I MITICI Caravana
Le prime regolamentazioni del lavoro
Prima che il Regno Sabaudo annettesse Genova ai suoi territori, i rapporti di lavoro erano regolamentati, si fa per dire, direttamente fra gli interessati; una stretta di mano e…vinca il più forte, che poi era sempre lo stesso. Non a caso, all’epoca, il datore di lavoro, si chiamava “padrone”.
Arrivato il Regno, bisognava far capire che eravamo una comunità moderna ed allora s’istituì, per la prima volta a Genova, un vero e proprio “libretto di lavoro” che portasse a conoscenza delle parti contraenti, le norme previste dalla nuova legge, promulgata per disciplinare la materia.
Nel ricercare documenti del nostro passato, me n’è capitato per le mani una copia, fra le prime stampate, risalente all’inizio della seconda metà del ’800.
Il documento, scritto in italiano e francese, quest’ultima era lingua in uso a Casa Savoia e fra l’alta borghesia torinese, doveva essere conservato dal datore di lavoro per tutto il tempo che durava il rapporto; quello che ho visto si riferiva ad una domestica che, da diciotto anni, lavorava sotto il medesimo padrone.
Leggendo le norme, si riceve la sensazione che il dipendente fosse ritenuto un irresponsabile, quasi equiparato ad un qualsiasi animale domestico presente nella casa. Di tutte le infrazioni sarebbe andato incontro non obbedendo, avrebbe certamente “filato liscio” o pagata cara la mancanza. Duecento anni prima, una necessità assai simile deve aver suggerito l’idea di costruire, in Genova, un gran ricovero entro il quale riunire tutti i poveri: l’Albergo dei Poveri, per l’appunto.che egli avrebbe potuto commettere verso terzi, ne rispondeva direttamente e pienamente il suo datore di lavoro che poi, a sua volta, aveva diritto di rivalersi sul dipendente colpevole. Così, ogni nuovo padrone, prima di assumere o pagare il dipendente, doveva controllare se gli interrotti rapporti con il precedente, fossero stati pienamente soddisfacenti per quest’ultimo, pena il rifondere lui stesso quanto ancora fosse rimasto in contenzioso.
Chi sovrintendeva a questi rapporti era nientemeno che il Commissario di Pubblica Sicurezza competente al quale, in caso di licenziamento e nell’attesa che il disoccupato avesse trovato un nuovo lavoro, bisognava riconsegnare il libretto; doveva provvedere lui a che il nominativo del disoccupato, fintanto che rimaneva tale, fosse iscritto direttamente nelle liste dei…..sospetti.
Questa classificazione la dice lunga su com’era trattato il dipendente; le misere paghe correnti all’epoca, evidentemente era notorio, non gli avrebbero permesso di poter accantonare qualcosa per sopravvivere sia lui sia la sua famiglia, ad un periodo di disoccupazione; ciò lo avrebbe indotto a delinquere per vivere e allora, vivaddio, tanto valeva, per evitare inutili passaggi burocratici, iscrivendolo subito fra i possibili “sospetti”, indipendentemente dall’aver già commessa o meno, colpa. Prima o poi ci sarebbe cascato.
Il dubbio è che quella legge, più che disciplinare i rapporti di lavoro, servisse a controllare i poveri, schedandoli e localizzandoli. Non potendo la Polizia tenerli tutti sotto controllo, responsabilizzando i padroni, avrebbero provveduto loro a che tutto filasse liscio facendo valere, con la consueta durezza, coperta dalla più totale impunità, il loro potere; il dipendente, sapendo a quale alternativa sarebbe andato incontro non obbedendo, avrebbe certamente “filato liscio” o pagata cara la mancanza.
Albergo dei Poveri – Genova
Duecento anni prima, una necessità assai simile deve aver suggerito l’idea di costruire, in Genova, un gran ricovero entro il quale riunire tutti i poveri: l’Albergo dei Poveri, per l’appunto.
Fu scelto un sito appena fuori le mura, nella parte Nord Occidentale della Città, nella valletta della Carbonara, dove ancor oggi l’imponente edificio si trova. Non fecero però neppure a tempo ad iniziarlo, che una delle ricorrenti epidemie di peste ne interruppe i lavori per due anni.
La città, all’epoca in piena espansione e benessere, attirava ogni genìa di persone che, nell’abbondanza, potevano trovare come rimediare un pasto e, forse, anche una cena; fu quindi invasa da mendicanti, pezzenti e prostitute. La cosa preoccupò sia la nobiltà sia il potere (all’epoca le due autorità coincidevano) di quel tanto che se ne presero cura o, meglio, si protessero riunendo appunto in quel palazzo-ricovero tutti i bisognosi; controllarne ogni entrata od uscita verificandone costantemente la presenza, fu assai più facile e meno dispendioso che girare per la città a prevenire i disordini.
Per le prostitute invece operava un apposito <Illustrissimo Magistrato >, un lenone istituzionale, che, fin dal 1418, badava a riscuotere la quota spettante alla Repubblica, ancor prima che fosse consumata la marchetta, ritirandola proprio all’ingresso di una bella fetta di città, recintata e a loro riservata; con quei soldi, per anni, la Repubblica finanziò l’Opera della Porto e del Molo.
Da un altro libercolo d’epoca, si rileva che Vittorio Emanuele II, Re di Sardegna, di Cipro e di Gerusalemme, Duca di Savoia, di Genova, Principe di Piemonte, ecc. ecc., promulgò un < Regolamento e Tariffa pel servizio dei Facchini di Genova > dove, fatte salve le speciali disposizioni per i facchini da grano, da vino, e quelli del Ponte Spinola, del Ponte Reale e del Ponte Legna (in sostanza le zone dove hanno sempre operato i “camalli”), si affermava che tutti i cittadini possono, se scelti, esercitare tale mestiere all’interno della Città e, fra questa e i Ponti (gli attuali moli). Nell’occasione erano equiparati ai genovesi i cittadini sardi quivi residenti, sino allora parzialmente emarginati, con l’avvertenza, all’Articolo 6, che < Niuno potrà far parte, ad un tempo, delle due categorie >. L’Articolo 4, ci fa capire come all’epoca il porto funzionasse <I facchini delle suddette categorie (quelle dell’elenco sopra riportate) non potranno impedire ai negozianti di sbarcare le merci a quel Ponte che loro converrà…> Il monopolio, che questo articolo tendeva ad eliminare, invece lentamente strozzò il porto e, per oltre un secolo, condizionò l’attività portuale e, attraverso questo mal concepito cooperativismo, parte del benessere della Città; la politicizzazione poi, fece il resto.
Anticamente la corporazione dei portuali ha rappresentato per Genova un punto di forza ma, data l’importanza vitale per l’economia cittadina, poteva anche rappresentare un latente pericolo, specie in un’epoca in cui, XIV e XV secolo, le faide fra le potenti famiglie sovvertivano continuamente il potere nella città. Tradizionalmente, in porto, lavoravano i bergamaschi, forti e pacifici lavoratori che, non essendo genovesi, si sentivano estranei alle “beghe” locali; ma se si fossero schierati, avrebbero potuto sovvertire le sorti a favore di chi avessero difeso, determinando la sconfitta certa per l’avversario. Allora, per garantirne la neutralità senza perdere la loro preziosa e determinante presenza in porto, il Senato decretò che il posto di <caravana >, scaricatore, sarebbe stato appannaggio esclusivo dei cittadini bergamaschi; per poter essere però dichiarati tali, era indispensabile certificare di essere nati nella “Bergamasca”. Così avveniva che le madri incinte, se volevano garantire ai figli sicuri posti di lavoro, dovevano sobbarcarsi un estenuante viaggio per andarli a partorire nei territori d’origine, e, con gli attestati dimostranti che il figlio non era nato a Genova, rinunciavano a che ne divenisse cittadino compresi tutti i conseguenti diritti che quello status, comportava; in questo modo Genova si garantì la totale estraneità dei camalli, gente robusta e dalle mani pesanti, alla vita pubblica locale. Il dizionario Genovese–Italiano del Casaccia, alla voce “caravana” puntualizza: <Chiamavansi già da noi con tal nome alcuni individui, nativi di Bergamo, ammessi per la loro buona condotta e fedeltà a facchineggiare nel nostro Portofranco: oggidì furono sostituiti dai nostri>.Questo come gli altri Dizionari analoghi, editi pressoché contemporaneamente in tutta Italia sul finire dell‘800, li volle Casa Savoia, impegnata a far parlare italiano l’intera comunità nazionale; diede incarico ad eminenti professori locali affinché, in ogni Regione, ne pubblicassero uno che traducesse in italiano i termini del dialetto locale, ma non viceversa, perché l’idioma regionale fu ritenuto fonte d’incomprensioni e campanilistiche divisioni e, non invece un patrimonio culturale da conservare. Ecco perché esistono solo glossari che traducono in italiano i vari dialetti, ma non viceversa. Con lo stesso libercolo sopra accennato, s’istituì anche la figura del “Console”, quale rappresentante dei facchini ed eletto da ciascuna categoria; in oltre la città e il porto vengono suddivise in “zone” e si regolamenta il trasporto nell’ambito delle singole circoscrizioni o fra zona e zona, determinandone le tariffe. Stabilisce anche i pesi sopportabili ed i relativi compensi per retribuire il lavoro effettuato per scaricare le navi, comprese quelle in quarantena, regolando il conseguente sbarco e trasporto a terra delle derrate, prevedendo anche l’uso delle chiatte; si trattava di larghi, robusti barconi da affiancare alla nave e sulle quali scaricare direttamente la merce, da poi essere trainate sino ai moli e, all’occorrenza, coperte da teloni impermeabili, potevano trasformarsi in veri e propri magazzini galleggianti per un provvisorio stoccaggio. Stabiliva altresì le tariffe e la percorrenza in metri, in base alle quali variare le retribuzioni per il trasporto dal molo al magazzino e, giuntivi, le maggiorazioni da conteggiare a seconda del piano al quale la merce doveva essere issata a spalle. portata. Nelle <Disposizioni Generali e Particolari > determina che, come norma, il carico trasportabile, da ritenersi “usuale” per ogni facchino, è di cento chilogrammi; in fine puntualizza che è data facoltà ai negozianti di inserire, nella squadra dei facchini, anche uno di loro fiducia.Tutto quanto sopra fu sancito <Addì 15 Febbraio 1851, Visto d’Ordine di S.M.- Il Ministro Segretario di Stato per la Marina, Agricoltura e Commercio, Camillo Cavour>.
Medaglia commemorariva della Compagnia Unica Lavoratori Merci Varie del Porto di Genova
La statua dedicata ai Caravana
La ragione di tal nome? Il vocabolo deriva dal persiano kairewan che significa, come in italiano il vocabolo carovana, compagnia di viaggiatori. E crediamo di essere nel vero ritenendo che quella parola orientale sia passata nella lingua italiana proprio attraverso Genova e i genovesi, considerate le altre non poche parole arabe, greche, e orientali in genere, del dialetto genovese.
Allora, per garantirne la neutralità senza perdere la loro preziosa e determinante presenza in porto, il Senato decretò che il posto di <caravana >, scaricatore, sarebbe stato appannaggio esclusivo dei cittadini bergamaschi; per poter essere però dichiarati tali, era indispensabile certificare di essere nati nella “Bergamasca”. Così avveniva che le madri incinte, se volevano garantire ai figli sicuri posti di lavoro, dovevano sobbarcarsi un estenuante viaggio per andarli a partorire nei territori d’origine, e, con gli attestati dimostranti che il figlio non era nato a Genova, rinunciavano a che ne divenisse cittadino compresi tutti i conseguenti diritti che quello status, comportava; in questo modo Genova si garantì la totale estraneità dei camalli, gente robusta e dalle mani pesanti, alla vita pubblica locale.
Il dizionario Genovese–Italiano del Casaccia, alla voce “caravana” puntualizza: <Chiamavansi già da noi con tal nome alcuni individui, nativi di Bergamo, ammessi per la loro buona condotta e fedeltà a facchineggiare nel nostro Portofranco: oggidì furono sostituiti dai nostri>.
Il Porto Vecchio a fine ‘800
Questo come gli altri Dizionari analoghi, editi pressoché contemporaneamente in tutta Italia sul finire dell‘800, li volle Casa Savoia, impegnata a far parlare italiano l’intera comunità nazionale; diede incarico ad eminenti professori locali affinché, in ogni Regione, ne pubblicassero uno che traducesse in italiano i termini del dialetto locale, ma non viceversa, perché l’idioma regionale fu ritenuto fonte d’incomprensioni e campanilistiche divisioni e, non invece un patrimonio culturale da conservare. Ecco perché esistono solo glossari che traducono in italiano i vari dialetti, ma non viceversa. Con lo stesso libercolo sopra accennato, s’istituì anche la figura del “Console”, quale rappresentante dei facchini ed eletto da ciascuna categoria; in oltre la città e il porto vengono suddivise in “zone” e si regolamenta il trasporto nell’ambito delle singole circoscrizioni o fra zona e zona, determinandone le tariffe. Stabilisce anche i pesi sopportabili ed i relativi compensi per retribuire il lavoro effettuato per scaricare le navi, comprese quelle in quarantena, regolando il conseguente sbarco e trasporto a terra delle derrate, prevedendo anche l’uso delle chiatte; si trattava di larghi, robusti barconi da affiancare alla nave e sulle quali scaricare direttamente la merce, da poi essere trainate sino ai moli e, all’occorrenza, coperte da teloni impermeabili, potevano trasformarsi in veri e propri magazzini galleggianti per un provvisorio stoccaggio. Stabiliva altresì le tariffe e la percorrenza in metri, in base alle quali variare le retribuzioni per il trasporto dal molo al magazzino e, giuntivi, le maggiorazioni da conteggiare a seconda del piano al quale la merce doveva essere issata a spalle, portata.
Nelle <Disposizioni Generali e Particolari > determina che, come norma, il carico trasportabile, da ritenersi “usuale” per ogni facchino, è di cento chilogrammi; in fine puntualizza che è data facoltà ai negozianti di inserire, nella squadra dei facchini, anche uno di loro fiducia.
Tutto quanto sopra fu sancito <Addì 15 Febbraio 1851, Visto d’Ordine di S.M.- Il Ministro Segretario di Stato per la Marina, Agricoltura e Commercio, Camillo Cavour >.
Renzo BAGNASCO
I CARAVANA
In diversi porti italiani a partire dal XIV secolo, i bergamaschi risultano inquadrati come facchini: a Pisa la maggior parte proviene da Urgnano mentre a Venezia l’importante Compagnia dei Bastagi operante alla Dogana del porto è formata esclusivamente da bergamaschi. Nella Genova medioevale tra le varie arti esercitate da stranieri si segnale per la sua rigorosa organizzazione interna e per i rilevanti compiti ad essa affidati, proprio la Compagnia dei Caravana, cioè i facchini della Dogana, detti in genovese camalli. Quasi tutti di origine lombarda fino al XVI secolo, dal 1576 si sancisce rigidamente l’obbligo e l’esclusività della provenienza bergamasca. I cognomi dei membri della Compagnia che vengono registrati nei documenti ufficiali sono infatti tutti di sicura origine bergamasca e tra le varie località di provenienza si segnalano soprattutto Brembilla, Dossena, Serina e Zogno in Val Brembana. Organizzata secondo i consueti rigidi canoni corporativi, la Compagnia dei Caravana mantiene sempre un ruolo egemone nell’ambito delle attività portuali genovesi fino al XIX secolo, quando la provenienza delle valli di Bergamo inizia a diventare più un’eccezione che una regola statutariamente sancita.
Nota del webmaster Carlo GATTI
Rapallo, 11 Luglio 2014