palazzi dei Rolli patrimonio dell'Umanità

*Palazzi dei Rolli non patrimonio dell'Umanità (che hanno subito modifiche importanti)

*Palazzi dei Rolli patrimonio dell'Umanità (che hanno subito modifiche importanti)


Palazzi in Via Garibaldi verso piazza Fontane Marose

 


Palazzo Doria Spinola (1541-1543)

Sede della Prefettura e dell'Amministrazione Provinciale Immagine dalla città di Genova

 


Palazzo Clemente Della Rovere (1580-1581)

 


Palazzo Giorgio Spinola - Compare nel Rollo del 1588


Palazzo Tommaso Spinola (1558-1561)

 


Palazzo Giacomo Spinola di piazza Fontane Marose 1445-1459

Banco di Sardegna (patrocinatore del recupero)

 


Palazzo Ayrolo Negrone, Piazza delle Fontane Marose - 1500-1600

Iscritto nel Rollo del 1664

Alla grandiosità architettonica corrisponde, all’interno, un’altrettanta ricchezza decorativa

 


Palazzo Interiano Pallavicini, Piazza delle Fontane Marose

(1565-1567)

 


Palazzo Pallavicini Cambiaso (1558-1560)

Sede della Banca Popolare di Brescia

 


Palazzo Pantaleo Spinola (1557-1558)

Ospita affreschi dei maggiori pittori liguri

 

Palazzo Lercari Parodi (1571)

Nella volta del salone del secondo piano nobile si trova un vero capolavoro della pittura genovese: l'affresco di Luca Cambiaso che raffigura l'impresa di Megollo Lercari con la costruzione del fondaco dei genovesi a Trebisonda, ossia le costruzioni necessarie per condurre i commerci nella colonia genovese sul mar Nero. L'affresco vuole al tempo stesso ricordare la costruzione del palazzo Lercari in Strada Nuova, fornendo così un'idea dell'aspetto della via negli anni della sua apertura.

 

Palazzo Carrega Cataldi in via Garibaldi, verso piazza Fontane Marose (1558-15561)

L'edificio è oggi sede della Camera di Commercio di Genova.

 


Palazzo Angelo Giovanni Spinola (1558-1576)

detto della Banca d'America

 


Palazzo Doria-Tursi Via Garibaldi (iniziato 1565)

L'edificio è sede del Comune di Genova e fa parte del polo museale della città.

 


Palazzo Nicolosio Lomellino o Palazzo Podestà (1559-1565)

La facciata, su progetto del Bergamasco, è movimentata da una ricca decorazione a stucco, con erme femminili alate, a sorreggere la cornice marcapiano del pianterreno; nastri e drappi a reggere, al primo piano, trofei d'armi; ghirlande e mascheroni a coronamento delle finestre, con figure classiche entro medaglioni ovali, al secondo. La decorazione a stucco all'antica, applicata per la prima volta in epoca moderna da Raffaello nelle Logge Vaticane e precocemente importata a Genova dal suo allievo Perin del Vaga nella decorazione della Villa Principe, si dispiega qui per la prima volta su vasta scala coprendo l'intero prospetto. La sua esecuzione è attribuita all’urbinate Marcello Sparzo.

Palazzo Cattaneo Adorno (1553-1588)

All'interno del portone al numero 10 la decorazione affrescata, opera di Lazzaro Tavarone, celebra sulla volta dell'atrio un'impresa bellica di Antoniotto Adorno, doge antenato dei proprietari, datata 1624. Nella sala del piano nobile, sempre di Lazzaro Tavarone, è l’affresco raffigurante l'Incontro di papa Urbano VI a Genova con il doge Antoniotto Adorno. In altri salotti sotto le volte affrescate con soggetti mitologici, si conservano preziosi mobili e soprammobili e parte della ricca e nota quadreria comprendente notevoli dipinti tra il XVI e il XVII secolo.

 

Palazzo Doria - Tursi splendente (iniziato nel 1565)

È l'edificio più maestoso della via, unico edificato su ben tre lotti di terreno, con due ampi giardini a incorniciare il corpo centrale. Le ampie logge affacciate sulla strada vennero aggiunte nel 1597, quando il palazzo divenne proprietà di Giovanni Andrea Doria che lo acquisì per il figlio cadetto Carlo, Duca di Tursi, al quale si deve l'attuale denominazione. Dal 1848 è sede del municipio genovese.


Palazzi in Via Garibaldi verso piazza Fontane Marose

Palazzo Bianco e giardino pensile di ponente di Palazzo Doria Tursi (1530-1540)

Ospita una sezione dei Musei di Strada Nuova, che comprendono anche Palazzo Rosso e Palazzo Doria-Tursi, specificamente dedicata alla pittura a Genova e in Liguria tra XVI e  XVIII secolo, e con importanti sezioni di arte italiana, fiamminga e spagnola.

 

Palazzo Rosso (1671-1677)

Ospita la prima sezione dei Musei di Strada Nuova, che comprendono anche Palazzo Bianco e Palazzo Doria-Tursi, dedicata principalmente alle collezioni d'arte dei Brignole-Sale, in parte ospitate in sale che conservano l'arredo e la decorazione originale.

 


Palazzo Gerolamo Grimaldi, (1536-1544) facciata su piazza della Meridiana

 


Palazzo Gio Carlo Brignole

 


Palazzo Bartolomeo Lomellini (1556-1570)

 

Palazzo Lomellini Doria Lamba (incluso nei Rolli dal 1588 al 1664)

 


Palazzo Belimbau (finito nel 1594)

Università degli Studi di Genova

 


Palazzo Durazzo Pallavicini (1774)

 

Palazzo Gio Francesco Balbi - piazza


Pierre Paul Rubens

Facciata del Palazzo dei signori Giacomo e Pantaleo Balbi

Genova-palazzo Francesco Maria Balbi

Via Balbi, sede universitaria


Palazzo Reale, controfacciata (1618-1620)

Il Palazzo Reale o Palazzo Stefano Balbi è uno dei maggiori edifici storici di Genova inserito il 13 luglio del 2006 nella lista tra i 42 palazzi iscritti ai Rolli di Genova,divenutiintaledata Patrimonio dell'Umanità dall'UNESCO.

I giardini di Palazzo Reale

La galleria

Il palazzo reale conserva i mobili originali di tutta la sua lunga storia ed include mobili genovesi, piemontesi e francesi della metà del XVII secolo fino all’inizio del XX secolo. Tra questi si possono ricordare mobili dell’ebanista britannico Henry Thomas Peters.

Tra gli affreschi più importanti sono da notare: La fama dei Balbi di Valerio Castello e Andrea Seghizzi; La primavera che spinge lontano l’inverno di Angelo Michele Colonna e Agostino e Giove che manda giustizia sulla Terra di Giovanni BNattista Carlone.

Con oltre duecento dipinti esposti nei due piani nobili si trovano opere dei migliori artisti genovesi del Seicento come Bernardo Strozzi, il Grechetto, Giovanni Battista Gaulidetto, il Baciccio, Domenico Fiasella insieme a capolavori dei Bassano, Tintoretto, Luca Giordano, Antoon Van Dyck, Simon Vouet, e GuercinoInoltre si può ammirare una collezione di sculture antiche e moderne: tra queste ultime spiccano opere di Filippo Parodi, uno dei massimi esponenti della scultura barocca genovese. Fastosa è la galleria degli specchi dove spiccano quattro statue (Giacinto, Clizia, Amore o Narciso, Venere) di Filippo Parodi e un gruppo marmoreo (Ratto di Proserpina) di Francesco Schiaffino.

Palazzo Cosma Centurione (1684-1755)

Detto anche Palazzo Durazzo Pallavicini o Palazzo di Gerolamo III Pallavicino, dal nome dei successivi proprietari, per la sua architettura e per gli affreschi conservati all’interno è un insigne esempio di barocco genovese.

 

Palazzo Giorgio Centurione

Crocicchio di via del Campo-Via Lomellini-Via Fossatello


Palazzo Cipriano Pallavicini

L’edificio fu costruito sul finire del XV secolo

 

Palazzo Spinola in Pellicceria o palazzo Francesco Grimaldi (1593)

Fra le opere più celebri esposte sonoː

· Antonello da Messina, Ecce Homo

· Pieter Brueghel il Giovane, Le tentazioni di Sant’Antonio Abate

· Valerio Castello, Sposalizio della Vergine

· Orazio Gentileschi, Sacrificio di Isacco

· Guido Reni, Amor Sacro e Amor Profano

· Giovanni Benedetto Castiglione, detto il Grechetto, Circe

· Bernardo Strozzi, Ritratto femminile

· Peter Paul Rubens, Ritratto equestre di Gio. Carlo Doria

· Joos van Cleve, Ritratto di Stefano Raggio


Palazzo Gio Battista Grimaldi

in Vico San Luca a Genova


Palazzo Stefano De Mari


Palazzo Ambrogio Di Negro

fotografato dalla prospiciente chiesa di San Pietro in banchi. (1569-1572)

Ospita la sede della Fondazione Edoardo Garrone.

Palazzo Emanuele Filiberto Di Negro (1600)


Palazzo Croce De Marini (XVI secolo)

72 sono gli altri Palazzi dei Rolli non inclusi nel Sito Patrimonio dell’Umanità UNESCO

Genova, i Rolli Days di maggio 2018: palazzi aperti, programma, visite guidate e novità

Consultare il seguente sito:

http://www.mentelocale.it/genova/articoli/75721-genova-rolli-days-maggio-2018-palazzi-aperti-programma-visite-guidate-novita.htm

Di seguito l’elenco delle aperture straordinarie dei “Rolli Days” del 24 e 25 maggio:


1. Palazzo Antonio Doria - Largo Eros Lanfranco 1
2. Palazzo Franco Lercari – Via Garibaldi 3
3. Palazzo Tobia Pallavicino - Via Garibaldi 4
4. Palazzo Angelo Giovanni Spinola - Via Garibaldi 5
5. Palazzo Gio Battista Spinola - Via Garibaldi 6
6. Palazzo Nicolosio Lomellino - Via Garibaldi 7
7. Palazzo Giacomo e Lazzaro Spinola - Via Garibaldi 10
8. Palazzo Nicolò Grimaldi (Musei di Strada Nuova - Palazzo Tursi) - Via Garibaldi 9
9. Palazzo Luca Grimaldi (Musei di Strada Nuova - Palazzo Bianco) - Via Garibaldi 11
10. Palazzo Ridolfo Maria e Gio Francesco I Brignole Sale (Musei di Strada Nuova - Palazzo Rosso) - Via Garibaldi 18
11. Palazzo Baldassarre Lomellini - Via Garibaldi 12 (solo sabato)
12. Palazzo Gerolamo Grimaldi (Palazzo della Meridiana) - Salita San Francesco 4
13. Palazzo Stefano Lomellino (Palazzo Doria Lamba) - Via Cairoli 18
14. Palazzo Giorgio Centurione (Palazzo Durazzo Pallavicini) - Via Lomellini 8
15. Palazzo Gio Battista Centurione - Via del Campo 1 (solo sabato)
16. Galleria Nazionale di Palazzo Spinola - Piazza Pellicceria 1
17. Palazzo Ambrogio di Negro – Via San Luca 2
18. Palazzo De Marini - Piazza De Marini 1
19. Palazzo Cattaneo della Volta - Piazza Cattaneo 26
20. Palazzo Gio Vincenzo Imperiale - Piazza Campetto 8
21. Palazzo Cesare Durazzo - Via del Campo 12
22. Palazzo Gio Francesco Balbi – Via Balbi 2 (Università degli Studi di Genova)
23. Palazzo Giacomo e Pantaleo Balbi - Via Balbi 4 (Università degli Studi di Genova)
24. Palazzo Stefano Balbi (Museo di Palazzo Reale) - Via Balbi 10
Teatro Altrove (Palazzo Fattinanti Cambiaso) - Piazzetta Cambiaso1
Villa del Principe - Piazza del Principe 4  

GENOVA - SABATO 24 E DOMENICA 25 MAGGIO
Tutte le manifestazioni sono a ingresso libero.
www.visitgenoa.it

Carlo GATTI

Rapallo, 19 Giugno 2018

 


YACHT PASSE PARTOUT

YACHT PASSE PARTOUT

Siamo tutti sulla stessa barca!
Ma in pochi sullo stesso yacht.
(Gianni Palladino)

Attratto dall’eleganza e dall’altezza degli alberi del PASSE PARTOUT, ho scattato alcune fotografie; nel frattempo é comparso lo Skipper dal quale ho avuto i dati tecnici che ho riportato in questo servizio.

PASSE PARTOUT é uno Yacht molto lussuoso con lo scafo in acciaio e sovrastrutture in alluminio.

Architetto Navale: Tony Castro Design

Costruito da Jongert Yachts - fu Varato nel 2001 – Ultimo refitting nel 2009.

Lo Yacht PASSE PARTOUT ormeggiato nel porto di Santa Margherita Ligure


 

Gli alberi hanno un’Altezza rispettivamente di 50 mt. e 38.5 mt.

 

Lunghezza= 46 é lungo 42.00 mt.

Larghezza= 8.50 mt.

Superficie Velica= 924 m/2

Compartimento attuale= Barcellona – Spagna

E’ dotato di un’elica di prora

PASSE PARTOUT offers accommodation for up to 8 guests in 4 suites comprising 1 owner cabin, 1 double cabin, 2 twin cabins, 3 pullman cabins. She is also capable of carrying up to 6 crew onboard to ensure a relaxed luxury yacht experience.

ALBUN FOTOGRAFICO

 






 

La vera pace di Dio comincia in qualunque luogo
che sia mille miglia distante dalla terra più vicina.
(Joseph Conrad)

 

Carlo GATTI

Rapallo, Venerdì 15 Giugno 2018


LA FOCACCIA SA DI MARE ...

LA FOCACCIA SA DI MARE …

PREMESSA:

Regione che vai, focaccia che trovi!

Non c’è angolo d’Italia che non abbia una sua specialissima e tradizionale focaccia da gustare lungo la strada,  a casa, ovunque…

In Italia se si vuole gustare una focaccia non c’è che l’imbarazzo della scelta e le varianti sono davvero numerose. Qualche esempio? La focaccia alla genovese, la focaccia di Recco, la schiacciata, la pinza veneta, la pinsa romana, la stria emiliana, lo gnocco al forno con ciccioli, la focaccia di Susa, quella barese e quella messinese, la crescia marchigiana e umbra, la pitta calabrese, la puccia salentina e chi più ne ha più ne metta.

Tra le specialità più amate della Liguria c’è senza dubbio la famosa focaccia alla genovese (in dialetto fugàssa). Prima dell’ultima lievitazione questa focaccia viene spennellata con un'emulsione composta da olio extravergine d’oliva, acqua e sale grosso. Nei forni liguri si trova anche la focaccia di Recco, preparata con una sfoglia sottilissima ripiena di formaggio fresco. La specialità, che ha conquistato il marchio di Indicazione Geografica Protetta, risalirebbe al XII sec. C’è anche la focaccia di Voltri che ha gli stessi ingredienti della classica di Genova, ma la consistenza dell’impasto e la sua cottura sono diversi.


Dopo la consueta premessa, il lettore avrà capito la “rotta” che faremo e dove andremo a dare fondo l’ancora…

Quando verso le 05 smontavo dal turno di notte in porto, era ancora troppo presto per tornare a casa, svegliare Kendo, il nostro Akita Inu, che a sua volta avrebbe svegliato mia moglie e i nostri quattro studenti...

Era meglio soprassedere onde evitare “cagnare” nel vicinato infine, sarebbe stato più divertente svegliare la truppa con il profumo della focaccia con la cipolla sotto le narici…

L’alternativa era sempre molto attraente: si trattava di ripetere un “pellegrinaggio” costiero ormai collaudato da anni, il Tour della focaccia a tappe che si snodava al buio per 30 km lungo l’Aurelia fino a Rapallo.

Se smontavo di guardia dal Porto Petroli di Multedo andavo addirittura qualche chilometro nella direzione opposta fino a Voltri, presso il famoso panificio Priano: un mito sacro per gli amanti della focaccia alla genovese tradizionale e con la cipolla, la mia passione!


Se invece smontavo dal Porto di Genova facevo tappa da BRI, a pochi metri dalla spiaggia di Priaruggia per l’incontro settimanale o quasi con il panettiere Giuan e qualche gabbiano nella baia. Era sempre buio e tra noi ed il solito guardiano notturno che chiamavo “baffo”, per ovvi motivi, si era stabilita una simpatica complicità, anche perché eravamo gli unici esemplari viventi in posizione eretta tra 600.000 genovesi allungati…

Conoscendo l’orario della prima sfornata, mi presentavo al momento giusto per ritirare il mio primo chilo di focaccia “bionda” con la cipolla, ma era pronto anche il secondo chilo di quella tradizionale che avvolgevo nella carta gialla tradizionale e poi in un plad per mantenerla al caldo; belin! riflettevo tra me: “ma guarda un po’ come li ho viziati questi gattini!”

La nostra cambusa di casa, finalmente, cominciava a stivarsi di roba buona! A parte mi facevo allungare due etti di “bionda morbida” che divoravo insieme a Giuan.

La focaccia con la cipolla va innaffiata col bianchino ed il mio amico, in cambio di un paio di pacchetti di Marllboro ricevute in regalo da un Comandante soddisfatto della manovra, mi allungava un gotto di quello buono di “Coronata” che teneva sotto il banco…, si brindava al GENOA e alla salute dei nostri vecchi.

Ora vi é persino più facile capire quanto fosse giustificata quella sosta notturna al termine di una tirata di 24 ore di sali e scendi dalle biscagline delle navi!

Devo solo aggiungere che quella piccola “crociera” era un rito famigliare, simile ad una nuotata nell’azzurro mare o nella piscina sotto casa in cui vedi o sogni un altro mondo perché sai che l’altro sta dormendo!

Uscivo dal negozio ma non riuscivo a staccarmi fisicamente da quella baia, e con la complicità delle note di Bruno Lauzi m’intrattenevo ancora un po’ con i gabbiani che non disdegnavano il lancio di piccoli bocconi di focaccia impregnata di olio buono; quella con la cipolla non la volevano, forse sentivano che non gliela avrei mai data…

Il più aggressivo e sfacciato lo chiamavo “gundun” e quello che invece si faceva fregare il boccone era u “belinun” di turno, e così lo chiamavo. Abitavano lì da sempre per abbellire l’alba e animare le giornate invernali, erano sempre gli stessi, mi conoscevano bene e leggevo nei loro occhietti il desiderio che fossi sempre di notte. Si sentivano i custodi di quel piccolo paradiso ai confini della Grande Genova.

Priaruggia di notte

ANCHE LA FOCACCIA HA LA SUA STORIA

Congedandomi dai miei amici di Priaruggia, Giuan mi diceva sempre la stessa frase: Salutami la concorrenza” Gente de Rivëa, gente de galëa!”

Sapeva che la tappa successiva era Recco dove mi sarei tuffato su un paio di chili di focaccia col formaggio …

Una volta gli raccontai la vera storia da “fugassa rechelinna”: “Chissà quante volte l’hai mangiata quella di Recco, ma forse non conosci la sua origine: la focaccia di Recco nacque nel XII secolo, o meglio, a quell'epoca risalgono i primi documenti che parlano di questa specialità gastronomica.

Come veniva impiegata? Ebbene, sembra proprio che a fugassa de Recco venisse offerta ai crociati in partenza per la Terra Santa. Ma c'è anche chi dice che questa ricetta semplice e genuina fu "ripescata" nel '500 quando - a causa delle invasioni dei saraceni - la popolazione di Recco era costretta a rifugiarsi sulle alture, sopravvivendo con poche provviste e tanta fantasia. Ma non mancano altre testimonianze che risalgono alla letteratura del XIX secolo”.

“ Amiâ Charly che quelli de Recco no dàn un belin a nisciun. Ti pàrli de musse a mi che n’ho faeto di libri…”.

Giuan era il tipico personaggio da caroggi, schietto e genuino e ci soffriva che la sua focaccia col formaggio non fosse da me apprezzata come quella di Recco.

Non siamo qui per fare la réclame ai panifici nostrani tuttavia, chi legge ha anche il diritto di sapere chi merita almeno un sincero ringraziamento per la dedizione e indubbia capacità di realizzare focacce che portano il marchio della Riviera di Levante nel mondo.

Siamo a Recco per la penultima tappa presso il Panificio MOLTEDO, il quale é soprattutto celebre per la focaccia col formaggio.

Prima di lasciarvi in compagnia di chi ne sa più di me, cioè del Consorzio Recco Gastronomia, posso assicurarvi che esistono privati cittadini che nelle loro ville tra Recco e Camogli s’improvvisano focacciai di primissimo ordine, in quanto portatori di segreti orali che si tramandano da padre in figlio da secoli, senza comunicazioni con l’esterno… Tra questi vi é un mio carissimo Amico, un Comandante-Pilota di navi che tutti conoscete, ma che evito di rendere pubblico perché, come dicono i camoglini, maniman….. che esprime un concetto intraducibile!

SOSTA “NON FOCACCIERA” A SAN LORENZO DELLA COSTA


Isola del Tino -  Faro di San Venerio

La tappa successiva non posso definirla tale perché si tratta soltanto della sosta doverosa del marinaio, una specie d’inchino al MARE ed ai suoi abitanti. Alcuni potrebbero definirla “romantica”, ma per chi scrive é un’altra cosa, forse si tratta di una deformazione professionale: del ritorno al passato di navigante, quando venendo da lontano, vedevo la “spazzola” del faro all’orizzonte e sentivo l’odore di casa…

Arrivato tra il “lusco e il brusco” a San Lorenzo della Costa - (300 mt. s.l.m.) - presso il bivio dove l’Aurelia si divide per chi scende a Santa o prosegue per Rapallo, c’é un piccolo spazio per posteggiare. Se il tempo é sereno, da quell’osservatorio speciale si vede il faro di San Venerio situato sull’isola del Tino:

Elevazione 99 m s.l.m. – Ultima costruzione 1884 – Portata 25 miglia nautiche -

 

Tempo fa, durante una di quelle soste con “vista sul Tino” mi capitò un fatto insolito… Una pantera della polizia mi piombò alle spalle, in un baleno uscirono due militari in mimetica armati di mitra! Era il periodo delle brigate rosse. “Venga fuori con le mani alzate!” –  Urlarono -

“Avrò dimenticato di pagare la focaccia…!” – Pensai tra me –

“Mi faccia vedere i documenti! Cosa fa a quest’ora con il binocolo in mano?”

Ridendo gli spiegai il motivo della mia sosta e con una certa ironia scartai la focaccia ancora calda e dissi: “La preferite con o senza cipolla? Potremmo anche stapparci una bottiglia di bianco di Coronata”

Scoppiarono a ridere e quella sosta si concluse con la mia dotta spiegazione delle caratteristiche del faro del Tino:

3 lampi bianchi - periodo 15 secondi

 

Ultima sosta a Rapallo

Giancarlo Mangini ha scritto:

“I rapallini si dividono, per quel che riguarda la focaccia, tra le PellegrineVivaldi. Il panificio delle Pellegrine si trova sotto i portici di via Garibaldi, è una istituzione a Rapallo; invece il panificio di Vivaldi è nella parte pedonale di via Mameli, quasi sotto al campanile pendente della basilica. Io sono vivaldiano – così ora i pellegrinisti mi odieranno, ma entrambi i panifici sono, a mio parere, al top dell'arte bianca, ma ognuno ha le sue preferenze”.

Giustissimo! Ognuno ha le sue preferenze e se proprio devo dire la mia aggiusterei il tiro in questo modo “diplomatico” ma sincero:


“Apprezzo molto Vivaldi, ma il mio cuore batte per le Pellegrine per la sua location medievale a ridosso del mare e per i tanti ricordi dell’ultima tappa del mio laico Pellegrinaggio mattutino che mi sono rimasti dentro.

Gustare la focaccia calda sugli scogli della passeggiata, con gli spruzzi delle mareggiate in faccia, ha un sapore unico di Riviera che rimane scolpito non solo nello stomaco…”

Un posto del cuore, per i ricordi che evoca, è il sotto portico delle Pellegrine a Rapallo.

Il panificio Le PELLEGRINE lo si raggiunge facilmente seguendo il profumo della focaccia nell'aria di Caroggio Drito.

 

Concludiamo con alcune RICETTE per gli appassionati

LA FOCACCIA GENOVESE

Ma la focaccia a Genova non si mangia solo a colazione: ci si ferma a comprarla e si mangia strada facendo come spuntino, è la merenda che si portano i bambini a scuola, sostituisce il pane durante i pasti, sempre presente nei buffet delle feste e per i nottambuli ci sono posti dove dopo la discoteca si trova calda già alle due o tre di notte.

Insomma, è una vera istituzione. E’ una presenza costante, sfornata a tutte le ore.

Inutile dire che ogni genovese ha i propri gusti e di conseguenza il proprio forno e la propria focaccia di riferimento, fermo restando che ci sono alcuni requisiti che una Focaccia con la effe maiuscola non può non avere.

Prima di tutto, se non lascia le dita unte, allora non è lei!

A deve coa d’eujo, deve colare olio, essere ben unta e salata, avere tanti œggi (tanti occhi) cioè tanti buchetti, nè molle nè elastica, ma morbida dentro con il bordo e la superficie croccanti, soprattutto mai e poi mai deve essere troppo alta! in tal caso si chiama marinara.

“Una volta sfornata la focaccia avrà una crosta color nocciola, bianco-avorio nelle occhiature.
Nella parte inferiore deve presentarsi giustamente unta, bianca e dorata. Deve essere alta mediamente due centimetri. L’occhiatura irregolare e profonda con tracce d’olio. Nella parte superiore possono essere presenti alcuni brillantini di sale.
Il profumo deve essere discretamente intenso, di leggera persistenza, non avere sensazioni dolciastre, ma tradire sfumature aromatiche dovute all’olio extravergine di oliva. Al palato è morbida, equilibrata nei gusti fondamentali (acido, dolce, salato), mai gommosa, ma croccante in superficie. Una leggera sensazione di amarognolo, dovuta all’olio, può essere lievemente percettibile. E’ invece chiaramente riscontrabile la sensazione di untuosità.”

La prova del nove comunque è data dalla durata, difficile che superi il giorno dopo, però una buona focaccia fatta al mattino alla sera è ancora mangiabile.
Vi consiglio in ogni caso di consumarla tiepida o comunque entro alcune ore dopo averla sfornata per gustarne appieno la bontà.

Per la focaccia in fondo ci vogliono pochi e semplici ingredienti: farina, acqua, olio d’oliva, lievito, malto e sale.

E’ la lavorazione che fa la differenza oltre alla qualità degli ingredienti, quindi seguite minuziosamente tutti i passaggi che ho descritto in attesa che sia in grado di creare un video.

Se siete abituati ad usare il lievito madre, potete sostituire al lievito di birra circa 150 g di lievito madre, fermo restando che la ricetta DOC riconosciuta della vera focaccia genovese è quella che vi ho scritto sotto.

La durata della lavorazione (dall’inizio dell’impasto all’infornata, comprese le varie lievitazioni) è stimata dal disciplinare in 10 ore (non può comunque essere inferiore alle otto ore), con tolleranze che tengono conto del tempo atmosferico: umidità, temperatura.

La cosa più difficile secondo me è imparare a fare i buchi, perchè ci viene d’istinto farli con la punta dei polpastrelli e delicatamente, invece dobbiamo imprimere con un movimento deciso ed una certa forza tutta l’ultima parte delle ultime falangi.

 

La focaccia ligure


Ricetta di Ezio Rocchi

Ingredienti

Per la biga:

Per l'impasto:

Dosi di salamoia per una teglia di 30x40:

  • 100 g di acqua salata (55 g di sale in 1 l di acqua)
  • 50 g di olio extravergine d'oliva

Istruzioni

  1. La sera prima preparare la biga che deve fermentare 12/14 ore a temperatura ambiente (18-20°C): impastate brevemente tutti gli ingredienti, circa 4 minuti nell'impastatrice.
  2. Il mattino dopo iniziate l'impasto con farina, biga, sale, malto ed acqua (tenendone da parte il 5% che andrà aggiunta verso la fine).
  3. Dopo 5 minuti aggiungete il lievito e successivamente l'olio.
  4. Dopo circa 8 minuti aumentate la velocità dell'impastatrice ed aggiungete la restante acqua.
  5. Impastate ancora circa 4 minuti.
  6. Terminato l'impasto dividete subito senza tempo di riposo in pezzature da 500 g, date una piega e date una forma rettangolare, schiacciando leggermente.
  7. Lasciate riposare 30 minuti su una tavola infarinata con la chiusura verso il basso.
  8. Stendete con il mattarello e mettere su una teglia unta con 20 g di olio senza preoccuparsi di coprire tutta la teglia.
  9. Lasciate lievitare 30 minuti e poi schiacciate e stirate con le mani fino a coprire l'intero spazio della teglia.
  10. Lasciate lievitare per un'altra ora.
  11. Spolverate con farina e fate i buchi.
  12. Per fare i buchi è necessario usare le dita di entrambe le mani che lavorano in parallelo, partendo da un'estremità della teglia per arrivare all'altra. Fate attenzione a non usare solo la punta delle dita ma tutta l'ultima falange!!!
  13. Versare sull'impasto la quantità indicata per ogni teglia di salamoia ed olio - non preoccupatevi se vi sembra eccessiva - dovete coprire bene ogni buco.



 

FOCACCIA GENOVESE CON LA CIPOLLA


La focaccia genovese con la cipolla è un’altra squisitezza della nostra città, una variante alla classica focaccia genovese che piace moltissimo anche ai “foresti”. Moltissimi turisti che arrivano a Genova per la prima volta e la scoprono, trovano la focaccia deliziosa, quando qualcuno se entra in confidenza con loro, gli dice che nella versione classica, possono accompagnarla al cappuccino e le facce stupite del turista medio sono sempre divertenti da osservare.

La ricetta della versione con la cipolla che vi presentiamo oggi in collaborazione con I Viaggi del Goloso è un’ altra golosa alternativa alla focaccia classica, una precisazione, la vera focaccia genovese è sottile, unta, con i bucherellini che invitano al morso senza esitazioni, tutte le altre chiamate “focacce” spesse, con bordi improponibili e frequentemente mal cotte, non hanno nulla a che vedere con la focaccia genovese.

LA RICETTA:

Focaccia genovese con la cipolla

Ingredienti:

300 gr. di farina 00

200 gr. di farina manitoba

25 gr. di lievito di birra

250 ml. di acqua

sale

olio d’oliva extravergine

2 grosse cipolle

Preparazione:

Mettiamo sul tavolo la farina 00, aggiungiamo il sale e sopra la farina manitoba, sciogliamo il lievito nell’acqua tiepida e incominciamo a impastare, quando l’impasto risulta amalgamato, lasciamo lievitare coperto per circa 1 ora. Nel frattempo puliamo le cipolle le affettiamo e le mettiamo a bagno in una ciotola con acqua.

Riprendiamo ora l’impasto lievitato e stendiamo la pasta con un mattarello della grandezza della teglia che andremo ad adoperare, ungiamo bene la teglia con l’olio, appoggiamo la pasta stesa, deve essere abbastanza sottile e la lasciamo nuovamente lievitare coperta per circa 1 ora.

Prepariamo ora un’emulsione di olio e acqua in parti uguali e andiamo a cospargere la superficie della focaccia premendo con le dita per formare i famosi buchi.

Scoliamo le cipolle dall’acqua, le condiamo con l’olio d’oliva mescolandole bene e cospargiamo tutta la superficie della focaccia, spolveriamo di sale e mettiamo in forno caldo a 220° per 15 minuti, poi proseguiamo sotto il grill per altri 5 minuti controllando. Sforniamo, lasciamo intiepidire e gustiamo questa prelibatezza …

Le tre fasi fotografiche: prima, durante e dopo la COTTURA



 

FOCACCIA DI RECCO COL FORMAGGIO

Ecco come si presenta…


Formaggio fuso al centro di due strati sottilissimi di pasta. Un gusto inconfondibile che l'ha resa celebre in tutto il mondo.

Cos’è la focaccia di Recco

Esistono parecchie versioni di focacce al formaggio, ma quella di Recco è sicuramente particolare, oltre ad essere la più conosciuta e celebrata. Quest’ultima è un prodotto da forno fatto con un impasto di farina di grano tenero, olio extravergine d’oliva, sale, acqua e formaggio vaccino fresco a pasta molle. A differenza di altre versioni di focaccia al formaggio, quella di Recco è composta di due sottilissimi strati di pasta che racchiudono una farcitura di formaggio fuso, quasi liquido.

La sua forma può variare; potremo così incontrarne versioni tonde, quadrate o rettangolari ma il suo aspetto la rende comunque decisamente riconoscibile. Si presenta infatti particolarmente sottile, con una superficie irregolare punteggiata da bolle, striature marroni e dalla caratteristica fuoriuscita di formaggio. Il formaggio usato era storicamente la prescinseûa, un antico prodotto caseario ligure che, considerato poi troppo liquido e acido, venne sostituito con lo stracchino e la formaggetta. Con la classificazione, il 2 marzo 2012 (è stato riconosciuto dall’Unione Europea il 3 giungo 2013), tra i prodotti a Indicazione Geografica Protetta (IGP) è stato introdotto l’uso della crescenza di origine ligure, prodotta in valle Stura.


Come si fa - la ricetta originale della focaccia di Recco fatta in casa

La ricetta originale della focaccia di Recco non è affatto difficile da realizzare in casa anche perché si basa su ingredienti molto semplici da reperire e di base della tradizione culinaria italiana.

Ingredienti

  • 500 g di farina 00 o Manitoba
  • 50 ml olio EVO
  • Acqua minerale naturale
  • 1 kg di formaggio fresco (es. stracchino)
  • sale

Preparazione della focaccia di Recco

1- Su un piano da lavoro di legno iniziare a lavorare insieme gli ingredienti (farina, acqua, olio evo e sale) fino ad ottenere un impasto omogeneo e leggermente colloso.

2- Lasciare a riposare per mezz’ora l’impasto a temperatura ambiente e sotto un panno leggero di cotone.

3- Dopo mezz’ora, prendere una metà dell’impasto realizzato e iniziare a lavorarla con le mani facendola ruotare fino ad ottenere una forma circolare di uno spessore di pochi millimetri (dovrà essere molto sottile, quasi trasparente ma senza buchi).

4- Ungere una teglia cilindrica della dimensione di 60 cm di olio EVO e adagiare la prima sfoglia realizzata sul fondo.

5- Tagliare a pezzetti il formaggio fresco e distribuirlo su tutta la superficie dell’impasto.

6- Prendere la seconda parte di pasta e fare la stessa cosa di prima realizzando una forma circolare.

7- Posizionare la nuova sfoglia sopra al formaggio e schiacciare con le dita i bordi in modo tale da uniformarli ed impedire al formaggio di fuoriuscire dai bordi in cottura.

8- Cospargere di olio EVO e bucherellare leggermente con le dita la superficie.

9- Infornare ad una temperatura elevata di 240°-320° per 4-8 minuti fino a che la superficie non sarà dorata.

Buon appetito! Una porzione di focaccia di Recco (circa 250 g) contiene circa 320 kcal.


Bibliografia:

- Disciplinare di produzione della indicazione geografica protetta Focaccia di Recco col formaggio

- Non di solo pane – La focaccia genovese

- Focaccia con la cipolla – Le ricette di VivaLaFocaccia

- Storia della focaccia di Recco. Consorzio Recco Gastronomia

- La storia della focaccia di Recco-Cultura

- Genova Golosa – Focaccia genovese

- Wikipedia - Focaccia classica di Genova - Focaccia alla genovese - Focaccia genovese.

CARLO GATTI

Rapallo, 13 Giugno 2018


FONS GEMINA - SAN MARTINO DI NOCETO - RAPALLO

FONS GEMINA – RAPALLO


L’ACQUA DI FONTE CI RICORDA LE APPARIZIONI DI MARIA VERGINE…

In molti poeti e scrittori di tutti i tempi aleggia, al di là di ogni dubbio, la suggestione e la malinconia di una devozione filiale per la Madonna, vista come lo Spirito dell’acqua simbolo di vita, Stella del mare, Regina del Cielo corredentrice del Verbo che dà la vita.

Quando appare, la Madonna non di rado lascia dietro di sé una fonte miracolosa. La più celebre è quella di Lourdes, naturalmente, ma ce ne sono di più antiche, come quella di Caravaggio, e di più moderne, come quella di Montichiari, Santuario di Maccio (Como), Madonna dello Splendore (Giulianova), Amore Misericordioso (Collevalenza), Marvicio nel cuore dell’Aspromonte, ma l’elenco sembra infinito perché esce dai confini nazionali per andare in Francia, Polonia, Russia ed oltremare.

LA FINE DELLA SETE NON È BERE A SAZIETÀ,
MA DIVENTARE FONTANA PER DISSETARE ALTRI,
FACENDOSI SORGENTE PER L'ALTRUI ARSURA.

LORENZO PIVA

"NON BISOGNA CHE CESSI LA PIOGGIA PER METTERCI IN CAMMINO. E' BELLO ANCHE BAGNARSI DI ERRORI E RIMPIANTI PUR DI ARRIVARE IN CIMA ALLA MONTAGNA DELLA VERITÀ"

(FONTE NON SPECIFICATA)

Il racconto sulla FONS GEMINA può soltanto iniziare il suo breve viaggio con il ricordo che tutti i rapallesi hanno nel cuore:

Nostra Signora di Montallegro

Dedichiamo la sintesi ai nostri numerosi followers stranieri.

Secondo la tradizione locale la Vergine apparve nel primo pomeriggio di venerdì 2 luglio 1557 al contadino Giovanni Chichizola, originario di San Giacomo di Canevale, frazione del comune fontanino di Coreglia Ligure, di ritorno dal mercato ortofrutticolo di Genova. Giunto nell'entroterra rapallese, nelle proprietà boschive della famiglia di fazione ghibellina Della Torre, all'altezza del monte Letho (conosciuto dai locali come "monte di morte" o "della morte" a causa delle numerose scorribande dei briganti), l'uomo - affaticato dal lungo viaggio a piedi e stremato dal caldo - si addormentò nei pressi di uno sperone di roccia.

All'improvviso, fu destato da un bagliore: al contadino apparve una "dama vestita d'azzurro e bianco e dall'aspetto grazioso e gentile", come testualmente riportò in seguito ai primi popolani e alle autorità civili e religiose accorsi sul monte. La donna pronunziò solo poche parole, che per la comunità cristiana rapallese risuonano ancora vive:

“Va’ e dì ai Rapallesi che io voglio essere onorata qui”


Il Santuario di N.S. di Montallegro


DORMITIO MARIA (Il TRANSITO di MARIA SANTISSIMA)

Per dar prova della "miracolosa apparizione", la Madonna lasciò in dono al contadino un quadretto di “arte bizantina” raffigurante la Dormitio Maria (il Transito di Maria Santissima), da donare alla comunità rapallese. Dopo l'improvvisa scomparsa della "Bella Signora", sulla stessa roccia in cui era avvenuta l'apparizione cominciò inoltre a sgorgare acqua fresca e pura.

FONS GEMINA

Un po’di storia…

Il Prof. Massimo Bacigalupo ce la racconta così:

“L’ultimo capitolo della prima edizione di Rapallo nei secoli (di Pietro  Berri-1964, a cura del Comune di Rapallo) è il più ridente e ci porta a San Martino di Noceto alla scoperta della Fons Gémina, monumentino di cui nessuno sembra aveva trattato prima di Berri, il quale ce ne fornisce la storia e ne trascrive e traduce le dotte epigrafi. In realtà questo capitolo è il racconto di una gita lungo la rotabile che sale a Ruta passando per S. Maria, ed è animato da un entusiasmo che ci dice molto sulla personalità di Berri, uomo non facile alle esternazioni sentimentali, ma ben sicuro nei suoi gusti e nelle sue convinzioni, come fermo e autorevole nello stile. Eccolo invece per un attimo confessare fra le righe il suo amore per questa vallata e per la fonte sulla quale ha lasciato traccia un vecchio arciprete latinista, per il quale evidentemente egli prova la simpatia del compagno di studi a distanza di decenni. Inoltre Berri accetta l’ipotesi del Ferretto che nei pressi della fonte, nella Villa Granello, si trovasse un’antica pieve ospite della quale sarebbe morto il Vescovo Onorio fuggiasco da Milano, il giorno 23 febbraio del 570. 1400 e passa anni fa, altro che Rapallo nei secoli! San Martino è intitolata al guerriero e poi vescovo di Tours che proprio in Liguria nel IV secolo avrebbe diviso il mantello con un mendicante.

Camogli: Il mosaico simbolo della STELLA MARIS che guida e protegge i naviganti

Scopriamo che la frazione è sempre stata legata a Camogli per lo smercio dei prodotti agricoli e per la vocazione marinaresca degli abitanti, e che “i Camogliesi avevano ricambiato questa reciprocità di interessi e questa fraternità nell’aspro lavoro sulle tolde sbattute dalle onde, e, ai margini dell’antica via pedonale, occhieggiano tuttora tra il folto della vegetazione, le villette che i vecchi lupi di mare avevano fatto costruire sulle ombreggiate pendici”.

ALBUM FOTOGRAFICO



I due ruscelli gemelli a destra e sinistra s’incontrano formando un piccolo laghetto… la FONS GEMINA




Venendo da Rapallo in direzione Ruta di Camogli, la Cappelletta é situata a circa 300 metri dalla Chiesa di San Martino di Noceto.


Fonte Canala (Fons Gemina)

Nel territorio rapallese, oltre alla chiesa parrocchiale di San Martino di Noceto, è presente un'antica fonte denominata fons gémina realizzata nel 1810 così come testimonia una lapide marmorea in latino; nella nicchia sopra l'arco a sesto acuto è conservata una statuetta della Madonna Coronata di argentei gigli.

Fons Gemina significa, in latino, “fonte gemella” ed è una fonte che trae il nome dalla particolarità che da essa sgorgano due fonti distinte. Essa è, molto probabilmente, di origine romana e risale invece solo al 1810 la struttura a sesto acuto in cui è posta una statuetta marmorea della Madonna.

La fonte è sita a San Martino di Noceto, una frazione di Rapallo che in passato era ricca di noccioli e castagni, da cui dovrebbe derivare il nome “Noceto”.

UN APPUNTAMENTO:

Rapallo: “Fons Gemina”, Concerto alla Fonte a San Martino

Rapallo: “Fons Gemina”, Concerto alla Fonte a San Martino

Da Filippo Torre di “Fons Gemina” riceviamo e pubblichiamo:

A coronamento del suo sesto anno di attività, il Circolo Culturale “Fons Gemina” presenta un evento lungamente atteso e mai realizzato prima: il concerto presso il monumento di cui l’associazione porta il nome.

Nel 2012 i soci fondatori del circolo scelsero infatti la “Fonte Gemella” (“Fons Gemina”, in latino) di San Martino di Noceto per simboleggiare la propria aspirazione a rappresentare un sicuro punto di riferimento nell’ambito del tessuto culturale di Rapallo; nel corso degli anni l’associazione ha voluto quindi rappresentare per la città una vera e propria “sorgente di idee”, così come espresso dal proprio motto.

La Fons Gemina, uno dei monumenti meno noti di Rapallo, è nel contempo uno dei più antichi; esso si trova tra la chiesa millenaria di Ruta e quella di S. Martino di Noceto e il suo aspetto attuale è frutto di una ristrutturazione realizzata nel XVII secolo. La sua origine è tuttavia riconducibile al X secolo, periodo nel quale la fonte viene citata come “speciale” in quanto caratterizzata da due sorgenti perenni gemelle.

Ci è parso quindi che il Concerto alla Fonte fosse il modo migliore per suggellare un anno particolarmente ricco di eventi, incentrato come consuetudine sulla multidisciplinarietà delle proposte.

L’appuntamento, che si avvale del Patrocinio dell’Amministrazione Comunale di Rapallo, è fissato alle 17.00 di sabato 19 maggio. Ne sarà protagonista il quartetto d’archi composto da Alessandro Alexovits (violino I), Massimo Vivaldi (violino II), Simona Merlano (viola) e Paola Siragna (violoncello). Il repertorio, incentrato su composizioni di diverse epoche e stili, non mancherà di proporre alcuni dei brani più celebri della storia della Musica.

In caso di pioggia, il concerto si svolgerà presso l’attigua Chiesa Parrocchiale di S. Martino di Noceto.

Vi aspettiamo come sempre numerosi.


Chi scrive, dedicò nel 18.5.2011 un saggio sul sito di

MARE NOSTRUM RAPALLO:

Rapallo: SANTUARIO DI N.S.MONTALLEGRO: Navi, Marinai e la Devozione Mariana

 

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=138;navi-marinai-e-la-devozione-mariana&catid=52;artex&Itemid=153

CARLO GATTI

Rapallo, 16 Maggio 2018


LA FARINATA GENOVESE VENNE DAL MARE…

LA FARINATA GENOVESE VENNE DAL MARE…

TRA MITO e LEGGENDA

 

Dice che era un bell'uomo e veniva,

veniva dal mare... parlava un'altra lingua...
però sapeva amare …
(Lucio Dalla)



LA MELORIA

Anche la farinata venne dal mare… un viaggio breve e fu portata da uomini “cazzuti” che sapevano amare anche la buona cucina!


Una leggenda racconta che sia nata per pura casualità nel 1284, mentre infuriava la battaglia della Meloria che vide vittoriosa Genova su Pisa. Si racconta che le navi da guerra genovesi si trovarono coinvolte in una tempesta, ma é più probabile che la nave della farinata genovese sia stata colpita da un colpo di bombarda a pelo d’acqua… in direzione della cambusa. In ogni caso, si verificò una via d’acqua (termine marinaro che sta per falla) e alcuni barili d’olio e sacchi di ceci si rovesciarono, inzuppandosi di acqua salata.

Ciutòsto che röba avanse, creppa pansa.

(Piuttosto che far avanzare del cibo, mangiamo tutto anche se poi stiamo male).

Non c’era alternativa: morire di fame oppure abbuffarsi su quelle provvidenziali scodelle di purea di ceci, olio e acqua di mare. A questo punto il destino volle che alcuni marinai, miga tanto abbelinae, optassero per una terza soluzione e lasciassero questo composto al sole che asciugandosi si sarebbe trasformata in una strana specie di frittella. Alla fame non si comanda e i marinai si convertirono a quella sconosciuta pietanza scoprendo una nuova ricetta che, per puro caso, diventò famosa a partire dal quel lontano 1284 fino ai giorni nostri.

 


Venditrice di farinata genovese (inizi ‘800)

Rientrati vittoriosi nei caroggi Genovesi senza sole…, i marinai provarono a cuocere quell’impasto nel forno a legna. Il risultato fu eccellente e venne chiamato “l’oro di Pisa” per deridere i nemici sconfitti…

Secondo un altro “ciaeto storico” (pettegolezzo):

la farinata affonda le sue radici addirittura nell’antica Roma quando le truppe romane occuparono Genova e dintorni.

A quel tempo la farina di grano era considerata un lusso e i soldati preparavano questa pizza rudimentale con un impasto di farina di ceci e acqua, che poi cuocevano al sole, utilizzando i propri scudi come “forni”.

Prendiamo quindi atto che la farinata di ceci (fainà in dialetto) ha navigato, a fasi alterne, per oltre duemila anni da un porto all’altro, anzi da un angiporto all’altro essendo un piatto “povero” ma estremamente gustoso e nutriente che i marinai in franchigia gustavano passando tra i piaceri di un lupanare e l’altro.

Liguria, Toscana e Piemonte sembrano essere le culle della farinata classica per altro conosciuta anche in altre regioni italiane, magari con delle varianti locali vendute come apprezzati street food.

C’è però chi sostiene che i natali di questa specialità non si debbano alla Superba, ma alla Toscana, precisamente a Pisa. La sconfitta dei pisani é dura ancora oggi da digerire… naturalmente noi ci scherziamo! Ma loro no!

Che la farinata non si faccia solo in Liguria è vero, poiché la si prepara anche sulla costa francese, più o meno nei dintorni di Nizza, dove viene chiamata socca. Ma non c’é da meravigliarsi, Nizza é stata genovese fino al 1860. Si può trovare anche nel basso Piemonte, dove é conosciuta come bela cada. Vi propongo una originale testimonianza della mia amica Marilena, torinese di nascita:

"Proprio alla torta verde, sempre reperibile nei forni e in qualche macelleria, è dedicata una festa in concomitanza della fiera del Santo Cristo, che a fine aprile fa rivivere le storiche usanze di Nizza. Dove le sagre sono l’occasione giusta pure per assaggiare la belecàuda, altrimenti acquistabile in alcuni panifici: non è altro che la farinata - con farina di ceci, acqua, sale e olio extravergine di oliva - da cuocere in teglie di rame nel forno a legna e servire (come suggerisce il nome) “bella calda”. Esattamente come la serviva Tantì, che nel secolo scorso portava con una bicicletta a tre ruote la teglia con la farinata calda, un “tantì” indicava una porzione ed è diventato il soprannome del venditore ambulante."

Sulla costa della Toscana del nord viene chiamata cecina o torta di ceci.

Nel savonese la si fa anche con farina di grano tenero e viene chiamata farinata bianca.

Fatevi questa domanda: se la farinata si prepara in una regione e in tutte le zone ad essa confinanti, dove potrà essere nata? In attesa della vostra riflessione e di fonti storiche inoppugnabili, una cosa mi pare certa: ovunque sia nata, la farinata in Liguria è tradizione, territorio, cultura e appartenenza. Questo prodotto da forno viene eseguito in maniera eccelsa in tutta la Liguria, ma Genova è la sua città d’elezione.

Consegnata la farinata alla Storia di ieri … entriamo ora nella FARINATA di oggi e vediamo di capire qualcosa della sua “cosiddetta” semplicità la quale, come abbiamo visto, é intrisa di olio d’oliva e acqua salata, ma anche di tanti segreti mai confessati agli estranei della casta dei “sacerdoti” locali, i soli che possano tramandare la tradizione con riti di iniziazione di natura similmente religiosa …

Chissà se funziona ancora così? Ma di sicuro un tempo non lontano era proprio così!


CECI

 

Amedeo, quando andava per pagelli al largo di Rapallo, portava con sé un residuato bellico: la tanka di una Jeep Willys che riempiva di acqua di mare trasparente; la usava per l’impasto della farinata ma anche per fare il sale domestico, raro da reperire durante la guerra e nel primo dopoguerra.

Amedeo non era un “sacerdote”, ma le fisse per la farinata le aveva eccome … Si sentiva, per esempio, in competizione con il mitico fornâ (fornaio) Ö BANSIN della perla del Tigullio, verso il quale nutriva un complesso di superiorità …

Ogni tanto si partiva per il basso Piemonte, prima tappa Novi Ligure, provincia di Alessandria, dove si compravano i ceci a seme grosso: il cece di Merella, il migliore del mondo?!? Se li faceva macinare… e si proseguiva per Gavi Ligure; la seconda tappa era dovuta alla scorta di vino bianco che, a suo dire, era l’unico vino in grado di convolare a nozze con a fainà. Secondo la filosofia del suo tempo, questi ingredienti facevano la differenza tra le due benemerite categorie in gara: il professionisti sapienti e i dilettante trìsti e belinoin.

Era dura stargli dietro… ma la farinata che usciva da quel forno a legna, disastrato dalla guerra, mi ritorna regolarmente in sogno ancora oggi!


RICAPITOLIAMO

La ricetta della farinata di ceci (tradizione ligure) possiamo riassumerla così:

E’ una torta salata, preparata con farina di ceci, acqua, sale e olio extra vergine d’oliva. La farinata (fainà) é una prelibatezza che viene cotta nel forno a legna, in teglia (testo di stagno ramato), da cui il caratteristico colore dorato che assume con la cottura.

 

Pochi ingredienti con tanti segreti??? Avviamo l’indagine!

300 gr di farina di ceci

1 litro d'acqua

5 cucchiai di olio extravergine di oliva

Sale quanto basta

LE VARIE FASI

Dosi

Semplicissime: il rapporto tra farina e acqua deve sempre essere di 1 a 3. Vale a dire che per ogni etto di farina di ceci servono tre etti di acqua. Non dimentichiamo il sale, nella misura di circa un grammo ogni etto di composto: se la somma tra acqua e farina è 400 grammi, saranno necessari circa 4 grammi di sale, o poco meno.

Teglia

Nelle farinaterie si usa una teglia apposita, il cosiddetto “testo”, una grande padella rotonda a bordi bassi in rame stagnato, disponibile anche in versione casalinga con un diametro di 30-32 cm.

Se non avete il testo, potrete rimediare con una teglia da forno a bordi bassi, preferibilmente rotonda. Se invece non siete puristi fanatici della tradizione ma mirate alla sostanza, la classica teglia rettangolare andrà comunque bene.

Impasto

Una volta muniti di teglia e ingredienti, è il momento di passare alla preparazione. Mettete la farina di ceci in un’ampia ciotola e cominciate ad aggiungere l’acqua a poco a poco, sempre girando con una frusta per non formare grumi.

Siete tipi da poche storie? Allora prendete un frullatore a immersione e frullate per qualche secondo: avrete un impasto liscio e vellutato in pochi secondi. Aggiungente quindi il sale.

Per un testo di circa 32 cm di diametro, corrispondente a una teglia rettangolare di cm 40 x 20, le dosi indicative sono di circa 130 grammi di farina, 390 di acqua e 5 grammi di sale.

Riposo

Una volta fatto il laborioso impasto, bisogna farlo riposare, almeno 4 ore, meglio se tutta la notte.

Durante il riposo, si formerà una sorta di schiuma in superficie: levatela con un cucchiaio, altrimenti brucerà durante la cottura.

Ci siamo quasi

Impasto pronto, riposo effettuato, forno caldo, anzi caldissimo. Non rimane che infornare. Non prima, però, di aver unto la teglia con un generoso strato di olio, dello spessore di circa due millimetri.

Girate bene l’impasto della farinata e rovesciatelo sulla teglia, allo spessore di circa un centimetro o poco più. Girate il tutto leggermente con un cucchiaio di modo da mescolare l’olio della teglia con l’impasto appena rovesciato. Se vi piace, aggiungete qualche ago di rosmarino.

Cottura

Non resta che aspettare: 10-13 minuti in genere sono sufficienti, ma ovviamente il tempo dipende dalla temperatura raggiunta dal vostro forno. Tenete presente che la farinata è pronta quando assume la classica colorazione dorata in superficie. E soprattutto, che non deve essere eccessivamente cotta, ma presentare l’interno ancora morbido e cremoso, e non asciutto e stopposo.

Sfornate e spolverizzate infine con pepe fresco, macinato al momento.

Il Vino

Con la farinata – a base di farina di ceci, olio, sale e pepe, cotta nel forno a legna ben si abbina il Coronata Val Polcevera, vino bianco sapido e fresco.

I consigli del nonno:

Ungi bene la teglia, cala la broda, metti l'olio, batti il fondo e inforna caldo-caldo.
Quando sopra si forma una crosta semidura (croccante) é pronta! Senza muovere la teglia, deve essere ben in piano quando cuoce, altrimenti resteranno zone crude e zone troppo cotte.

Preferiscila appena sfornata, praticamente ustionante e con una spolverata di pepe.

ALCUNI APPROFONDIMENTI NELLA PREPARAZIONE DELLA FARINATA.

 

LA PAROLA AGLI ESPERTI DI OGGI

"Io faccio la farinata da 17 anni e impasto tutti giorni 25 chili di ceci!"

I requisiti sono: morbida dentro e crespolosa in superfice.

La temperatura del forno deve essere da 300 a 350 gradi.

Il forno dove lavoro e profondo 240 cm. le teglie (testi) sono di 80 cm di diametro. Quindi ne posso infornare anche tre a temperature più alte.

Lo spessore della farinata deve essere 1 cm, poi dipende dai gusti se piace secca o morbida

ALCUNI TRUCCHI


Nelle nostre farinaterie, a seconda dell’area geografica, i legni più adoperati sono il faggio e la quercia. Talvolta il càrpino, ma questo è un prodotto che potremmo definire di scappatoia.


Faggio segato con corteccia

 

Diversi tipi di legno da usare nel forno a legna


Faggio

· FAGGIO: +fiamma / -brace.   Ottimo rapporto qualità prezzo


Quercia

· QUERCIA: +brace / - fiamma.   Fa una bella fiamma all’inizio poi lentamente si abbassa e trasforma in brace. La brace mantiene il calore a lungo.

· ULIVO: +brace +fiamma. Introvabile molto raro e caro.

· CARPINO Alternativa a basso costo al legno di quercia.

LEGNA DA NON USARE: Pioppo e Castagno perché scoppiettano, pezzetti di braci ardenti potrebbero finire sulla farinata durante la cottura, questa è legna da camino.

ABETE, PINO E RESINOSE contengono resine tossiche, inoltre trasferiscono odori estranei ai prodotti in cottura.


ALCUNE RACCOMANDAZIONI:

  1. È meglio adoperare legno italiano e se possibile con origine certificata, meglio ancora se fornita in un sistema di autocontrollo.
  2. Se serve fiamma molto vivace la legna di faggio va preferita a quella di quercia.
  3. Viceversa se occorre una brace più longeva e una fiamma meno incisiva l’ideale è la quercia;
  4. Prediligere legni stagionati almeno 8 mesi.

Il potere calorico del faggio a zero umidità è pari a 4.456 kcal/kg ma:

  • 15% di umidità 3700 kcal/kg;
  • 30% di umidità 2940 kcal/kg;
  • 50% di umidità 1930 kcal/kg;

Carlo GATTI

Rapallo, Mercoledì 9 Maggio 2018

 


O LEUDO - Fiorenzo Toso

O LEUDO

di

(Fiorenzo Toso)

Comme tutti i òmmi do mæ paise, mi ascì son stæto mainâ. Comme tutti i òmmi do mæ paise, mi ascì ò visto de tære lontañe, de dònne mäveggiose, e delongo m'assunnavo quelle træ fasce d'oivi derê a-a casa, che a mæ moggê scua e stondäia a mandava avanti quande mi navegavo.

Mæ poæ o m'à mostrou comme se deve scigoâ pe ciammâ o vento quande gh'é bonassa, e comme s'à da pregâ pe tegnî lontan e dragoñe, e coe de vento.
Oua che son chì, vegio, desnavegou, e che a mæ dònna a l'é mòrta, e e fasce di oivi son in zerbo, oua che i mæ figgi no navegan, ma tëgnan i stabilimenti da bagni pe-a demoa di foresti, oua che i mæ nëi parlan unna lengua che no capiscio, a coæ do mâ ghe l'ò delongo into sangue, a me s'inscia drento tutte e vòtte che vaggo à giandonâ in sciâ mæña, co-i atri dötræ da mæ etæ che se rebellan ancon pe-i caroggi do paise.

A-i nòstri tempi s'andava à veia. I capitagni braggivan i comandi in bon zeneise, giastemmando San Pê, e i peneixi portavan l'anelletta à l'oegia. S'arrivava à un pòrto e subito s'andava à beive pe scordâ e træ fasce e a moggê stondäia, ma intanto l'indoman l'ea pægio, e no gh'ea ninte da fâ. Unna vòtta, à Scingapore, mi e un de Carlofòrte emmo provou à fummâ l'eubbio, no ve diggo, paiva d'ëse in sce unna nuvia. N'an attrovou a-a mattin int'un caroggetto, sensa unna palanca, mezi nui e con un mâ de testa da scciuppâ. O capitagno, un de Camoggi, o ne l'aiva dito de no stâse à fiâ di cineixi, che son de gente gramme. Na che no son de gente gramme, no son miga pezo di atri. O l'é de naätri mæximi che no se doveivimo fiâ.

Pan cöse lontañe, e intanto pâ vëi... A-o Cao d'Orno, unna vòtta, mi e un compagno emmo visto unna dònna pescio. Segùo, a pâ unna föa, ma intanto mi l'ò vista, a l'ea nùa, de d'ato a l'ea pægia à unna dònna e de sotta a l'aiva a coa verde, co-e scagge e tutto.

Dixan che i mainæ, de stâ delongo pe mâ, no capiscian ciù ninte, veddan de cöse che no ghe son, se imaginan de istöie. O giorno dòppo, a borrasca a n'à streppou a veia grande, e quello mæ compagno lì o l'é cheito in mâ. Mi diggo ch'a l'é stæta a dònna pescio ch'a l'à vosciuo con lê. Ò insomma, l'é megio credde coscì, che pensâ ch'o segge mòrto apreuvo à un corpo de vento. Unna föa. E a saià ben unna föa, ma quante vòtte, inte quelli giorni, no me ghe saieiva bollou mi ascì in mâ, sensa quella föa?

À Bonnesaire andavimo delongo à mangiâ da un do paise ch'o l'aiva unn'ostaia donde favan o pesto, o menestron e a fainâ co-a säçissa. Mangiavimo, beveivimo, e in sciâ fin se metteivimo à cantâ e pagavimo coscì, à son de tralalleri, e i zeneixi de lazzù vegnivan à sentîne fin d'in fondo a-a Pampa.

Regòrdi. Ma no se peu vive solo de regòrdi. Oua mi, o Ciomê e o Dria emmo attrovou un leudo abbandonou into cantê do sciô Tasciæa, quello ch'an da cacciâ zu pe fâghe un atro stabilimento da bagni.

O l'é un bello leudo, ma dev'ëse ciù de vint'anni ch'o l'é lì, da quande o cantê o l'à fæto baracca: beseugnieiva cangiâghe o fasciamme, l'erboo meistro o l'é inte tanti tòcchi e o cöpresso se l'an portòu via. Emmo attrovou fiña e veie, ma son meze mangiæ da-i ratti. Seguo, à repessâle comme se deve, dovieivan ancon tegnî o vento.

Gh'emmo pensou, mi co-i atri doî. À dâghe recatto, o se porrieiva mette in mâ de lengê. O l'à unna bella armatua, nervosa, o l'à di scianchi comme unna figgia à sezz'anni. O n'asbrivieiva fin à l'Erba, in Còrsega, in Sardegna int'un resäto. Ma niatri se contentiëscimo de costezzâ fin à Zena, à Vernassa, dove o Dria o gh'à di pænti, a-a Bordighea, donde gh'é un mæ amigo, quello ch'o parlava co-i draffin e ch'o sunnava a tromba de succa. S'o l'é ancon vivo.

D'arescoso da-i figgi, tutti e trei emmo levou i dinæ d'in banca. Pöca cösa. Quello ch'aivimo guägno o l'é partio tutto, tòsto tutto, pe tiâ sciù a famiggia, pe dâghe da mangiâ, pe fâli studdiâ. E niatri lonten, à Caracas, à Hong Kong, à San Francisco, tanto che no an fæto in tempo à conoscine, i nòstri figgi.
O sciô Tasciæa o leudo o ne l'à regallou. O l'é mezo feua de testa, meschinetto, ma o l'à capio pægio: lê ascì o l'à navegou, o l'é stæto capitagno. Pöi o l'à averto o cantê e o s'é misso à fâ e barcasse pe-o pòrto de Zena, into momento che e barcasse no servivan ciù à ninte. Sò moggê co-o figgeu a se n'é anæta con un milaneise, un ch'o l'à un abergo à Sanremmo, e lê o l'é arrestou mezo alloou, o no s'é mai ciù repiggiou: oua o l'à tòsto novant'anni. Sò figgio o l'é cresciuo, o l'é vegnuo a-o paise l'anno passou e o gh'à fæto firmâ di papê. Coscì caccian zu quello che resta do cantê e ghe mettan di atri bagni, Bagni Paradiso, Bagni Sole e Mare, chi ô sa.

Co-i dinæ ch'emmo levou d'in banca cattiemo e cöse che serve pe dâ recatto a-o leudo. Beseugna trovâ i erboi – emmo zà parlòu co-o bancâ do caroggio drito, ch'o l'é stæto meistro d'ascia –,  sarsî e veie, cartezzâ, vernixâ, desentegâ i ratti.

No finiemo sens'atro avanti d'ëse mòrti, mi, o Ciomê e o Dria. E se mai fescimo in tempo, no aviëscimo sens'atro ciù a fòrsa nì o bon d'avaâ o barco, de fâlo navegâ, de stâ apreuvo a-a rotta.

Ma de regòrdi solo no se peu vive. De föe, de seunni manco. E sto leudo o no l'é un seunno, o l'é bon legno saxonou, che à dâghe recatto o n'asbrivieiva à l'Erba, in Còrsega, in Sardegna int'un resato. E niatri se contentiëscimo de costezzâ fin à Zena, à Nöi, dove o Ciomê o l'à di amixi, a-o Tellâ, dove gh'é quello mæ coxin, quello ch'o l'addomestega i öchin e ch'o tia de cotello comme un singao. S'o l'é ancon vivo.

Alessandra Cutrì intervista Fiorenzo Toso


Docente di Linguistica generale presso l’Università di Sassari, Fiorenzo Toso è linguista e dialettologo specialista dell’area ligure, redattore principale del Vocabolario delle Parlate Liguri (1985-1992, 4 voll.) e autore della Letteratura genovese e ligure (1989-1991, 6 voll.), del volume Gli ispanismi nei dialetti liguri (1993), della Storia linguistica della Liguria (1995), della Grammatica del genoveseDizionario etimologico storico tabarchino (2004) e della Grammatica del tabarchinoXeneises. La presenza linguistica ligure in America Meridionale (2006), de La letteratura ligure in genovese e nei dialetti locali. Profilo storico e antologia (2009, 7 voll.), del Piccolo dizionario etimologico ligure (2015), per citare solo alcuni lavori maggiori. Fra le altre cose, si occupa anche di plurilinguismo (Lingue d’Europa. La pluralità linguistica dei Paesi europei fra passato e presente, 2006), di fenomeni di insularità e di contatto linguistico (Linguistica di aree laterali ed estreme. Contatto, interferenza, colonie linguistiche e «isole» culturali nel Mediterraneo occidentale, 2008), di minoranze linguistiche (Le minoranze linguistiche in Italia, 2008; La Sardegna che non parla sardo. Profilo storico e linguistico delle varietà alloglotte. Gallurese, Sassarese, Maddalenino, Algherese, Tabarchino, 2012) e di etimologia (Parole e viaggio. Itinerari nel lessico italiano tra etimologia e storia, 2015). (1997), del  (2005), del volume

A oltre 150 anni dalla nascita dello Stato italiano i dialetti stanno perdendo terreno a causa di cambiamenti politici ed economico-sociali che hanno portato all’emergere della lingua italiana mentre, a livello globale, si assiste parimenti al “trionfo” dell’inglese. L’aumentata mobilità delle persone, la diffusione di internet e la maggiore istruzione nell’epoca della globalizzazione portano spesso i parlanti ad allontanarsi dalle lingue originarie (in particolare dai dialetti) e ad “appiattire” le loro potenzialità comunicative nell’uso di un unico idioma dotato di maggior prestigio; si tratta, forse, di una tendenza ciclica e storicamente inevitabile. Mettere in atto misure di tutela dei dialetti è possibile e necessario? Potrebbe rivelarsi un’azione forzata, antistorica e regionalistica?

Ho iniziato a occuparmi del patrimonio linguistico ligure nel 1976, quando avevo circa 15 anni, raccogliendo le parole del genovese parlato al mio paese d’origine per quello che sarebbe diventato il Vocabolario delle parlate liguri, di cui divenni in seguito redattore. Ricordo il titolo di un articolo di Manlio Cortelazzo su una rivista locale, a sostegno dell’iniziativa: “Un’impresa urgente: salvare i dialetti”. Infatti, a quell’epoca, i linguisti e i sociologi – nel quadro di una certa temperie culturale – preconizzavano la scomparsa nel giro di pochi anni delle parlate locali. Siamo al 2017, e per quanto mi riguarda ho ancora molte occasioni di trascorrere ore discorrendo in genovese con persone di ogni età, genere, formazione e livello culturale. Attenzione, questo non significa che non ci sia una crisi – di uso, di funzionalità, di “immagine” se vogliamo – delle parlate locali, ma mi sento anche di dire che fare della sprachprognostik sui processi di obsolescenza linguistica non è facile, e che occorre essere molto prudenti nella valutazione dei fattori che possono contribuire a generarla. L’informatica, ad esempio: avrà pure contribuito a espandere lo spazio dei codici standardizzati di più larga diffusione – dalle lingue nazionali all’onnipresente inglese – ma è anche un veicolo potente e democratico di diffusione per qualsiasi altra lingua o dialetto. Oggi, attraverso i social, i siti dedicati ecc., un testo, un video, una trasmissione in una lingua di minor diffusione possono arrivare a un pubblico ampio, e con costi limitati. Più in generale: in giro, e per tanti motivi che sarebbe ozioso ripetere, c’è evidentemente una “domanda” di territorialità linguistica, che si manifesta in varie forme, dall’enfatizzazione della componente diatopica nell’uso dell’italiano a fini connotanti (è tutto un fiorire di comici con inflessioni locali, di insegne, denominazioni di prodotti, magliette che riportano parole “tipiche”, ecc.) fino a diverse forme e proposte di “recupero” di tradizioni linguistiche più genuine. Riguardo a quest’ultimo aspetto, i problemi che si pongono sono decisamente complessi. Anzitutto, rifacendomi alla domanda, in linea di principio eviterei di associare sempre e comunque un’eventuale prospettiva antistorica (e le relative forzature) alle manifestazioni in sé di una impostazione “regionalistica”. Comunque la si pensi, il regionalismo non è necessariamente antistorico, è un rispettabile atteggiamento politico e amministrativo, e il dibattito relativo riguarda in generale, attraverso letture complesse e dalle più svariate prospettive ideologiche, le diverse società occidentali. Ciò vale anche sotto l’aspetto dei patrimoni linguistici: persino un paese di grandi tradizioni centralistiche come la Francia parla oggi di “langues de France” come concetto esteso alle varianti dialettali (picard, champenois, gallo…), promuovendone anche lo studio accademico per singole realtà (cosa che in Italia ad esempio non viene fatta, raccogliendo questo tipo di interessi sotto la generica formula della “Dialettologia italiana”); e che nella corretta gestione del patrimonio storico-culturale dei territori siano anche implicati, quando ci sono, gli elementi di originalità linguistica, non mi pare di per sé un fatto scandaloso o eversivo. Di recente ho curato a Genova una mostra storico-documentaria sul genovese, che ha riscosso un notevole interesse di pubblico e di critica e ha contribuito, credo, ad avviare la riflessione anche su alcuni dei temi che stiamo discutendo. Bene, l’unica contestazione, del tutto fuori luogo e come tale generalmente percepita, è stata quella di uno storico della lingua e accademico della Crusca che ha trovato da ridire sul sottotitolo della manifestazione (Il genovese. Storia di una lingua), considerandolo lesivo del prestigio dell’italiano e… potenziale veicolo di promozione di un bilinguismo inglese-dialetto ai danni della lingua nazionale! Rendiamoci conto che se il livello di riflessione su questi temi rimane ancorato a queste forme di strumentalizzazione e di provincialismo reazionario, sarà sempre problematico impostare una riflessione seria sul tema della pluralità linguistica di un paese in cui, oltre tutto, le forme del multilinguismo vanno continuamente riformulandosi. Ammettiamo piuttosto che in Italia l’interesse per questi temi è stato cavalcato più facilmente da una certa area politica: ma aggiungiamo anche che un certo atteggiamento intellettuale, che riflette anche la difficoltà della cultura nazionale a convivere col “problema” del proprio policentrismo, ha fatto di tutto per consegnare, legato mani e piedi, il tema della regionalità (non solo linguistica) a quel contesto politico. Quanto al fatto se sia necessario o meno, e in che misura possibile, “tutelare i dialetti”, anche qui la risposta è per forza di cose articolata. Necessario: se si ammette che le forme della diversità linguistica sono un bene culturale e un elemento di ricchezza (non soltanto in termini espressivi o connotanti: penso anche ai vantaggi cognitivi del bi- e plurilinguismo ad esempio), la risposta dovrebbe essere implicita. Trovo però tremendamente ipocrita che nel momento in cui si formulano opinioni del tipo “il dialetto è una ricchezza, una risorsa” e così via, non si ammetta l’opportunità, almeno in astratto, di promuoverne la conservazione come si fa per qualsiasi altra risorsa, naturale, monumentale, culturale e così via. Possibile: la pianificazione linguistica ha cessato da tempo di essere un’opinione, è a tutti gli effetti una rispettabile branca della linguistica: di impossibile, in sé, non c’è nulla. Il punto è semmai un altro, nel momento in cui si manifesti una volontà condivisa e diffusa di approdare a questa tutela (cosa che del resto non è né scontata, né attuale): si tratterebbe di verificare i tempi, i modi e gli obiettivi, e di capire anzitutto cosa può significare la “tutela del dialetto”. L’uso parlato, che è anzitutto legato alle scelte e alla consapevolezza dei locutori? La sua rappresentazione identitaria, che di per sé è un guscio vuoto in mancanza di una pratica diffusa? La memoria storica attraverso la promozione degli studi, che è in ogni caso propedeutica allo sviluppo di qualsiasi altra iniziativa? Insomma, la risposta è aperta.

A che punto è la politica sulla tutela delle minoranze linguistiche in Italia? A quante lingue si può applicare e cosa resta ancora da fare? Su quali basi una lingua è definita “minoritaria” e quindi da tutelare? Penso, ad esempio, al caso del brigasco.

Con questa domanda ci riallacciamo ad alcuni dei temi sfiorati nella risposta precedente: il disagio tutto italiano per le problematiche del plurilinguismo e del policentrismo, che rappresentano da sempre altrettanti elementi costitutivi della realtà culturale del paese, si è manifestato in maniera particolarmente evidente proprio attraverso il fallimento della politica di tutela delle minoranze linguistiche. Prevista dalla Costituzione, raccomandata dalle istituzioni europee, essa riguardava storicamente, dal dopoguerra, le sole minoranze “nazionali”, ossia quei gruppi di popolazione che percepiscono la propria alterità linguistica in rapporto a un diverso senso di appartenenza culturale e nazionale, per di più sancito da accordi interstatali: i sudtirolesi (ed estensivamente i ladini della provincia di Bolzano), i valdostani,  gli sloveni delle province di Trieste e di Gorizia. La legge 482 del 1999 è giunta con un clamoroso ritardo a “tutelare” un gruppo di altre “lingue” (ma più correttamente si sarebbe dovuto parlare di tutela dei parlanti, e dei loro diritti linguistici), scelte in base al criterio della distanza “genetica” dall’italiano, e senza tener conto delle implicazioni sociolinguistiche relative a ciascuna di esse. Da un lato quindi si è effettuata una selezione quanto meno arbitraria all’interno del panorama linguistico nazionale (friulano sì, veneto no; algherese sì, tabarchino no), dall’altra si è deciso, ad esempio, che minuscole comunità di parlanti dialetti germanici, ellenici o albanesi andassero in linea di principio “tutelate” alla stessa stregua e con le stesse modalità della compatta maggioranza etnica altoatesina, presso la quale la coufficialità con l’italiano riguarda una lingua di solidissime tradizioni culturali e amministrative. Questa idea di creare lingue a tavolino non è molto diversa dalle ipotesi – magari bollate come reazionarie ed eversive – di chi propone di standardizzare una “lingua piemontese” o una “lingua napoletana”, ma ha significato mettere a posto la coscienza delle istituzioni statali, ossificando un panorama linguistico in larga parte impreparato a tutto questo, e aprendo nei casi più controversi ulteriori elementi di disagio: l’urgenza di disporre di una lingua sarda o di una lingua occitana è diventata così l’alibi per forzare processi gestiti spesso e volentieri da minoranze attive ed élite politico-culturali, a discapito della volontà dei parlanti e di un sereno confronto sul opzioni possibili; al contempo, la gestione delle relative risorse (peraltro in progressivo calo nel corso degli anni) è diventata spesso e volentieri appannaggio di quanti, di tali processi, si sono fatti proponenti ed artefici. D’altro canto, queste forme di “ufficializzazione” non hanno dato, come del resto era logico aspettarsi, risultati concreti in termini di inversione del trend negativo che caratterizza l’uso delle lingue ammesse a tutela; per di più, isolate dal contesto plurilingue di cui sono storicamente parte, esse hanno finito per essere percepite come feticci identitari prima che come strumenti di comunicazione, restando quest’ultima prerogativa affidata all’italiano o ad altri idiomi concorrenti: nelle valli del Piemonte occidentale ad esempio, il carattere “occitano” dei dialetti locali viene molto rappresentato, a fini prevalentemente turistico-commerciali e latamente politici, ma la gente continua a usare prevalentemente l’italiano o il piemontese, e altrove non pare proprio probabile che il finanziamento di questa o quell’iniziativa didattica o amministrativa, per quanto volenterosa, farà nel tempo recuperare locutori al dialetto walser di Formazza o alla parlata albanese di Villa Badessa. Mancando, inoltre, una qualsiasi forma di vigilanza sui processi di riconoscimento e auto-riconoscimento delle comunità (meglio, delle amministrazioni) che intendevano dichiarare la presenza sul loro territorio della lingua minoritaria, si è verificata una vera e propria corsa all’auto-certificazione, dagli esiti a dir poco grotteschi. Per fruire di possibili finanziamenti, decine di comuni di solide tradizioni dialettali piemontesi, calabresi, venete e così via si sono dichiarate di volta in volta “occitane”, “grecofone”, “germanofone” o “ladinofone”, col risultato di sovvertire gravemente, anche in termini percettivi, il panorama linguistico locale: dai comuni dell’Isola d’Ischia che hanno cercato di farsi passare per centri di lingua tedesca (sembra una battuta di Totò, e invece non lo è) al caso appunto del brigasco, un dialetto inequivocabilmente e riconoscibilmente ligure, come tale noto al mondo degli studiosi (oltre che nella tradizione locale), ma scandalosamente “promosso” dal giorno alla notte al rango di varietà “occitana”. Questo caso in particolare, proprio per le reazioni che ha suscitato nel pubblico e tra gli studiosi, è forse l’esempio più tristemente noto (ma tutt’altro che isolato) dei fenomeni di malcostume amministrativo connessi con la 482. A quasi vent’anni dalla sua approvazione, quindi, questa legge per molti aspetti scandalosa andrebbe profondamente modificata – come opzione minima – o, preferibilmente, sostituita con provvedimenti nella cui formulazione siano coinvolti linguisti e giuristi competenti, che chiariscano anzitutto cosa si debba intendere per “tutela”, tenendo conto della varietà delle situazioni coinvolte (e di quelle rimaste fuori, spesso in maniera palesemente discriminatoria, dall’ammissione ai benefici di legge), del contesto interlinguistico complessivo in cui si manifesta l’alloglossia, e di altri parametri a vario titolo decisivi per una corretta applicazione di una “politica” linguistica che guardi anche alle più aggiornate esperienze internazionali in materia.

Fra le lingue minoritarie parlate sul suolo italiano vi è il tabarchino, idioma presente a Calasetta e Carloforte, in Sardegna, e nato dal genovese in epoca tardo-medievale per necessità di comunicazione legate agli scambi commerciali sulle sponde del Mediterraneo. Quale altra lingua ha contribuito alla formazione del tabarchino e quanto esso si è differenziato nel tempo rispetto al genovese moderno? Esistono isole genovesi al di fuori dell’Italia oggi?

Il caso del tabarchino è per l’appunto rappresentativo dei deficit e degli insuccessi della legislazione in materia di minoranze linguistiche. Tipico e riconosciuto esempio di eteroglossia, caratterizzato da percentuali d’uso della varietà locale che sono tra le più alte in assoluto in Italia, il tabarchino è stato oscenamente “dimenticato” nell’elencazione delle varietà ammesse a tutela perché considerato la variante di un “dialetto italiano” qual è il genovese. Le perplessità dei linguisti e dei giuristi, che hanno prodotto una ormai ricca letteratura in proposito, non sono valse finora a fare approvare i diversi emendamenti con i quali si è cercato di rimediare a questa incresciosa situazione, che vede anche il paradosso di due soli comuni in tutta la Sardegna privi di una qualche forma di valorizzazione del loro patrimonio linguistico (essendo il sardo e il catalano di Alghero ammessi a tutela), per quanto il tabarchino sia poi correttamente menzionato dalla legislazione regionale. Le comunità tabarchine attuano peraltro da anni forme efficaci di auto-tutela, che ne fanno anzi un modello rappresentativo di difesa “dal basso” della specificità linguistico-culturale locale: tuttavia, la mancata copertura legislativa, oltre a impedire l’accesso ad adeguate risorse, rappresenta una palese e inaccettabile discriminazione, ai limiti dell’incostituzionalità, una volta che nel bene o nel male la categoria degli idiomi ammessi a tutela preveda, tra i criteri di “selezione”, le prerogative dell’insularità linguistica. D’altro canto il tabarchino rappresenta in termini culturali una varietà riconoscibilmente “altra” anche rispetto al genovese, essendo il portato di un processo di immigrazione in Sardegna verificatosi nel corso del sec. XVIII a partire dagli stabilimenti liguri in Tunisia, risalenti a loro volta al Cinquecento. Le vicende per certi aspetti romanzesche della diaspora dei tabarchini dalla loro sede originaria su un isolotto al largo della costa africana, fanno del loro idioma un caso pressoché unico di conservazione e attualizzazione di una parlata che, dopo aver goduto nel tempo di prerogative importanti anche in termini comunicativi internazionali (come varietà dell’uso commerciale tra europei e tunisini) continua a esercitare oggi una funzione essenziale di riconoscimento collettivo all’interno delle comunità presso le quali la è diffusa. Vero è peraltro, che, proprio per la sua antica funzione di lingua commerciale, ancora vitale in Tunisia durante tutto l’Ottocento, il tabarchino non si è differenziato molto dal genovese, continuando fino a tempi relativamente recenti ad aggiornare i propri esiti fonetici, morfologici, sintattici e lessicali alla varietà metropolitana. Quel che fa del tabarchino una lingua a sé rispetto al ligure continentale sono quindi le peculiarità ambientali e culturali, tra Africa, Spagna e Sardegna, che hanno determinato il suo indissolubile legame con una cultura “altra”, meticcia, frutto di apporti molteplici e complessi, ben riconoscibile nel contesto sardo e italiano per le proprie peculiarità, tanto che l’eredità storica tabarchina è oggi candidata ad assumere il ruolo di patrimonio immateriale dell’umanità secondo la classificazione dell’UNESCO. Diverso è il caso di altre varietà liguri “trapiantate” fuori dall’area d’origine, come il bonifacino della Corsica meridionale, che rappresenta uno stadio prossimo al genovese duecentesco, o il monegasco, che è oggi la lingua nazionale del Principato di Monaco, frutto di un’immigrazione dalla Riviera di Ponente verificatasi durante il Trecento. Sono questi gli scampoli di quella che fu una presenza linguistica distribuita lungo le coste mediterranee e del Mar Nero nel corso della secolare esperienza mercantile dei genovesi, una presenza ben attestata sia dalla documentazione scritta (trattati politici e commerciali, atti legislativi ecc.), sia dalle sopravvivenze, soprattutto lessicali, di elementi liguri in diverse lingue e dialetti di quest’area estesissima: dal neoellenico dell’isola di Chio (la Scio dei Genovesi) allo yanito di Gibilterra (una varietà andalusa di contatto con l’inglese, in cui gli affioramenti lessicali liguri sono dati dalla presenza di una forte componente ligure sul territorio della colonia britannica); dai dialetti urbani della Corsica a quel che resta del figoun trapiantato in Provenza nel corso del sec. XV. Né va dimenticata l’esistenza di una componente ligure importante nel lessico dello spagnolo popolare rioplatense, il cosiddetto lunfardo, come risultato di un’immigrazione in America Latina che ha lasciato tracce di un uso comunitario del genovese, in parte ancora vitali, soprattutto sul versante pacifico del subcontinente.

La diffusione dell’inglese a livello internazionale ha reso questo idioma lingua veicolare moderna; nel periodo dell’Alto Medioevo, però, e per tutta l’età moderna, alcuni volgari italiani (come già visto, ad esempio, il genovese) e in seguito l’italiano e lo spagnolo, furono il codice privilegiato di comunicazione nei porti del Mediterraneo, spesso in forma di lingua franca, una sorta di pidgin fatto di elementi provenienti dalle diverse parlate delle popolazioni che entravano in contatto. Quali sono le nostre conoscenze su questa lingua franca, quali le fonti e le testimonianze? Quale fu l’apporto a questa lingua franca dell’arabo e del turco?

La lingua franca mediterranea è quello che si potrebbe definire un autentico phantôme terminologique, nel senso che al concetto tutto sommato ben definito che vi si accompagna (in estrema sintesi, un idioma semplificato destinato alla comunicazione interetnica tra popolazioni che parlano lingue geneticamente distanti) non si accompagna in realtà una documentazione storica sufficiente a confermarne la tipologia e persino la stessa esistenza storica. Anche il nome di questo “oggetto” risulta sfuggente da un punto di vista semantico (lingua dei “franchi”, ossia degli occidentali, o lingua “franca” in quanto scorrevole, semplice? o tutte e due le cose?), e ricompare in situazioni e contesti storici diversi, dall’Adriatico all’Africa settentrionale in età moderna, in maniera assai più labile in Oriente durante il medioevo, poi in Grecia tra Ottocento e Novecento, lasciando intendere che sotto la denominazione di “lingua franca” si celino in realtà forme di espressione assai differenti tra loro. D’altronde, le fonti che lo descrivono come un “italiano parlato male” utilizzano una formula che, oltre ad essere generica, viene parimenti utilizzata per indicare diversi idiomi italoromanzi utilizzati come lingue commerciali e coloniali (ad esempio, per un viaggiatore francese del Cinquecento, è “un italien corrompu” il genovese di Chio), mentre gran parte delle (presunte) attestazioni dirette di questo idioma, frutto in realtà di elaborazioni letterarie (da Molière a Goldoni) ripetono costantemente una fraseologia stereotipata, fatta di verbi all’infinito, di formule di cortesia e poco più. Elementi morfosintattici attribuibili a una modalità pidginizzante mancano invece nella documentazione riconducibile a situazioni di effettivo contatto tra parlanti le diverse lingue neolatine e varietà semitiche, come le lettere di schiavi europei ai tempi della corsa barbaresca, o la documentazione relativa a Tabarca, l’unica stabile comunità “europea” sulle coste dell’Africa settentrionale. La mia impressione quindi – ma è soltanto un’impressione sia chiaro – è che il concetto di lingua franca celi una realtà tanto complessa quanto difficilmente definibile, in cui potevano integrarsi di volta in volta l’uso interetnico di vere e proprie varietà romanze (come quello del genovese in Tunisia, ben documentato tra Quattrocento e Ottocento), modalità rudimentali di apprendimento dell’italiano da parte di arabofoni o turcofoni, forme di comunicazione basate sulla commistione di codice e sull’interferenza tra diversi idiomi romanzi, e così via. Non parlerei quindi di una vera e propria “lingua” nel senso di varietà riconoscibile e riconosciuta rispetto ad altri idiomi geneticamente affini, e neppure di un pidgin stabilizzato, quanto di un insieme di modalità di comunicazione, caratteristiche soprattutto, nel periodo che va dalla seconda metà del Cinquecento alla prima metà dell’Ottocento, dell’incontro e del confronto verificatosi nel panorama politico-culturale, davvero complesso, delle antiche reggenze barbaresche, col prevalere di modalità genericamente “italianizzanti” tra Algeri e Tunisi, e “ispanizzanti” verso il Marocco; del resto, l’unico repertorio ampio di “lingua franca”, un dizionarietto del 1830 a uso delle truppe francesi in Algeria, suona di estrema (e per certi aspetti tardiva) stilizzazione di un fenomeno assai più labile nelle sue manifestazioni. Quanto e cosa questo insieme di situazioni abbia lasciato in eredità alle lingue dell’Africa settentrionale e del vecchio Levante è difficile dire: certamente il lessico dell’arabo maghrebino, del turco, del greco e di altre varietà “mediterranee” è ricco di italianismi, ispanismi, venetismi, genovesismi, provenzalismi, francesismi e così via, non meno di quanto turcismi e arabismi siano presenti nelle varietà neolatine della sponda settentrionale del Mediterraneo, ma ciò non assicura necessariamente l’esistenza di un tramite rappresentato dalle modalità pidginizzanti della lingua franca. Il quadro così delineato ridimensiona un po’, in ogni caso, alcune teorie suggestive, come quella sull’origine monogenetica dei pidgin, che sarebbero nati, secondo alcuni studiosi, dal trasferimento dell’ossatura morfologica semplificata della “lingua franca mediterranea” lungo le coste della Guinea, subendovi una rilessificazione in senso portoghese. Non è chiaro tra l’altro, a mio modesto avviso (anche ad attribuire una decisiva importanza all’interazione ligure-lusitana lungo le coste dell’Africa atlantica ai tempi della tratta degli schiavi, secondo una suggestiva lettura, tra gli altri, di Germán De Granda), il contesto storico-culturale in cui si sarebbe verficato tutto ciò, mancando soprattutto una sostanza documentaria in grado di instaurare affinità specifiche tra la “lingua franca” mediterranea (oggetto sostanzialmente sconosciuto) e i pidgin africani e americani.

Quale influenza ha avuto il genovese, lingua di una delle repubbliche marinare, sull’italiano e sui dialetti: in quali parlate del suolo italiano, ad esempio, la sua presenza si avverte di più e quali sono gli ambiti semantici?

La mostra alla quale accennavo prima, tenutasi a Genova tra settembre e novembre di quest’anno, documenta anche, attraverso il suo catalogo, la ricchezza delle interrelazioni linguistiche e culturali che furono generate dall’espansione mercantile ligure nel Mediterraneo. Come ha scritto di recente Emanuele Banfi, anzi, probabilmente più ancora di quella del veneziano la storia oltremarina del genovese merita di essere conosciuta e approfondita in ragione delle modalità del suo radicamento in una pluralità di orizzonti linguistici differenti e con modalità d’impianto peculiari, legate anche alle esigenze di controllo di approdi e di basi commerciali, più che di territori estesi, da parte di una popolazione di mercanti caratterizzata da un limitato potenziale demografico. Lingua di incontro più che di dominio, il genovese si è caratterizzato così per una forte tendenza alla micro-colonialità, in quei luoghi, dalla Crimea a Gibilterra, dove i liguri rappresentarono essenzialmente una minoranza dominante o un elemento catalizzatore, per le loro stesse specializzazioni economiche, in grado di attrarre componenti etniche e demografiche di svariata provenienza: i diplomi bilingui in genovese e armeno o ebraico prodotti nell’ambiente turcofono di Caffa ne sono un esempio lampante, non meno delle attestazioni dell’uso del genovese, alla Boca di Buenos Aires, anche da parte della popolazione d’origine ispanica o degli immigrati di varia origine e provenienza, circostanza che spiega l’importante componente ligure nello spagnolo popolare rioplatense. Se si guarda più in dettaglio al contesto italiano, quantificare il lascito linguistico e in special modo lessicale genovese nella lingua nazionale e nei dialetti non è facile, considerando che le stesse affinità morfologiche e fonetiche tra gli idiomi italoromanzi rendono a volte difficile determinare l’esatta provenienza di una voce. È vero peraltro che Genova si propone anche, e precocemente, come centro di assunzione e di irradiazione di innovazioni della più svariata origine, orientale non meno che nordica e occidentale, soprattutto nel lessico delle costruzioni navali, marinaresco, commerciale, della pesca e così via. A livello dialettale, una notevole circolazione linguistica in area alto-tirrenica contribuì non poco a diffondere termini d’origine o di tramite ligure verso la Corsica (peraltro esposta a un apporto lessicale massiccio anche per la sua appartenenza politica a Genova) e la Toscana costiera e insulare (numerosi sono gli esempi lessicali che si possono trarre, fra gli altri, da un esame del dialetto di Capraia), con “discese” notevoli anche lungo le cose sarde, italiane meridionali e siciliane. Non è certo stupefacente allora che persino una parola percepita come essenzialmente “siciliana” quale mattanza, sia in realtà un antico ispanismo di tramite genovese, approdato tardivamente nel lessico delle tonnare siciliane anticamente gestite da imprenditori liguri. Dal porto di Genova passano inoltre, per diffondersi nell’italiano letterario, molti termini legati al mondo della navigazione e della marineria (da scoglioprua, da ciurmacavo, e alcuni ancora in tempi recenti, come il lusismo piovasco), ma anche a prodotti commerciali (penso di avere dimostrato recentemente l’origine genovese di baccalà), a innovazioni tecnologiche e così via. Spesso le datazioni di una voce, attestate in genovese o in italiano regionale ligure prima che in altre zone, contribuiscono a chiarire i processi di diffusione di questa terminologia, che fu particolarmente copiosa nel passaggio dal genovese al toscano anche per la maggiore vicinanza geografica del porto ligure rispetto a Venezia, che ha irradiato spesso il proprio lessico marinaro in area adriatica assai più che in direzione della Toscana. Uno studio sistematico dei genovesismi in italiano è del resto tra le attività connesse al mio lavoro di spoglio lessicale della documentazione ligure preottocentesca, dalla quale stanno emergendo elementi importanti di valutazione. Più difficile è parlare, al di là del lessico, di componenti liguri nel processo di formazione di varietà dialettali italiane: è ormai riconosciuto un fondamentale apporto di tale origine nel galloitalico meridionale, ossia in quell’insieme di dialetti, diffusi in Basilicata e in Sicilia, che presentano tracce inequivocabilmente “settentrionali” e che risalgono verosimilmente a fenomeni immigratori dei secc. XII-XIII, legati anche ai ripopolamenti promossi dopo la cacciata degli arabi dalla Sicilia; ancor più evidente è, come già accennavo, la componente ligure in alcuni dialetti urbani della Corsica, come quello di Ajaccio e quello di Calvi, la cui popolazione doveva parlare in passato un idioma “coloniale” (paragonabile a quello tuttora in uso a Bonifacio) sul quale si sovrapposero in seguito le varietà corse del contado. Proprio dal bonifacino dipende in gran parte il decisivo apporto ligure, anche di carattere morfologico, del dialetto “misto” corso-ligure dell’isola Maddalena, e una componente genovese variamente stratificata si riconosce anche nella parlata sassarese, come effetto di una commistione, su base corsa, di elementi fonetici, morfologici, sintattici e lessicali liguri e sardi.

Il sardo è considerato oggi, e a partire da quella che è considerata la prima classificazione scientifica dei dialetti italiani operata da Ascoli (1882), una lingua autonoma rispetto alle altre parlate italiane, caratterizzata da una notevole conservatività rispetto al latino, caratteristica mantenuta grazie al suo isolamento rispetto alla terraferma. Questa immagine corrisponde alla realtà? A chi o a cosa si deve l’idea del sardo come dialetto isolato e conservativo?

Nei dieci anni di insegnamento all’università di Sassari mi sono avvicinato con molto rispetto e con qualche titubanza al “problema” della lingua sarda, ma mi guardo bene dal definirmi uno specialista in materia. In ogni caso la specificità linguistica del sardo e il sua carattere di lingua (o se si preferisce, di insieme di varietà dialettali a se stante rispetto all’italiano) è un dato di fatto conclamato e accolto non soltanto dalla linguistica italiana, ma anche da quella internazionale. Detto questo, sarebbe opportuno rivedere alcuni luoghi comuni sul sardo, a partire soprattutto da quello della sua “staticità” e conservatività consustanziale, che in parte è anche il frutto di una interpretazione per certi aspetti “ideologica” della categoria di insularità, come conseguenza di una visione “resistenziale” della società sarda, e in fondo degli stessi entusiasmi del maestro riconosciuto della linguistica sarda, il tedesco Max Leopold Wagner. Certo, il sardo conserva caratteristiche particolarmente arcaiche rispetto ad altri idiomi romanzi, ma questo non riguarda anzitutto l’intera area linguistica sarda, divisa tra un meridione campidanese assai più dinamico e un settentrione logudorese-nuorese maggiormente conservativo; inoltre, un’evoluzione a partire da condizioni particolarmente precoci di radicamento del latino è continuata ovviamente e continua a manifestarsi, come avviene per qualsiasi lingua o dialetto, secondo modalità che risentono anche della collocazione sociolinguistica di una lingua, almeno finora, prevalentemente parlata. Più in generale, le condizioni di arcaicità non sembrano affatto dovute all’insularità del territorio, circostanza che ne fa anzi uno spazio vocazionalmente “aperto” fin dalla più remota antichità, quanto alla presenza all’interno della Sardegna di aree montane, maggiormente conservative come conservativo sotto molti punti di vista, non soltanto da quello linguistico si dimostra (secondo una ben nota considerazione di Fernand Braudel) anche il resto della montagna mediterranea. Che l’ambiente sardo dimostri una specifica propensione alla “resistenza” agli influssi esterni è del resto, come dicevo, un mito identitario e una forma di rappresentazione di se stessi assai prima che una realtà storica: basta solo guardare a quanto il lessico delle varie lingue che si sono susseguite in Sardegna con caratteri di superstrato, dal pisano al genovese, dal catalano allo spagnolo e all’italiano, abbia permeato il vocabolario isolano nei più ampi e disparati ambiti semantici. E non va infine dimenticato che la Sardegna, proprio per il suo carattere di spazio “aperto” ospita da secoli diverse varietà alloglotte orientate di volta in volta verso le rispettive “madrepatrie”, in modo tale da costituire veri e propri “ponti”, elementi di raccordo tra la sardità linguistica e un più ampio orizzonte romanzo: le parlate corse del nord dell’isola (gallurese, maddalenino e sassarese, le ultime due con interessanti interferenze liguri), il catalano di Alghero, il già citato tabarchino di provenienza ligure-tunisina. A queste diverse forme del contatto linguistico ho preferito dedicarmi, da quando lavoro in Sardegna, anche in considerazione del fatto che la lingua sarda ha i suoi validi specialisti, e tenendo conto del mio specifico interesse per le vicende “dinamiche” del contatto e dell’interferenza linguistica.

Il dialetto genovese ha subito l’influsso del toscano/dell’italiano? In caso affermativo, in quale epoca quest’influsso è stato più forte e da quale punto di vista? Il genovese è cambiato molto negli ultimi 150 anni?

Come ogni varietà neolatina sottoposta al “tetto” linguistico del toscano/italiano, il genovese e il sistema dei dialetti liguri hanno risentito e risentono dell’influenza di questa varietà enormemente prestigiosa in termini letterari, politici, sociali e di diffusione territoriale. Almeno dal Quattrocento il toscano è massicciamente presente nella scripta ligure, attraverso elementi lessicali, morfologici e sintattici che risultano anche dalla esportazione verso le Riviere di precisi modelli culturali e letterari. Nondimeno, e a differenza di altre regioni italiane, la Liguria esprime precocemente, a partire dalla fine del Duecento, una letteratura autonoma nell’idioma locale, che si sviluppa attraverso i secoli con una chiara consapevolezza della propria continuità e autonomia, sollecitando a più riprese programmi di défense et illustration del genovese, come “lingua del paese” contrapposta più o meno polemicamente all’uso dello “straniero” toscano: il jayro vorgà çenoeyse (“chiaro volgare genovese”, secondo una ricorrente formula trecentesca) si presenta costantemente come protagonista della vita culturale ligure, in aperta e spesso vincente concorrenza con l’italiano soprattutto nei termini dell’identificazione nella langue du pays dello strumento più idoneo a rappresentare i tratti costitutivi della specificità locale. Queste dinamiche sono particolarmente attive tra il Cinque e il Settecento, quando la promozione del genovese diventa un elemento strategico per la definizione ideologica di un’“alterità” promossa da una classe dirigente che si affanna a divulgare l’immagine di una Repubblica caratterizzata dall’originalità delle proprie istituzioni e dalle peculiari manifestazioni della propria “libertà”. Se consideriamo il fatto che i depositari di questa impostazione, ossia i poeti e gli altri autori che scrivono in genovese, appartengono nella stragrande maggioranza al ceto notarile, a diretto contatto con le memorie storiche e con le testimonianze linguistiche del medioevo, possiamo capire perché quella genovese, con i suoi caratteri di continuità, assomigli poco al “canone” concettuale che siamo abituati ad attribuire, in Italia, alla categoria di letteratura dialettale. D’altro canto, gli usi “alti” del genovese nelle discussioni politiche, in senato, nei tribunali, dureranno fino alla caduta della Repubblica (1797-1805) condizionando, assieme alla percezione dell’internazionalità dell’esperienza linguistica ligure nel Mediterraneo, anche i successivi, per quanto velleitari, tentativi di nobilitazione: la Liguria è così l’unica regione italiana, a quel che mi consta, a esprimere nella seconda metà dell’Ottocento un poema “nazionale” scritto nella lingua locale, al seguito dell’esperienza felibristica provenzale e anticipando di diversi anni quella catalana; ed episodi come la pubblicistica e il romanzo, o la traduzione non parodica della Divina CommediaChe l’inseBalilla); ma agendo al tempo stesso in maniera sistematica per una dequalificazione del genovese, attraverso meccanismi di persuasione che coinvolsero lo stesso panorama culturale e artistico locale, come nel caso del teatro di Gilberto Govi, che meglio di tante altre agenzie diffuse un’immagine degli usi linguistici locali (opportunamente italianizzati) stereotipata, passatista e dequalificata. Il periodo postfascista, caratterizzato anche dalle forti irrequietudini sociali di una città che negli anni Settanta venne investita in pieno dalla stagione del terrorismo, fu a sua volta caratterizzato dall’atteggiamento spesso francamente dialettofobo di una parte dell’ambiente intellettuale e accademico, che intepretò, ad esempio, il persistere delle tradizioni linguistiche locali come una forma di auto-ghettizzazione della classe operaia: di questo ha risentito non poco la ricerca, che si caratterizza a Genova per un clamoroso ritardo a fronte dell’indiscutibile ricchezza storica, documentaria e attuale del patrimonio linguistico-letterario regionale. Con tutto ciò, i dialetti liguri e il genovese in particolare denotano ancora una discreta vitalità in una molteplicità di usi, anche in ambito artistico, circostanza che spesso compensa in qualche modo, come accennavo, l’indiscutibile crisi delle funzioni comunicative. La letteratura in genovese, tradizionalmente lontana nei suoi esiti più alti da modalità “dialettali” continua così a produrre in poesia e in prosa esiti di eccellenza purtroppo assai poco divulgati; la canzone, da De Andrè in poi, si è profondamente rinnovata; è rinata di recente attraverso una pagina settimanale del principale quotidiano regionale una pubblicistica in genovese che interessa ed attrae un pubblico eterogeneo di lettori. A loro modo, sono tutti segnali interessanti di vitalità. di (1909) sono indizi importanti del fatto che, fino al fascismo almeno, il genovese non fu percepito in tutto e per tutto come varietà “subordinata” all’italiano. Ciò detto, gli ultimi due secoli, e la seconda metà del Novecento in particolare, segnano il netto e convinto orientamento della società ligure in direzione della cultura italiana (cosa non del tutto scontata, ad esempio, nel periodo barocco, quando l’influenza spagnola fu particolarmente vistosa), e l’adeguamento non meno convinto a modalità linguistiche di maggior prestigio, che, a partire dalla borghesia, defluiscono facilmente (a partire soprattutto dagli anni Settanta) verso gli strati popolari, particolarmente quelli urbani. Teniamo anche conto del fatto che la Liguria, entità per certi aspetti non territoriale, usufruisce meno di altre regioni di “serbatoi” di conservatività linguistica, col suo entroterra semispopolato, con la sua portualità internazionale e con le due Riviere da oltre un secolo costantemente aperte all’accoglienza di un turismo cosmopolita. Ne risulta una regione “poco dialettofona”, anche in base alle statistiche, ma nella quale il retaggio storico ha sempre garantito, soprattutto al genovese, un significativo prestigio: il “complesso di patois” vi è del tutto assente, per quanto la fase cruciale tra gli anni Trenta e Sessanta del secolo scorso abbia determinato un progressivo ridimensionamento di questa percezione. Sotto questo punto di vista il fascismo operò in maniera ambigua, dimostrando nei confronti dei dialetti liguri (utili per legittimare le pretese irredentistiche sul Nizzardo e sulla Corsica e per il raccordo con le comunità immigrate in America Latina) una singolare tolleranza, fino all’assunzione indebita di miti locali variamente intrisi di umori linguistici autoctoni (ilChe l’inseBalilla); ma agendo al tempo stesso in maniera sistematica per una dequalificazione del genovese, attraverso meccanismi di persuasione che coinvolsero lo stesso panorama culturale e artistico locale, come nel caso del teatro di Gilberto Govi, che meglio di tante altre agenzie diffuse un’immagine degli usi linguistici locali (opportunamente italianizzati) stereotipata, passatista e dequalificata. Il periodo postfascista, caratterizzato anche dalle forti irrequietudini sociali di una città che negli anni Settanta venne investita in pieno dalla stagione del terrorismo, fu a sua volta caratterizzato dall’atteggiamento spesso francamente dialettofobo di una parte dell’ambiente intellettuale e accademico, che intepretò, ad esempio, il persistere delle tradizioni linguistiche locali come una forma di auto-ghettizzazione della classe operaia: di questo ha risentito non poco la ricerca, che si caratterizza a Genova per un clamoroso ritardo a fronte dell’indiscutibile ricchezza storica, documentaria e attuale del patrimonio linguistico-letterario regionale. Con tutto ciò, i dialetti liguri e il genovese in particolare denotano ancora una discreta vitalità in una molteplicità di usi, anche in ambito artistico, circostanza che spesso compensa in qualche modo, come accennavo, l’indiscutibile crisi delle funzioni comunicative. La letteratura in genovese, tradizionalmente lontana nei suoi esiti più alti da modalità “dialettali” continua così a produrre in poesia e in prosa esiti di eccellenza purtroppo assai poco divulgati; la canzone, da De Andrè in poi, si è profondamente rinnovata; è rinata di recente attraverso una pagina settimanale del principale quotidiano regionale una pubblicistica in genovese che interessa ed attrae un pubblico eterogeneo di lettori. A loro modo, sono tutti segnali interessanti di vitalità.

Esiste nella realtà una varietà “ligure” e quanto questa si differenzia rispetto al genovese? Vi sono elementi di derivazione provenzale e/o piemontese?

Ho usato spesso, in questa conversazione, la formula “genovese e ligure”, con la quale ho inteso sottolineare il diverso peso storico, culturale e sociale della varietà cittadina, la “lengua zeneise”, rispetto alle varietà locali. Come ogni contesto regionale, anche quello ligure si caratterizza infatti per una forte variazione diatopica, che viene progressivamente meno a mano a mano che ci si avvicina al “centro” genovese, area innovativa per eccellenza. Dalla periferia occidentale di Savona fino a Sestri Levante sulla costa, così, i dialetti appaiono decisamente orientati sul modello urbano, secondo modalità koinizzanti che si estendono anche alle aree circostanti, soprattutto dell’entroterra, dove questo “genovese” convive spesso, nell’uso, con l’italiano e con varietà più eccentriche, in condizioni di macrodiglossia. A mano a mano che ci si allontana da Genova, emergono invece caratteristiche peculiari ed arcaiche, spesso con significative convergenze tra le due ali estreme della Liguria, dove lo spezzino e il ventimigliese, ad esempio, conservano ancora alcuni tratti del genovese medievale, noti attraverso la documentazione letteraria.  Oltre a ciò, gli antichi centri amministrativi e mercantili delle due Riviere e dell’entroterra rivelano spesso, nella loro parlata, una più decisa connotazione in senso “genovesizzante” rispetto alle aree circostanti, con la conseguenza che la varietà urbana mostra di avere agito da un lato in senso centripeto, favorendo il processo di amalgama dei dialetti liguri e la loro percezione unitaria (“genovese” è la denominazione complessiva con la quale il ligure romanzo continua a essere prevalentemente noto), dall’altro in senso centrifugo, accentuando la differenziazione tra le varianti cittadine e i rispettivi contesti rurali. Non esiste quindi un tipo ligure, ma il carattere dei dialetti liguri è molto ben definito da una serie di isoglosse, che ne determinano la netta autonomia verso il tipo provenzale e quello toscano ai due estremi, ma anche rispetto alla galloitalicità settentrionale, dalla quale il tipo ligure si differenzia per numerosi e significativi aspetti, a partire dalla conservazione delle vocali atone e finali, fino a “fenomeni-bandiera” come l’indebolimento fino alla caduta di –r– intervocalica o le palatalizzazioni “spinte” dei nessi PL-, BL-, FL- (cianze ‘piangere’, gianco ‘bianco’, sciamma ‘fiamma’), tratto quest’ultimo che ha, come del resto la robustezza delle vocali, significative assonanze centro-meridionali, puntualmente confermate anche a livello morfologico e lessicale. D’altronde, al di là dello spartiacque che divide la Riviera ligure da un mondo “padano” tradizionalmente sentito come “altro”, i dialetti ancora liguri delle alte valli digradano progressivamente verso il piemontese, il lombardo e l’emiliano, così come non vi è una decisa soluzione di continuità tra le parlate liguri orientali e i dialetti (ancora settentrionali, ma a se stanti) della Lunigiana. Tra Liguria e Provenza passa invece uno dei confini linguistici forse più netti dell’intera Romània, che distanzia nettamente il tipo ligure da quello occitano, lasciando alla varietà italoromanza l’alta valle del Roia con Briga, Tenda, Breglio e Saorgio e il distretto di Mentone oggi in territorio francese. Parlare di elementi di “derivazione” piemontese o provenzale non è quindi corretto, al di là di singoli fenomeni lessicali (non meno significativi di quelli che sottolineano la reciprocità dell’influsso ligure in piemontese, in nizzardo e così via), mentre ha senso ricordare, come si diceva, l’esistenza di varietà “miste” sul versante padano, col prevalere spesso di componenti liguri anche al di fuori dei confini amministrativi: in alta Val Tanaro ad esempio (Briga Alta, Ormea, Garessio in provincia di Cuneo), nel cosiddetto Oltregiogo (a sud della linea Novi Ligure – Ovada in provincia di Alessandria), nelle alte valli emiliane della Trebbia e del Taro.

In che cosa consiste il concetto di “lingua polinomica” e a quali parlate può essere applicato relativamente all’area geografica italiana?

Il concetto linguistico di polinomia è stato elaborato negli anni Ottanta dal sociolinguista corso Jean-Baptiste Marcellesi con specifico riferimento al contesto isolano: nella difficoltà di identificare univocamente una “corsicità” dialettale, ma prendendo atto che l’esistenza di una “lingua corsa” corrispondeva alle esigenze identitarie e percettive della popolazione, lo studioso definì il corso come l’insieme delle varietà dialettali tradizionalmente parlate sul territorio, in quanto frutto di una volontà collettiva dei locutori di riconoscerne l’unitarietà. Si definisce quindi “polinomica” una lingua che, pur priva di uno standard riconosciuto, istituisce relazioni dinamiche con altri idiomi (soprattutto con quelli dominanti, nel caso specifico il francese) manifestando la sua autonomia indipendentemente dalla propria unità strutturale. La definizione supera quella di “sistema dialettale” nella misura in cui la lingua polinomica afferma la propria autonomia rispetto al “tetto” sovraordinato, eludendo i rischi di un equivoco ricorrente nella definizione di “dialetto” come concetto sociolinguistico, secondo l’interpretazione (piegata anche a considerazioni di carattere storico-culturale) che prevale ancora nel contesto italiano: un sistema dialettale che non sia geneticamente subordinato a una lingua può così affermare in linea di principio la propria autonomia anche in mancanza di uno standard di riferimento da contrapporre alla lingua egemone. Il concetto di polinomia non è quindi semplicemente un modo “politicamente corretto” di ridefinire la varietà dialettale di un’area, perché implica una presa di coscienza collettiva e l’instaurarsi di relazioni dinamiche con il codice sovraordinato. In questo senso sono lingue polinomiche le varietà dialettali i cui parlanti ne riconoscano collettivamente, anche attraverso un glottonimo univoco, la parentela di fondo, promuovendo un percorso comune di confronto rispetto alla lingua tetto. Questo modello implica però un’attitudine “militante” dei parlanti, o almeno di una parte visibile e significativa di essi, e sfugge quindi a un’applicazione sistematica ai singoli casi. È certamente una lingua polinomica il corso, ad esempio, e potrebbe definirsi tale il sardo, nel momento in cui vi fosse unanime consenso sull’esigenza di tutelarlo nelle sue varianti e non a partire da uno standard unificato. Nei processi attuali di promozione della tutela e rivitalizzazione di alcune varietà italoromanze, direi che l’attitudine polinomica si sta sempre più affermando, in maniera più o meno consapevole, mentre l’impostazione “occitanista” presente nel sud della Francia, ad esempio, che prevede l’affermazione di uno standard comune alle diverse aree regionali, collide con questa impostazione che è cara al contrario ai “provenzalisti”, sostenitori della tutela delle singole varietà, o quanto meno dell’elaborazione di diversi standard locali. D’altro canto un’impostazione polinomica esiste di fatto, anche precedentemente all’introduzione del concetto da parte di Marcellesi, nella realtà linguistica delle valli grigionesi, dove la definizione comune delle varietà neolatine locali (il romancio, rumantsch) non esclude la promozione delle diverse varietà locali: in questo caso anzi l’elaborazione di una varietà comune sovraordinata (rumantsch grischun) si è rivelata fallimentare, nella percezione dei parlanti, ai fini della elaborazione di una politica complessiva di tutela. In chiave glottopolitica e sociolinguistica il concetto linguistico di polinomia non è quindi privo di efficacia, garantendo pari dignità e prospettive comuni di sviluppo alle diverse varianti che si riconosco sotto un’unica denominazione. Resta peraltro incerto lo statuto polinomico di quei sistemi dialettali (come quello ligure o quello piemontese) in cui una parlata storicamente più forte delle altre può aspirare a essere considerata la varietà “di riferimento” dell’intero sistema, senza necessariamente esercitare, con ciò, un ruolo di “tetto” sulle varianti locali.

Lei si è occupato anche della lingua delle relazioni di missionari italiani in Africa nei secoli XVII-XVIII: cosa può dirci lo studio di queste fonti, insieme a quello dei diari e delle memorie, sulla storia della nostra lingua (e/o su quella delle lingue europee) e quali problematiche possono presentarsi nella valutazione dell’importanza del lessico che vi è impiegato?

In realtà si tratta di un tema che ho soltanto saggiato, a partire da alcuni esempi concreti e specifici, nell’ambito del mio più generale interesse per il contatto linguistico: mi interessava infatti verificare la possibilità che una lingua come l’italiano, sostanzialmente priva di una consistente proiezione extraeuropea ed extramediterranea, si dimostrasse in grado di assumere, per singoli segmenti semantici e in particolari situazioni, quote significative di lessico esotico. Da qui le considerazioni  che in alcuni saggi ho dedicato allo statuto degli esotismi diretti, diverso da quello degli esotismi assunti per il tramite di altre lingue europee, nell’ambito di una riflessione complessiva sui concetti di etimologia prossima ed etimologia remota. Il lessico delle relazioni dei missionari nell’antico Regno del Congo (secc. XVI-XVIII) è particolarmente interessante sotto questo punto di vista perché dimostra la “costruzione” di un vocabolario tecnico-specialistico di origine esotica, assunto direttamente in italiano senza il tramite del portoghese; tuttavia, esso conferma al tempo stesso l’occasionalità di questi episodi di contatto linguistico di fronte alla preponderante assunzione di esotismi per via indiretta. Anche alla luce di ciò preferisco considerare a sé la categoria degli orientalismi lessicali, che introduce un apporto diretto e significativo nell’area italoromanza secondo modalità alquanto diverse da quelle che caratterizzano, ad esempio, l’assunzione prevalente di africanismi, amerindismi, nipponismi e così via: un termine arabo o turco passato direttamente in genovese, in siciliano, in veneziano, in italiano, ci racconta infatti una storia enormemente diversa di relazioni economiche, sociali e culturali rispetto a quella di una voce congolese o giapponese, anche se casualmente assunta per via diretta; figuriamoci allora nel caso, assolutamente prevalente, in cui gli esotismi arrivano in Italia attraverso lo spagnolo, il portoghese, il francese o l’inglese: in tali circostanze, il principio della prevalenza dell’etimologia prossima ai fini valutativi fa sì, secondo uno schema perfezionato tra gli altri da Žarko Muljačić, che queste voci siano da considerare prima di tutto ispanismi, lusismi, gallicismi o anglismi, con tutte le conseguenze, quantitative e qualitative, che ne risultano. Tuttavia su questo punto, come dicevo, la mia riflessione è stata fin qui piuttosto episodica, anche per il fatto che sulle scritture in lingua italiana (e nelle lingue d’Italia, per dirla ancora con Banfi) prodotte storicamente in contesti latamente “esotici”, c’è ancora molto da fare. Lo stesso ruolo dell’italiano come lingua diplomatica nel Levante, studiato da Francesco Bruni, tra gli altri, in alcuni importanti lavori, non è stato ancora oggetto di ricognizioni sistematiche, figuriamoci quindi le corrispondenze o i diari, ad esempio, di viaggiatori, missionari, mercanti italiani attivi in paesi remoti. Tempo fa, occupandomi di retrodatazioni, documenti di questo genere si erano rivelati assai promettenti per verificare la precocità nell’assunzione di alcuni esotismi di area malese e amerindia, ma questo tipo di ricerche meriterebbe una sistematicità tale da richiedere l’apporto collettivo e costante di diversi ricercatori impegnati nell’individuazione e nello spoglio delle fonti, con esigenze evidenti di contestualizzazione storica, di esegesi filologica, di approfondimento etimologico e così via. Per fortuna i giovani volenterosi e preparati non mancano, in questo come in altri campi, ed è quindi fondata la speranza che su molti temi affascinanti si possa costantemente tornare “in forze”, per assicurare alla ricerca linguistica quella continuità e quel progresso che da sempre ne fanno una delle discipline più dinamiche dello scibile, in ambito umanistico soprattutto.

ALBUM FOTOGRAFICO - LEUDI DA LAVORO

... Trasportavano sabbia

... Trasportavano botti di vino

Leudo "vinaccere"

... scarico delle botti in mare

A cura del webmaster Carlo Gatti

Rapallo, 2 Maggio 2018