Ö DRIA de Pegi: l’Andrea di Pegli

 

‘Na nuvia un pö ciù larga,

na giornâ de maccaja

 

e o cheu ti l’ae in ti pê.

Libera traduzione: Una nuvola un po’ più larga, una giornata di tempo umido e afoso, e il cuore ce l’hai nei piedi.

 

 

Questi versi, di Vito Elio Petrucci, ci fanno capire quanto la gente di mare sia sensibile al mutare del tempo.

 

I vecchi marinai sono sempre riusciti a prevederlo, confortati dalla saggezza dei proverbi che, come tutti gli adagi, sono il filtrato d’antiche esperienze riferite a fatti che, in pari condizioni, si ripetono eguali nel tempo.

 

 

 

Anni fa, a questo riguardo, ho conosciuto un vero fenomeno di nome Andrea; Dria, in dialetto.

 

Pegli, località che abbiamo visto essere stata sino al 1932 Comune a sé, poi inglobato ad altri per dare vita alla “Grande Genova”, possedeva, fino a pochi decenni fa, le più ampie ma anche le più attrezzate spiagge della Città, rese accoglienti anche da un invidiabile clima tanto che il Graviers, nella sua <Guide de Gênes > del 1837, la definisce <lieu charmant >.

 

 

Da prima le frequentarono alcuni regnanti europei con le loro corti, arricchite dagli immancabili cortigiani e, a decrescere anno dopo anno, da prima la nobiltà quindi i grandi industriali, i cui rampolli rappresentavano possibili e ambiti “partiti” per nobili dal nome orecchiabile ma dal patrimonio dilapidato ed, in fine, la solida, oculata e ricca borghesia.

 

Il parco di Pegli

Al Lido di Pegli c’erano le più ambite spiagge perfettamente attrezzate, protette dalla vista della retrostante ferrovia da un’ininterrotta fila di cabine balneari, l’una a seguire l’altra. Solo il diverso colore dava a capire a quale stabilimento appartenessero; il vasto antistante arenile permetteva di essere arredato con tutte le indispensabili attrezzature.

 

Ciascun stabilimento aveva la sua classica veranda che facilitava gli incontri, protetta da finestrate decorate con formelle di vetri dalle variopinte trasparenze, disposti a scacchiera secondo la moda dèco dell’epoca; il sole vi filtrava creando atmosfere esotiche.

 

Sempre lì si potevano gustare piatti locali, preparati alla casalinga, in cucine  improvvisate sul retro e, sovente, la giornata finiva con “intrattenimenti danzanti”.

 

In mare galleggiavano, ancorate al fondale, boe rettangolari di legno colorato come le cabine, raggiungibili a nuoto e, una volta arrivati, con la scusa di riposarsi, possibilmente, cercare di “rimorchiare”; i più bravi si esibivano tuffandosi dai giganteschi trampolini protesi a superare la battigia. Sorretti da grosse ruote che li slanciavano verso l’alto, erano talmente lunghi che la loro punta arrivava sul mare sino a dove è abbastanza profondo da consentire, ai più spericolati, di tuffarsi in armoniosi voli come fossero angeli, fra gli<hoo> d’ammirazione delle signore. In fine le immancabili seggiole a sdraio allineate, quasi pennellate di colore sulla chiara arena che, con il variare del loro cromatismo, segnalavano anch’esse il cambio di stabilimento. Una staccionata colorata, divideva l’uno dall’altro.

 

In quella zona l’abbondanza di profonde e lunghe spiagge ne decretò il nome; il Lido.

 

Il mare vi espletava il suo equilibrato apporto di sabbia secondo una millenaria paritetica ripartizione, grazie all’eterno lavoro di ripascimento. Da sempre le burrasche di scirocco prelevavano il materiale inerte, eroso e trascinato a valle dai vari corsi d’acqua che sfociavano alla destra della zona interessata per depositarlo sulle spiagge limitrofe mentre, la successiva mareggiata, quella di libeccio invece ne distribuiva altro lungo la costa situata alla sinistra delle foci stesse.

 

Quest’indispensabile alternativo lavorío di trasporto e deposito degli inerti, residui dei fiumiciattoli e dei rivi, una volta a manca e la successiva a destra, s’interruppe quando l’uomo ha ridisegnato, alterandolo, il naturale profilo del territorio, costruendovi dighe, tombando tratti di mare, realizzando dissennate barriere protettive per non farsi portar via ciò che ormai aveva mal costruito. L’insieme di queste sconsiderate opere artificiali, ha sconvolto le correnti marine del paraggio con il risultato che le varie mareggiate, non potendo più apportare nuovi inerti prelevandoli da dove si depositavano, li sottrasse alle ultime spiagge rimastre, fagocitandosele.

 

Il Dria, che io ho sempre conosciuto anziano, asseriva d’aver, fin da ragazzetto (ma lo sarà mai stato?) navigato questo mare, dapprima come mozzo e poi in qualità di marinaio, imbarcato sui “leudi” o le “bilancelle” che esercitavano il piccolo cabotaggio, lungo la costa che proprio lì vicino aveva un pontile per lo scarico. Poi il fratello, più anziano, lo convinse a sbarcarsi e a dargli una mano nella conduzione dei Bagli Lido, quelli un tempo situati ai piedi del Castelluccio di Pegli, il fortilizio anti-pirati.

 

Accettò e in quello stabilimento balneare visse tutto il resto della sua vita, nel senso più letterale del termine perché lì vi abitò stabilmente. Aveva, come un tempo si diceva, le “mani d’oro” e a tutto provvedeva lui; si vedeva sempre attivo fra quelle dritte sfilate di cabine colorate, allineate come Guardie della Regina in estiva immobile parata. Raramente parlava e, quando lo faceva si esprimeva in dialetto; impossibile quindi per lui comunicare con i clienti “furesti”, prevalentemente lombardi o piacentini, all’epoca frequentatori assidui delle spiagge del Lido di Pegli. Schivo com’era la cosa non lo rattristava; lui non li capiva, né loro, lui. Ciò non di meno era da tutti ben voluto perché, anche senza parlare, come capita a chi intuisce d’istinto, preveniva i loro desideri.

 

Era un taciturno dal breve corpo tozzo e asciutto, forte e nodoso come un ulivo di Liguria; come un capo branco, fiutava in anticipo ogni mutare del tempo, pronto ad intervenire. Avrebbe potuto fare suoi, se avesse saputo leggere, i versi del più noto e sensibile fra i poeti genovesi, Edoardo Firpo, là dove scrive:

 

 

 

No so s’à cante o s’à cianze:

 

l’anima mae a l’è unna spunda

 

dove quest’onda a se franze.

 

 

Libera traduzione: Non so se canta o pianga: l’anima mia è una sponda dove quest’onda si frange.

 

 

A lui, effettivamente, bastava vedere come si dissolvessero, rincorrendosi, le nuvole o come volavano i nevrotici gabbiani emettendo rauchi richiami o, addirittura, che tipo di pesce in quel momento abboccava all’immancabile pescatore, accosciato su uno dei massi di pietra buttati per difendere dall’erosione la retrostante ferrovia, per prevedere il tempo dell’indomani.

 

 

La sensibilità acquisita negli anni, gli permetteva di averne conferma anche osservando l’angolo che la schiuma dell’onda forma quando, omai smorzata, pigramente raggiunge, scivolando sulla rena, la riva e s’interseca con quella di ritorno, giusto un attimo prima che quest’ultima venga risucchiata dalla sabbia della battigia. Quei segnali gli erano sufficienti per cominciare a porre in salvo tutti gli arredi che la imminente mareggiata poteva ghermire o distruggere; e anche i colleghi, concorrenti, erano attenti al suo andarivieni con, sotto le braccia, fasci di sdraio ripiegate e ombrelloni richiusi. Quello era la conferma che il tempo si metteva al brutto; lui non aveva mai sbagliato e loro lo sapevano. Altro che gli attuali satelliti.

 

 

Quel suo volto asciutto, brunito dal sole, con l’eterna barba del giorno prima, non l’ho mai visto rasato, ma neppure con la barba lunga, quel naso adunco, testimonianza d’antiche scorribande saracene con le donne della costa, non lasciava mai trapelare emozione alcuna.

 

Una brutta notte però, il mare, esasperato dai folli lavori dell’uomo che gli contrastavano il suo inestinguibile ripetitivo moto, senza preavviso, si portò via tutti gli stabilimenti balneari della zona, Bagni Lido compresi, portandosi via pure, irrimediabilmente, la spiaggia che da sempre ripasceva.

 

Purtroppo “ö Dria” aveva imparato a leggere perfettamente la natura ma, ahinoi, non i giornali, che proprio in quei giorni sbandieravano, con trionfalistica enfasi, la notizia che l’uomo ancora una volta aveva vinto il mare, strappandogli le onde e colmando quella ferita con la terra. L’uomo, presuntuoso e maldestro imitatore del Creatore, non si accorgeva che stava squassando irreparabilmente un equilibrio, messo a punto dopo millenni di prove.

 

E’ l’eterno apparentemente indecifrabile rapporto fra l’uomo e il mare; prendiamo in prestito i versi di Gabriele Dannunzio, poeta che visse il mare, e leggiamo:

 

là dove le coste

 

sono più scoscese

 

e il flutto più rimbomba

 

nelle caverne più nascoste

 

con le eterne risposte

 

alle eterne domande

 

Renzo BAGNASCO

Rapallo, 3 Dicembre 2014