Il FERROVIERE CHE GUARDAVA VERSO IL

MARE…

 


Dai miei ricordi d’infanzia emerge, sempre più spesso, l’inseparabile visione dei miei primi eroi, tutti ferrovieri: macchinisti e fuochisti del treno, che mentre noi, giovani viaggiatori dell’Adriatico, si leggeva, si discorreva e poi ci si appisolava in uno scompartimento, loro ci portavano a destinazione.

Il macchinista era davanti ai comandi, attento ai segnali, il fuochista di spalle a impalare carbone.

Due uomini che arrivavano a fine corsa “neri” ed esausti, muniti di gamella del pranzo e della cena da riscaldare, poi al dormitorio. Le percorrenze erano lunghe a causa della scarsa velocità, ed il viaggio poteva durare anche due giorni. Dormire di giorno, lavorare di notte.

A quei tempi la sicurezza e l’efficienza dei treni dipendeva da queste due persone spesso rappresentate con maschere affumicate.

Non possiamo di sicuro dimenticare i capistazione ed i casellanti che avevano da svolgere anch’essi compiti assai complicati, ma sui MACCHINISTI gravava tutto il peso del viaggio: responsabilità e fatica, due articoli molto rari e difficili da gestire con competenza e raziocinio navigando a vista come le navi quando i ponti di comando erano vuoti di strumenti e di sistemi d’allarme in caso di emergenza.




Rifornimento d’acqua per la caldaia


Le vampate di fuoco che uscivano dallo sportello quasi sempre aperto del focolaio, producevano un caldo che d’estate diventava insopportabile e, d’inverno addirittura pericoloso quando, per sporgersi al freddo, si rischiava una polmonite. Vento e acqua piovana entravano dappertutto … quello era il modo di navigare sulle rotaie, proprio come su certe carrette dei mari in voga in quei decenni eroici e gloriosi quando gli uomini erano o dovevano essere d’acciaio!

Questa non é facile retorica, se pensiamo che quei due uomini erano sempre neri e sporchi di fuliggine nonostante il berretto e gli appositi occhiali.

La polvere di carbone entrava comunque negli occhi e spesso provocava irritazioni e malattie della vista. Il fumo e le particelle entravano, in gran quantità, anche in bocca, nel naso e nei polmoni.
Il macchinista era perennemente con gli occhi sulla linea sia per rispettare i semafori e le bandierine ma, soprattutto, per vedere in tempo eventuali ostacoli sulle rotaie come persone imprudenti, oppure animali vaganti che potevano creare incidenti gravissimi con morti e addirittura stragi.

Per questi motivi, la leva della rapida (il freno di emergenza) doveva sempre essere pronto all’uso.



“Bigliettiiiii!!”, la voce del conduttore che a volte ti svegliava e ti riportava alla realtà. E poi, ancora tante le figure, ormai scomparse, che consentivano a quel mondo di correre in sicurezza sui binari: casellanti, guardialinee, deviatori e verificatori. Il guardia-valige, addetto al deposito bagagli del personale viaggiante nei dormitori, il chiamatore, figura che vedevi sfrecciare in bicicletta per le strade della città, quando il telefono non era diffuso nelle case, per correre “a chiamare” in servizio un macchinista o un fuochista da rimpiazzare all’ultimo momento.

Vagone ferroviario del primo dopoguerra. La “Garitta del frenatore” é a destra nella foto.

Mio padre faceva il frenatore, una figura che non esiste più da quando anche i treni merci furono dotati di freni ad aria compressa. Lavoro duro, condannato a stare in una garitta di un metro quadrato dell’ultimo vagone, per frenare il treno all’arrivo di una stazione azionando una vite senza fine che stringeva il freno metallico sulle ruote.

Papà faceva servizio a Pescara ed ogni giorno, a qualunque ora, d’estate e d’inverno, raggiungeva quel posto in bicicletta, una ‘Ganna’ (che nessuno poteva toccare), con la sua classica valigetta quadrata di fibra scura, che conteneva il suo pranzo.

Siccome era scomodo portarla in bicicletta, papà mi avvisava a che ora sarebbe passato il suo treno davanti casa  nostra al ritorno, ed io dovevo aspettarlo un po’ più avanti, dove c’era una siepe sulla quale la buttava, senza che subisse il minimo danno.

Qualche problema lo avevo io per raccoglierlo tra gli spini, ma mi ero attrezzato di una bella canna munita di uncino che si prestava perfettamente al recupero.

Manutentore



Aggiungiamo due disegni che ci aiutano a comprendere il funzionamento di un locomotore con le sue componenti meccaniche.


Rimini 1973

Anni fa, nella villa comunale dedicarono un “monumento” al ferroviere, una bellissima locomotiva a vapore de lontano 1916, molto ammirata dagli adulti in cui suscitava ricordi, e dai bambini che la toccavano con aria di stupore. Oggi, quel “monumento”, ha trovato una nuova collocazione nell’ambito della villa ristrutturata, è più nascosto, per vederlo ci devi sbattere il muso sopra, ora è solo una vecchia locomotiva su un tratto di binario morto.

Traverse

Quando ero piccolo, forse avevo 5 o 6 anni, papà aveva diritto ogni anno ad un certo quantitativo di carbone per poterci riscaldare d’inverno, ma oltre a quel combustibile, poteva disporre anche di un certo numero di quelle vecchie traverse (traversine in gergo) di faggio (oppure quercia, rovere, pino) su cui poggiavano i binari. Quel legno forte ma ormai consumato, aveva un particolare odore di catrame ed era molto pregiato per il potere calorifico che emanava.

Il dopoguerra fu molto duro per tutti, e tanti bambini come me non avevano di che mettere al fuoco, ed allora io li aiutavo a cercare tra le rotaie della ferrovia, i pezzetti di carbone che cadevano dal tender del treno mentre il fuochista riforniva il forno della locomotiva.

L’incoscienza dei bambini! Il centro del nostro mondo era il treno, e i suoi binari la nostra Via Pal. Mia madre era sempre in pensiero, conosceva benissimo gli orari del passaggio dei treni ed ogni volta mi sorprendeva tra le rotaie con gli altri bambini, sebbene noi facessimo molta attenzione all’avvicinarsi del treno ed avessimo un nostro sistema di allarme per toglierci in tempo dal pericolo.

Quanti sculaccioni ho preso da mamma!

E tornando alle traverse, ricordo lo sforzo immane che facevano due uomini robusti per farle a pezzi con quelle grandi seghe munite di lunghi manici di legno ad ogni lato per poter lavorare in coppia. Su questi legni c’era un marchio, ricordava la testa di una puntina da disegno, sulla quale era stato impresso l’anno di ‘nascita’.

Una volta fatta a pezzi, ciò che restava della traversa la spaccavano con la scure, ma spesso non ci riuscivano per via delle venature, ed allora ricorrevano alle zeppe o scalpelli, veri e propri cunei che penetravano sotto i colpi della mazza, una sorta di grosso martello con manico lungo che era adattissimo a ridurla in piccoli pezzi.

Ma questi miei ricordi s’intrecciano con quelli di un altro personaggio delle ferrovie: il cantoniere che ogni mattina passava con la sua bici e teneva in ordine la strada quale dipendente ANAS.

La Ferrovia Adriatica, fu costruita da queste parti, nel 1863 e ad un intervallo di un paio di chilometri veniva costruito un Casello ferroviario che era abitato da personale dipendente dalle ferrovie, responsabile della manutenzione e dal controllo della linea. Erano dislocati di solito anche in prossimità di punti che richiedono maggiore sorveglianza, come ponti, passaggi a livello, ecc.

L’addetto responsabile di quella struttura era il casellante che aveva il compito di controllare tutta la porzione di linea di propria competenza, prevenendo così incendi che potevano scaturire dalle scintille delle locomotive a vapore e tenendo sempre libera la sede ferroviaria da erbacce infestanti.

Da bambino mi piaceva guardare le persone che lavoravano lungo la ferrovia che passava accanto a casa nostra.

Ricordo in particolare il casellante che insieme agli operai formavano la Squadra che assicurava la buona manutenzione della ferrovia. Era formata da sette/otto uomini che agli ordini del caposquadra svolgevano diverse mansioni come rincalzare il pietrisco sotto i binari o cambiare le traversine.

A volte il loro lavoro era molto impegnativo, capitava infatti che dovessero sostituire un pezzo di binario e, per sollevarlo e spostarlo, dovevano agire in coppia con delle pinze molto speciali adatte ad imbragarlo, molto lentamente al ritmo di comandi vocali molto secchi: ” in.. (pausa).. aria..”


Per sostituire una traversina di legno ormai al limite dello spessore usavano una specie di grossa fiocina che un uomo cercava di immergere nel pietrisco mentre altri due la tiravano per mezzo di una catena provvista di un’impugnatura di legno.

Quando la squadra lavorava sui binari venivano poste a qualche centinaio di metri due bandiere rosse per segnalare il pericolo, ed era il caposquadra ad avvisare gli operai quando era il momento di sgombrare i binari per il sopraggiungere del treno.

Un’altra figura che li seguiva sempre era quella di un operaio invalido che, infilato il moncone rimastogli nel manico di un secchio di stagno pieno d’acqua, con un maniere, sorta di mestolo metallico, dissetava gli operai esausti sotto il sole cocente d’estate.


Castello di Chillon

Giorni fa ho visto un documentario in TV, si trattava di un turista inglese che si sposta da un continente all’altro con una pubblicazione turistica dei primi del ‘900, a caccia di fatti inediti e di persone curiose  un po’ speciali.

In questa puntata la sua meta era il lago di Ginevra e dintorni, più precisamente il famoso Castello di Chillon che ci ha illustrato dalla torre di guardia più alta, il belvedere, fino alle umide segrete sotto il livello del lago.

L’inglese si é poi soffermato sulla descrizione della ferrovia che fu costruita a pochi metri dal lago togliendo spazio vitale al padrone di un terreno, lungo 3 chilometri, su cui la vittima di questa intrusione, coltivava una vigna che produceva un vino speciale: il glorioso e ben pubblicizzato Chasselas.

Essendo quel vino nel frattempo diventato famoso, e non potendo quel signore “pretendere” la sua proprietà dallo Stato… scelse la via del silenzio accontentandosi di ridurre l’estensione della vigna in larghezza e lunghezza. Nel programma TV é poi apparso il figlio del famoso vignaiolo il quale, imperterrito, continua a coltivarla lungo una striscia ridotta al minimo che corre a pochi metri dal lago. L’attuale produzione non é più paragonabile a quella del padre, ma la sua perseveranza ha salvato il vitigno e conservato il nome di quel vino pregiato che ha portato più lustro alla Svizzera di quel tratto di ferrovia…

Una bella storia, che ci ha consentito, tra l’altro, di capire che il famoso Castello era stato costruito dai Savoia per controllare la strada romana che passa tuttora dietro Chillon e portava le Legioni romane in Francia e Germania quindi, le Chateaux non aveva la funzione di controllare il LAGO, come tutti credono ancora, ma era una vera FORTEZZA con tanto di segrete e tante storie vere di condannati terrestri e non di pirati lacustri!

L’intermezzo ginevrino con l’intervista al vignaiolo “mezzo abusivo” del Lago Lemano, mi ha fatto venire in mente un personaggio che conobbi da ragazzino ad Ortona. La guerra era finita da poco lasciando miseria, macerie e quasi nulla per poterla ricostruire in breve tempo dalle fondamenta. Ma si doveva ripartire al più presto per vincere la fame per sopravvivere…

Come dicevo poc’anzi, il mio mondo girava intorno a quel che rimaneva della ferrovia e ai suoi instancabili e valorosi personaggi. Tra questi c’era un’altra figura caratteristica: quella del ‘Sorvegliante’ il quale camminava lungo la ferrovia per controllare lo stato dei binari che allora erano lunghi 15/20 mt. che poggiavano su delle piastre di ferro fissate con grossi bulloni su traversine di legno di quercia, imbevute di catrame ed immerse dentro un letto di pietrisco.

Il sorvegliante, per la verità, si chiamava tecnicamente il ‘guardialinee’. Lo vedevo tutti i giorni: estate e inverno, e mi incuriosiva perché camminava lungo la rotaia, come un funambulo su un filo. Spesso camminava, da perfetto equilibrista, sul binario guardando attentamente i perni che univano le rotaie ed i bulloni che le tenevano legate alle traverse (che con le sollecitazioni del treno si allentavano). Aveva una specie di borsa a tracolla dove c’era, oltre al panino preparato dalla moglie, due petardi da mettere su binario prima di una eventuale interruzione per allertare il macchinista e far fermare il treno, una piccola tromba per emettere un suono per lo stesso scopo ed una bandiera rossa da segnalazione. Sempre a tracolla, incrociata con l’altra, aveva una lunga chiave di ferro dietro la schiena che serviva per riavvitare le grosse viti che univano i binari, ed i bulloni e relativo serracaviglie (o più propriamente chiavarda). Oltre tutto ciò, aveva in mano la classica lanterna con i vari colori da usare nelle gallerie.

Ogni giorno controllava la linea da Francavilla ad Ortona che misura esattamente 13 km e penso che tornasse indietro con qualche treno perché mai lo vidi camminare nel senso contrario.

L’ho visto tutti i giorni fino agli anni ‘50/’60. Ricordo che con il vento al traverso rollava e beccheggiava sotto i suoi “ferri” come un bragozzo che rientrava in porto fuggendo dalla burrasca in arrivo.

Lo chiamavamo lo STORTO, ma storto non era, bassotto sì, ma il suo fisico era forte, tarchiato e ben proporzionato. Forse si chiamava STORTO di cognome …

Casa nostra era situata a pochi metri dalla ferrovia e spesso papà, (ex ferroviere), specie con il caldo d’estate, offriva qualcosa da bere a questa persona che faceva quel lavoro così particolare ed importante che pochi altri conoscevano.

Da bambini, cercavamo di non farci vedere dallo Storto per un motivo molto semplice: ad una certa distanza dalla stazione, da entrambi i lati, c’era un piccolo traliccio sul quale era applicato un braccio pitturato di bianco e di rosso, con dei catarifrangenti, che a seconda di come era posizionato indicava al macchinista del treno se fermarsi prima di arrivare alla stazione, oppure no.

Se il braccio era a 90º rispetto al palo che lo sorreggeva, indicava lo STOP; se ruotava verso il basso di 45º, indicava il Via Libera. Questo braccio veniva mosso con delle leve opportunamente fulcrate con dei grossi contrappesi, direttamente dalla stazione, per mezzo di cavetti d’acciaio che erano sorretti da paletti a circa venti metri di distanza, e per limitarne l’attrito, scorrevano nella gola della ruotina metallica in una puleggia.

Non é difficile immaginare che noi bambini davamo la caccia a quei cuscinetti a sfera svedesi che erano le GOODYEAR delle nostre cariole da corsa con le quali gareggiavamo lungo una strada in discesa del paese.

Avendo la coscienza sporca, il guardialinee era l’uomo burbero e misterioso da tenerci a distanza di sicurezza…


M/ ESPERIA

Di quel brav’uomo si raccontavano tante storie, anche un po’ strane per noi ragazzini che allora non capivamo… Si diceva che durante le brevi soste tra un controllo e l’altro della linea, trovasse il tempo per accudire alcune vigne che producevano un vino bianco eccezionale che nessuno, si dice, avesse mai assaggiato…

Poi, un giorno mio padre ci svelò alcuni arcani misteri:  “Rocco Storto” era il suo vero nome e cognome, aveva un figlio di nome Franco che era imbarcato come ufficiale sulla M/n ESPERIA, una famosa ed elegante nave passeggeri di linea della Società Adriatica di Navigazione.

Lo Storto, nella sua professione di grande camminatore solitario al servizio delle FFSS, aveva sviluppato una sua particolare spiritualità che concentrava sul figlio navigante. Conosceva i suoi turni di guardia a bordo e, sapendo che anche il figlio era solo con sé stesso come tutti i marinai, aveva preso la strana abitudine di guardare verso il mare ogni dieci metri di rotaia cercando di immaginare suo figlio Franco su quella bella nave bianca viaggiare lungo l’Adriatico da Istambul verso Venezia e viceversa.

Era un modo come un altro per passare il tempo con suo figlio, per parlargli e aggiornarlo sui fatti della famiglia, del lavoro e del mare… in fondo navigavano insieme via terra e via mare lungo una linea di sabbia bagnata che la fantasia riduceva al parlarsi come in una stanza senza finestre dove il vento e gli spruzzi in inverno erano gli stessi che bagnavano i loro volti di guardia sulla rotta tracciata per entrambi.


Vigne e binari

E il vino? Già il vino era il loro segreto, l’oggetto di tante conversazioni che un giorno li avrebbe visti brindare insieme intorno a quella damigiana che era stata riempita con tanto orgoglio in una terra di nessuno, in uno spazio rubato ad un mondo ignaro di quel nettare che si nutre di salino, schiaffeggiato dai colpi di vento diffusi dal treno che passa… e accarezzato dall’odore di quella specie di bitume che gli antichi romani usavano per rendere stagne le anfore.

Da tempo i binari sono saldati, le traversine di legno sono state sostituite con quelle di cemento e la figura del “guardialinee” non esiste più. Lo “Storto” è stato sostituito da una apparecchiatura posta sotto alcuni locomotori che rilevano le più piccole anomalie, ma ogni tanto qualcosa non funziona e non registra sul display che un pezzo di rotaia é saltato, come nell’ultimo deragliamento dove ci sono stati tanti morti…

Anche quel romantico nettare é scomparso da quella zona insieme al suo custode, ma forse qualcuno, al contrario di quanto si vociferava in giro all’epoca lo aveva assaggiato e se n’era innamorato.

L’antico filosofo greco “dalle spalle larghe” (Platone) sosteneva che le idee del Supremo circolano liberamente nell’aria, l’uomo le cattura, le fa sue e se le vende….

Sta di fatto che un vino simile coltivato a terrazze sulle sponde del lago di Ginevra lungo i binari della ferrovia, ricorda ancora il gusto speciale ed il profumo del vinello dello STORTO di Ortona.

Anche i due nomi col marchio DOC dicono qualcosa:

Chasselas é il suo nome sul lago Lemano

Coccocciolà si chiama ad Ortona sul nostro mare Adriatico.

Se siete appassionati della materia potete leggere nel quadretto fotografico riportato qui sotto alcune curiose coincidenze, tra cui la parentela tra lo Chasselas e la Cococciolà.

I misteri sono quasi sempre inspiegabili: nascono, muoiono e risorgono con molta facilità… ma trattandosi questa volta di un vino molto speciale, siamo portati a pensare che Rocco, prima di lasciare questo mondo,  abbia provveduto a consegnare in buone mani la formula magica del suo vitigno.

Noi sappiamo di certo che i suoi segreti non erano finiti nelle segrete stanze degli industriali del vino e di certi enologi che usano le polveri che non sanno di salino, né di vento e non profumano di rude catrame vegetale… ma ce lo vendono come vino “navigato” e noi “abbocchiamo” perché abbiamo perso la memoria e la fantasia dell’improvvisazione e dell’arrangiarsi con quel poco che si aveva e che mai più ritornerà. Il mondo va avanti così, senza ricordi e neppure rimpianti. Ma in quale direzione?

Noi vogliamo credere che le vigne di Rocco Storto siano ancora vive, magari segretamente, nella sua terra e possano allietare le serate dei suoi estimatori di oggi affinché il suo ricordo rimanga lungo il MARE ADRIATICO per sempre!


Le persone di una certa età ricordano il PERGOLONE come un vino bianco da tavola squisito! Lungi da noi l’idea di metterla in politica, tuttavia, con grande rammarico, dobbiamo informare il lettore che questo genuino, popolare ed apprezzatissimo vitigno ortonese, non viene più coltivato su grande scala in quanto gli é stato preferito un gran numero di vini scadenti ma molto più pubblicizzati…

ALBUM FOTOGRAFICO

 


Capotreno


Casellante


Macchinista


Una fase della lubrificazione


Ferrovie abbandonate


Incidente accaduto nella notte del 25 febbraio 1956

FINE

Per gli appassionati del mondo ferroviario segnalo il seguente LINK relativo al Museo del Treno di Montesilvano (Pescara):

https://www.tripadvisor.it/Attraction_Review-g194834-d10375627-Reviews-Museo_del_Treno-Montesilvano_Province_of_Pescara_Abruzzo.html

Nunzio CATENA – Carlo GATTI

Rapallo/Ortona, 18 Agosto 2018