NATALE ALLA GENOVESE – 2015

 

 

Genova – Piazza De Ferrari

 

La data del 25 Dicembre fu anticamente scelta dalla Chiesa romana perché coincidente con il tempo dell’allora festeggiatissimo solstizio d’inverno raggruppandovi anche il Natale, il Capodanno e l’Epifania. I pagani solennizzavano il solstizio come <dies natalis soli invicti, così come aveva decretato nel III secolo l’Imperatore Aureliano, per ufficializzare la rinascita del sole; da quel momento, infatti, le giornate tornano ad allungarsi.  Prima di allora tutto l’Impero romano e pure da noi, in Liguria, fino alla conquista longobarda guidata da Re Rotari ( VII secolo), la data del Capodanno era festeggiata il primo giorno di Settembre.

 

In questo modo la prima ricorrenza si sovrappose, senza contrastarla, su quella pagana molto cara agli antichi romani e ormai inveterata nelle genti contadine.

 

Da uno scritto si apprende che nel 336 il Natale lo si festeggiava già il 25 Dicembre; invece per i tre secoli precedenti lo si era celebrato il 6 Gennaio, oppure  il 21 Marzo o addirittura il 25 dello stesso mese.

 

L’antica festa per la semina del grano si è tramutata quindi nella celebrazione del germogliare nella grotta di Betlemme , del pane del mondo: Gesù.

 

D’altro canto in tempi più recenti al ferragosto è stata sovrapposta la festa dell’Assunzione della Santa Vergine e, al primo Maggio, la ricorrenza di San Giuseppe artigiano,

 

E’ facile capire che tutto il ciclo natalizio, che inizia con la festa di San Martino, l’11 Novembre, anticamente festeggiato quasi fosse un giovedì grasso a suggellare e ringraziare per il trascorso anno agricolo, finisca con l’Epifania, cosi che anziché cancellarle, subentrò alle antiche radici pagane. Lo fece trasformandole in ciclo per esaltare e meditare sul grande mistero del Dio  fattosi uomo per la salvezza dell’uomo. L’antico spirito“gentile”delle feste comunitarie campestri, fu così elevato a dialogo con il Creatore.

 

Anche se la ricorrenza del Natale la ritroviamo a fine Settecento codificata nelle città presso le classi abbienti, nella realtà trae le sue origini da quel mondo contadino mite e lavoratore che ogni anno e in quel giorno rinforzava, con la coralità dei riti, i legami famigliari; il convivere in armonia del nucleo domestico è alla base della coesione comunitaria che è poi sempre stato il segreto della forza del mondo rurale. Quei riti si sono ripetuti per anni quasi fossero immutabili.

 

Tutto, o quasi, sarebbe invece bruscamente cambiato in concomitanza della seconda guerra mondiale. Tornata la pace, infatti, l’aver dovuto forzatamente conoscere e convivere per anni con uomini dalle più disparate nazionalità, influenzò fortemente anche le nostre usanze. Ne è esempio l’adozione dell’albero di Natale; se si esclude qualche marittimo che lo aveva già visto in America, l’attuale presso di noi lo introdussero le truppe tedesche durante la loro occupazione.

 

E adesso che abbiamo “chiarito” le date, vediamo come, nelle case del genovesi to lo si festeggiava. Per trovare ancora quella genuinità, non ci resta che risalire a quando i genovesi erano ancora un clan coeso e prima di essersi imparentati con i “furesti.

 

Alla vigilia della festa tutta la Comunità si riuniva “in pompa magna”per dare vita alla molto sentita ricorrenza Civica del Confuoco, Corsica e Caffa comprese, La presenza del ceppo di alloro che ardeva durante la cerimonia, le cui ceneri portavano buono, ha origini lontanissime. Poi, alla sera della vigilia, tutti alla Messa di mezzanotte o Messa Santa, poi a casa o per strada, per rinfrancarsi dal freddo, gustando un qualcosa di caldo anche perché, quel giorno, si era rispettato il “digiuno” pranzando con la sola minestra a base di cavoli neri.

 

 

La “Sbira”

 

Il termine “sbirri” non era certamente un termine spregiativo, anzi significava “uomini d’ordine”, tale titolo poteva benissimo illustrare un cibo da loro tanto gradito nelle notti di lavoro.

 

La “Sbira” veniva servita in un piatto fondo, con un crostino di pane,  la trippa cotta in umido e aggiunta di brodo di carne o vegetale.

 

 

Palazzo Ducale

 

La mattina di Natale invece abbondante colazione con “trippa alla sbira”, il rancio degli Sbirri di Palazzo Ducale, con crostoni di pane. Solo alle cinque del pomeriggio cominciava il vero pranzo che finiva a sera avanzata. Il rito prevedeva che il padrone di casa desse tutte le mandate alla serratura: da adesso in poi festa riservata alla famiglia. Mentre il papà era impegnato a chiudere la porta, la mamma di nascosto metteva, ripiegata, la letterina di Natali scritta dal più piccolo che aveva appena imparato, sotto il piatto di papà che, a fine pasto, la “scopriva”. O la leggeva lui, tossendo per non far trapelare la commozione o la leggeva l’autore stesso, ritto in piedi su di una seggiola. A fine pasto poi, con gli avanzi di quella lunga cena, le donne preparavano poi i ravioli e il menù per il giorno dopo, Santo Stefano.

 

Maccaröin in broddo

 

Il pranzo di Natale proponeva, come primo, gli eterni “maccaröin in   broddo”, cioè cannelloni lunghi 7 o 8 centimetri cotti in brodo di cappone rinforzato con un po’ di salsiccia, magro di manzo e fegatini di pollo.

 

Cappön magro

A seguire,  nelle famiglie abbienti il mitico  “cappön magro” mentre il vero cappone, il gallo castrato per tempo, allevato ed ingrassato in casa sotto i förnelli, costituiva la terza (o seconda) portata con cipolline e patate. La carne era presente nei vari brodi e un pezzo di polpa magra veniva riservato per fare il “töcco”, cioè il lento sugo per i ravioli del giorno dopo.

 

 

Berodo

 

A seguire  i “berodi” i sanguinacci che il macellaio regalava ai buoni clienti; poi il “bibbin-a a storiön-a” oggi in disuso (cucinata come fosse uno storione, da cui il nome), quindi le scorzonere  di Chiavari “radicce de Ciavai. Quindi i fritti , inizialmente solo gli “stecchi” poi allargatisi sino a  divenire fritti veramente misti.

U pan-döce

 

Sul finire gli immancabili mandarini, la frutta secca e candita in attesa che arrivasse il re del pranzo: u pan-döce . Era fatto rigorosamente in casa e cotto dal vicino fornaio, perché in commercio non esisteva. Veniva portato a tavola, in certe famiglia era già presente sino dall’inizio, con l’immancabile ramoscello di alloro piantato al centro dei tre tagli a triangolo che il più giovane levava ma a tagliarlo spettava al più anziano, che poi lo distribuiva, trovando per ognuno una appropriata battuta divertente. I vini bianchi erano di Liguria mentre i rossi del basso Piemonte. Infine il giorno dopo, il giorno più atteso dai giovani, facevano la loro comparsa i ravioli che le donne contavano mentre li preparavano, così che il giorno dopo, incontrandosi,  enumeravano quanti nella loro famiglia ne avevano consumato: un antico vezzo. Per il resto, il menu del giorno di Santo Stefano, era costituito dagli avanzi di quanto non consumato il giorno prima, Natale.

 

Sembra strano ma tutte quelle pantagrueliche abbuffate, consumate in famiglia fra le mura domestiche, non toglievano nulla alla sacralità della festa: anzi !!!!

 

Il Porto Vecchio di Genova

 

Oggi invece è sempre più un brulicare di auto e gente esasperata che si insulta per parcheggiare, ossessionata di capire se il frullare irritante del telefonino è il proprio o quello del vicino. Poi tutti ad ammucchiarsi vocianti negli affollati ristoranti, tentando di ritrovare quello ch inesorabilmente vanno perdendo e che con questo loro atteggiamento continuano, generazione dopo generazione, a distruggere.

 

Renzo BAGNASCO
Da <<Natale in Liguria – Tradizioni e menù – Bagnasco Boccalatte – Sagep Editore>>

 

Carlo GATTI

Presidente di Mare Nostrum Rapallo

Augura BUON NATALE

A tutti i Soci e

 

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A cura di

Carlo GATTI

 

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Rapallo, 25 Novembre 2015