IL PORTO DI TRAIANO

ROMA

Echi di manovre dal  porto  di Roma antica…

Testimonianze del servizio di pilotaggio si trovano in documenti del IV millennio avanti Cristo.

Nell’antica  Ur, in Caldea, una delle più importanti città-stato della civiltà  Sumerica, ai tempi d’Abramo, esistevano i piloti. Ur con i suoi moli e banchine, fu il grande scalo marittimo di quello Stato.

Nella più antica raccolta di leggi marittime, il Codice di Hammurabi, re di Babilonia (2285 a.C.), è stabilito sia il compenso per le prestazioni del pilota: due sicli, sia le sanzioni cui i piloti medesimi andavano soggetti in caso di naufragio o danni colposi. Il testo legislativo è giunto fino a noi inciso in caratteri cuneiformi su una stele scoperta a Susa (Persia) nel 1901 e conservata al Museo del Louvre a Parigi.

Coinvolti dal fascino del mondo antico,  ci portiamo ora nel centro del mare nostrum per scoprire qualcosa di più concreto e ci caliamo  in un sito archeologico del Lazio per una breve, ma “curiosa” escursione attraverso l’antica marineria di Roma.

Milioni di turisti hanno visitato le imponenti rovine del Porto fluviale di Ostia Antica. Al contrario, molto meno frequentata risulta essere quella zona archeologica attigua a Fiumicino che è visibile alcuni istanti prima d’atterrare all’aeroporto, quando l’occhio è catturato da un lago esagonale, non lontano dal mare.

La vasta area che fu dei Torlonia, appartiene da qualche decennio al Comune di Roma ed è visitabile:  si tratta del Porto di Claudio (ancora parzialmente interrato) e del lago artificiale, chiamato Porto di Traiano che fu per cinque secoli l’approdo di favore della capitale dell’Impero.

Ciò che s’identifica oggi del complesso portuale, è soltanto il perimetro formato dalle  sue linee banchinate, che tuttavia, è sufficiente a regalarci qualche emozione quando proviamo ad immaginare ciò che poteva essere sia il funzionamento degli impianti che l’organizzazione del lavoro.

Il prezioso monumento di “archeologia commerciale” ante litteram rappresenta, almeno per noi marittimi, il primo esempio di “portualità integrata” della storia.

La sua nascita ebbe luogo  per superare il declino dello scalo  di Ostia.

Lo straordinario progetto fu concepito e realizzato dall’ingegneria romana (tra cui il celebre architetto Vitruvio) per risolvere un duplice problema: gli approvvigionamenti della sempre più popolosa metropoli e i danni provocati dagli straripamenti del Tevere, dalle sue inevitabili deviazioni e insabbiamenti cagionati ai  bacini portuali della regione.

Nel periodo di massimo splendore, Roma doveva sfamare un milione d’abitanti e le navi dell’epoca, provenienti dalle province Imperiali, convergevano verso il  modesto ed insicuro porto fluviale di  Ostia. Fu l’imperatore Claudio che in seguito ad un’ennesima carestia di grano diede inizio verso il 42 d.C. a quello che sarebbe stato il più grande porto dell’Impero: il Porto di Claudio che in seguito si allargherà nella splendida opera che prenderà il nome di Porto di Traiano.

F.1 – Cartina con la posizione del porto di Claudio e di quello di Traiano rispetto alla città di Ostia, alla Foce del Tevere e all’Isola Sacra.

F.2 – Porto di Roma – Ricostruzione planimetrica (arch. I. Gismondi)

L’opera di Claudio consisteva in un bacino ricavato per la maggior parte su terraferma con grandi scavi e prolungato sul mare con la costruzione di lunghi moli. Il bacino aveva un fondale sabbioso variante tra i 4 o 5 metri, che permetteva l’ancoraggio e l’ormeggio delle grandi navi da carico.

Completava l’opera portuale una grande “fossa”, il braccio destro del Tevere, più tardi chiamata anche Fossa Traiana.

L’apertura dei canali di collegamento col Tevere fu provvidenziale non soltanto per il trasporto fluviale a Roma delle merci, con l’alleggerimento del traffico lungo la Via Portuense, ma anche perché favorì il deflusso del fiume, liberando Roma dal pericolo di periodiche inondazioni, come dice un’iscrizione in onore di Claudio trovata in situ.

Lo spazio d’acqua racchiuso nella grandiosa opera di Claudio, aveva una superficie di circa 900.000 mq. – un’ampiezza di circa 1100 m. – le banchine dovevano sviluppare nel loro assieme 2500 m. – permettendo l’ormeggio di oltre 300 navi.

Per dare un’idea della vastità dell’area riportiamo, per un rapido confronto, l’Area totale del porto di Voltri (Genova) = 1.050.000 metri quadrati.

I moli a tenaglia che chiudevano l’ampio bacino erano costituiti da enormi blocchi di travertino, uniti tra loro da robuste grappe di ferro e da perni.  Ciascun blocco aveva un peso medio di 6 o 7 tonnellate. L’imboccatura aveva un’apertura di 200 metri.

I lavori per il porto di Claudio durarono quasi 12 anni.

Plinio il Vecchio racconta che il Faro del porto di Claudio aveva una struttura a tre o più ripiani, poggiava su una specie d’isola artificiale realizzata con l’affondamento della nave di Caligola che era servita per il trasporto dell’obelisco vaticano dall’Egitto.

I rilievi eseguiti dopo il ritrovamento del sito hanno contribuito al  riconoscimento della nave e delle sue caratteristiche, coincidenti peraltro con l’antica documentazione storica. La nave aveva una lunghezza di 110 metri, una larghezza di 20,30 e sei ponti. Il suo dislocamento era di 7.400 ed aveva un equipaggio di 700-800 uomini.

Le misure di questa nave, in verità molto speciale per l’epoca, ci richiamano alla mente  i celebri “Liberty” che, partendo da quell’incerto dopoguerra,  scalarono il nostro porto ancora per due decenni e siamo in tanti a ricordare che quei “brutti anatroccoli” di Roosevelt  prendevano il Pilota, due rimorchiatori e due squadre di ormeggiatori, sia all’arrivo che alla partenza.

Chapeau! Ai nostri avi romani per la loro organizzazione portuale, l’abilità nautica e per l’invenzione di quelle tecniche operative che gli permisero  di compiere le stesse manovre che noi oggi ripetiamo con tanta sufficienza….!

Entro pochi decenni, purtroppo, le strutture del porto di Claudio non furono più adeguate a sostenere la violenza del mare; il bacino non offriva sufficiente protezione alle navi ed era continuamente soggetto ad insabbiamento per i sedimenti che si accumulavano nella foce del Tevere. Tutto ciò mise in crisi il suo funzionamento, e già nel 62 d.C. Tacito ricordò che “duecento navi andarono distrutte nel porto per una violenta tempesta”.

Tutto ciò non deve meravigliarci più di tanto: anche noi genovesi, esposti al libeccio, siamo stati testimoni di quanto successe nel 1955, allorché una tempesta da SW distrusse 400 metri di diga dello scalo genovese e causò l’affondamento di due navi, l’esplosione di una terza, oltre agli innumerevoli danni alle strutture portuali.

Il porto di Traiano, completamente artificiale, fu realizzato circa cinquant’anni dopo il porto di Claudio, in un primo tempo per completarlo e poi per sostituirlo definitivamente; esso fu il risultato di grandi scavi realizzati nell’entroterra allo scopo di assicurare un assoluto riparo alle navi. Era in comunicazione col mare attraverso il porto di Claudio, che venne così ad assumere la funzione di porto esterno, e fu collegato al fiume per mezzo di un canale navigabile e banchinato.

Il bacino interno ebbe forma esagonale con una profondità di 5 metri ed una superficie di 330.000 mq.

 


F.3 – Il Porto di Traiano. Ricostruzione plastica di I. Gismondi.  (Museo di Porta S.Paolo)

Oggi, una moltitudine di pescatori si aggira lungo le banchine d’ormeggio, ancora corredate di bitte e golfali e forse, nonostante la presenza di ruderi importanti, soltanto qualche studente prossimo alla laurea riesce  ad immaginare l’imponenza di quei magazzini alti cinque o sei piani (horrea), che facevano da sfondo ai cantieri per le riparazioni e l’allestimento delle navi ed assistevano alle operazioni di sbarco ed imbarco delle merci sulle grandi navi onerarie dei naviculari.

A diretto contatto con le strutture portuali si sviluppò un centro abitato, che divenne grande quanto la stessa Ostia: la città di Porto.

F.4Il Porto di Traiano. Ricostruzione grafica dei magazzini. Disegno di G.Caraffa. (Museo della Civiltà Romana)

Le navi cariche di merci contenute in migliaia di anfore, i containers dell’epoca,  ormeggiavano sia nel porto di Claudio che in quello di Traiano. Lo stoccaggio avveniva nei magazzini e la mercanzia era trasportata a Roma, sia  risalendo il fiume tramite il piccolo cabotaggio, oppure via terra  sulla  Portuense, fino ai depositi  fluviali del Testaccio, Ripetta ecc…

Se si pensa che il commercio marittimo dell’antichità si svolgeva soltanto nei mesi di “tempo assicurato” possiamo immaginare quanto dovevano essere congestionate le banchine, i moli, le calate e i canali di quell’immenso bacino portuale.

A partire dal 44 d.C., quando furono nominati due procuratores annonae, i quali dipendevano direttamente dal Prefetto dell’Annona di Roma, le imprese private furono gradualmente assorbite dall’organizzazione ufficiale dello Stato.

Una numerosa schiera di dipendenti aveva i compiti di provvedere al controllo delle merci in arrivo, alla verifica delle qualità e della quantità, di sovrintendere alle distribuzioni, al magazzinaggio, alla conservazione, di provvedere ai pagamenti e curare i contratti con le numerose agenzie di trasporto navale e terrestre, di mantenere i rapporti con le provincie produttrici di mercanzie primarie quali il grano, l’olio, il vino ecc.

Ai dipendenti dello Stato faceva riscontro un gran numero di lavoratori autonomi:  muratori e carpentieri attendevano alla manutenzione del porto e delle banchine, alla riparazione delle navi e alla costruzione d nuove; altri operai erano addetti al carico e allo scarico delle merci, i barcaioli ai traghetti sul Tevere e al piccolo cabotaggio. I palombari erano presenti ed adibiti al recupero delle merci affondate.

Questi lavoratori, artigiani ed operai, ottennero il permesso di associarsi e di scegliersi un rappresentante tra i cittadini più influenti, a volte anche fra gli stessi senatori; nacquero così le corporazioni, associazioni a carattere sindacale sorte per proteggere i diritti del lavoratore.  Questo  termine è tuttora in uso, proprio tra i piloti dei porti italiani.

In questo settore, alle notizie degli antichi storici si aggiunge ad Ostia una fonte archeologica, rappresentata da quel monumento unico nel suo genere, che è il cosiddetto Foro delle Corporazioni, il grande piazzale porticato che sorge alle spalle del Teatro.

Il porticato comprendeva in tutto 78 intercolumni ognuno dei quali era sede d’altrettanti uffici di Agenzie Marittime, imprese commerciali ecc..

Davanti a ciascun ufficio, sul pavimento del porticato, un mosaico indicava il genere di commercio ed il paese d’appartenenza dell’impresa.

Per un altro curioso raffronto, aggiungiamo che le Agenzie Marittime presenti oggi nel porto di Genova non superano il centinaio.

Ulpiano (III sec.d.C.) riferisce che “nessuna nave poteva entrare in un fiume senza il gubernator”, e dal contesto si capisce che con tale termine intendeva il pilota portuale, la cui attività ben si differenziava dal “magister navis”, dal “nauta”,  dal “proreta”, dallo “stratico”.

Piloti-mare, piloti-canale, piloti-porto, piloti-fiume? Conoscendo la razionalità degli antichi romani, ma soprattutto la loro pragmaticità, è molto probabile che le prestazioni di pilotaggio siano state diversificate per specializzazione ed espletate nei vari flussi di traffico portuale.


F.5Ostia – Foro delle Corporazioni: ricostruzione grafica dell’arch. C.A. Carpiteci, vista dal lato verso il Tevere.

Qui termina la nostra escursione e questo battito di ciglia  verso le nostre radici  mi suggerisce una breve riflessione:

Il comandante ed il pilota vengono da lontano e si tengono per mano sin dall’antichità. La loro lunga esistenza permane nel tempo per due semplici motivi, il loro impiego è legato al buon senso che è tipico della gente di mare; il loro destino è quello di cavalcare insieme, sempre, la tecnologia del tempo.

Carlo GATTI

Rapallo, 30.05.11