NEL PIENO DELLA TEMPESTA

Rotta verso Nord Ovest alla ricerca di un po’ di “bonaccia”

 

Ho avuto la fortuna (o sfortuna) di essere nato in un periodo “speciale”: i miei primi ricordi iniziano nel tragico periodo della Seconda Guerra Mondiale. Qui nella zona di Ortona fu particolarmente cruenta perché era attraversata dalla linea Gustav: nel paese e nella zona nord c’erano i tedeschi, a sud gli alleati…

Proclama che ordinava di lasciare le proprie case

 

LO SFOLLAMENTO

Ho ancora nitida l’immagine di mamma con le lacrime, quando, con un carretto tutto rotto, lasciammo casa e con le poche cose che avevamo potuto prendere, andammo senza meta verso nord. Era la fine di  dicembre. Su quel carretto portavamo un po’ di tutto, ma specialmente coperte e roba per coprirci tutta la famiglia. Giovanni era venuto ad accompagnarci e ritornò subito a Chieti, che era stata dichiarata ‘Città Aperta’, dove abitavano le sorelle della moglie che avevano potuto ospitarli. Intanto noi avevamo Rotta NW, ogni tanto mamma mi posava sul carretto, ma i cavalli si lamentavano ed allora mi riprendeva in braccio, mi accostava il visetto al suo e anche se fredda anche lei, solo quel gesto mi scaldava, però ogni tanto mi poggiava per terra (ero troppo pesante per stare sempre in braccio), e mi diceva “mò camin nu ccun mamm!!” (adesso cammina un pò, figlio mio!!)

Durante il viaggio Silvi era stata colpita da una bomba degli Alleati e noi eravamo diretti proprio lì. Passammo vicino a una bellissima villa e mamma, come altre donne, era corsa a vedere se c’era qualcosa da mangiare, ma evidentemente era stata già abbandonata da tempo e ‘visionata’ in precedenza! Tornò con una mattonella di ceramica con l’effige di una Madonna. Chissà, forse fu grazie a quella se dopo varie peripezie tornammo tutti a casa sani e salvi! Io la conservo gelosamente e dietro ho scritto “Preda di guerra di nonna Memena …”, lei l’ha tenuta sempre sul suo letto.

 

 

Arrivammo a Roseto degli Abruzzi. ll tempo era inclemente, ma avemmo la fortuna di incontrare un signore che, visto chi eravamo, ci affittò una casetta piccola dove poterci fermare. C’erano anche altre persone delle parti nostre. Ferro e la moglie furono ospitati dalla sorella del “Sordo” quel pescatore che poi, quando sarei cresciuto, sarebbe diventato il mio migliore amico e maestro per ‘arte marinara’. Allora la famiglia era così composta: Papà, Mamma, Silvana, Marinella, Io, il Nonno Nunzio, e Dorina (la colf di nonno e baby sitter di Silvana). Mamma doveva pensare a tutto e specialmente a fare da mangiare, con quel poco che riusciva a racimolare… Fortunatamente papà, essendo ferroviere, percepiva sempre lo stipendio e riusciva a trovare per le campagne limitrofe un po’ di farina, olio e quanto bastava. Poi mamma trasformava subito il tutto in pane, pasta… Devo riconoscere che non abbiamo mai sofferto a fame.

 

Intanto io a febbraio avevo compiuto 4 anni. Ricordo chiaramente solo due episodi di mamma di quel periodo:

 

1) quando le avevano detto che i tedeschi avevano preso papà, insieme ad altri, poi fortunatamente era riuscito a nascondersi, però a mamma venne dallo spavento, una bellissima ciocca di capelli bianchi che partiva dalla fronte e si distingueva perfettamente tra i suoi bei capelli neri;

 

2) la faccia terrorizzata di mamma quando, mentre ero con Dorina, improvvisamente suonò l’allarme aereo. Dorina aveva una paura matta delle bombe e mi lasciò lì dov’ero e scappò al rifugio. Io mi ricordo solo una fornace abbandonata, piena di cacche e che piangevo perché non sapevo cosa fare. Dopo un po’ vidi mamma e tutto finì per il meglio. Roseto degli Abruzzi era una bella località balneare con delle bellissime ville abitate solo di estate, ma per noi non fu proprio una spensierata villeggiatura… Tornammo a ‘casa’ a metà di giugno… ma non c’era rimasto più niente, anche la terra era tutta sconvolta da profonde buche di bombe… sul terreno erano passati i cingoli dei carri armati che avevano distrutto anche l’erba (in mezzo alla quale di solito crescevano anche piante di ‘cicoria’, buona da mangiare)!

 

 

I MIEI PRIMI DIECI ANNI

“LA STORIA DELLA CIVILTÀ DELL’UOMO”

Nei primi 10 anni, ho riattraversato la storia della civiltà dell’uomo!!! Da dove vogliamo cominciare?

LA GROTTA

Spesso, durante la guerra, si “VIVEVA IN UNA GROTTA” costruita apposta per nascondersi dai tedeschi. I primi ricordi cominciano proprio lì dove mamma mi doveva stare sempre vicino per non farmi piangere, altrimenti i tedeschi ci avrebbero individuati e avrebbero preso gli uomini validi… Quando piangevo, mi chiudeva la bocca, con il rischio di soffocarmi. Solo in questa circostanze ricordo mamma preoccupata.

IL VESTIRE

Premetto che ero invidiato da tutti, perché papà era ferroviere e percepiva lo stipendio e, anche se basso, si riusciva a comperare qualcosa. Bastava andare a un chilometro nell’entroterra dove le donne con un PRIMITIVO TELAIO, tessevano la stoffa ed io, piccolo com’ero, restavo ammaliato nel vedere quel telaio dal funzionamento così complicato e dal quale in ultimo veniva fuori quella tela robusta, di colore blu, con la quale, figli e padri vestivano.

Oggi Zà’ Stella ha 88 anni, é lucidissima ma parla solo il dialetto stretto; però un interprete che ci regala la traduzione si trova sempre da queste parti: “Tua madre mi aveva raccontato che era riuscita a trovare una vecchia bandiera tricolore e con la parte verde confezionò un “pagliaccetto” per te, come usava allora. Tu avevi meno di quattro anni ma avevi un bel caratterino e non volevi indossarlo, ma poi tua mamma si rese conto che avevi ragione, quella tela ruvida e forte ti pizzicava tra le gambe...”

 

Durante la chiacchierata Zà Stella ricorda perfettamente di quando gli aerei alleati passavano bassi per bombardare i ponti sui torrenti che si trovavano lì vicino, senza mai riuscire a colpirli… “ogni volta scappavamo terrorizzati in ogni direzione… ma siamo ancora qui…!”

Riprendo il racconto:

Ho visto tosare le pecore, filare la lana (di solito questo era il compito delle nonne), e poi con la lana, fare di tutto, e questo lo faceva anche mamma, calzini, maglie, vestitini per bambine, di tutto, in somma… Con 4 ferri addirittura…

LE SCARPE

 

Noi bambini da maggio a ottobre andavamo scalzi… Noi avevamo in famiglia lo zio Giovanni (quello che prima della guerra, conduceva l’azienda elettrica del nonno Nunzio, dotato di tanta inventiva oltre che di un innato senso artistico), il quale a noi bambini costruiva degli zoccoletti con un pezzetto di legno sagomato ed una fascia di tela di sacco, inchiodata ai lati… Mamma, per mia sorella specialmente, era capace di fare delle scarpe di spago, bellissime…In autunno mamma mi comprava le scarpe e guai a giocarci a palla (quella di stracci, si intende, per quella di gomma si sarebbe dovuto aspettare ancora un po’) sarebbero dovute durare fino a Pasqua, quando si compravano quelle più leggere. Purtroppo quelle scarpe si consumavano subito, e bisognava rimettere la suola dal calzolaio e, quando si bucavano di nuovo, mamma mi metteva dalla parte interna delle suolette di cartone che duravano qualche giorno, se non pioveva!!! Era “bello” la domenica a messa, quando bisognava inginocchiarsi, si poteva individuare benissimo, grandi e piccini, quelli che avevano le scarpe bucate, perché restavano in piedi con la testa bassa!!!! Io non ho portato mai un paio di scarpe del mio numero… Sempre qualche numero in più perché diceva mamma che mi sarebbe cresciuto il piede e intanto riempiva la punta di cotone, ma non si è mai verificato che fosse necessario togliere quel cotone dalla punta, perché le scarpe si rompevano sempre prima!

IL MANGIARE

Papà, quando eravamo sfollati, andava per le campagne limitrofe e riusciva a rimediare un po’ di farina con la quale mamma era capace di fare tutto dal pane alla pasta. Anche l’olio era difficile trovare. Quando siamo tornati mancava addirittura il sale (Mancavano i cammelli per ripristinare “la via del sale”). Papà lo riportava da Margherita di Savoia, dove c’erano le saline. Spesso mettevamo a bollire l’acqua del mare, finché non evaporava tutta, ma ricordo ancora adesso il sapore amaro di quel sale… Era il periodo del contrabbando, dal Sud, con il treno, portavano al Nord olio, sale, sigarette e altro, ma non pagavano il biglietto e a decine viaggiavano sopra il treno. Io restavo impressionato da quelli che con il treno in moto, saltavano da un vagone all’altro, li chiamavano “gli sciacalli”. Spesso quando i treni merci, la notte, restavano fermi alla stazione per dare la precedenza ai passeggeri, venivano completamente saccheggiati e a seguito di ciò le Ferrovie furono costrette a mettere di guardia dei poliziotti. Ogni tanto c’era qualche sparatoria!

LE IMBARCAZIONI EGIZIANE TIPO “RHA” (I CANNIZZI)

Incredibilmente, io, fino a 6/7 anni, non avevo mai visto una barca… A Nord di Ortona c’erano i tedeschi, e a 4 km. A S., gli alleati. Bastava prendere una barca, di notte e con 7 mg. avevi raggiunto la ‘libertà’. Tanti hanno provato, molti ci sono riusciti, ma tanti sono stati mitragliati dalle vedette che di continuo, con i potenti fari, cercavano di impedirlo. Le barche, per quanto nascoste e mimetizzate, venivano bruciate dai tedeschi o forate dai colpi di mitra da renderle inagibili, e subito prese come legna da ardere, perché mancava anche quella. Allora i mezzi per potersi allontanare qualche centinaio di mt. dalla riva, per mettere qualche nassa e prendere qualche seppia, venivano fatti i “CANNIZZI”… Erano dei fasci di canne comuni, legati uno all’altro, con la parte più grande a formare la poppa e la parte delle punte, più sottili, leggermente piegate in sù, formavano la prora…!!! SONO PARTITO QUINDI DALL’EPOCA DEGLI EGIZIANI… questi cannizzi’ sono nominati anche da D’Annunzio, nel “Trionfo della morte” scritto proprio qui vicino a San Vito, con i quali uno di quei pescatori dei famosi ‘trabocchi’, spesso lo aiutavano a raggiungere la riva.

I cavi, propriamente detti a terra “funi”, non c’erano, allora venivano realizzate con delle trecce fatte di felci che, se facevi scorrere la mano in senso inverso, ricordo, tagliavano come un rasoio..!

 

I segnali da attaccare a quelle funi costruite con delle felci per salpare e individuare le nasse, venivano utilizzate delle zucche come questa nella foto. Le nasse, visto che la rete non esisteva, venivano fatte di canne o di giunchi. La zucca di quella forma, serviva per usarle come gli uomini primitivi… dall’imbuto per le botti, tagliando la parte superiore, tagliando la parte laterale per costruire qualcosa per prendere liquidi o generi come grano ecc., per bere addirittura aggottando l’acqua da un recipiente tipicamente abruzzese la cosiddetta “conca” fatta di rame, da bravi artigiani locali, con le quali le donne andavano a procurarsi l’acqua alle sorgenti o ai pozzi ed avevano la capacità di portarla sul capo, senza reggerla con le mani. E tanti altri usi ancora. Siamo quindi ritornati all’uso dei popoli primitivi. Molti sono gli aneddoti a proposito dell’uso di queste zucche.

A LEZIONE DI NUOTO NEL 1945

 

Era un tipo di zucca che da bambini adoperavamo per imparare a nuotare Allora noi non avevamo niente né braccioli né ciambelle. La plastica non era ancora stata inventata e i genitori, se avessero saputo che saremmo andati a fare il bagno, ci avrebbero dato le botte. Loro non venivano al mare, avevano ben altro da pensare…

 

Qualche volta, quasi di sera, mamma faceva il bagno con qualche sua amica. Ma non aveva il costume e lo faceva con la sottoveste, non c’erano soldi per comperare una gonna, figuriamoci per un costume, non ti dico la mia gioia, quando io mi attaccavo al collo e le stavo sulla schiena e lei nuotava a rana…

 

Noi bambini, cominciavamo da marzo, ma il bagno lo facevamo nudi, per non bagnare quelle mutandine che portavamo.

 

Allora per imparare a nuotare, si prendevano due di queste zucche, si legavano con una cimetta di 50 cm. tra di loro, poi si mettevano sotto le ascelle e così si era sicuri di galleggiare (una zucca di quel tipo, sono riuscito a trovarla per farla vedere ai miei nipoti, un reperto!).

 

Dovevi cercare di imparare subito, perché dove toccavano sotto il braccio quelle zucche avevano una specie di minuscoli chiodini e ti graffiavano da farti uscire il sangue. Avevamo 5 o 6 anni e nessuno di quelli che già avevano imparato aveva voglia di reggerti ecc.

 

C’è una bella differenza, ma eravamo contenti ugualmente eccetto quando succedeva (e spesso) che quelle mutandine di “percalle” bianche, che lasciavamo in tutta fretta su quei sassi bianchi non riuscivi a trovarle più e così tornavi a casa nudo. Al di là della ‘vergogna’, i rimproveri di mamma erano come se avessi perso un vestito di Versace e ti rimandava di nuovo a cercarle, se nel frattempo non si era fatta notte! Si ricominciava la mattina seguente di buon’ora, prima che altri potessero trovarle.

 

 

LA LUCE ELETTRICA

La prima lampadina l’ho vista a 10/11 anni, nonostante mio nonno avesse una azienda elettrica con una vasta zona di utenze. Finita la guerra, non esisteva più niente: cabina elettrica minata, trasformatori, fili di rame, pali di legno, non esisteva più niente.

Appena tornati, avevano pensato di rimettere su l’azienda, ma dopo poco era uscita una legge per cui dopo 10 anni questa sarebbe passata allo Stato e a seguito di ciò, si decise di venderla. La nuova ditta impiegò molto tempo per realizzarla!

Mia sorella frequentava le Magistrali e la sera studiava prima con un bicchiere dove venivano versati dell’acqua e sopra dell’olio usato, magari per friggere, nel quale veniva intriso uno stoppino ed emetteva la classica luce dei morti…(La PRIMA FORMA DI ILLUMINAZIONE CHE SIA MAI ESISTITA). Poi era arrivata la lampada a petrolio, che papà riportava dal lavoro perché lo usavano per le lanterne! Ricordo che ogni tanto bisognava pulire il tubo di vetro che dopo un po’ diventava nero dal fumo! Poi c’era il lume a carburo, quello dei minatori, ma papà non voleva che si adoperasse perché lo riteneva pericoloso.

Lui non immaginava neanche cosa facessimo noi bambini con il carburo… Si faceva una buca nella terra, piuttosto fangosa, si metteva un po’ di acqua, poi si mettevano dentro dei pezzetti di carburo e subito la buca veniva sigillata da una scatola metallica alla quale era stato tolto un fondo, e nella parte superiore veniva praticato un forellino dal quale sarebbe uscito il gas, una volta in pressione, con un bastoncino si avvicinava una fiammella vicino al forellino e la scatola partiva come un razzo…

SISTEMA D’IRRIGAZIONE: Lo SHADUF

Per irrigare gli orti, visto che i contadini dei primi anni ‘40 non avevano sistemi più moderni di pompaggio, si servivano di una specie di trabocco chiamato SHADUF, che sollevava l’acqua dai pozzi poco profondi che si trovavano ad una giusta distanza dal mare.

Si trattava essenzialmente di un palo conficcato vicino al pozzo, in cima al quale veniva fulcrata una trave che da una parte aveva un contrappeso e dall’altra era legata una pertica che portava il secchio a scendere dentro il pozzo.

Lo sforzo veniva compiuto per immergere il secchio nel pozzo  che, una volta riempito, risaliva facilmente grazie al contrappeso.

L’acqua raccolta serviva per riempire la vasca d’irrigazione che si trovava al limite dell’orto. Raggiunta la giusta misura, si apriva lo scarico e l’acqua attraverso un rigagnolo disegnato sulla sabbia, arrivava alle piante di pomodoro.

Quando il solco era pieno, un’altra persona (che di solito era un bambino), mandava l’acqua nel solco successivo, mentre il contadino cercava di alimentare il più velocemente possibile l’acqua nella vasca, altrimenti la canaletta si sarebbe asciugata.

Ricordo che da bambino, mentre i contadini facevano quel lavoro, io andavo a “navigare” con il mio “osso di seppia” in quei solchi, cercando di non farmi vedere perché temevano che danneggiassi il percorso dell’acqua.

Non potendo fare un disegno per spiegarne il funzionamento, dopo tanto ho trovato la foto di un “trabocco da irrigazione” che assomigliava vagamente a quello, così chiamato, che viene usato ancora oggi per pescare sui fiumi.

Sebbene il contesto sia molto diverso, la sua funzionalità conferma l’universalità del metodo, la cui origine risale agli egizi ed ai contadini della “mezza luna fertile” della Mesopotamia fin dal III millennio a.C. e si chiamava lo “SHADUF”…


Lo ‘SHADUF’

Questo era il sistema di irrigazione che ho avuto la fortuna di vedere da bambino, ed io ho sofferto anche di questo, perché il mio più caro amico di giochi, arrivati ad una certa ora, doveva andare nei campi dal papà, per cambiare il solco da innaffiare, mentre il padre  tirava su i secchi d’acqua senza nessuna interruzione, altrimenti  il  rigagnolo si sarebbe asciugato.
Il riposo sarebbe arrivato quando il pozzo era prosciugato, in attesa che la sorgente lo riempisse di nuovo.

 

I PATTINI A ROTELLE

Anche dopo i 10 anni ci sono stati periodi di sacrifici, alcune cose restano impresse nella mente di un bambino e servono anche per formarne il carattere. Ecco un altro aneddoto:

 

Avevo 12 anni, andavo a scuola a Pescara, ogni mattina mi soffermavo davanti ad un negozio dove erano esposti dei pattini, i primi con le ruote di fibra. Allora la strada era da poco asfaltata, bella nera di catrame, senza buche perché le macchine erano poche ed i grossi camion non c’erano. Di solito, specie al pomeriggio, passavano dei ragazzi con i pattini e il gruppo prendeva tutta la strada, ricordo ancora il rumore di quei pattini e la scia di aria che lasciava, tanto erano veloci”… Erano i primi con i cuscinetti a sfere.

 

Quelli che guardavo io, non erano così, però a me sarebbe piaciuto tanto averli ugualmente.

 

Alla fine dell’anno, visto che ero stato promosso, finalmente mamma mi comprò i tanto sospirati pattini. Li porta a casa, vado per metterli, ma le scarpe non entravano, per quanto i pattini fossero regolabili… La mia unica speranza era zio Giovanni, ma lui al solito, doveva ancora tornare da Pasquino, dove combatteva con il mare. Ricordo che gli andai incontro di corsa.., infatti lo incontrai poco prima del fiume e mentre lui pedalava, io di corsa, scalzo, gli illustravo già il problema. Arrivati a casa, mi sono rimesso le scarpe e purtroppo, pur arrivando a fine corsa, la scarpa non entrava.

 

Mamma subito disse: “se ne và bon(e), dumane matin, jamm a P(e)scar(e), e me facci(0) ardà le sold…3.500 lire, na parol è..!” Traduzione: se non vanno bene, domani mattina andiamo a Pescara e mi faccio ridare i soldi…, 3.500 lire, non è una cosa da niente…). Non posso descrivere il mio stato d’animo, speravo che ne avessero un altro paio adatti.

 

La mattina successiva, siamo andati a Pescara con il treno, utilizzando una delle 15/20 caselle disponibili. Era gratis, anche se scrivevi Bolzano, ma a noi non serviva, non facevamo viaggi di piacere, il massimo della distanza mamma la utilizzava per andare a Vasto che allora si chiamava HISTONIUM da zia Bambina, per farsi cucire qualcosa… Arrivati a Pescara, mamma, prendendomi per mano e tirandomi quasi, perché io non volevo che le ridesse indietro, arrivammo al negozio ed una volta spiegato il problema al commesso, questi con la chiave apposita, prende il piede e cerca di mettere la scarpa nei pattini. Poi si rivolge a mia madre e le dice: “Signora, non vede che le scarpe sono diventate tonde… Come può entrare nella sede?” e mamma “mica posso ricomprare pure le scarpe… perciò riprendetevi i pattini e ridatemi i soldi.”

 

Mentre a me veniva da piangere, il commesso: “non è possibile ridare i soldi indietro, può comprare altre cose” e mamma: “no, io voglio i soldi indietro, altrimenti vado alla Questura”. Visto il diniego mamma mi prende per mano e tirandomi, mentre io singhiozzavo, andiamo in Questura, dove lavorava un cugino di papà, figlio di Zì Rocco.

 

Spiegato l’accaduto, Tonino si chiamava, dice a mamma,: “io adesso telefono, però è difficile che ti ridiano i soldi…” e così fu. Mamma era disperata. Torniamo lì ed il commesso, “Signora, mi dispiace, non è per nostra colpa, ma quelle non sono più scarpe!” Ricordo, mentre indicava con lo sguardo le mie scarpe. Mi sono guardato anch’io i piedi: rivedo ancora quelle gambette secche, nere, un po’ storte, con dei segni bianchi sopratutto sulle ginocchia (ex cadute ecc..), ed infine… le scarpe… In realtà a forza di rimettere la suola, il bordo, che teneva con le grosse cuciture la ‘pelle’ della parte superiore mano mano si stendeva sempre più assottigliata. Era diventata un centimetro larga e la ‘scarpa’, visto che era corta (calzavo un numero piccolo, anche perché erano dell’anno precedente, era diventata quasi tonda. Ho sentito un senso di vergogna, umiliazione e anche se ero piccolo, ho detto tra me “i miei figli non andranno mai con delle scarpe così…”

 

Quando finalmente non le mettevo più le ho tenute da parte. Molti anni dopo le avevo riportate qui, per farle vedere alle figlie, e messe su quel piccolo soppalco nel bagno piccolo, insieme alle scarpe da sposa di Marinella. La colpa, non era dei miei genitori, ma dalle condizioni in cui si viveva, anzi io ero più fortunato degli altri, perché avevo almeno la possibilità di comperare i pattini.

Ricordo mamma quasi piangente, che cercava di comperare quello che poteva servirle, con quella cifra, ma lei ne avrebbe fatto volentieri a meno. Prese un attaccapanni da mettere dietro la porta, delle posate, qualche tegame e così delusi, affranti, chi per un motivo chi per l’altro, tornammo a casa… Ecco questa è una storia indelebile dalla memoria, e insieme alle altre, hanno fatto parte di quella molla capace di spingere me (e gran parte di quelli della mia generazione), a far risorgere l’Italia dalla miseria della guerra! Volontà che ai giovani di oggi spesso manca perché hanno tutto.

BARCHE E “INVENZIONI” (alcune delle quali non riuscite troppo bene!!!)

 

La barca del pescatore era poco più di quattro metri e la vela era un po’ grande, andava bene per le andature larghe, in quanto doveva tirare lo strascico (con l’aggiunta del fiocco per di più), per le andature strette era una barca che richiedeva un impegno notevole.

La barca del pescatore

L’altra aveva un albero di 7,5 mt, quasi 1.5 m. di quello originale… Infatti per poter reggere bene l’albero con il sartiame, sono state messe due crocette..! Mi piaceva correre e avevo messo a punto tutti gli accorgimenti possibili per aumentare la velocità. Il tutto brevettato dal mio povero amico, la cavia umana: Renato.

 

La mia barca, io (di spalle), e Renato (la mia cavia)

La barca aveva una deriva retrattile in ferro abbastanza pesante, (si tirava su con un paranchetto), io poi, per aumentare la stabilità, avevo realizzato sul fondo dello scafo un binarietto sul quale scorreva un bel peso per quando bordavo di bolina, costituito indovina da cosa? Un freno di quelli belli grandi dei treni merci che spesso erano fermi davanti casa!!! Bastava togliere una grossa coppiglia ed il contrappeso era pronto… A quei tempi non esisteva il trapezio… Io forse ne sono stato l’ideatore perché quel povero amico era sempre appeso fuoribordo e spesso per qualche emozione in più, gli mettevo un sacchetto di sabbia sulla pancia…

RENATO CHE PLANA A RIMORCHIO DELLA BARCA A VELA

Un giorno eravamo in barca, con un vento al traverso che a faceva volare davvero. Mi viene in mente una prova e la propongo alla mia cavia, Renato. “RENÀ, io dico che con questa velocità, se ti metti lungo su questo banco (che avevamo a centro 1.60 x 0.35 mt.), legato con la cima dell’ancora, tu dovresti quasi planare… Proviamo dai…” Armiamo il tutto Renato sulla tavola, fila la cima, volta… “, la barca frena, ma riprende subito velocità. Renato, visto che la tavola non era nata per quello scopo, comincia a girare vorticosamente, come un ‘cucchiaino’ per la pesca alla traina, e lui cercava di parlare ma non riusciva tanto girava forte ed io che lo incitavo a non mollare, alla fine quando si era gonfiato di acqua come un otre, l’ho recuperato dicendogli “forse non è riuscito bene.” E lui “proprio no”.

LO SLITTINO PER LA NEVE

 

Gli esperimenti venivano fatti molto spesso, di tutti i tipi. Non ricordo con precisione, avevamo 12/13 anni, quell’anno era arrivato da Mestre, Renato, il quale, dopo una bella nevicata con successivo ghiaccio, tira fuori uno slittino con il quale andava meravigliosamente, scendendo proprio dalla strada che scende da Tollo (proprio davanti casa di mio cugino Tonino, il futuro Generale). Allora non eravamo ancora veri amici, ci aveva prestato lo slittino per fare giusto qualche discesa…, ma tutto lì.

 

Arriva il mese di Luglio e, parlando con Tonino, dico: “Frà, qui bisogna pensare per l’inverno.. Se fa la neve, dobbiamo costruire una slitta anche noi, altrimenti restiamo come l’anno scorso!” E così con tanto ‘sudore’ (era proprio il caso di dirlo), troviamo l’occorrente e la slitta era finalmente pronta.

 

Certo, sarebbe stato bello poterla provare… Ed ecco il lampo di genio: proprio dietro casa di Tonino, alla curva successiva, c’era un burrone di circa 50 mt., dove avevano buttato la bella sabbia gialla tolta dalla collina soprastante, per far sì che non franasse (cosa che sono stati costretti a rifare, dopo 60 anni, perché è franata di nuovo con conseguente interruzione di mesi, del traffico).

 

Lì era proprio l’ideale andare a provarla, infatti io, ai comandi e Tonino dietro, si parte… , una meraviglia! Solo che eravamo quasi alla fine quando lo slittino punta su uno scoglio (di tipo ‘arenaria’ difficilmente distinguibile) e vedo Tonino volare da dietro che va a finire in mezzo ad una immensa siepe di rovi, eravamo solo con i pantaloncini corti, per quanto io facessi per aiutarlo a venire fuori, quando arrivò ad uscirne sembrava proprio Gesù dopo la flagellazione, aveva sangue dappertutto, peccato che allora non c’erano i telefonini per fare le foto, perché con un ramo di quegli spini per corona era l’immagine per il Venerdì Santo era perfetta! Purtroppo, non tutte le ciambelle riescono col buco!

SUB

 

Da piccolo, ho sempre avuto la passione per andare sott’acqua.. Anche se l’acqua era limpida allora, ero sempre con gli occhi rossi, perchè mi piaceva vedere i granchietti, qualche pesciolino, e non sarei uscito mai dall’ acqua. Allora le maschere non c’erano!!!

 

Fino a 12 anni, non avevamo l’acqua corrente, allora mi lavavo nella bacinella e, prima di lavarmi, vi immergevo la faccia per allenarmi a resistere il più possibile. Durante la giornata lo facevo parecchie volte ed ogni volta nonna Memena, mi bussava alla schiena e mi diceva: “jsci…, mò t(e) sfiet ..” = (tira fuori la testa.. che così ti soffochi!!!).

 

Poi avevo un sistema per riuscire a farmi dare 10 lire da nonna e mi serviva anche per allenamento. Facevo una bella inspirazione, e poi espellendo l’aria lentamente, emettevo un suono continuo che veramente durava tanto, lo facevo finché non diventavo cianotico… E dopo due o tre volte che facevo quel lamento, la nonna per non sentirmi più, mi dava le 10 lire.

 

Quando poi era tempo di bagni al mare, era più il tempo che stavo sotto la superficie, che sopra…mi piaceva tanto, stare sotto l’acqua in apnea perché riuscivo a conoscere meglio i pesci che venivano a mangiarmi in mano! E poi mi serviva per la pesca delle cozze, cannolicchi e altro. Avevo un bel fiato!

 

Comunque avrei voluto realizzare qualcosa tipo “palombaro”, così con un altro mio amico, cominciamo a progettare come poter fare. Abitavo in una frazione dove non esisteva neanche un negozio… non avevamo soldi… praticamente niente!

 

Innanzi tutto bisognava realizzare qualcosa per poter camminare sul fondo come i palombari. Questo non fu difficile in quanto, abitando vicino alla ferrovia, è stato facile prendere quelle specie di mattonelle di ferro, con quattro fori, che servivano per tenere fermo il binario sulle traversine di legno con 4 grossi bulloni. Bene, su queste abbiamo fissato dei vecchi zoccoli trovati per la spiaggia, poi avevo adocchiato un tubo di gomma telata, poco più lungo di un paio di metri, che papà adoperava per travasare il vino dalla botte ai recipienti più piccoli. Solo che puzzava di vino e respirare quell’aria già ubriacava…

Cominciammo le prove, avevamo un pattino di zio Giovanni. Il sistema per restare e camminare sott’acqua, era perfetto. Ciò che non andava era il tubo perché, oltre alla puzza, arrivati ad una minima profondità, l’aria non arrivava più…

 

Quella è l’età della scoperta di tutto. Beato chi ha un maestro, però anche se non lo hai, impiegherai più tempo, ci sbatterai a faccia, ma alla fine riuscirai a scoprire, senza saperlo, principi importanti di fisica e meccanica.

 

Così arrivammo alla scoperta che con un solo tubo di un certo diametro, l’aria non faceva in tempo ad essere respirata e poi essere riemessa oltre una certa lunghezza del tubo!

 

Ci sarebbe voluto un sistema: innanzitutto era necessaria un tipo di maschera dove poter far circolare l’aria e da lì respirare. Le maschere che siamo abituati a vedere oggi, non esistevano, la plastica non era stata ancora inventata, però avevamo adocchiato una maschera antigas, quelle della guerra, finita da non molto, che un vecchio aveva in un capannone e che faceva al caso nostro.

 

Non passò molto che riuscimmo a rubare quella maschera e la nuova sfida fu di fare in modo che il tubo fosse interrotto nell’interno di essa. Non poche furono le difficoltà per evitare che entrasse acqua, ma alla fine bene o male ci siamo riuscimmo. Infilammo i due tubi dove c’era quella specie di proboscide dove aveva il filtro e siccome non avevamo niente di adatto all’uso perché il silicone non era stato ancora inventato, dopo ore di concentrazione, arrivammo alla soluzione “naturale”: la cera d’api, che chiedemmo ad un apicultore. La necessità aguzza l’ingegno! Ora il problema grande era trovare qualcosa per poter pompare l’aria. Gira e pensa … alla fine vidi un soffietto a mantice, con due manici di legno, con un mezzo metro di tubo di ferro che papà, prima della guerra, adoperava per dare lo zolfo alle viti! Armiamo il tutto, andiamo dove l’acqua era un po’ alta, ed io sul pattino dirigevo le operazioni. Legai con una cima il mio amico Renato (la cavia di tutti i miei esperimenti, non sempre riusciti…), per sicurezza e una volta giù, comincio a pompare… ma dopo qualche attimo, vedo arrivare a razzo su Renato, con gli occhi rossi tossiva come non avevo mai sentito nessuno!

Esaminiamo le cause: in quel soffietto, nonostante fossero passati 15 anni, evidentemente c’erano ancora tracce di zolfo, per quanto fossi stato tanto a pompare, più che altro per la polvere e la ruggine… Comunque, dopo giorni e giorni di pompaggio a vuoto, e ricordo perfino di averlo messo sopra una pentola di mamma, dove bolliva l’acqua con tanto vapore, alla fine l’impianto era perfetto. Entrava un po’ d’acqua dalla maschera, ma riuscire a stare sott’acqua a 3/4 mt, per diversi minuti, e poter giocare con i pesci, era un sogno!

 

Pensandoci adesso, è stato un prodigio realizzarlo con niente… Adesso basta andare in un negozio, con i soldi di papà e comprare tutto! Però non li invidio i ragazzi di oggi, drogati da quegli affaretti che hanno in mano e dai quali non tolgono mai lo sguardo, senza mai guardare in alto, vedere una nuvola: perché corre? chi la spinge? dove va…!.

 

 

Nunzio CATENA

 

Ortona, 16 Giugno 2014