CAMALLI E CARAVANA


Statua simbolo dei CARAVANA


Caravana al lavoro

I porti si guardano da una parte all’altra degli oceani, si scambiano le navi che raccontano storie sempre nuove ma anche quelle antiche affinché non siano dimenticate.

Già! Forse tocca proprio a noi, anziani cantastorie dei porti, rinverdire qualche ricordo dei CARAVANA che a metà degli Anni ’60, (noi c’eravamo…) erano ancora in auge e calcavano, magari da pensionati, le calate del porto con il loro incedere pesante, robusto ma benevolo.


Un caravana…

Forse non tutti sanno, che i camalli, ovvero gli scaricatori del porto di Genova, della Compagnia dei Caravana, (progenitrice dell’attuale Compagnia Unica del porto), scioltasi nell’immediato dopoguerra provenivano, fin dal XIV secolo, in gran parte dalla Bergamasca, in particolare dalle valli Brembana, Brembilla ed Imagna, dove pare vivessero uomini fortissimi e giganteschi.

In un antico statuto della Repubblica di Genova, l’origine lombarda viene menzionata come conditio sine qua non per far parte della Compagnia:

“Niuno presumi di venir ammesso nella Caravana, se non sia di Bergamo. Mani grandi et anco gambi forti, per niuna ragione sentir la fatica ammesso”.

Ci eravamo già dedicati ai CARAVANA sul sito di Mare Nostrum Rapallo, avevamo trattato alcuni interessanti aspetti storici e legislativi; col presente articolo vorremmo approfondirne invece alcuni aspetti che oggi destano ancora stupore e qualche “curiosità” che vi elenchiamo.

1-CURIOSITA’

CAMALLO – SABIR

Prima di pronunciare la parola CAMALLO occorre sapere qualcosa sulla sua origine e provenienza. Il camallo, termine genovese camallu, derivato dall’arabo ammāl ‘portatore’, è lo scaricatore o facchino che operava sulle navi nel porto di Genova.

Per il trasporto su carrello il termine è rebellâ, appunto da rebellö, carretto con ruote.

I termini camallo e rebellö hanno assunto nel tempo anche una valenza metaforica per intendere persone dai modi non propriamente fini, o trasandate nel vestire o nel parlare.

Genova, scalo di prima grandezza, è stata la porta d’ingresso degli arabismi nella nostra lingua e soprattutto nel dialetto zeneize SABIR che girava il Mediterraneo in lungo e in largo e fu parlata come lingua franca per secoli fino all’imporsi della lingua inglese; parlato a bordo delle navi, in banchina e nei mercati, in tutti i contatti tra le categorie imprenditoriali e naturalmente tra gli equipaggi  in mare. Parole dialettali genovesi e veneziane che diventarono la lingua fu un idioma pidgin “di servizio” parlato in tutti i porti del Mediterraneo tra l’epoca delle Crociate e tutto il XIX secolo. La più diffusa e persistente era costituita principalmente da un lessico al 65-70% italiano (con forti influenze venete e liguri) e per un 10% spagnolo, con parole di altre lingue mediterranee, come arabo, catalano, greco, occitano, siciliano, e turco.

Sebbene il lavoro di scaricatore di porto abbia assunto con l’industrializzazione connotati differenti, il termine CAMALLO mantiene una sua forte valenza nella città degli affari, che rimane tuttora un cardine, ovvero la memoria storica di una categoria radicata nel porto e dotata anche di una sua connotazione politica nella vita della città portuale e non solo.

PICCOLO GLOSSARIO ITALIANO – GENOVESE


Uncino


 

Scaricare: scaregâ
Schiena:
schenn-a
Bicibiti:
bacchette
Uomo  con molta forza:
forsa da  beu
Sbucciatura:
sgarbeleuia
Bernoccolo:
borlo
Trasportare a spalla:
camallâ
Forza:
forsa
Conoscere:
conosce
Antico:
antigo

2-CURIOSITA’

Come abbiamo già visto, dal medioevo (XIV Secolo) fino intorno al 1870, i “camalli” non erano genovesi bensì BERGAMASCHI, in quanto gli scaricatori genovesi precedenti, si erano consorziati in organizzazioni molto potenti che influenzavano non solo la vita del porto ma anche quella politica della città con conseguenti danni all’attività commerciale del porto stesso. Fu deciso e scelto di rivolgersi a dei “foresti” e la scelta cadde sui bergamaschi.

 


Lo scösalin da camallo

Il termine scösâ significa in genovese grembiule. Con l’espressione scösalin da camallo si intendeva identificare il gonnello blu indossato dai camalli sin dal medioevo, di tela di jeans, tessuto tipicamente genovese.

O scöselin era portato dai caravana e non dai camalli. I caravana erano i facchini ammessi dalla dogana ad operare negli appositi siti “franchi” ove la merce sostava in franchigia daziaria e poteva essere sottoposta a modifiche di imballaggio ecc., vedi merci preziose o soggette a particolari imposte come il caffè. Difficilmente nei depositi franchi si camallava come normalmente in altre zone del porto e per altre merci in transito normale.

3-CURIOSITA’

Religiosità


I camalli del porto di Genova furono tra i primi a realizzare dei crocifissi artistici di notevoli dimensioni formando delle CASACCE. Ancora oggi il termine camallo viene usato nell’ambiente delle CONFRATERNITE liguri per indicare la persona che trasporta il crocifisso. Il primo Cristo di notevoli dimensioni, circa 160 kg, venne realizzato proprio in uno degli oratori del porto di Genova. Famoso e antico è il cosiddetto Cristo delle Fucine del XVII secolo del ancora conservato nell’oratorio della marina di Genova.

4-CURIOSITA’…biblica… Riportiamo alcune opinioni di studiosi della materia.

Caso celeberrimo di ipotetica polisemia è quello del cammello che passa per la cruna dell’ago (Mc 10,25; Mt 19,24; Lc 18,25). L’immagine è ovviamente bizzarra. Qualche studioso ha ipotizzato che ‘cruna dell’ago’ fosse una piccola porta nelle mura di Gerusalemme: in tal caso la parabola sarebbe sicuramente più azzeccata.
Cercando la soluzione a livello linguistico, la parola aramaica
gamal può indicare, polisemicamente, sia il ‘cammello’ che una ‘corda’. L’ipotetico traduttore greco avrebbe in tal caso optato per il senso sbagliato: l’immagine di una corda che passa (o meglio, non passa) per la cruna di un ago è sicuramente più simmetrica della lettura tradizionale proposta.

La citazione biblica del cammello, del ricco e della cruna dell’ago soffre di un divertente errore di traduzione dei Vangeli. In pratica, per colpa di una lettura sbagliata nella prima versione in ebraico di Matteo, la parola gomena (gamta) si è trasformata in un improbabile cammello (gamal). Oltre ad essere più “logica” (una gomena è pur sempre un cavo, ma di spessore molto più grande di quello del filo che passa usualmente nella cruna dell’ago), la parabola era anche ben contestualizzata, dato che si rivolgeva ai pescatori del lago di Tiberiade, avvezzi come tutti i marinai all’uso anche delle gomene. L’equivoco permane anche nella versione greca dei Vangeli, con la “grossa fune”, “kamilos” (da cui forse il genovese camallo, colui che muove appunto le funi e le gomene portuali), che suona alquanto simile a cammello, cioè “kamelos”.

5-CURIOSITA’

Quando i camalli diventarono attori del cinema…

Il mito di Maciste che rifondò l’Italia unita

Quando Bartolomeo Pagano passava nei caruggi, la gente si appiattiva spalle al muro per lasciarlo passare. Alto 1 e 90 per 120 chili di muscoli, il gigante sorrideva a tutti. Era scaricatore per la Compagnia della Carovana al porto di Genova. Sollevava sacchi di grano argentino, casse di coloniali, e caffè; al tocco si sfamava nell’osteria della Nina con tre piatti di minestrone accomodato con il pesto e un chilo e mezzo di pane, con cui faceva la scarpetta. Per digerire pugnava con l’altro gigante del porto, tale Franchino, così per gioco”.


Bartolomeo PAGANO, il famoso “MACISTE” reso celebre dalle sue apparizioni cinematografiche nei film muti di inizio Novecento.


…. Uno dei tanti maciste dell’epoca …

Vorrei…essere…Maciste…

 

Maciste non è un vero personaggio mitologico: non nasce né sui libri, né sui fumetti. È una creatura dello schermo. Per risalire alle sue origini, però, non bisogna fermarsi alle avventure in technicolor che lo vedono muscoloso protagonista nel fortunato filone dedicato agli “uomini forti” degli anni Sessanta. Il primo, vero Maciste fu, cme abbiamo visto, Bartolomeo Pagano, camallo del porto di Genova chiamato dal regista Pastrone a interpretare un simpatico e fortissimo schiavo numida in Cabiria (1914), kolossal storico che conquistò le platee di tutto il mondo. Il successo personale di Pagano fu tale che si decise di dedicare al suo personaggio un intero ciclo di film: Maciste avrebbe regnato per più di dieci anni come campione di incassi e di consensi del cinema italiano.

6-CURIOSITA’

La Compagnia dei Caravana, come abbiamo visto, è stata un’antica corporazione di lavoratori del porto di Genova che fu sostituita, nell’immediato secondo dopoguerra, dalla COMPAGNAIA UNICA DEL PORTO DI GENOVA.

Per i bestemmiatori multe salate:

All’interno della Compagnia vigeva un regolamento molto rigido che veniva applicato partendo dal presupposto che le virtù morali e sociali della Compagnia dovessero essere un caposaldo alla base dell’attività comune. Pesanti multe venivano ad esempio inflitte a coloro che si lasciavano andare a bestemmie contro la Madonna o che non partecipavano alle Messe sociali celebrate nella cappella votiva della corporazione, all’interno della chiesa di Nostra Signora del Carmine.

Gli statuti della Compagnia dei Caravana che, almeno inizialmente, comprendeva solo una parte dei lavoratori impegnati nei diversi pontili, ovvero quelli di Banchi, Pedaggio e Calcina – vennero firmati l’11 giugno 1340. Con essi il Comune concedeva ai soci della corporazione il diritto esclusivo allo scarico e al carico delle merci transitanti per la Dogana di Genova.

Alla Compagnia, in base a uno statuto entrato in vigore quasi centocinquant’anni dopo, nel 1487, e abolito solo a metà Ottocento, potevano appartenere solo soci provenienti dalle vallate situate intorno a Bergamo.

L’appartenenza al sodalizio avveniva per successione, a condizione che i figli nascessero nelle zone di origine dei padri e l’usanza di garantire ai figli il diritto di subentrare ai padri è in vigore nell’ambito della moderna Compagnia Unica dei Lavoratori delle Merci Varie del Porto.

Nella sostanza, lo scopo di questa regola era quello di assicurare che i cosiddetti portuali – tutti giovani di aspetto robusto e disposti ad un lavoro estremamente duro – fossero estranei, in quanto foresti, ad ogni tipo di lotta di parte tesa al predominio su quella che era un’attività centrale per la vita economica cittadina.

Per spiegare cosa fu la compagnia dei “CARAVANA” e chi erano i “giganti” che vi lavoravano, vi proponiamo questo bellissimo articolo del Corriere della Sera del novembre 1932. Un quadro d’epoca ripreso dal vivo con i suoi personaggi ancora in piena attività. Leggerlo sarà davvero un bellissimo viaggio nel tempo.

Ringrazio a nome di Mare Nostrum Rapallo e dei suoi lettori, il cultore e divulgatore che ha messo a disposizione questo “capolavoro” di altri tempi…

Di Cesare Meano – 1932

Genova, Novembre.

In questo mondo marino, che ha per confini muraglie, cancelli, tettoie, casermoni, torri» e, per foreste, le alberature delle navi, per fiumi le strisce di mare luccicanti fra carena e carena, per nuvole il fumo nero che il vento strappa alla bocca dei camini, i giorni nascono, passano e muoiono al grido delle sirene. Anche da terra si odono, dalla città, che contrappone a esse le sue campane. E ai primi segni dell’alba non si capisce se siano le sirene a risvegliare le campane, 0 queste a risvegliare quelle. E’ un coro improvviso, enorme, che sembra sorgere d’ogni intorno, vicino e lontano, mentre sulle montagne, alle spalle della città, appaiono le prime incerte dorature del sole, e il mare si stria d’argento e trema. La Lanterna si spegne. Si spengono le luci rosse dei semafori, i lumi delle banchine e delle strade, delle navi e delle case. La luce del sole scende dalla montagna, come una lentissima fiumana color di miele, che trabocchi dalle valli di là: scende e raggiunge il mare, lo illumina. Tra il mare e la montagna, — tutta la bellezza e la forza del mondo, — ricomincia la vita di Genova e del suo porto, dopo la sosta notturna.

I lavoratori del porto

I cancelli si sono aperti. Le gru hanno ripreso il loro moto sonnolento, ai qua e di là, come palmizi in un vento rallentato. Sugli specchi dell’acqua riappaiono i rimorchiatori, i battelli, le barche tentennanti sulle zampe di grillo dei remi Lungo i binari interminabili le locomotive avanzano speronando le nuvole del loro stesso vapore: cortei di carri-piatti, di carrozzoni, di carri-botte. E un esercito si incammina in ordine sparso, sfociando dai cancelli e dai porticati: dilaga, si disperde, scompare, riappare più lontano, popola i magazzini e le calate, le boe.

Migliaia di uomini: la popolazione di questo mondo che allinea, dinanzi al mare aperto, i suoi quattro bacini, i suoi cinque moli, i suoi tredici ponti e le sue venti calate. L’esercito dei lavoratori del porto: facchini, cassai, barilai, imballatori, pesatori, calafati, puntellatori, demolitori, carpentieri, carenanti, ormeggiatori, manovratori, barcaiuoli: decine e decine di categorie. E chi osservi la loro vita e il loro lavoro, o consulti i quadri e gli statuti delle loro organizzazioni, li vede veramente inquadrati in un esercito esemplare, cui non mancano neppure l’antica gloria, la nobiltà conquistata in secoli di disciplina, di fatica, d’eroismo, la ricchezza che deriva ai popoli privilegiati dal patrimonio delle loro tradizioni. La nuova odierna potenza, per i lavoratori di questo porto, è fiorita su un saldo tronco secolare; i gagliardetti dell’Italia rinata si sono issati sulle aste che ressero i gonfaloni di ieri.

Le compagnie

In numerose Compagnie, al comando di consoli e di vice-consoli, questi lavoratori sono costituiti, e il Sindacato Interprovinciale dei Lavoratori del Porto li tutela e li domina. Ogni Compagnia, però, ha i suoi statuti e le sue consuetudini, difesi e rispettati con incrollabile fede. In alcune di esse si riscontrano quasi i caratteri di confraternite religiose; in tutte un soldatesco senso di disciplina e di dovere, insieme con quell’orgoglio che negli eserciti si chiama «spirito di corpo » e che è custode incorruttibile delle tradizioni più alte. Ecco la congrega dei facchini del Deposito Franco, i caravana: unica Compagnia che, per antico diritto, goda larghi privilegi ed eccezionale autonomia; ecco la Corporazione dei Calafati, i cui « capitoli » datano dal 1370; ecco la Corporazione dei Barcaiuoli, menzionati nella storia fin dal secolo XV; e le altre Compagnie meno antiche, e le altre ancora che si vanno formando sul modello di quelle. La milizia del lavoro ha qui la sua aristocrazia, i seggi dei suoi anziani, i custodi del suo tempio.

La compagnia dei « caravana »

La Compagnia più antica e gloriosa è quella dei caravana. Nel recinto del Deposito Franco s’incontrano i suoi duecentosettanta affiliati. Dai magazzini ai carri della ferrovia, con passo lungo e immutabile, vanno sotto il peso di sacchi e cassoni, senza curvarsi e senza tentennare. Deposto il peso alzano il capo e lo scuotono, come per cacciare un pensiero, poi ritornano indietro, sollevano un nuovo peso, alti, diritti, impassibili. Intorno alla cintura, fino quasi ai ginocchi, portano un gonnellino azzurro, e d’estate un mantelletto bianco, la capota, che copre spalle e nuca. Cosi da più di sei secoli. Il gonnellino è l’uniforme del caravana, che non ne conosce l’origine né la ragione, ma con orgoglio lo veste, non appena gli sia concesso l’onore, non facilmente conquistabile, di appartenere alla Compagnia. Anche i loro capi portano il gonnellino; nessuno pensa ad esimersene. Il console e 1 capisquadra vestono panni borghesi e, tra la giacca e i calzoni, ecco il bizzarro indumento (il console, Angelo Caprile, detto Cirillo, porta anche gli occhiali cerchiati di tartaruga: e il gonnellino). Ma chi sono questi caravana, il cui nome, per tutto il porto e la città, suscita simpatia e ammirazione? Udendoli chiamarsi l’un l’altro, non si chiarirebbe certo il mistero. Minosse, Cerbero, Caronte, Gerion: i caravana si chiamano cosi; e anche peggio. Una tradizione fra le tante: quella dei soprannomi. La «Caravana» vive ancora oggi, esattamente, come viveva nei suoi primi tempi. Immutabile ha varcato i sei secoli della sua storia, ha superato difficoltà e avversità, ha resistito a controversie e a crisi; riconosciuta e protetta da re, pontefici, ministri, dogi, è arrivata a essere quale è oggi, la più genuinamente antica delle Compagnie, e, nello stesso tempo, la più giovanilmente viva.

Chi erano i « caravana »

Nella sua sede si custodiscono i tre codici di pergamena che recano il testo delle sue leggi. « A nome di Dio e de la Madona Sancta Maria e de tuli li Sancii e le Sancte e de tuta la Corte Celestia, amen » : in data 1340, cosi si preludiava a < li statuti e le ordination facto per tuli li lavoratori… et ordenà per lo prior, in lo dì de la lesta de messer Sancto Barnaba, in la aesua di Messer Sancto Lorenzo di Genua… ». Fui da allora s’imponevano ai cara – vana le leggi che permisero a essi di guadagnarsi fama di lavoratori incomparabili e di virtuosissimi cittadini. Vietati il turpiloquio e la bestemmia, severamente inibiti l’uso delle armi e la consuetudine delle spese superflue, limitato ai giorni di Natale e di Pasqua il gioco dei dadi e alla domenica quello delle carte, disciplinati tutti i rapporti fra di essi, tanto da eleggere a giudici d’ogni questione, anche privata o amichevole, i capi della congrega, la Compagnia si elevava senz’altro a prototipo di tutte le altre organizzazioni congeneri. Le leggi del 1340 ne partano come d’una confraternita preesistente. Non si sa quindi e quali tempi risalga la sua origine, ma si può senza errore reputarla uno dei più antichi esempi storici di organismo sindacale dotato di leggi intese a instaurare i principi della previdenza e del mutuo soccorso. Oggi, come sei secoli or sono, i caravana affidano ai loro capi il denaro guadagnato, poi lo spartiscono. Nulla chiedono e nulla possono accettare oltre al compenso stabilito. A una parete della sede sociale è affissa una lapide vecchia di tre secoli: « Si avertisca non prendere premio o recognitione di sorte alcuna… », che sarebbe come dire: « Sono proibite le mance ». Nel recinto del Deposito Franco, dove essi prestano servizio con diritto di assoluta esclusività, i distributori di vino e di vivande sono gestiti in forma sociale. Dopo trent’anni di servizio i caravana diventano pensionati della Compagnia stessa, e così le loro vedove. Fino all’ultimo respiro i compagni vegliano e proteggono il caravana vinto dalla vecchiaia o dai mali; poi lo accompagnano alla tomba in forma solenne. Ma c’è pure chi lascia la « Caravana » senza gloria e senza premio, quando la sua umana debolezza l’abbia fatto incorrere nei peccati che la congrega condanna. E c’è chi bussa alla sua porta e non riesce a entrarvi, o per deficienza fisica, e il caso è raro, o per deficienza fisica e, il caso è raro, o per deficienza morale, e il caso, data la severità delle inflessibili leggi, è più frequente. Oggi, come sei secoli or sono, bisogna che il caravana porti il suo gonnellino come si porta un blasone, e, quando, lontano dal lavoro, abbia dimesso la visibile insegna, possa vincere ogni diffidenza e conquistare ogni amicizia, solo col dire: « Sonn-u carav-vana». Lungo il tempo le glorie si allineano. I caravana appaiono al pensiero contro un fondo di bandiere, di armi, di templi e di luci trionfali, come in un’allegoria. Nella chiesa di Santa Maria del Carmine essi si adunano, dai secoli più lontani, per rendere a Dio il dovuto. Le processioni di Genova conoscono il loro incesso imperatorio, nelle pieghe di tuniche variopinte, sotto il peso dei simulacri e degli stendardi, (li eventi della Patria li trovarono sempre all’erta. Nel 1746, contro gli Austriaci invasori, furono i caravana a trascinare i cannoni genovesi su per l’erta di Pietra Minuta. Nel 1812 e nel 1815, per due volte portarono attraverso la città il Pontefice Pio VII, che li rimeritò con larghe indulgenze. Nel 1848 ebbero affidata la custodia del tesoro della Banca Nazionale. Nell’ultima guerra furono mobilitati in centocinquanta, e rimasero sul campo in tredici.

Quelli di Bergamo

Un lungo periodo della storia di questa Compagnia (che diligentemente è stata rievocata di sui codici dal capitano Giorgio Ricci, dal dottor Annibale Ghibellini e da altri ancora) è occupato dal nome di Bergamo. Per oltre un secolo e mezzo la « Caravana » fu tutta composta di bergamaschi, e altri che non fosse di Bergamo o del circondario non aveva diritto d’appartenervi, tanto che i componenti mandavano a Bergamo le mogli incinte, affinchè generassero autentici bergamaschi. Discordi sono i pareri sulla ragione di questo fatto. La Compagnia, in base alle più recenti ricerche del Ghibellini, risulterebbe in origine prettamente genovese. Verso il 1450 cominciò l’infiltrazione bergamasca forse da parte di qualche brigata di mercanti.

Nel 1576, quasi tutti i caravana erano oriundi di Bergamo, o figli di bergamaschi; nel 1695 fu emanato il decreto che prescriveva per tutti i soci della Compagnia, senza eccezione, l’origine bergamasca. Secondo alcuni, questa legge sarebbe stata pretesa dagli stessi caravana di Bergamo, a compenso della pietosa opera da essi prestata durante una pestilenza, nel soccorrere i malati e nel seppellire i morti. Secondo altri sarebbe stata originata dal desiderio di evitare che tale organizzazione di uomini eccezionalmente forti e audaci potesse parteggiare per l’una o per l’altra delle fazioni nelle quali la cittadinanza era divisa, come facilmente sarebbe accaduto se non si fosse trattato di foresti, per nulla interessati nelle faccende della patria d’elezione. Comunque, dal 1695 al 1848, negli annali della «Caravana» si susseguono nomi di bergamaschi e di paesi del Bergamasco: da Brembilla e da Dossena, da Almenno e da Zogno, da San Pietro d’Orzio e da Rigosa, i caravana arrivavano a Genova. L’onore della Compagnia era affidato alle salde braccia e ai nobili cuori lombardi.

La fine di un curioso ostracismo

Ma i genovesi brontolavano, anzi mugugnavano. Tornasse a loro e ai loro figli la confraternita ch’era orgoglio del loro porto: non erano stati essi, forse, a crearne la prima compagine? non erano braccia genovesi quelle che avevano portato la terra sulla montagna arida, per farvi allignare le sementi, e avevano trasportato la tribuna del coro di San Matteo» con tutti i suoi mosaici e i suoi altorilievi, per più di venti metri? Nel 1848 il mugugno fu ascoltato, e la legge venne abrogata. Le porte della «Caravana» si riaprirono anche ai genovesi. L’ultimo caravana bergamasco morì nel 1914, e si chiamava Andrea Ghisalberti, detto Diego. Ora, nei ranghi, non vi sono più che alcuni figli di bergamaschi. E più nessuno mugugna, né a Genova né a Bergamo: tutti amici e camerati. Non dimentichiamo, però, le altre glorie della Compagnia, più modeste di quelle elencate, eppure giustamente care al cuore dei caravana. Nella loro sede, alle cui muraglie pendono lucide stadere, come panoplie d’armi in un (museo guerresco, c’è un quadro che il caravana non manca di presentarvi. Una ghirlanda di ritratti contornati e legati da fregi floreali. Un vescovo e alcuni signori con barba e occhiali, dal nobile aspetto.

Chi sono? La guida vi addita le parole che accompagnano ogni ritratto: l’avvocato commendator tal dei tali, « figlio di caravana » ; il professor tal altro, « figlio di caravana; monsignor vescovo così e così, « figlio di caravana ». Non senza stupore si guarda il volto compiaciuto di chi ci sta accanto. Ecco una specie di gloria che non ci aspettavamo. E che diremo, dunque, del console di «Caravana» Gian Giacomo Casareto, detto Gerion, che professava filosofia e lettere? e del carbonaio Gian Battista Vigo, lavoratore del porto anche lui ch’ebbe dal Comune una tomba gratuita e onorifica, in riconoscimento dei suoi meriti poetici. I caravana, i carnali e tutti gli altri, affratellati dal lavoro e dalla fede, si direbbe che giochino con la gloria come giocano coi quintali. Ha avuto i suoi predecessori in fatto di strane fortune, quel carnaio dei Magazzini Generali, che una ventina d’anni addietro lasciò il porto e si fece africano, con l’aiuto del sole e dell’olio di cocco, per proteggere l’innocente Cabiria nel corso delle sue dannunziane avventure; e ora torna à ritrovare i suoi compagni, a rivedere le calate e i moli, salutato a gran voce : « Ohè, Maciste!>>.

La gloria quotidiana

Ma il caravana pensa assai poco alle glorie che furono e a quelle che, forse, verranno. Altre ne trova e ne gode, più immediate e più quotidiane, mentre lavora a denti stretti, misurando il tempo sul ritmo del suo passo» che va e viene. Se no sorprendete qualcuno, durante il riposo, disposto a darvi udienza, e gli domandate quale sia stata la più grande impresa sua e dei suoi compagni, egli non ricorderà i cannoni di due secoli or sono, né il Pontefice portato dai suoi vecchi, né il vescovo generato da un suo predecessore. Sorriderà coi suoi denti bianchi nel viso di bronzo e, dopo avere lui poco pensato, vi racconterà di quella notte, quando cento caravana dovettero in dieci ore caricare sui treni quattromila tonnellate di grano. Le macchine insaccatrici lavoravano. I carri merci aspettavano. Avanti, caravana: quarantamila sacchi d’un quintale! quattrocento sacchi per ogni uomo; dieci ore di tempo; quattrocento passeggiate di venticinque o trenta passi, con cento chili sulle spalle, nello spazio di dieci ore; per ogni ora quaranta quintali; sempre avanti, caravana; per ogni passeggiata ottanta secondi, poi un bicchiere di vino mentre i treni partivano e il sole, salutato dalle sirene, sorgeva. C’è un altro faro, ai piedi della Lanterna, di fronte al mare burrascoso del mondo.

Carlo GATTI

Rapallo, 22 Gennaio 2019