TRE RACCONTI DAL MARE….

Dal gatto di Boccadasse al rimorchiatore Pietro Micca, fino al garum romano: tre piccole storie che il mare continua a custodire.

Introduzione:

Non sempre il mare racconta di battaglie, di navi leggendarie, di relitti o di eroiche imprese marinare.

Talvolta, il mare diventa cornice silenziosa di storie più semplici, quasi secondarie, ma non per questo meno affascinanti.

Sono “chicche di mare”, episodi che nascono in riva, tra i moli e le spiagge, dove l’onda arriva stanca ma carica di memoria, quasi desiderosa di consegnarci capitoli di pace e di bellezza.

In queste tre piccole storie non troviamo l’eco delle guerre o il fragore delle tempeste, ma piuttosto il sorriso ironico di un gatto che ha fatto di Boccadasse la sua scena quotidiana, il respiro antico di un rimorchiatore a vapore che ancora porta con sé l’orgoglio del lavoro marittimo, e infine il sapore remoto di un condimento romano che ha viaggiato per mari e imperi.

Tre racconti diversi, uniti da un filo comune: il mare, che sa essere non solo teatro di grandi imprese, ma anche custode di emozioni discrete, di memorie tecniche, di affetti verso gli animali e di tradizioni gastronomiche che arrivano da lontano.

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IL GATTO SEPPIA

Boccadasse

Nel porticciolo di Boccadasse (Bocadâze)  è diventato ormai una vera e propria attrazione turistica.

Chi si ferma per una carezza, chi per una foto o un selfie, chi per dargli qualcosa da mangiare (anche se su richiesta dei padroni meglio evitare), tutti comunque cercano Seppia

il gatto assurto, per la sua ingrugnita e infastidita espressione, a ironico simbolo dell’accoglienza ligure.

Curiosa anche la sua singolare somiglianza con Machiavelli il gatto scontroso e sospettoso del celebre film del regista genovese Enrico Casanova del 2021 della Pixar -Luca- ambientato nel levante della nostra regione.

Così a Boccadasse alla romantica gatta con “una macchia nera sul muso” di Gino Paoli si è aggiunto il burbero gatto disneyano.

In Copertina: Foto di Stefano Eloggi

 

Il gatto Seppia, adottato da Boccadasse, è ormai un’icona. Ingrugnito e solitario, come un vero genovese. I gatti, nella storia della marineria ligure, hanno sempre avuto un ruolo speciale.

Seppia è diventato famoso per il suo aspetto caratteristico, un bianco e nero con un’espressione un po’ corrucciata, e per la sua presenza costante nel pittoresco borgo di Boccadasse. 

Seppia è diventato un’attrazione turistica e un simbolo ironico dell’accoglienza ligure, tanto da essere anche menzionato nel film d’animazione “Luca” della Pixar, ambientato proprio nel levante genovese. 

Benvenuti a Zena, són mi Seppia, il gatto di Bocadâze! Belin pure a Pixar mi métte nella sua pelìcola!

Aregordâ che mi mangio solo péscio frésco, mica i tuoi pacûghi, bezûgo!

Mi non râgnâ, mogógno!

Ecco alcune curiosità su Seppia:

Aspetto e personalità:

Il suo sguardo è spesso descritto come quello tipico dell’accoglienza ligure, un po’ burbera, ma in realtà è molto amato dai genovesi e dai turisti.

Celebrità social:

Seppia ha una sua pagina Instagram e una su Facebook, dove viene descritto come un gatto che “non miagola, ma mugugna” e che mangia solo pesce fresco. 

Rischio per la salute:

A causa della sua popolarità, alcuni turisti gli offrono cibo non adatto, mettendo a rischio la sua salute, in particolare la cistite cronica.

Riconoscimenti:

È stato anche raffigurato in una linea di gioielli artigianali. 

Simbolo di Boccadasse:

Seppia è ormai considerato un’icona del borgo marinaro di Boccadasse, e i visitatori lo cercano per fare una foto o una carezza. 

Alcuni si chiederanno: ma cosa c’entra Seppia con il nostro sito?

Ve lo spiega Mauro Salucci

Nel Consolato del Mare del 1719 si legge, all’articolo 65 che il padrone della barca ha il dovere di procurarsi dei gatti per impedire ai topi di rovinare il carico.

A bordo era previsto un addetto chiamato “penese” che si occupava di questi animali e aveva il compito, prima di attraccare in porto, di radunarli e metterli al sicuro, perché, richiamati dagli amori, non andassero in terraferma alla ricerca di avventure…

Anche nell’Archivio di Stato di Genova la presenza dei gatti era obbligatoria per preservare la documentazione dai roditori.

Questa attenzione per i felini è testimoniata a Genova da molti cognomi ricorrenti, come Gatti, Gatto, Pellegatto, Pellegatti e sullo stemma della famiglia nobiliare De Pelegatis è presente un felino.

E noi aggiungiamo:

I gatti erano una presenza comune e molto utile a bordo delle navi nel passato, non solo per ragioni scaramantiche, ma soprattutto per il loro ruolo nel controllo dei roditori che potevano danneggiare merci e attrezzature.

Venivano spesso imbarcati regolarmente e avevano persino documenti ufficiali, diventando a tutti gli effetti dei “gatti di bordo”. 

Cos’è il “buco del gatto” sulla nave?

Il “BUCO DEL GATTO” è il nome dato all’apertura nella coffa, la piattaforma situata sulla parte alta di ogni albero, usata dai marinai addetti alle vele e dalle vedette.

UN PO’ DI STORIA 

I gatti di bordo accompagnano per mre i marinai fin dall’antichità

Quella di tenere i gatti sulle navi è stata per lungo tempo una tradizione dei marinai, per via della loro efficienza nel tenere a bada le infestazioni, e grazie alla credenza che portassero buona fortuna alle navi.

Si pensa che i gatti si siano diffusi nel mondo grazie agli esploratori degli Antichi Egizi, dei Vichinghi e dell’Età delle Esplorazioni. Offrivano una buona compagnia e facevano sentire i marinai a casa.

Fin dai tempi antichi, innumerevoli navi di diverso tipo hanno ospitato uno o più gatti. I felini si occupavano dei topi, che potevano danneggiare le funi e il legno e minacciavano le riserve di cibo e le merci.

I gatti, che hanno una buona capacità di adattamento, sono perfetti per servire su una nave. Inoltre, i gatti di bordo facevano sentire i naviganti a casa. Erano particolarmente importanti in periodo di guerra, quando le provviste erano limitate, e gli uomini erano costretti a stare lontani da casa per lunghi periodi. La compagnia dei felini era la benvenuta e scaldava gli animi.

Alcune navi avevano più di un gatto, oppure ospitavano eventuali cuccioli nati in mare. I gatti potevano anche “salire di grado” e diventare mascotte di una particolare parte della nave, come la sala motore o il ponte, per diventare addirittura la mascotte ufficiale di tutta l’imbarcazione.

Lo scoppio della Seconda guerra mondiale, con la diffusione delle comunicazioni di massa, portò anche alcuni gatti di bordo a diventare celebrità a pieno titolo.

Ancora oggi si ricordano alcuni di loro, tra cui l’inaffondabile Sam, che servì su tre navi da guerra, una tedesca e due britanniche. Un altro è Blackie, gatto di bordo sulla HMS Prince of Wales della Royal Navy britannica.

Nella foto sotto, invece, potete vedere Tiddles, che servì su diverse portaerei britanniche.

 

FOTO FAMOSE….

Il capitano A. J. Hailey col suo gatto sulla Empress of Canada, anni venti // UBC Library Digitization Centre / Wikimedia

 

Gatto di bordo sulla Encounter durante la prima guerra mondiale

Churchill saluta il gatto Blackie prima di risalire sulla Prince of Wales

 

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LO STORICO RIMORCHIATORE

PIETRO MICCA

Immagina un piroscafo di fine Ottocento che respira vapore, sbuffa come un antico drago marino e continua a navigare, sfidando gli anni e la sorte. Costruito in Inghilterra nel 1895 nei cantieri Rennoldson & Son di South Shields, nacque con il nome Dilwara, lungo poco più di trenta metri, con motore a triplice espansione e una struttura in acciaio robusta. Era progettato per l’epoca con tecnologie avanzate, tra le più moderne nel campo dei rimorchiatori portuali.

Fu battezzato, col tempo, come rimorchiatore d’alto mare a vapore: una creatura ibrida, dotata di vele (armata a goletta) per sfruttare il vento e ridurre il consumo di carbone o olio pesante. L’armo a due alberi aggiungeva stabilità e autonomia: se il vento era favorevole, la nave avanzava senza consumare vapore, una concezione intelligente nel tramonto della navigazione a vela.

Nel 1905, dopo aver prestato servizio nei porti britannici, il Dilwara fu venduto all’Italia e ribattezzato Pietro Micca, diventando parte del registro del compartimento marittimo di Napoli.

La sua carriera italiana fu intensa: trascorse decenni al servizio delle società armatrici Merlino-Fagliotti, impegnato nel rimorchio di pontoni carichi di massi per la costruzione di moli, frangiflutti e porti lungo la costa.

La sua Sala macchine respirava vapore e sudore mentre spostava carichi colossali con una lentezza voluta, affidabile e inesorabile.

Durante le due guerre mondiali, il Pietro Micca fu reclutato come nave ausiliaria militare e dragamine. La sua potenza – una macchina da 500 cavalli vapore con compressore a 90 giri/minuto – lo rese prezioso per compiti di supporto logistico, trainando pontoni pesanti sotto le bombe o rifornendo flotte navali. Rimase operativo anche come supporto della flotta americana di stanza a Napoli fino ai primi anni Novanta del Novecento.

Nel 1996, quando il porto di Napoli fu abbandonato dalle forze americane e molte navi storiche rischiarono la demolizione, il Pietro Micca era in pericolo. Ma fu allora che intervenne la volontà dei pochi che ancora credevano nella sua storia.

Pier Paolo Giua, direttore del cantiere nautico Tecnomar di Fiumicino, scrisse una pagina determinante: fondò l’Associazione Amici delle Navi a Vapore G.L. Spinelli, raccolse fondi, convinse la famiglia Spinelli di Monte di Procida e avviò il salvataggio.

La nave fu trasferita a Fiumicino, ormeggiata nei cantieri Tecnomar, e sottoposta a un restauro lungo e paziente. Ogni lamiera, ogni vite, ogni condotta di vapore fu revisionata. Il ponte, la sala macchine, la ciminiera a strisce rosse e nere: tutto tornò a respirare storia. Il risultato fu un miracolo: il Pietro Micca, a oltre 100 anni dalla sua nascita, rimaneva la più antica nave commerciale a vapore ancora navigante d’Italia.

In quel momento, non era più solo un rimorchiatore: era un monumento vivente.

Oggi, il Pietro Micca è ancora pronto a prendere il mare. Partecipa a eventi culturali, attività didattiche, campagne ambientali e crociere storiche. Spesso diventa parte di progetti come la “Goletta Verde” di Legambiente, simbolo di un ritorno all’esperienza autentica del mare.

Il suo ponte racconta storie di lavoro portuale, di guerra, di partenze mattutine ad arco basso sul mare. È un narratore silenzioso di rivoluzioni tecnologiche e mutamenti sociali.

Sul ponte si respira tensione e precisione: una cima spezzata può valere una vita, un rimorchio mal fatto può provocare il capovolgimento.

Eppure, tra quelle lamiere e cuciture di acciaio, si percepisce il rispetto per una meccanica semplice ma robusta, fatta per durare. La sala macchine, con caldaia originale, condotte di vapore e rubinetterie antiche, conserva l’incanto di una tecnologia ottocentesca che ancora pulsa.

Il valore del Pietro Micca non è solo tecnico o estetico: è il ricordo tangibile di un’Italia marittima che sapeva costruire, innovare e navigare.

È il simbolo della cultura del lavoro portuale, della fatica manuale, ma anche della visione imprenditoriale e della volontà tenace di preservare la memoria.

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La straordinaria storia del “Pietro Micca” 1895

Di Emilio Parenti

https://www.barchedepocaeclassiche.it/marineria/navi/550-la-straordinaria-storia-del-pietro-micca-1895.html

 

ALBUM FOTOGRAFICO

 

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RICETTA DEL GARUM

SVELATA…..

 

Per gli antichi ROMANI il pesce era una fonte essenziale di proteine. Inoltre era molto utilizzato perché poteva essere facilmente conservato sotto sale oppure grazie alla fermentazione. Uno dei prodotti più richiesti, nato da questi processi di conservazione del pesce, era il garum. Le varietà si differenziavano in base agli ingredienti aggiunti al composto: pepe (garum piperatum), aceto (oxygarum), vino (oenogarum), olio (oleogarum) o acqua (hydrogarum).

Il garum era molto apprezzato perché si conservava a lungo: veniva esportato in tutto l’Impero Romano, viaggiando per lunghe distanze. Per questo motivo, lungo le coste atlantiche della Hispania (l’attuale penisola iberica) e della Tingitana (oggi Marocco) sorsero numerosi impianti “industriali” di salagione del pesce, chiamati cetariae. Il più ricercato veniva dall’Andalusia, ma grandi stabilimenti si trovavano anche sulla costa nordafricana, da Cartagine all’attuale Algeri.

MA QUALI PESCI? I resti di pesce trovati nelle vasche di salagione sono difficili da identificare: spesso sono in condizioni pessime, frammenti piccolissimi e sbriciolati, perché, durante la produzione della salsa, le materie prime venivano schiacciate e lasciate fermentare per settimane.

 

 

Il garum romano era una salsa liquida di pesce fermentato, ricavata da interiora e pesci piccoli (come alici e sgombri), che veniva usata dagli antichi Romani come condimento onnipresente per insaporire carne, verdure e altri piatti. La preparazione, che coinvolgeva la salatura e un processo di idrolisi enzimatica, conferiva al garum un sapore umami intenso e salato,* diventando un ingrediente fondamentale della gastronomia romana, tanto da essere considerato anche un simbolo di prosperità e avere un valore nutrizionale grazie alle proteine idrolizzate.

*Sapore Umami: Il sapore umami (dal giapponese “saporito” o “delizioso”) è il quinto gusto fondamentale percepito dalle nostre papille gustative, accanto a dolce, salato, amaro e acido. È caratterizzato da una sensazione di pienezza e ricchezza negli alimenti, ed è causato principalmente dalla presenza di glutammato, un amminoacido libero. Il glutammato si trova naturalmente in alimenti ricchi di proteine come formaggi stagionati, carni, alghe e pomodori maturi, e viene rilasciato.

 

Sardine: era questo l’ingrediente base del pregiato garum iberico, la salsa che faceva impazzire gli antichi Romani

Un recente studio condotto da archeologi e genetisti ha svelato la ricetta del garum, la celebre salsa di pesce fermentato molto amata nell’antica Roma.

Analizzando il DNA dei resti di pesci trovati in una vasca di salagione del sito romano di Adro Vello in Galizia (Spagna), risalente al III secolo d.C., gli studiosi hanno identificato la sardina europea (Sardina pilchardus) come ingrediente principale del garum iberico.

La fermentazione del pesce, resa possibile dall’uso del sale, produceva una salsa ricca di sale e glutammato, simile ai moderni insaporitori. Esistevano diverse varianti a seconda degli ingredienti aggiunti (es. pepe, aceto, vino, olio, acqua). Il garum era molto richiesto e veniva esportato in tutto l’Impero, soprattutto dalle coste dell’Andalusia e del Nord Africa, dove si trovavano grandi impianti di produzione.

Come abbiamo già detto, la salsa veniva prodotta attraverso un processo di decomposizione del pesce, ciò ha reso molto difficile il riconoscimento delle specie ittiche trovate nelle vasche di salagione, in quanto i processi di fermentazione accelerano il degrado del materiale genetico.

Nonostante tutto, grazie alle moderne tecnologie, gli studiosi sono riusciti ad individuare il tipo di pesce utilizzato quale ingrediente base; e non solo. In altri siti di produzione di garum sono stati trovati anche resti di altre specie, come aringhe, merluzzi, sgombri e acciughe.

Lo studio del Centro Interdisciplinare di Ricerca Marina e Ambientale (CIIMAR) dell’Università di Porto, pubblicato su Antiquity, ha anche evidenziato una maggiore purezza genetica delle sardine antiche rispetto a quelle moderne. Inoltre, l’uso del DNA antico apre nuove possibilità per approfondire le abitudini alimentari e i commerci del mondo romano.

 

Domande e risposte

Dove veniva conservato il garum?

Nelle ANFORE: i container dell’antichità

Quando la parte liquida si era molto ridotta, s’immergeva in un recipiente pieno di liquamen un cestino; il liquido che vi filtrava dentro era garum, e veniva conservato in anfore nelle cantine.

 Come era fatto il garum romano?

 Il secondo prodotto che usciva dalle cetariae erano le salse, la più popolare delle quali era il garum. Per la sua produzione, le vasche venivano riempite di pesci piccoli (ciò che oggi chiamiamo minutaglia), acciughe, sgombri e le parti rimanenti dei pesci di dimensioni maggiori.

Cosa vuol dire garum?

Il garum era un’antica e diffusa salsa romana a base di pesce fermentato e sale, con origini ancora più antiche in Grecia e Fenicia. Era preparato con interiora, sangue e a volte piccoli pesci, che venivano messi a macerare al sole e salati per lunghi periodi. Oggi, il garum è stato riscoperto e reinterpretato, con moderne versioni che utilizzano tecniche di fermentazione più sostenibili per creare una salsa sapida e ricca di umami, impiegata in varie preparazioni culinarie. 

Dove posso acquistare il garum dei Romani?

Il Garum dei Romano è disponibile sul nostro sito ufficiale e presso punti vendita selezionati come gastronomie, epicerie, boutique del gusto, enoteche. Visita il nostro shop online per scoprire le offerte e le promozioni dedicate agli amanti della cucina gourmet.

Che cos’è il garum moderno?

 Il garum moderno viene fatto fermentare a 60° per più di due mesi con l’aiuto del koji; il risultato è una salsa densa che può essere utilizzata in molti modi in cucina, e anche gli avanzi di parmigiano e pancetta possono essere utilizzati in modo ottimale.