IL RELITTO DEL MAR NERO

Dedico questo articolo alla memoria del fraterno amico

Emilio Carta

il quale profuse buona parte delle sue ricerche verso il mondo dei relitti navali.

IL RELITTO DEL MAR NERO

La nave più antica del mondo trovata intatta al largo di Burgas

nel Mar Nero

"Ha 2400 anni"

Per noi umili appassionati di navi di tutte le epoche, la scoperta di un relitto così antico e ben conservato, ci emoziona particolarmente in quanto ci consente di aggiungere tasselli di conoscenza tecnica delle costruzioni navali e della gestione della nave sia per quanto riguarda il carico che la manovra.


È stata elaborata un'immagine 3D della nave grazie a dei dispositivi subacquei

“La nave dell'antica Grecia è rimasta integra perché a due chilometri di profondità manca l'ossigeno”. Afferma il professore Jon Adams responsabile del gruppo scientifico che ha individuato la nave: "Una scoperta straordinaria che rivoluziona le nostre conoscenze sul mondo antico".

 

The Science Team

Professor Jon Adams is a Professor in Maritime Archaeology and Founding Director of the University of Southampton’s Centre for Maritime Archaeology.


Professor Lyudmil Vagalinski has been Head of the National Archaeological Institute & Museum (NAIM), part of the Bulgarian Academy of Sciences (BAS) since 2010.


Hristina Angelova (in memorian) has been instrumental in the Black Sea MAP since planning began in 2014 working as the lead Bulgarian maritime archaeologist on the expedition.


Dr. Kalin Dimitrov graduated in Archaeology at the St. Kliment Ohridski University, Sofia in 1992. In the same year he was appointed as Maritime Archaeologist in the Centre for Underwater Archaeology in Sozopol.

Gli altri membri del Team:

Dr Veselin Draganov – Dr Justin Dix -  Prof Joahn Rönnby – Dr Kroun Batchvarov – Dr Dragomir Garbov – Dr Helen Farr – Dr Joakim Holmlund – Dr Rodrigo Pacheco-Ruiz – Dr Dimitris Sakellariou – M.S.C. Kiril Velovsky –

The Educational Team: Catherine Aldridge – Ruth Mackay – Roger Baker – Dani Newman – Dave John -  Dr Angela Hall – Elizabeth Terry –

Documentary Team: David Belton – Andy Byatt.

Trovarla e restituirla alla storia, è stata un’impresa del celebre MAP, acronimo di Maritime Archaeology Project. L’equipe é guidata dal britannico Jon Adams, responsabile di una troupe internazionale di archeologi e scienziati che fa riferimento all’Università di Southampton e che dal 2015 sta setacciando le coste della Bulgaria dove un tempo approdavano le navi provenienti dalla Grecia e, in generale, dai porti mediterranei. La troupe dispone di moderni droni abilitati per la ricerca di relitti giacenti alle profondità abissali che sono anche attrezzati per raccogliere immagini a tre dimensioni.

La notizia è stata data dal Guardian. A breve sarà proiettato al British Museum di Londra un documentario girato durante le ricerche. Oltre a questa imbarcazione i ricercatori hanno individuato un vero e proprio cimitero di navi.


I NUMERI

Il Mar Nero, con i suoi alti fondali, si é rivelato, ancora una volta, il grande guardiano dell’archeologia marina subacquea che ci porta a rivisitare quei pezzi di storia che sembravano già dimenticati.

Il relitto risale a 2400 anni fa ed è praticamente intatto. La nave ritrovata nel mese di ottobre 2018 è la più antica al mondo mai rinvenuta dall’uomo. Si trova a circa 80 km dalla città di BURGAS (Bulgaria), a 2mila metri di profondità.

Si tratta di una nave mercantile lunga circa 23-25 metri, di costruzione greca, in ottimo stato di conservazione risalente a 2.400 anni fa. E’ già stata ribattezzata la nave di Ulisse. Secondo gli archeologi, infatti, è molto simile alla nave del mitico eroe greco Ulisse raffigurata su un antico vaso, da qui il nome (vedi foto sotto).

Tipologia di nave

Secondo le ricostruzioni degli esperti, quel tipo di nave veniva usata per trasportare merci varie dalla Grecia alle colonie elleniche sulla costa del Mar Nero.
Ci sono degli indizi che fanno pensare ad anfore ma anche ad opere artistiche. Sono tuttora visibili l’albero di maestra, il timone e le panche per i rematori. Per il momento il relitto é destinato a rimanere nell’antica culla che lo ospita da oltre due millenni sul luogo del naufragio.

Il suo eccezionale stato di conservazione è dovuto alla mancanza d’ossigeno a quella profondità, oltre che al particolare habitat di un bacino chiuso e preistorico come il Mar Nero.

Città portuale di BURGAS -  Bulgaria (Mar Nero)

Burgas è il secondo porto bulgaro sul Mar Nero ed ha il più grande aeroporto nei Balcani. È noto come centro industriale e turistico. Si pensava fosse una città di recente fondazione, ma recenti scavi archeologici nei dintorni hanno riportato alla luce numerosi reperti, che oggi si possono vedere nel museo archeologico. Si suppone che nel sito dell’attuale Burgas ci fosse, nel II - IV sec. A.C., un agglomerato traco-macedone. Fino al XVIII° sec. sono esistiti solo dei villaggi di pescatori. Il gioiello della città è il parco lungo il mare, piacevole posto per passeggiate sia d’estate che d’inverno. D’interesse per i visitatori della città sono il museo archeologico, il museo etnografico, la sinagoga - dono al comune dalla comunità ebraica - che ospita una mostra di icone e la chiesa armena.

IBERNAZIONE

Il relitto è stato trovato grazie a due robot subacquei telecomandati (ROV) che hanno permesso un’esplorazione estremamente accurata, ma a causa della profondità delle sue acque che assicurano una sorta di ibernazione, per ora sembra impossibile riportarlo alla luce sulla terraferma. Infatti, la totale mancanza di luce e ossigeno a quella profondità ha permesso al relitto di rimanere intatto grazie a circostanze ambientali assai peculiari. In altre parole, in quella regione, l’acqua marina è particolarmente povera di ossigeno, il che ha impedito la proliferazione di batteri che l’avrebbero corrosa e deteriorata.

E’ perfettamente visibile il timone e il contenuto della stiva, come se il tempo si fosse fermato per consegnarcelo intatto e non fosse ancora stanca di navigare nell’azzurro del mare.

L’esame di alcuni campioni di legno prelevati dal relitto ha dimostrato che lo scafo risale al 400 a.C. Ci si trova, senza dubbio alcuno, dinanzi al più antico relitto navale che sia mai stato scoperto nel mondo.

“Ci è sembrato di vivere in un film di avventuraha dichiarato al New York Times il responsabile del progetto, il professor Jon Adamnon pensavo fosse possibile trovare. una nave come questa, ancora intatta, a tali profondità. Abbiamo osservato il timone perfettamente conservato ed in posizione di navigazione. Il suo studio senz’altro cambierà la nostra comprensione della costruzione navale e della navigazione nel mondo antico. La storia di questo antico relitto è ancora tutta da scrivere. Probabilmente, stando ad alcune rilevazioni di reperti esaminati, trasportava, oltre alle solite anfore che erano i contenitori principali in tutta l’antichità, anche ceramiche. Le sue stive, ancora semi sepolte nella sabbia, potrebbero nascondere un vero tesoro artistico, oltre che archeologico”.

Il professor J.A. ha inoltre precisato: “per il momento, il recupero della nave è pressoché impossibile perché il legno, rimasto in uno stato anossico per 24 secoli, si dissolverebbe al primo contatto con l’aria”.

Nel frattempo gli archeologici hanno trovato molte somiglianze con le navi raffigurate nei vasi greci dell’epoca, custoditi nei musei di diverse nazioni.


Dr Helen Farr is a maritime archaeologist with a focus on prehistoric submerged landscapes and early seafaring.

“È una scoperta unica nel suo genere”, ha raccontato alla Bbc Helen Farr, una delle partecipanti alla spedizione. È come aprire una finestra su un altro mondo: quando abbiamo esaminato il video e abbiamo visto apparire la nave, così perfettamente conservata, ci siamo sentiti come se avessimo fatto un viaggio indietro nel tempo”.

LE PARTI MEGLIO CONSERVATE
Sono pressoché intatti: l’albero di maestra, i timoni, le panche utilizzate dai rematori e addirittura, sembra, anche parte del contenuto della stiva – che però è ancora sconosciuto; gli archeologi sostengono che servirà una nuova spedizione per scoprirlo, anche se con ogni probabilità si tratta di anfore e vasi.


Il Vaso della sirena, che è conservato al British Museum di Londra

È nel XII canto dell’Odissea di Omero che, per la prima volta, le sirene fanno la loro apparizione in un’opera letteraria. Intorno a queste figure leggendarie si sono sviluppati miti che, fin dall’antichità, hanno alimentato l’immaginazione dell’uomo, al punto da condurlo a renderle degli esseri quasi reali. A loro si attribuiscono doti ammaliatrici; ascoltando il loro canto nessun essere umano riuscirebbe a resistere, cadendo, inevitabilmente, nella loro trappola. Seguendo il loro canto sensuale, il malcapitato andrebbe incontro solo alla morte. Pochi sono gli uomini sopravvissuti al loro richiamo. Oltre ai leggendari Argonauti, l’episodio più famoso è quello di Ulisse (rappresentato nel vaso) che, seguendo il consiglio della maga Circe, riempì di cera le orecchie dei suoi compagni e facendosi legare all’albero della nave, riuscì a superare la tentazione di buttarsi in mare per seguirle.

La nave a doppia propulsione - vela e remi - è stata individuata in un noto cimitero di relitti, dove sono già state localizzate oltre 60 imbarcazioni. Lo shape dell'imbarcazione ricorda il vascello raffigurato nel Vaso della sirena, che è conservato al British Museum di Londra e risale al 480 a.C.

Rispetto alla moltitudine di reperti, quel particolare vaso è citato da alcuni studiosi che ritengono possa rivelare qualcosa sulla storia dei viaggi di Ulisse, forse persino di quel passo dell'Odissea dove si racconta che: il re di Itaca si fece legare a un albero della nave per ascoltare senza rischi il canto mortifero e tentatore delle sirene - esattamente la "scena" descritta dalle decorazioni del vaso sopra riportato.


L'AMBIENTE PERFETTO

Questo cambierà la nostra comprensione delle costruzioni navali e della navigazione in quel tempo“. È stato comunque prelevato un piccolo frammento di legno del relitto ed è stato portato all'Università del Southampton per ulteriori analisi.

La datazione della nave è stata condotta col metodo del carbonio-14 - Il risultato la fa risalire al 400 avanti Cristo.

IL PARADISO DEGLI ARCHEOLOGI. L’opinione di Jon Adams: “la nave potrebbe essere affondata durante una tempesta di fronte alla quale l'equipaggio, che poteva essere composto tra i 15 e i 25 uomini, non riuscì a fare nulla, e non sarebbe da escludere la possibilità che vi siano i loro corpi conservati nei sedimenti circostanti la nave. Al momento non c'è un progetto per riportare il relitto in superficie, in parte per i costi di una tale operazione e in parte perché sarebbe necessario suddividerlo in pezzi”.

I ricercatori impegnati nel progetto Black Sea Map hanno rinvenuto reperti anche più antichi della nave greca, ma di questi sono stati trovati solo frammenti. Il luogo dove giace la nave greca è in realtà costellato di relitti: “Nella stessa area ci sono, per esempio, alcune parti di una nave mercantile medievale, con le sue torri di prua e di poppa ancora praticamente intatte, con il sartiame e tutte le sue decorazioni”. Conclude Adams.

 

Seguirò per Mare Nostrum i successivi lavori del TEAM e vi aggiornerò sui risultati.


Carlo GATTI

Rapallo, 24 dicembre 2018

 


L’INCENDIO SULLA NORMAN ATLANTIC

L’INCENDIO SULLA NORMAN ATLANTIC

28 dicembre 2014


NORMAN ATLANTIC

Caratteristiche della nave:

Il traghetto apparteneva alla categoria Ro-Pax di ultima generazione.

Capacità merci di oltre 2.000 metri lineari di carico, 850 passeggeri, velocità di crociera di oltre 23 nodi, ideale per il servizio "autostrade del mare".

Il traghetto NORMAN ATLANTIC fu costruito nel 2009 presso i Cantieri Visentini di Porto Viuro per la stessa società marittima (VISEMAR) e battezzato con il nome di Akeman Street, il traghetto fu inizialmente noleggiato dalla compagnia di navigazione T-Link lines per la gestione della rotta Genova–Termini Imerese nell'ambito del progetto denominato “Autostrade del Mare”.

Nel 2011 la compagnia noleggiatrice venne liquidata e la nave passò di mano alla Regione Sardegna tramite la controllata società marittima Saremar: il traghetto, rinominato Scintu (in onore dell'eroe Raimondo Scintu), venne impiegato dal 15 giugno 2011 al 15 settembre 2011 sulla tratta tra Golfo Aranci e Civitavecchia, e dal 16 gennaio 2012 su quella Olbia-Civitavecchia insieme al gemello Dimonios, dal nome dato ai soldati della Brigata meccanizzata “Sassari”.

Dal settembre 2012 la nave è rimasta in disarmo nel porto di Oristano. Scaduto il noleggio con la Saremar per le corse da e per Civitavecchia, gli armatori Visentini hanno firmato il contratto con la Grandi Navi Veloci per la rotta Genova-Palermo in sostituzione dello Splendid, ferma per manutenzione nei cantieri San Giorgio di Genova e lo Scintu ha ripreso il mare senza le insegne dei "quattro mori", sostituite dal logo GNV. Dal marzo 2013 la nave è stata noleggiata alla Moby; dall'estate 2013 la nave effettuò la rotta Livorno-Olbia in servizio merci e passeggeri.

Dal gennaio 2014 il traghetto ha cambiato nome in Norman Atlantic: da settembre a novembre dello stesso anno presta servizio per Carontes&Tourist sulla rotta Messina-Salerno, per poi effettuare da dicembre servizio sulla tratta Ancona-Igoumenitsa-Patrasso per conto della compagnia greca Anek Lines (il contratto sarebbe scaduto il 17 o il 22 gennaio 2015), in sostituzione della Hellenic Spirit, fuori servizio per regolare manutenzione annuale alla carena e ai motori.

LA ROTTA PREVISTA


 

La Norman Atlantic, al comando di Argilio Giacomazzi, sessantaduenne spezzino, proveniva da Igoumenitsa (Grecia-Epiro) ed era diretta ad Ancona con a bordo 443 passeggeri, 56 membri dell'equipaggio.

LA ZONA DELL’INCENDIO


Giunti verso le 04.30 del 28 dicembre 2014 a 33 miglia da Fano nel Canale di Otranto, improvvisamente divamparono le fiamme nel garage della nave dove si trovavano 128 autocarri, 90 automobili, due autobus ed una moto. Il mayday fu lanciato alle 4h47m.

L’incendio grave si diffuse rapidamente a causa di una burrasca forza 7/8.

Sono passati 4 anni esatti dal grave disastro navale. Un incidente sulle cui cause sta ancora indagando la Procura di Bari che sta vagliando la posizione del capitano Argilio Giacomazzi, dell’addetto al carico Pavlos Fantakis, dell’armatore Carlo Visentini, dei due responsabili legali della Anek Lines che aveva noleggiato la nave e di 7 membri dell’equipaggio per cooperazione colposa in lesioni, naufragio e omicidio plurimo. Un lavoro complicato, quello dei pm Ettore Cardinali e Federico Perrone Capano: sono ancora tanti e diversi gli aspetti da chiarire, sia sulle cause dell’incendio sia sulla gestione dell’emergenza a bordo. La combustione ad alte temperature andata avanti per oltre una settimana, anche dopo il rimorchio nel porto di Brindisi, non aiuta poiché ha distrutto il “cuore” del disastro, lì dove tutto sarebbe iniziato in quella notte di mare in tempesta: ponte 4, ordinata 156.

Le vittime accertate: 9 morti, 60 feriti e 19 dispersi. Secondo testimonianze attendibili, un imprecisato numero di clandestini mediorientali forse sei, sarebbe imbarcato prima della partenza della nave. Di loro non si ebbero più notizie.

Grazie ad una vasta operazione di soccorso mai tentata prima e che ha coinvolto oltre

20 navi mercantili e militari di diverse nazionalità, numerosi elicotteri di soccorso italiani e greci, sono state tratte in salvo 477 persone affrontando condizioni meteomarine estremamente difficili come testimoniano le foto sotto.








La burrasca in corso con mare forza 7/8 - onde alte sei metri – vento a 80km/h, ha impedito, almeno nella fase iniziale, che le operazioni di salvataggio potessero effettuarsi con i mezzi di bordo. Infatti, dopo l’ordine di “abbandono nave”, subentrò tra i passeggeri una fase di grande confusione anche perché la lancia di salvataggio di dritta prese fuoco insieme al MES. Due passeggeri greci perirono a causa di un incidente verificatosi con lo scivolo del sistema d'evacuazione MES. Alcuni passeggeri morirono per ipotermia dopo essersi gettati od essere caduti in mare. Qualcuno, senza l’ordine diretto del Comandante, prese l’iniziativa di ammainare la lancia di sinistra, ma con solo 49 persone, un terzo della sua capienza. Questi naufraghi furono recuperati dalla m/n Spirit of Piraeus. Disastrosa fu la messa a mare di alcune zattere gonfiabili che si capovolsero provocando la morte per annegamento o ipotermia di diversi occupanti, mentre altri, rimasti aggrappati a delle cime, sono stati recuperati dagli elicotteri. Un’altra drammatica operazione si verificò durante l’avvicinamento di una zattera alla nave per prendere altri passeggeri che purtroppo non ressero lo sforzo e caddero dalle biscagline di bordo scomparendo in mare; quelli rimasti sulla zattere furono recuperati dalla M/N Aby Jeannette la quale nella stessa operazione riuscì a salvarne altri per un totale di 39 naufraghi.

Il primo ufficiale di macchina Gianluca Assante, anch'egli caduto in mare, fu recuperato dalla petroliera Genmar Argus. Solo un centinaio di persone abbandonò la nave su zattere e lance o gettandosi in acqua, mentre le rimanenti furono recuperate dagli elicotteri con manovre davvero ardite.

Queste furono le navi dirottate per portare soccorso alla nave sotto incendio:

i traghetti Forza e Cruise Europa, la portacontainer Spirit of Piraeus, le portarinfuse Aby Jeannette, Stelios B., Plana e Salvinia, le petroliere Genmar Argus e Nissos Serifos, le chimichiere Evinos e Canneto M.)

Provvidenziale fu l’immediato invio di due potenti rimorchiatori da Brindisi: TENAX e MARIETTA BARRETTA con due squadre di Vigili del Fuoco e di due motovedette della Guardia Costiera. Altre due motovedette salparano immediatamente da Otranto e Santa Maria di Leuca. Da Corfù e Igoumenitza partirono 3 vedette della Guardia Costiera greca, uno dei quali era un mezzo antincendio. Decollarono anche 7 elicotteri della Marina, 3 dell’Aeronautica e 2 della Guardia Costiera Italiana, nonché delle analoghe forze elleniche (5 dell'Aeronautica greca, due della Marina e 4 dell'Esercito).

A causa delle pessime, anzi estreme condizioni meteorologiche, esaurite le possibilità di salvataggio via mare, gli elicotteri procedettero ad un lento ma sicuro recupero dei passeggeri, uno alla volta, che si erano ammassati sui ponti superiori della nave come bene illustra la foto sotto.

L’arrivo della nave militare San Giorgio, in veste di OSC (On Scene Commander) ovvero comandante sul posto delle operazioni SAR, ha dato grande fiducia ai passeggeri che dovevano difendersi dal fuoco, dal vento freddo, dalla pioggia ed anche dai cannoni antincendio dei rimorchiatori. Getti mirati con grande abilità eseguendo gli ordini e le istruzioni direttamente dagli elicotteri, come si può osservare nelle foto in successione.



Per gli appassionati di marineria e di questo genere d’imprese, ho recuperato un autorevole RAPPORTO COMPLETO delle operazioni di salvataggio.

Inizialmente, i superstiti recuperati dagli elicotteri sono stati trasferiti sul traghetto Cruise Europa (per un totale di 69), mentre in seguito all'arrivo della nave anfibia San Giorgio è divenuta quest'ultima la piattaforma di atterraggio per gli elicotteri. Il Cruise Europa non ha potuto recuperare nessuno dal mare a causa delle condizioni meteomarine fortemente avverse, che hanno anzi causato la perdita di una delle sue lance di salvataggio, la numero 4, precedentemente calata in mare nel tentativo di soccorso poi arenatasi danneggiata sulla costa albanese al pari della lancia di sinistra del Norman Atlantic.

Il primo naufrago recuperato da elicotteri, un passeggero in ipotermia che si trovava in mare aggrappato ad una zattera capovolta, è stato recuperato e portato all’aeroporto militare di Galatina alle ore 10; durante i soccorsi un uomo della Guardia Costiera ha riportato lievi ferite, mentre un elicottero è dovuto rientrare a causa della rottura di un verricello. Alle 11.46 il coordinamento delle operazioni di soccorso è stato assunto dalle autorità italiane (Maritime Rescue Sub Center di Bari, poi Maritime Rescue Coordination Center di Roma). A mezzogiorno, con il salvataggio di un primo gruppo di 8 persone, trasportate a Galatina, ha avuto inizio il recupero dei passeggeri a bordo della nave mediante elicotteri del 36º Stormo di Gioia  del Colle e del 61º Stormo di Galatina, che hanno costituito un ponte aereo. Alle 13:12 ed alle 13:16 sono stati fatti partire da Brindisi, rispettivamente, la nave anfibia San Giorgio ed il rimorchiatore Asmara, precedute alle 11:30 da un altro rimorchiatore, l'Aline B.. Nel frattempo accorrevano sul luogo anche il pattugliatore albanese Butrinti, che, giunto sul posto alle 10:45, ha partecipato allo spegnimento dell’incendio insieme al Marietta Barretta a partire dalle 12:40 (opera nella quale è giunto ad assisterlo il gemello Lissus il giorno seguente), e la fregata greca Navarino (da Salamina hanno preso il mare anche la FAC Daniolos e la nave supporto logistico Axios). Alle 14:06 i superstiti recuperati erano complessivamente 111; 26 dei quali recuperati da elicotteri (9 portati in Puglia e 17 sul Cruise Europa); alle 15:09 risultavano tratte in salvo 131 persone, 45 delle quali con elicotteri (36 sul Cruise Europa e le altre a terra), divenute 146 alle 16:10. Alle 15:30, intanto, il pattugliatore albanese Butrinti ha recuperato un passeggero greco caduto in mare. Alle 17:31 il rimorchiatore Marietta Barretta (impegnato con il Tenax anche ad arginare l’incendio con gli idranti di bordo), dopo diversi tentativi e con l'assistenza di un elicottero, è riuscito a prendere a rimorchio il Norman Atlantic. Alle 19:30, mentre arrivava sul posto il San Giorgio, sulla quale hanno iniziato ad essere portati, invece che sul Cruise Europa (dove erano stati sino ad allora trasferiti 69 naufraghi), i superstiti, il numero dei salvati era salito a 165, divenuti 169 alle 21:02, quando il San Giorgio ha assunto il coordinamento dei soccorsi, e 172 alle 21:25. Essendosi spezzato il cavo di rimorchio, alle 21:55 del 28 dicembre il Marietta Barretta ha dovuto sostituire il cavo, riuscendo a riprendere il rimorchio. Il recupero dei naufraghi, trasportati dagli elicotteri sul San Giorgio, è proseguito anche durante la notte, dopo l’arrivo in tarda serata del cacciatorpediniere lanciamissili Luigi Durand de la Penne, dotato di un ulteriore elicottero, che ha preso a bordo 31 naufraghi (successivamente trasferiti sul San Giorgio, sul quale ne erano precedentemente stati depositati 184). Alle 4:56 del 29 dicembre i naufraghi recuperati risultavano 221; poco dopo personale medico è stato depositato dagli elicotteri a bordo del Norman Atlantic. Alle 6:17 erano 251 le persone tratte in salvo, salite a 265 alle 7:02, a 290 alle 7:52, a 310 alle 8:41 e a 316 alle 9:15. Alle 9:35 i superstiti recuperati erano 329, saliti a 345 alle 9:49, 356 alle 10:17 e 379 alle 11:26. Alle 11:55 erano stati recuperati 391 sopravvissuti ed anche i corpi di quattro vittime (un primo passeggero era deceduto durante il recupero da parte di un elicottero il giorno precedente e la salma era stata portata a Brindisi). Durante tali operazioni è sopraggiunto anche un secondo pattugliatore albanese, il Lisus, che si è unito al gemello Butrinti ed ai rimorchiatori italiani nel gettare acqua per spegnere l'incendio. Alle 13:10 407 persone risultavano tratte in salvo ed alle 13:35 solo nove membri dell’equipaggio erano rimasti sul Norman Atlantic, per effettuare un’ultima ispezione. Alle 14:10 solo il comandante Giacomazzi, assieme a quattro ufficiali della Marina Militare, era ancora a bordo del traghetto; alle 14:50 anche il comandante Giacomazzi ha lasciato per ultimo la nave. Oltre a tutti i passeggeri e membri dell'equipaggio presenti sul traghetto dopo l'iniziale concitato abbandono della nave sulle imbarcazioni, gli elicotteri hanno portato in salvo anche due cani che si trovavano sulla nave. Alle 15:37 sono state recuperate altre due salme, portando il numero delle vittime a sette, ed alle 20:06 altre due.

Complessivamente sono stati tratti in salvo 477 naufraghi (l'intero equipaggio, 418 passeggeri e tre clandestini), con operazioni aeree e navali durate 36 ore, mentre al 15 gennaio le vittime accertate risultavano 11 (9 tra i passeggeri del Norman Atlantic, tutti morti dopo essere finiti in mare durante l'iniziale abbandono della nave e prima dell'arrivo dei soccorsi, più 2 marinai albanesi del rimorchiatore Iliria, morti per la rottura del cavo di traino nel tentativo di rimorchiare il Norman Atlantic), e rimanevano 19 dispersi (due autotrasportatori italiani, nove passeggeri greci, una passeggera tedesca di origini libanesi, quattro passeggeri turchi ed almeno due clandestini siriani ed un iracheno. Cinque salme sono state recuperate dalla nave anfibia San Giorgio tra il 29 ed il 30 dicembre, mentre quattro sono state recuperate tra il 28 ed il 30 da motovedette della Guardia Costiera, che le hanno trasportate in Puglia. Altre due salme, avvistate in mare durante i soccorsi, non hanno potuto essere recuperate. A bordo del traghetto era presente anche un imprecisato numero di clandestini provenienti dal Medio Oriente, nascosti tra i camion nei garage, alcuni dei quali tratti in salvo. L'incertezza al 30 dicembre dipendeva anche dalla possibilità che alcuni passeggeri fossero a bordo senza risultare nelle liste di imbarco, nonostante non sia stato di certo praticato overbooking essendo la capienza nominale del traghetto di 850 passeggeri.

Delle navi soccorritrici, la Spirit of Piraeus, dopo aver dovuto rinunciare ad entrare a Brindisi alle 3 di notte del 29 dicembre (a seguito del ferimento di un pilota del porto durante il tentativo di trasbordare), è giunta a Bari alle 7:30 dello stesso giorno con 49 naufraghi. Il Cruise Europa ha raggiunto Igoumenitsa con 69 superstiti il medesimo giorno, mentre il San Giorgio, dopo aver recuperato altre due salme nella giornata del 30 (e dopo il trasferimento a bordo di 31 naufraghi presenti sul Durand de la Penne e di uno proveniente dalla Genmar Argus), è giunta a Brindisi poco dopo le 20 del 30 dicembre, con a bordo in tutto 212 sopravvissuti ed i corpi di 5 vittime. L'Aby Jeannette, dopo aver dovuto rinunciare ad attraccare dapprima a Brindisi, poi a Bari ed infine anche a Manfredonia a causa del mare molto mosso e di una tormenta di neve, ha dovuto fare rotta per Taranto, dov'è arrivata con 39 naufraghi (tra cui 3 feriti lievi) alle 14:15 del 31 dicembre. Più tardi, durante la giornata del 31, sono giunti in Grecia un peschereccio ed un elicottero con rispettivamente 73 e 7 naufraghi ed infine un'altra nave con l'ultimo gruppo di superstiti.

 

IL RIMORCHIO A BRINDISI – ISPEZIONI SUL RELITTO

 

STORIA IN IMMAGINI








Concludiamo il racconto di questa tragica operazione di salvataggio rimarcando la professionalità dei cinque rimorchiatori italiani (Marietta Barretta, Tenax, Asmara, Aline B. e A.H.Varazze) i quali, per il coraggio dimostrato si sono guadagnati il plauso dello shipping internazionale ed anche le meritatissime decorazioni per il salvataggio compiuto di molti passeggeri e per lo spegnimento dell’incendio della Norman Atlantic realizzato in condizioni meteo difficilissime.

Non altrettanto si può dire dei due rimorchiatori albanesi Adriatik e Illiria che non tennero conto delle decisioni concordate e prese dalle Autorità dei Paesi interessati al disastro: rimorchiare il relitto verso un porto italiano adatto ed attrezzato per ospitare i naufraghi e la nave stessa.

I fatti presero una piega inaspettata quando, il 30 dicembre, a seguito di una nuova rottura del cavo da rimorchio del Marietta Barretta, il rimorchiatore albanese Iliria tentò, con un colpo di mano improvviso, di prendere il traghetto a rimorchio per portarlo a Valona (Albania) e consegnarlo alle proprie Autorità come un trofeo di guerra…!

In quella “manovra piratesca” effettuata con molta fretta e imperizia marinara, il cavo si spezzò ferendo gravemente due marinai albanesi, deceduti poco dopo nonostante l'invio a bordo di un medico della nave militare italiana San Giorgio.

Dinanzi alla morte di due incolpevoli marinai albanesi ci fermiamo a meditare in preghiera!

Tuttavia, consentite allo scrivente, che ha esercitato il comando di queste unità per molti anni, di manifestare le proprie perplessità dinnanzi a tanta arroganza, ignoranza delle leggi in vigore, di una totale assenza di etica professionale e di solidarietà umana in circostanze così particolarmente difficili e delicate quando il successo dell’impresa dipendeva soltanto dalla interazione tra tutti i mezzi di salvataggio, come i fatti hanno dimostrato!

Foto del Comandante Nunzio Catena

Concludo con un positivo avvenimento: a bordo, tra i passeggeri, vi era il soprano Dimitra Theodossiou che doveva cantare a Capodanno il celebre "Nabucco" di Giuseppe Verdi  a Rimini. Per quanto la cantante fosse stata salvata con l'elicottero e portata all'ospedale di Lecce, cantò regolarmente ed ebbe un grande successo!

Carlo GATTI

Rapallo, 19 dicembre 2018


LA TRAGEDIA DEL PAMIR

LA TRAGEDIA DEL VELIERO PAMIR

… vittima dell’uragano CARRIE!

21 settembre 1957


Acquerello di Richard Howard Penton (noto anche come professionista Howard Penton) 1882-1960. Un membro fondatore del Wapping Group of artists fondato nel 1946, che tuttora esiste attivamente, osservando e dipingendo il fiume Tamigi. Questo acquerello datato intorno al 1949 mostra il Pamir, una nave da addestramento per velieri tedeschi, che lascia Wapping a Londra.

Copertina del settimanale “La Domenica del Corriere” del 6 ottobre 1957. Il disegno di Walter Molino illustra in modo efficace il naufragio del PAMIR.


PREMESSA

Nel suo ultimo viaggio commerciale via Capo Horn, avvenuto nel 1949 battente bandiera finlandese, il PAMIR aveva un equipaggio di 34 persone. Gli ufficiali erano cinque (comandante, primo ufficiale, secondo ufficiale, terzo ufficiale e nostromo), 14 marinai esperti, 5 marinai semplici e 5 mozzi di coperta, cuoco, assistente di cucina, cameriere e aiuto cameriere e infine un meccanico.

Alla fine degli anni ’40, i tempi erano definitivamente cambiati sotto la spinta tecnologica della Seconda guerra mondiale, i grandi windjammer giacevano per lo più in disarmo nei porti nord-europei.

Tuttavia, alcuni di loro ebbero il compito di tramandare l’ARTE DELLA MARINERIA VELICA alle nuove generazioni di marinai e ufficiali di mezzo mondo; purtroppo, la nuova era delle TALL SHIPS iniziò in modo regolamentato ed in sicurezza, soltanto dopo la tragedia del PAMIR.

Ancora una volta il cambiamento, il progresso e l’evoluzione tecnologica, furono pagati in anticipo con un prezzo altissimo in termini di vite umane.


Il Memoriale del PAMIR nella chiesa di San Giacomo -LUBECCA mostra una delle scialuppe di salvataggio che portò in salvo 5 superstiti del naufragio.


Placca commemorativa dedicata alla Nave a Palo (Four Masted Barque) tedesca PAMIR

Si trova sul lungomare di Wellington in Nuova Zelanda.

A 61 anni dalla tragedia del famoso veliero-scuola PAMIR è doveroso un ricordo alla memoria del comandante Johannes Diebitsch e dei suoi ufficiali, marinai ed allievi che perirono nel naufragio, avvenuto nell’oceano Atlantico a causa del violentissimo uragano “Carrie”. Il veliero aveva un equipaggio di 86 uomini e solo sei di essi si salvarono.

LA STORIA DEL PAMIR (sintesi)

I veliero PAMIR fu costruito nei Cantieri Navali Blohm & Voss di Amburgo.

Varato: il 29 luglio 1905 - Scafo in acciaio. - Stazza L.: di 3.020 tonn -

Lunghezza fuori tutta: 114,5 mt – larghezza: 14 mt – Pescaggio: 7,25 mt.

Dei quattro alberi, tre erano alti 51,2 mt - Larghezza del ponte principale: 28 mt.

Superficie velica: 3.800 m² - Velocità massima 16 nodi - Velocità di crociera 9 nodi.

La nave a Palo (quattro alberi) PAMIR fece parte della flotta: Flying P-Liner - Compagnia di navigazione tedesca F.Laeisz.

(Tutte le navi di questa Compagnia avevano come iniziale la lettera P. (Pamir-Passat-Padua-Peking-Pudel-Potosi…)

Il 18 ottobre 1905 entrò in linea e fu utilizzata dalla società Laeisz sulle rotte dei nitrati del Sud Pacifico. Era la quinta di dieci navi quasi gemelle (near sisters).

Nel 1914 aveva compiuto otto viaggi per il Cile impiegando 64/70 giorni di media a traversata, da Amburgo a Valparaiso e/o Iquique, che erano i più importanti porti cileni dei nitrati.

Tra l'ottobre 1914 e il marzo 1920, (Prima guerra mondiale e poco oltre), si trasferì nel porto di Santa Cruz de la Palma (Canarie). Rientrò ad Amburgo il 17 marzo 1920.

Il 15 luglio 1920 partì da Amburgo per Napoli al traino di due rimorchiatori. Fu consegnata all’Italia in conto riparazioni danni di guerra.

Il governo italiano non fu in grado di reclutare un equipaggio con esperienza adeguata alla navigazione velica d’altura. Fu quindi ormeggiato a Castellamare del Golfo (Napoli).

Nel 1924, la Compagnia F. Laeisz la riacquistò per 7.000 sterline e la mise di nuovo in servizio sulle rotte dei nitrati cileni.

Nel 1931 il PAMIR si salvò dal disarmo grazie all’intervento di Gustaf Erikson, un irriducibile armatore, appassionato di vela, famoso per la sua sfrenata fiducia verso gli ultimi windjammer in circolazione.

Il suo sogno fu coronato quando riuscì a radunarne un bel numero a Mariehamn (isole Åland, poco a Nord di Stoccolma), suo paese natale, e a procurare per loro dei noli per l’Australia, Nuova Caledonia e Nova Zelanda. Quella famosa epopea s’interruppe con l’inizio della Seconda guerra mondiale.

Il 3 agosto 1941, fu la data del sequestro del PAMIR da parte del governo della Nuova Zelanda mentre era ormeggiato in porto a Wellington. Il veliero portò a termine 10 viaggi battendo bandiera della N.Z.: cinque a San Francisco, tre a Vancouver, uno a Sydney e il suo ultimo viaggio attraverso il Tasman, da Sydney a Wellington, trasportando 2.700 tonnellate di cemento e 400 tonnellate di merce pregiata (industria bellica).

Nel 1943 il PAMIR scampò all’attacco di un sottomarino giapponese il cui Comandante, all’ultimo momento lo risparmiò pensando che il costo del siluro era superiore a quello della preda…

Il 12 novembre 1948, mentre si trovava in porto a Wellington (Nuova Zelanda), fu ricomprato dalla Eriksson Line che lo fece subito salpare per Port Victoria nel Golfo di Spencer per caricare grano australiano.  Il viaggio con arrivo a Falmouth (Cornovaglia-UK) durò 128 giorni.

11 luglio 1949 - Il PAMIR fu l'ultimo windjammer a trasportare un carico commerciale via Capo Horn.

Gustaf Erikson morì nel 1947. Il mondo aveva girato pagina. Suo figlio Edgar si rese subito conto dell’impossibilità di gestire i due velieri PAMIR e PASSAT con profitto, principalmente a causa dei cambiamenti dei regolamenti e dei contratti sindacali che regolavano il lavoro a bordo delle navi.

Nel 1948 la Finlandia restituì il PAMIR alla Germania; naturalmente era in pessime condizioni, ed il veliero fu venduto ad un demolitore belga. Ma non era questo il suo destino finale…

Nel marzo del 1951, alcuni demolitori navali belgi offrirono £ 40.000 per l’acquisto delle near sisters PAMIR ed il PASSAT, ma il loro destino era ancora incompiuto…! Infatti, l'armatore tedesco Heinz Schliwen, che aveva navigato su quelle navi alla fine degli anni '20, le comprò entrambe, sicuramente per ragioni affettive, ma anche con una nuova strategia: trasformarle in navi scuola, pensando di ottenere finanziamenti dallo Stato, perché era stato convenuto che il loro impiego sarebbe stato duplice: Nave Scuola - Nave mercantile - con equipaggio numeroso e a basso costo.

I due velieri furono ristrutturati per alloggiare i Cadetti della marina mercantile, fu installato un motore ausiliario di 900 H.P., un sistema di refrigerazione per le cucine, moderni impianti radio e cisterne per la zavorra.

Nel 1952 compì il suo primo viaggio per il Brasile carico di cemento, ritornò in Germania con minerale di ferro. A causa di una forte burrasca nel Mare del Nord il PAMIR perse l'elica ed evitò il naufragio grazie all’intervento di due unità di salvataggio della zona.

Il 4 gennaio 1953 l’armatore si rese conto che la gestione delle due unità era nuovamente fallimentare; tuttavia, essendo ormai navi di grande prestigio nazionale, fu realizzato per loro un altro “salvataggio”: il PAMIR ed il PASSAT furono acquistate da un Pool (Consorzio) di 40 armatori ma, dopo quattro viaggi risultarono altamente improduttivi. Anche questo tentativo fallì.

Nei successivi cinque anni, PAMIR e PASSAT continuarono ancora a navigare in perdita tra l'Europa e la costa orientale del Sud America. Furono sempre impiegate come Navi Scuola da carico. La fama di simboli della marineria tedesca alimentava l’orgoglio nazionale che ormai si era rassegnato alle ripetute perdite economiche imposte tra l’altro da restrizioni legislative ed operative molto pesanti.

I grandi velieri non erano più redditizi! Inoltre il PAMIR aveva problemi tecnici sempre maggiori, come la fuoriuscita di liquidi dai ponti e la grave corrosione delle lamiere. Il processo di deterioramento era ormai troppo avanzato su entrambe le unità

Il Consorzio, nonostante la fama delle due navi, non era stato capace di ottenere i contributi sperati e promessi dal Governo tedesco, ma anche dalle Compagnie di navigazione e dalle donazioni pubbliche.

Nell’estate del 1957 fu deciso di disarmare le due Navi a Palo al loro rientro in Germania dal Sud America. Il loro modello era ormai superato ed anche i loro più tenaci difensori si erano rassegnati ad ammainare definitivamente le vele.

Hermann Eggers, Comandante titolare del PAMIR sbarcò per malattia e fu sostituito da Johannes Diebitsch che era già stato imbarcato da marinaio sullo stesso veliero. La sua carriera proseguì navigando al comando di velieri minori sui quali si era addestrato accumulando una discreta esperienza, ma era questa la prima volta che imbarcava da Comandante su di un veliero da carico di grandi dimensioni.

Prima d’iniziare l’ultimo viaggio, il suo primo ufficiale Rolf Köler di 29 anni, scrisse a casa che sarebbe sbarcato al ritorno in Germania a causa delle pessime condizioni della nave.

Venuti a mancare i finanziamenti necessari alle riparazioni di cui aveva tanto bisogno, era diventato persino difficile reclutare ufficiali all’altezza di quel tipo di BARQUE.

Il 10 agosto 1957 “the four masted Barque PAMIR” partì quindi per il suo ultimo viaggio al comando del capitano Johannes Diebitsch con a bordo 86 uomini d’equipaggio, tra cui 52 allievi nautici.

A Buenos Aires la nave-scuola caricò 3.780 tonn. di granaglie alla rinfusa e lo caricò nelle stive ed anche nelle cisterne della zavorra, quest’ultima operazione fu giudicata un vero azzardo.

Il carico alla rinfusa, per evitare lo scorrimento ed il possibile sbandamento, venne bloccato in superficie da 255 tonnellate di cereali sistemati in sacchi. Anche questa operazione venne svolta principalmente dai cadetti poco o niente addestrati che, in quella occasione, sostituirono i portuali di Buenos Aires che avevano dichiarato sciopero. Il Comandante, forse sotto la pressione dei ricevitori, decise di partire nonostante il Barque fosse in precarie condizioni di stabilità.


L’Ultimo viaggio

Si arrivò così al fatidico 1957. Pesavano su questo veliero da carico: l’anzianità di servizio, la scarsa manutenzione, l’equipaggio inesperto e la fama di non rendere alcun profitto al suo armatore. In queste “avventurose” condizioni nautiche, il PAMIR, si preparava a lasciare il porto di Buenos Aires per il suo ultimo viaggio.

Un tragico destino chiamato CARRIE era fatalmente in agguato in mezzo all’Oceano Atlantico.

Il 21 settembre, quando il PAMIR si trovava tra le Bermude e le Azzorre, fu travolto dall’uragano tropicale CARRIE ancor prima di ridurre le vele, ancor prima di rendersi conto del pericolo imminente di cui non aveva ricevuto alcun messaggio di pericolo.

Nella sua lunga carriera questo intrepido windjammer si era confrontato con molti cicloni, uragani, tifoni ecc… aveva subito molti danni, ma era sempre riuscito a trovare la strada di casa!

L’ULTIMO ATTO…

Alle 12.54 ora locale, la Nave a Palo PAMIR inviò i segnali di soccorso quando ormai derivava senza governo. Passò forse mezz’ora e poi affondò in Atlantico,  a 600 miglia nautiche (1.100 km) a Ovest-Sud-Ovest delle Azzorre in posizione:

Lat. 35°57’ Nord  -  Long. 40° 20’ Ovest

Successivamente, in fase istruttoria, fu appurato che il radiotelegrafista, essendo stato destinato anche ad incarichi amministrativi, probabilmente non aveva ricevuto gli avvisi di tempesta in corso in quel tratto di mare.  L’ultimo messaggio radio fu ricevuto dai soccorritori alle 13,03 - ma giunse indecifrabile a destinazione perché proprio in quei tragici attimi la nave si stava inabissando.

IL RACCONTO DEI NAUFRAGHI

Il sopravvissuto cadetto Haselbach raccontò di come l’affondamento sopraggiunse improvviso diffondendo un terrore incredibile tra i cadetti che solo pochi minuti prima del disastro scattavano delle foto alle onde… senza rendersi conto della gravità del momento. Anche il motore ausiliario non fu mai messo in moto.

“Sotto i colpi di mare il carico si spostò e lo sbandamento raggiunse i 45 gradi. I marinai più anziani fecero di tutto per rimettere la nave in assetto e per calmare i cadetti che erano al loro primo viaggio. Il Comandante Diebitsch invitò i cadetti a pregare per indurli alla calma. Li sistemò su tre lance presidiate da marinai esperti, ma appena calate in mare furono travolte da onde gigantesche e scagliate come fuscelli a centinaia di metri di distanza dalla nave.

Alcune vele furono terzarolate o tagliate dall'equipaggio. Ma non ci fu il tempo d’intervenire su quelle di prora. A momento dell’affondamento un terzo delle vele di mezzana erano ancora fieramente stese al vento…

Gli alberi erano al limite della rottura e le vele ancora a riva furono spazzate via. La situazione era talmente grave che la nave non riusciva più a tenere la prora al mare. Le antenne radio erano cadute con una parte degli alberi più sottili e non c’era né il tempo né la possibilità d’inviare ulteriori SOS. Ormai la fine era prossima.

Quando il PAMIR si capovolse, i pochi uomini che erano rimasti ancora a bordo, li vedemmo lottare tra i marosi nel tentativo di aggrapparsi a qualche cosa che li sostenesse. Riuscimmo ad allontanarci da quell’inferno, spinti forse da qualche onda che ebbe pietà di noi… In quei frangenti, in preda alla paura e allo shock, ebbi   l’impressione che la nostra scialuppa di salvataggio era stata l'unica a scendere in mare regolarmente.

Sulla lancia non c’erano razzi o segnali che funzionassero. Non riuscivo a vedere le altre tre lance di salvataggio con i cadetti a bordo. Diciassette uomini della nostra lancia furono presi e scagliati fuoribordo dalla furia dell'uragano. Sentivamo i motori degli aerei di salvataggio che volavano al di sopra della tempesta. Lunedì pomeriggio perdemmo altri tre compagni che si gettarono in mare in preda al panico e al terrore. Ero troppo debole per fermarli. Se martedì i soccorritori non mi avessero trovato, avrei fatto anch'io la stessa cosa."

Al momento del salvataggio, la barca di Haselbach era gravemente danneggiata e quasi completamente sommersa. Dei venti uomini che erano sulla lancia con lui, dieci erano ancora a bordo 24 ore prima che arrivassero i soccorsi.

Delle altre lance recuperate, molto danneggiate e vuote, non vi furono testimonianze di sorta e non si seppe mai nulla sulla sorte di quei poveri ragazzi.

La Commissione d’inchiesta rilevò che i boccaporti del PAMIR non erano stati chiusi. Il capitano non ordinò l'allagamento delle cisterne di zavorra perché erano piene di carico, tale manovra l'avrebbe aiutata a raddrizzarsi.

L'affondamento fece notizia in tutto il mondo; in Germania fu una tragedia nazionale!

LE OPERAZIONI DI SALVATAGGIO

Il primo SOS fu lanciato alle 12,54 e fu raccolto da molte navi; la più vicina era il mercantile SAXSON che diresse verso la posizione indicata: 600 miglia a Sud Est delle Azzorre. Ma non fece in tempo a rendersi utile, il suo intervento fu tardivo. Il veliero si era capovolto alle 22.30 ed affondò rapidamente.

Lo sbandamento del PAMIR impedì di calare in mare le lance di salvataggio. Questa fu la causa delle ingenti perdite di vite umane.

Tuttavia il SAXON, alle prime luci dell’alba, recuperò cinque marinai che avevano trovato scampo aggrappandosi ad una zattera. Anche l’ABSECON, il cutter della Guardia Costiera USA trasse in salvo un altro naufrago, il cadetto Gunther Hasselbach di cui abbiamo riportato il suo racconto.

Da altre testimonianze di sopravvissuti, si é saputo che la velocità dell’uragano era stata più veloce delle informazioni meteo lanciate da terra. Il vento investì la nave con raffiche di 70 nodi e mare forza 8. La ricerca dei naufraghi durò nove giorni, fu organizzata dalla Guardia Costiera USA e dal cutter ABSECON ; solo quattro membri dell'equipaggio e due cadetti furono estratti vivi da due scialuppe di salvataggio.  Riferirono inoltre che molti degli 86 uomini dell’equipaggio riuscirono ad imbarcare sulle lance, ma la maggior parte di essi morì nei tre giorni successivi. Poiché nessuno degli ufficiali, né il capitano sopravvissero, le ragioni del ribaltamento rimasero incerte ed oscure.

Soltanto la Commissione d’inchiesta stabilì successivamente che la nave sbandò paurosamente sul lato sinistro a causa dello spostamento del carco.

La nave era stata mal stivata a causa, come abbiamo visto, dello sciopero dei portuali che furono poi sostituiti in parte dai militari di terra e dagli allievi di bordo.

Cadde così la prima accusa emessa dalle Autorità di terra che indicava nell’inesperienza del Comandante (che sostituiva il collega titolare), la causa della terribile tragedia.

“Chi é a terra giudica, chi é in mare naviga!”

ASSICURAZIONI

Un destino tragicamente ironico quello del PAMIR! Il suo ultimo viaggio fu l'unico, della sua carriera di nave scuola, in cui si sia realizzato un profitto, poiché la somma assicurativa di circa 2,2 milioni di marchi tedeschi fu sufficiente a coprire le perdite aziendali per quell'anno. Il Consorzio di banche, non fu mai legalmente incolpato per l'affondamento; soltanto più tardi i periti accertarono numerose negligenze e quindi forti implicazioni nella perdita.

Gli ultimi WINDJAMMER sopravvissuti navigano ancora oggi nella categoria a tutti nota delle Tall Ships.

LE ECCEZIONI

La tragedia del PAMIR interruppe la carriera di quasi tutti i velieri commerciali dell’epoca i quali, per preservare la loro gloriosa tradizione, furono ormeggiati prevalentemente nei porti del Nord Europa e trasformati in navi-museo alla memoria! Tuttora sono visitabili i seguenti windjammer:

PASSAT ………………… a Travemunde (Germania)

VIKING ……………….. a Goteborg       (Svezia)

ALF CHAPMAN…….. a Stockholm (Svezia)

POMMERN…………..  a Marienhamn (Åland-Arcipelago finlandese)

Quelle ancora operative:

EAGLE ………………..  Un’altra splendida unità che opera ancora nei ruoli della Coast Guard americana.

SEDOV e KRUZENSTERN ….le quali possono ancora oggi vantare, con orgoglio, il nobile pedegree di vere navi da trasporto commerciali. I due anziani velieri, tuttavia, reggono ancora magnificamente il confronto con le giovani Tall-Ships del nuovo millennio, non solo sul piano estetico, ma anche su quello della velocità.

A questi ultimi giganti della vela abbiamo dedicato due articoli su nostro sito di MARE NOSTRUM – RAPALLO.

 

DALL'EPOPEA DELLA VELA ALLE VERE TALL-SHIPS

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=191;dallepopea-della-vela-alle-tall-ships&catid=36;storia&Itemid=163

WINDJAMMER, il Canto del Cigno della Vela

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=399;wind&catid=36;storia&Itemid=163

Nel 1956, Bernard Morgan, che non era marinaio di professione, ma solo un appassionato di mare e di vele, ebbe l'idea di riunire le navi scuola a vela che mantenevano viva la tradizione dei grandi velieri e di farli navigare in regata insieme. Ventuno furono allora le navi, di undici diverse nazioni, che raccolsero l'invito e che regatarono da Torbay a Lisbona.


Nel secolo precedente accadeva esattamente il contrario: sono infatti passate alla storia le
"Tea Races", quando i clippers, carichi di tè imbarcato in Oriente, cercavano di arrivare in Inghilterra ed in Europa nel più breve tempo possibile facendo tra loro delle vere e proprie gare veliche, con tanto di memorabili scommesse a terra sui vincitori della CORSA DEL TE’.

Quell'anno (1956), per la prima volta tanti velieri si trovarono in regata con partenza ed arrivo segnalato da un colpo di cannone e con una giuria ufficialmente nominata, pronta a controllare se tutti rispettavano i regolamenti di regata!

Due domande su cui ancora oggi ci interroghiamo:

-Se il PAMIR avesse rinunciato al suo ultimo viaggio, com’era da più parti auspicato, da lì a poco sarebbe entrata negli elenchi delle TALL SHIPS.

Solo così, mollando l’ancora in quell’ultimo porto… avrebbe interrotto definitivamente la corsa contro un destino duro, implacabile e inesorabile che era stato forse pilotato da terra…..? Il dubbio rimane a tutt’oggi!

-Nel 1956 l’Italia pianse senza alcun ritegno la tragedia dell’ANDREA DORIA.

-Nel 1957 fu la volta del PAMIR! In quel periodo frequentavo il 4° anno presso l’Istituto Nautico di Camogli e ricordo che per la prima volta provai sulla mia pelle il significato delle parole:

tristezza e solidarietà

Io e i miei compagni del Nautico avremmo potuto trovarci su quel veliero, al posto o insieme a quei ragazzi tedeschi.

Fu il nostro primo naufragio della carriera… e molti di noi non furono “salvati” e scelsero dopo quell’evento rotte “terrestri”!

ALBUM FOTOGTRAFICO


Tre alberi a vele quadre ed una a vela aurica, questo era la nave a palo PAMIR, lunga 114 metri, inalberò i colori della Compagnia Laeisz, armatrice di una serie di grandi velieri, nota anche come “FLYING P. LINE”. La vela era ormai al tramonto ma c’erano tuttavia alcuni armatori che credevano nella economicità degli ultimi velieri in ferro (si diceva che il vento é gratis) e li utilizzavano nel tentativo di contrastare le navi a vapore, un confronto che in pochi decenni era diventato sempre più improponibile; infatti soltanto i “noli minori” avevano ancora un senso commerciale per gli ultimi velieri: il guano, il fertilizzante cileno, i cereali alla rinfusa e pochi altri


Il “PAMIR” a rimorchio mentre entra in porto con velatura ridotta e gran pavese.


Il KRUZENSTERN (ex PADUA), oggi nave scuola della Marina Militare russa.


Il PASSAT ormeggiato a Travemünde (Germania)


Il POTOSI, poi FLORA


 

Il PEKING in navigazione nell’Atlantico

 

I Capitani del PAMIR

· 1905-1908 Carl Martin Prützmann (DE)

· 1908-1911 Heinrich Horn (DE)

· 1911-1912 Robert Miethe (DE)

· 1912-1913 Gustav AHH Becker (DE)

· 1913-1914 Wilhem Johann Ehlert (DE)

· 1914-1920 Jürgen Jürs (DE)

· 1920-1921 C. Ambrogi (IT)

· 1924-1925 Jochim Hans Hinrich Nissen (DE)

· 1925-1926 Heinrich Oellrich (DE)

· 1926-1929 Carl Martin Brockhöft (DE)

· 1929-1930 Robert Clauß (DE)

· 1930-1931 Walter Schaer (DE)

· 1931-1932 Karl Gerhard Sjögren (FI)

· 1933-1936 Mauritz Mattson (FI)

· 1936-1937 Uno Mörn (FI)

· 1937-1937 Linus Lindvall (FI)

· 1937-1941 Verner Björkfelt (FI)

· 1942-1943 Christopher Stanich (NZ)

· 1943-1944 David McLeish (NZ)

· 1944-1945 Roy Champion (NZ)

· 1946-1946 Desmond Champion (NZ)

· 1946-1948 Horace Stanley Collier (Two-Gun Pete) (NZ)

· 1948-1949 Verner Björkfelt (FI)

· 1951-1952 Paul Greiff (DE)

· 1955-1957 Hermann Eggers (DE)

· 1957  Johannes Diebitsch (DE)

 

BIBLIOGRAFIA

VELE D’EPOCA nel mondo

Di Flavio Serafini – Editore Gribaudo

IL ROMANZO DELLA VELA

Di Tomaso Groppallo – Editore Mursia

LA TRAGEDIA DEL VELIERO PAMIR

AIDMEN di Enzo Scalfarotto e Giovanni Panconi

PAMIR GERMAN SAIL TRAINING SHIP

Discussion in 'Other Ships and Shipwrecks' started by Jon Hollis, Feb.2,2006.

 

DER UNTERGANG DER PAMIR (TV Movie 2006)

ALTRE FONTI:

- Civico Museo Marinaro “Gio Bono Ferrari” di Camogli

- Museo Marinaro "Tommasino-Andreatta" di Chiavari

 

 

Carlo GATTI

Rapallo, 11 Ottobre 2018

 


LE TRE SORELLE OLYMPIC-TITANIC-BRITANNIC - TRE DESTINI DIFFERENTI

LE TRE SORELLE

 

OLYMPIC-TITANIC-BRITANNIC

 

TRE DESTINI DIFFERENTI



 

La classe Olympic era formata da tre navi passeggeri gemelle, appartenenti alla Compagnia marittima inglese:

WHITE STAR LINE

OLYMPIC – La nave fu varata nel 1910 e demolita nel 1935. Fu di gran lunga la più longeva delle Tre Sorelle. Durante la sua lunga carriera conobbe un incontro ravvicinato con un sommergibile tedesco durante la prima guerra mondiale e una collisione con la motonave inglese Hawke. Senza conseguenze gravi in entrambi i casi. Il 15 maggio 1934 l'Olympic speronò di prua la piccola nave americana Nantucket Lightship LV-117. La piccola nave naufragò e morì tutto il suo equipaggio: alcuni membri perirono sul colpo, mentre altri morirono successivamente in ospedale.

Il 27 marzo 1935 compì il suo ultimo viaggio Southampton-New York. Nel setytembre dello stesso anno fu venduta a Sir John Jarvis per £ 100,000. Rivenduta a Thomas W.Ward Ltd. con l'impegno che la nave venisse demolita nel cantiere di demolizione Jarrow-on-Tyne. Il 13 ottobre la nave giunse al Palmer's-old shipyard, Jarrow. Il prezzo dell'acciaio dell'OLYMPIC superò £2,3s per tonnellata.

TITANIC La nave fu varata nel 1911, affondò durante il viaggio inaugurale, nel 1912 dopo la collisione con un iceberg.

BRITANNIC – La nave, poi HMS Britannic – varata nel 1914, affondò nel 1916 dopo l'urto con una mina tedesca quando era utilizzata solo come nave ospedale durante la Prima Guerra Mondiale.

Il transatlantico HMS BRITANNIC, prima di essere convertito in Nave Ospedale, era stato designato RMS Gigantic.

Del transatlantico TITANIC e del gemello OLYMPIC ce ne siamo già occupati sul sito di Mare Nostrum Rapallo, ecco i LINKS:

RMS TITANIC - Una breve Storia

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=394;tita&catid=34;navi&Itemid=160

LA STORIA DEL RMS OLYMPIC

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=393;oly&catid=53;marittimo&Itemid=160

Del BRITANNIC ce ne occupiamo con il presente servizio.

HMHS BRITANNIC

Ai primi del ‘900, la rivalità tra le due famose Compagnie di Navigazione Passeggeri: CUNARD LINE e WHITE STAR era famosa in tutto il mondo dello Shipping internazionale, proprio in quella fase storica che fu definita “L’ETA’ D’ORO” dei LINERS oceanici.

Ai due giganti di linea: Lusitania e Mauritania della CUNARD, di cui ci siamo già occupati su questo sito, la WHITE STAR rispose il 23 novembre 1911 firmando un contratto con i costruttori navali irlandesi Harland & Wolff, per la costruzione della terza nave del trio di super transatlantici, appunto: il BRITANNIC.

Questa è la storia di quello che sarebbe diventato di lì a poco L’HMHS Britannic, l’acronimo inglese (His Majesty’s Hospital Ship) ne indica la sua ultima destinazione.

Avrebbe dovuto chiamarsi Gigantic, ma l’affondamento della gemella RMS Titanic, rivoluzionò i piani di costruzione ed il suo nome fu cambiato in Britannic.

ALCUNI MIGLIORAMENTI TECNICI REALIZZATI SULLA BRITANNIC

La perdita di vite avvenuta con il Titanic, incise pesantemente sulle scelte progettuali e portò la Compagnia ad equipaggiare nuove e più grandi gru, capaci di portare fino a 48 scialuppe, 2 delle quali dotate di radio a corto raggio e motori.

Per navi superiori alle 10.000 tonnellate, era ancora in vigore la legge che prevedeva l’obbligo di lance di salvataggio per almeno un terzo delle persone imbarcate, quindi non esisteva alcun obbligo per i costruttori a garantire la sicurezza di tutti i passeggeri e dell’equipaggio.

Fu aumentato il numero dei compartimenti per aumentare la galleggiabilità della nave nei casi di estremo pericolo, cercando soprattutto d’isolare, quindi di proteggere la sala macchine. L’altezza di 5 paratie delle 17 paratie, misuravano 23 metri fino ad arrivare al ponte di coperta. Questo permetteva al Britannic di evitare l’affondamento nel caso in cui l’acqua fosse riuscita a passare al di sopra delle paratie.

I compartimenti, furono dotati di 63 porte stagne a chiusura semi-automatica e venne rinforzata la chiglia, principalmente al di sotto della sala macchine, per un totale di 155 mt, con una doppia chiglia di 76 cm di spessore. Con queste modifiche, in teoria, la nave sarebbe potuta restare a galla (ma non in movimento) anche con 6 scompartimenti anteriori allagati.

Il transatlantico fu varato il 26 febbraio 1914. Era lungo 269 metri e largo 28.5, aveva una stazza di 48.158 tonnellate, minore di quanto previsto inizialmente, 9 ponti, 785 passeggeri di 1° classe, 835 di 2° classe, 935 di 3°classe e 950 persone di equipaggio, 29 caldaie di cui 24 di tipo doppio e 5 di tipo singolo.

La propulsione era composta da due macchine alternative a vapore reversibile a doppio effetto e triplice espansione a quattro cilindri, collegate alle eliche esterne, mentre una turbina Parsons a bassa pressione alimentava quella centrale. Questi motori, i più grandi mai costruiti, 13.5 m di altezza, rispetto a quelli del Titanic erano più efficienti e permettevano, in fase di manovra, la mobilità delle 2 eliche esterne ed attraverso il recupero del vapore, veniva garantita l’alimentazione della turbina per la terza elica centrale.
Grazie ai 50.000 cavalli vapore sviluppati, la nave poteva raggiungere i 22 nodi, velocità incredibile per una nave passeggeri dell’epoca.

UNA CURIOSITA':

Sui tre SUPER-TRANSATLANTICI, solamente tre delle quattro ciminiere alte 19 metri erano funzionanti, la quarta aveva la funzione di presa d'aria, e fu aggiunta per rendere lo SHAPE della nave più imponente.

il 28 giugno 1914, L'attentato di Sarajevo fu assunto dal governo di Vienna come il “casus belli” che diede formalmente inizio alla Prima guerra mondiale. Il Britannic non sarebbe mai potuto entrare in servizio passeggeri per il quale era stato designato e destinato. La dichiarazione di guerra della Gran Bretagna causò la completa cessazione dei lavori sulla nave Britannic.

QUADRO STORICO

La campagna di Gallipoli, conosciuta anche come campagna dei Dardanelli fu una campagna militare intrapresa nella penisola di Gallipoli  dagli Alleati: Impero Britannico e Francia schierati contro L’Impero Ottomano e Germania nel corso della Prima guerra mondiale  per facilitare alla Royal Navy e alla Marine Nationale  il forzamento dello stretto dei Dardanelli  al fine di occupare Costantinopoli,   costringere l’Impero Ottomano a uscire  dal conflitto e ristabilire le comunicazioni con L’Impero russo  attraverso il Mar Nero.

La campagna, pianificata da Francia e Regno Unito, doveva inizialmente articolarsi su una serie di attacchi navali che, condotti dal 19 febbraio al 18 marzo 1915, non ottennero i risultati previsti; il 25 aprile 1915 tre divisioni alleate furono sbarcate  sulla penisola di Gallipoli, mentre altre due furono utilizzate in azioni diversive,  in quella che si può considerare la prima operazione anfibia  contemporanea su vasta scala e dalla quale scaturirono studi teorici che influenzarono profondamente successive operazioni analoghe. L'azione fu studiata in modo da eliminare le fortificazioni  avversarie e rilanciare l'assalto navale, ma lo svolgimento delle operazioni non andò come previsto dai comandi alleati: l'improvvisata organizzazione della catena di comando, la confusione durante gli sbarchi, le carenze logistiche  e l'inaspettata resistenza dei reparti ottomani coadiuvati da elementi tedeschi impedirono di ottenere un'importante vittoria strategica, trasformando la campagna in una sanguinosa serie di sterili battaglie a ridosso delle spiagge.

L'evacuazione finale delle teste di ponte tra il novembre 1915 e il gennaio 1916 suggellò uno dei più disastrosi insuccessi della Triplice intesa  durante l'intera guerra; il fallimento costò al corpo di spedizione circa 250 000 morti e feriti e fu aggravato dalla perdita di diverse unità navali di grosso tonnellaggio, nonostante gli Alleati avessero goduto di un'assoluta superiorità numerica e tecnica a confronto con le esigue forze navali ottomane.

In questo teatro bellico entra in scena la nave ospedale

BRITANNIC


Il 13 novembre 1915 la White Star ricevette la richiesta dall’Ammiragliato Britannico per impiegare la Britannic come nave ospedaliera. La sigla RMS venne quindi sostituita e divenne HMHS BRITANNIC.

L’ammiragliato prevedeva di alloggiare 3.309 pazienti nei ponti superiori per assicurare trasferimenti rapidi alle scialuppe in caso di emergenza. I medici, gli infermieri superiori, gli ufficiali amministrativi della corporazione medica Reale e i cappellani soggiornavano in cabine di prima classe, mentre gli infermieri inferiori e gli assistenti alloggiavano nelle cabine passeggeri dal ponte B in giù.

Il transatlantico Britannic ebbe una nuova livrea, quella riconosciuta ufficialmente in guerra: striscia verde longitudinale intervallata da 3 croci rosse, una linea di luci verdi longitudinale con croce rossa illuminata per la navigazione notturna, inoltre le fu assegnato il numero nave 9618. Questo permetteva alle navi di navigare indenni durante il conflitto.


La Nave Ospedale Britannic, al comando dell’esperto capitano Charles Bartlett, aveva il seguente programma: partire da Liverpool e Southampton, fare rotta verso il Mediterraneo (Napoli, Sicilia, Mar Egeo, Turchia e altri porti del Mare Nostrum), andare a caccia di feriti, curarli e portarli in salvo.

La partenza dalla Gran Bretagna fu tranquilla. Gli ordini dell’Ammiragliato a Bartlett prevedevano, nel viaggio d’andata, la breve sosta a Napoli per fare bunker (rifornimento di carbone e acqua), per poi raggiungere il porto di Mudros nell’isola greca di Lemnos.

La Nave Ospedale BRITANNIC raggiunse il Mediterraneo e qui restò operativa dal 1914 al 1916. Per l'esattezza fino a martedì 21 novembre 1916, giorno in cui, fu squarciata da una violenta esplosione al largo dell'isola di Kea nel Mar Egeo.

Secondo testimonianze, per la verità mai accertate, l’urto della mina avvenne nelle vicinanze della sala macchine.
Pur rafforzato nelle sue strutture, il Britannic affondò in 55 minuti.

L’affondamento causò la morte di 30 persone, molte delle quali, perirono quando, senza l’ordine preciso del ponte di comando, vennero ammainate le lance poppiere, mentre le eliche erano ancora in movimento.

Questa terribile circostanza accadde perché non fu possibile fermare le macchine, quindi gli assi porta-eliche a causa dei danni riportati a seguito dell'esplosione.

Alcune testimonianze, peraltro mai confermate da fonti ufficiali, riportano che l'esplosione fu terribilmente aumentata a causa del materiale esplosivo esistente a bordo (quasi certamente destinato a uso bellico; armamenti che non dovevano trovarsi a bordo).

Nessuno dei libri inglesi da me consultati e citati nella Bibliografia sotiene tale ipotesi, ma non viene esclusa l'ipotesi che l'eplosione sia stata fortemente incrementata dalla presenza di gas di carbone (coal dust igniting)*.

* - Un'esplosione di polvere è la rapida combustione  di particelle fini sospese nell'aria, spesso in un luogo chiuso. Esplosioni di polvere possono verificarsi quando qualsiasi materiale combustibile polverizzato disperso è presente in concentrazioni sufficientemente elevate nell'atmosfera o in altri mezzi gassosi ossidanti, come l'ossigeno.

 

La Convenzione dell'Aja del 1907 aveva definito il concetto moderno di nave ospedale. In particolare l'articolo 4 definiva le caratteristiche necessarie affinché una nave potesse essere considerata "nave ospedale": La nave doveva avere segni di riconoscimento e illuminazione specifiche; doveva fornire assistenza medica a feriti di tutte le nazionalità; non poteva essere impiegata per alcuno scopo militare; non doveva interferire né ostacolare le navi militari. Inoltre, le forze belligeranti avevano il diritto di ispezionare le navi ospedale per verificare eventuale violazioni delle norme di convenzione.

In caso di violazione anche solo di una delle limitazioni previste, la nave avrebbe perso il suo status di “zona franca” ed anzi protetta (molto spesso erano dipinte di bianco, e recavano in modo evidentissimo la grande Croce rossa, simbolo internazionale di neutralità) e sarebbe tornata ad essere considerata come unità combattente e come tale suscettibile di attacco nemico.

Subito dopo Il capitano Bartlett ordinò al timoniere di accostare verso l’isola di Kea, con l’intento di portare la Britannic verso i bassi fondali, ma la nave non rispondeva ai comandi: si era aperta una falla a dritta di prora da cui entrava mare vivo sui ponti aperti E-F.

La nave, per fortuna, era scortata da altri mezzi navali che riuscirono a salvare 1070 persone. 35 delle 58 scialuppe furono ammainate in mare.

La nave ormai sbandata a dritta, cedette a prua, mentre lo scafo si mantenne integro, come in seguito dimostrarono le riprese subacquee di famosi esploratori, una per tutte: quella compiuta nel 1974 dal comandante Jacques Cousteau.


Così i testimoni descrissero il naufragio:

“Iniziò ad affondare con la prua, quando le eliche emersero dall’acqua, la Britannic sbandò ancora di più a dritta e s’inabissò”.

 

IL SALVATAGGIO DEI SUPERSTITI

Come si é visto, la nave era scortata da altri mezzi navali che riuscirono a salvare oltre un migliaio di persone. Ma sarebbe ingiusto dimenticare la flottiglia di piccole navi da pesca greche che entrarono in scena quasi nello stesso momento in cui la nave affondò, insieme a navi più grandi chiamate dal Britannic.

La prima di fu la Heroic, che prese con sé 494 naufraghi, poi arrivò la HMS Scourge, che prese 339 sopravvissuti, seguita dalla HMS Foxhound. Arrivarono anche due rimorchiatori francesi: il Goliath e il Polyphemus, chiamate dalla Scourge. Anche le due scialuppe a motore del Britannic giocarono un ruolo chiave, girando per le altre scialuppe e prendendo i feriti più gravi, che vennero portati a Kea. I 150 sopravvissuti arrivarono nel piccolo villaggio di Korissia, dove ricevettero cure mediche.

Molte furono le inchieste effettuate negli anni successivi sulla dinamica dell’incidente. Inizialmente si pensò non ad una mina, bensì ad un siluro, poi si fece strada l’ipotesi che la nave, pur essendo nave ospedale, trasportasse armamenti che avrebbero aumentato il potere esplosivo all’impatto. Restò di fatto un mistero custodito per molto tempo, fin quando durante una spedizione avvenuta nel 2013, diretta da Carl Spencer, vennero fatte 2 scoperte interessanti. La prima riguardava la resistenza delle porte a tenuta stagna.

La seconda scoperta è probabilmente più interessante dal punto di vista storico. Una ricerca guidata da Bill Smith, un esperto di sonar, scoprì i resti di diverse catene di mine in prossimità del relitto e nell’esatta localizzazione identificata nel diario di bordo del sottomarino tedesco U-73.

La spedizione inoltre fece luce sulla tesi secondo cui, i fuochisti che a turno alimentavano le enormi caldaie della nave, utilizzassero le porte stagne come passaggio tra le paratie. Questo si tradusse nell’impossibilità di isolare le paratie e nel conseguente passaggio di acqua tra di esse. La tesi fu confermata dal fatto che molti dei portelli stagni utilizzati dai fuochisti, vennero trovati aperti durante l’esplorazione del relitto.


L’isola di Kea, nota anche con il nome di Tzia, si trova nelle Isole Cicladi ed è situata nell’angolo più remoto e tranquillo dell’arcipelago, lontana dalle affollate mete turistiche della zona come Mykonos e Santorini.

"Dal 2010 i turisti possono imbarcare sul nostro sommergibile e visitare il relitto, il più grande perfettamente conservato esistente al mondo" a 120 metri di profondità nelle acque due miglia a largo dell’isola di Kea, non lontano da Atene”.

C’informa Panayotis Bouras, responsabile della Britannic S.A., sussidiaria della Britannic Foundation inglese che detiene i diritti sul relitto.

“Il progetto è stato finanziato da investitori privati ai quali resta aperto. Il governo greco dapprima non si era mostrato troppo favorevole, per timore che l’affluenza di turisti potesse danneggiare il Britannic, considerato un “monumento sommerso” della storia marittima greca. Ma poi l’atteggiamento è cambiato e attualmente, sottolinea Bouras, non vi sono obiezioni e il Ministero della Marina Mercantile ha concesso l’autorizzazione per l’attività del sottomarino”.


Il Britannic, colato a picco mentre navigava come nave ospedale per la Royal Navy, fu una delle tre ammiraglie della Compagnia White Star che affondarono o subirono gravi collisioni. Oltre al Titanic, infatti, anche l’Olympic fu speronato due volte. Ciò, unito al fatto che un’infermiera, Violet Jessop fece parte degli equipaggi di tutte e tre le navi senza rimetterci mai la vita, ha fatto sorgere leggende sulla maledizione che graverebbe sulle unità della White Star.

"Ma non abbiamo paura delle leggende e delle maledizioni", assicura Bouras. "Quello che vogliamo è dare l’opportunità alla gente di tutti i Paesi di visitare un relitto unico al mondo".

 

ALBUM FOTOGRAFICO

 

Squarcio di prua

Corridoio pazienti

Corrodoio superiore

Elica di dritta

Elica centrale

Notare i sub intorno all'elica

Ponte di Comando

Telegrafo di Macchina

La Targa dedicata a Jacques Cousteau giace sul relitto della nave BRITANNIC in ricordo della sua spedizione scientifica

Ringrazio i fantastici sub: VALENTI, ESPOSITO, PEDRO, BRIAN, RIBEIRO, POWELL e AARON, componenti della Spedizione Fotografica del 2016 per averci concesso la pubblicazione di queste magnifiche immagini a scopo divulgativo.

Bibliografia:

CUNARD

By David L.Williams

THE FIRST GREAT OCEAN LINERS

By William H.Miller Jr.

THE WHITE STAR LINE 1870-1934

By Paul Louden-Brown

THE GOLDEN AGE OF OCEAN LINERS

By Lee server

BEKEN OF COWES – OCEAN LINERS

By Philip J. Fricker

Carlo GATTI

Rapallo, 12 settembre 2018

 


AFFONDAMENTO DEL FRANCESCO CRISPI

AFFONDAMENTO DEL FRANCESCO CRISPI

ACCADDE 75 ANNI FA

943 Le Vittime


FRANCESCO CRISPI - Ts.l. 7.600 – Costruito: Muggiano – 1925

UN PO’ DI STORIA

A norma di quanto disposto dal D.M. Il 13 novembre 1931, la CITRA fu incorporata nella “FLORIO”, che assunse la nuova denominazione di “TIRRENIA” FLOTTE RIUNITE FLORIO-CITRA.

Nel 1937 fu trasferita da Flotte Riunite Florio-Citra al Lloyd Triestino. Requisita nel 1941 dalla Regia Marina e successivamente dal Ministero delle Comunicazioni.

Il 19 aprile 1943, a poche miglia dall'Isola d'Elba, tre siluri lanciati dal sommergibile inglese HMS SARACEN colpivano e affondavano il piroscafo del Lloyd Triestino FRANCESCO CRISPI mentre trasportava circa 1000 soldati italiani verso la Corsica. Perirono 943 persone fra i quali la maggior parte apparteneva ai Granatieri di Sardegna. Per molti giorni a seguire il relitto della nave restituì cadaveri che le correnti marine trasportarono fin sulle coste liguri. Una tragedia nella tragedia. La vigilia di Ferragosto dello stesso anno il sommergibile inglese HMS SARACEN fu inseguito dalle corvette della Regia Marina MINERVA ed EUTERPE che con il lancio di numerose bombe di profondità lo costrinsero prima ad emergere e poi lo affondarono a sole dieci miglia dal punto in cui aveva colpito il CRISPI.

L'ingegner Guido Gay, noto per aver ritrovato la Corazzata ROMA, grazie al suo ROV "Pluto Palla", riporta ora la luce sui relitti del piroscafo FRANCESCO CRISPI e del sommergibile HMS SARACEN e sulle loro lamiere contorte è scritta una tragica storia di 75 anni fa.

Finché visse mio nonno materno Filippo Machì, il nome della nave passeggeri FRANCESCO CRISPI rimbalzò spesso a ondate ricorrenti tra le pareti di casa nostra con la stessa tristezza che in genere si avverte per la perdita di un congiunto. Per molti imbarchi era stata la sua nave, la sua casa, i suoi amici, il suo lavoro da macchinista che gli aveva permesso di aprire, ormai da pensionato, una trattoria ubicata nelle vicinanze della cattedrale S. Lorenzo a Genova, riuscendo a dare alla numerosa famiglia un lavoro sicuro ed una clientela di noti Ufficiali e Comandanti del mondo dello shipping di allora.

Mio nonno Filippo a destra nella foto con al fianco il suo primogenito C.l.c. Elia Ufficiale di coperta e tutta la sua famiglia.


Bomba inesplosa nella Cattedrale di San Lorenzo a Genova



Ecco cosa rimase di quel quartiere di Genova…

Il 9 febbraio del 1941 Genova subì il suo primo ed unico pesante bombardamento navale da parte della flotta britannica: un evento bellico che, per le sue varie implicazioni di carattere politico e militare, e soprattutto psicologiche, segnò una svolta nell’andamento del conflitto. Per la prima volta, infatti, una grande città della penisola veniva scelta come obiettivo strategico da un avversario deciso a piegare la volontà di resistenza non soltanto del regime, ma anche della popolazione civile italiana.

“Giunte a circa quindici miglia da Genova, la Malaya e la Renown misero in posizione le torri prodiere e alle 8,12 i loro pezzi pesanti aprirono il fuoco, seguiti poco dopo da quelli di medio calibro dello Sheffield. Il bombardamento colse la città al suo risveglio e durò in tutto poco più di mezz’ora. La Malaya concentrò il suo fuoco sui bacini e sul porto, mentre la Renown e lo Sheffield bersagliarono l’area industriale. Complessivamente, le due corazzate spararono 272 colpi da 15 pollici e 400 da 4,5 - mentre lo Sheffield ne lanciò 782. Alcuni colpi da 381 della Malaya centrarono ed affondarono quattro mercantili e la nave-scuola Garaventa (la corazzata Duilio rimase invece indenne), danneggiando leggermente altre 18 unità. Uno dei giganteschi proiettili da 381 della Malaya perforò il tetto della cattedrale di San Lorenzo, ma fortunatamente non esplose, andandosi a conficcare alcuni metri sotto il pavimento, mentre altri centrarono la zona di Piazza Cavour. Ulteriori bordate colpirono alcuni edifici del centro, tra i quali il palazzo dell’Accademia e il primo stabile di sinistra all’inizio di Via Roma. La popolazione genovese pagò l’indubbia audacia dell’azione britannica con 144 morti, circa 200 feriti e ingentissimi danni”.

Il ristorante di mio nonno fu colpito e distrutto mentre i miei zii lo stavano raggiungendo per la consueta apertura. Al momento dell'esplosione si trovavano soltanto a poche decine di metri dal luogo dell'impatto; rimasero feriti ma si salvarono gettandosi d’istinto in un vicolo adiacente che gli fece da scudo quasi completamente.

Oggi, in quel sito di Via David Chiossone,

é ubicato il rinomato ristorante:  

"LA BUCA DI SAN MATTEO"

Si salvarono fortunosamente anche gli altri componenti della famiglia ma perdettero le loro abitazioni e quasi tutti finirono all’ospedale per fratture multiple, ossa schiacciate, escoriazioni e contusioni varie; non ebbero il tempo di piangere su quelle macerie perché dovettero rimboccarsi le maniche per non morire di fame. Mio nonno era già anziano ma possedeva un’antica tempra di lottatore e, grazie ai suoi trascorsi professionali, riuscì ad imbarcare ancora una volta sul FRANCESCO CRISPI insieme al suo secondo genito che era Ufficiale di coperta.

Quell’imbarco fu molto lungo e pericoloso perché nel frattempo la nave era stata militarizzata, come abbiamo già visto, e destinata a trasportare truppe tra le sponde del Mediterraneo.

Ma questa volta il buon Dio ebbe pietà di loro … e fece in modo che padre e figlio sbarcassero 10 giorni prima che la FRANCESCO CRISPI venisse affondata dal sottomarino inglese SARACEN. Sbarcarono in tempo per raggiungere la loro famiglia che nel frattempo si era trasferita in collina (S.Agostino) a Rapallo.

Questa é soltanto una “piccola” storia famigliare tra le tante che sono state vissute dagli italiani più fortunati...

Sul sito di Mare Nostrum Rapallo abbiamo dedicato 60 articoli ai naufragi importanti ed anche a quelli dimenticati per i quali, ancora oggi, siamo giornalmente sommersi di richieste di notizie da parte di famigliari delle vittime. Queste persone meriterebbero l’attenzione del Governo e degli storici. Noi ci siamo assunti soltanto l’onere di tenere vivi quei ricordi per consegnarli alle nuove generazioni affinché non vengano dimenticati quei morti e le cause che li fecero sprofondare negli abissi del nostro mare.

IL SILURAMENTO DELLA FRANCESCO CRISPI

Proprio in questi giorni ricorre il 75° anniversario dell’affondamento del FRANCESCO CRISPI.


Il FRANCESCO CRISPI felicemente ormeggiato in banchina


Suggestiva immagine del FRANCESCO CRISPI


Il FRANCESCO CRISPI saluta il Porto di Livorno

 

Il FRANCESCO CRISPI ed il suo CARICO UMANO…

Il 19 aprile 1943, verso le 14.30, mentre navigava ancora con le insegne del Lloyd Triestino, venne intercettato e colpito con tre siluri dal sommergibile inglese H.M.S. Saracen che era in agguato a 18 miglia da Punta Nera (Isola d'Elba). Il piroscafo, pesantemente danneggiato, affondò in soli 16 minuti. Il convoglio, formato dalla Crispi con 1300 uomini a bordo, dalla nave trasporto Rossini e da alcune navi ausiliarie, era scortato dal cacciatorpediniere La Masa. Nell’affondamento morirono 943 uomini, in gran parte Granatieri di Sardegna, inviati ai presidi della Corsica occupata.

ll corpo dei Granatieri di Sardegna, al contrario della Brigata Sassari, non è mai stato costituito su basi esclusivamente regionalistiche. Il destino ha voluto che la tragedia del Crispi sia avvenuta il giorno dopo la sua fondazione, il 18 aprile, a Torino.

I Granatieri sono ancora adesso un corpo di fanteria dell'esercito. Discendono dall'antico Reggimento delle guardie, creato nel 1659 dal Duca Carlo Emanuele II. Oggi costituiscono una brigata tra le più impegnate delle forze armate italiane.


Il sottomarino britannico SARACEN (nella foto), varato il 16 febbraio del 1942, era la bestia nera dei convogli italiani in quel tratto di mare. Il Saracen si era distinto sin dalla sua prima missione, quando, al largo delle isole Fær Øer il 3 agosto del 1942, aveva affondato il sommergibile tedesco U-335. Il battello britannico aveva un dislocamento di 990 tonnellate, era lungo 65,9 metri, imbarcava un equipaggio di 48 uomini, era munito di 6-7 lanciasiluri e un cannone da 102/40. Il 9 novembre del 1942 aveva affondato in Sicilia al largo di Capo San Vito il sommergibile italiano Granito. Poi, nell'aprile del 1943 si era messo in agguato nel mar Ligure, intercettando i convogli italiani diretti in Corsica.

L’Ing. Guido GAY, piemontese di origine ma svizzero di adozione, ha ricevuto, l’8 Aprile 2018, il conferimento a Cavaliere di Santo Stefano. L’ing. Gay, esperto di “idrobotica” è l’inventore dei sottomarini robotizzati “PLUTO” che nel Giugno 2012, dopo anni di ricerche e tentativi, soltanto con propri finanziamenti e risorse, è riuscito a localizzare il relitto della corazzata ROMA al largo dell’isola dell’Asinara. Innumerevoli i riconoscimenti per questo straordinario ritrovamento anche da parte della Marina Militare. Ricordiamo che la ROMA, una delle più belle ed efficienti “Regie Navi da Battaglia” Italiane affondò in seguito ad una bomba radio guidata di nuovo tipo lanciata da un aereo tedesco il 9 Settembre 1943.  Il Museo Marinaro di Chiavari ha dedicato innumerevoli conferenze alla Corazzata ROMA dato che delle 1393 vittime ben tre membri dell’equipaggio erano Chiavaresi, i Marinai Sebastiano Custo, Andrea Descalzi e il Tenente del CEMM Emilio Ruocco.

Recentemente l’Ing. Guido Gay è stato l’artefice del ritrovamento in fondo al mare del relitto del piroscafo FRANCESCO CRISPI del Lloyd Triestino affondato nel 1943 e del Sommergibile Inglese Saracen che lo aveva affondato.


Nella foto: a sinistra l'Ammiraglio Luigi  ROMANI Cavaliere di Gran Croce, conferisce l’Ordine Militare di Accademico di Marina dei Cavalieri di Santo Stefano all’Ing. Guido Gay. Nella stessa cerimonia hanno ricevuto il Conferimento a Cavalieri di Santo Stefano anche i chiavaresi Comandanti Ernani ANDREATTA e il C.F. Giuseppe Massimo PENNISI.





(Foto sopra) Guido Gay ed i suoi sottomarini robotizzati “PLUTO”


La carta nautica mostra l’esatta posizione dei due relitti. Più a Nord il SARACEN più a Sud il CRISPI, scritti in rosso.

«Cercavo il Saracen da due anni - racconta Guido Gay - da quando ho avuto una richiesta di collaborazione da parte della Andrea Malraux, nave da ricerca del Ministero della Cultura francese». La tv francese sta infatti lavorando a un documentario sulla liberazione della Corsica, e siccome il Saracen aveva contribuito alle operazioni sbarcando agenti e truppe speciali sulle coste dell’isola, la troupe voleva trovare il relitto del sommergibile e filmarlo. «All’inizio non abbiamo avuto fortuna - continua Gay - poi ho proseguito da solo la ricerca, con il mio catamarano Daedalus, finché due settimane fa ho individuato il sommergibile». Il piroscafo Crispi, invece, «l’ho trovato per caso prima, il 31 maggio scorso». Dopo il team del Département des Recherches Archéologiques Subacquatiques et Sous-Marines, anche gli inglesi si sono fatti avanti quando hanno saputo del ritrovamento del loro sommergibile, e una targa commemorativa è già pronta per essere sistemata sul sottomarino.

 

Marina Mercantile

di Achille Rastelli (Storico Italiano)

Trasporti-di-truppe
L'attività principale nella quale furono impiegate le navi passeggeri fu però quella del trasporto di truppe verso i fronti oltremare, cioè verso la Libia, l'Albania, e poi, dall'inverno 1942-43, la Tunisia.
Lo sviluppo dell'aeronautica consentiva l'impiego di aerei da trasporto per l'invio immediato di piccoli reparti o per il rapido ripiegamento di feriti gravi; a volte furono impiegate in queste missioni anche navi da guerra, sacrificandole in un ruolo per il quale non erano state progettate.
La maggior parte di questo traffico si concentrò però, come era ovvio, sulle navi passeggeri, alle quali va attribuita la maggior parte dei militari trasportati e giunti a destinazione, per un totale di 1.242.729 soldati di tutte le armi.

Non è questo il luogo dove ricordare tutte le missioni svolte da queste navi, perché la loro storia è parte integrante della guerra dei convogli e, quindi, della storia della guerra sul mare della Regia Marina. Basti qui ricordare che, per la tipologia di unità, furono tutte della flotta Finmare e quindi sempre navi dello Stato, che per queste missioni viaggiarono quasi sempre come navi requisite, mai però militarizzate, e sempre con equipaggi della Marina mercantile.

Alcune di queste navi furono protagoniste di alcuni fra i più tragici episodi della guerra dei convogli: Neptunia e Oceania vennero affondate il 18 settembre 1941 dal sommergibile britannico Upholder, e morirono 384 uomini, dei 5818 che erano a bordo. La Conte Rosso, partita da Napoli per Tripoli il 24 maggio 1941 in convoglio con l'Esperia e la Marco Polo, venne silurata, sempre dal sommergibile Upholder, che le colpì con due siluri.
La nave affondò in 14 minuti, e morirono 1291 fra soldati e marinai; 1441 furono salvati dalle siluranti di scorta e dalla nave ospedale Arno giunta da Messina.

Una delle perdite più sentite dalla Marina mercantile italiana fu quella della motonave Victoria, una delle più belle e celebri navi italiane, colpita da aerosiluranti britannici al largo della Sirte. Perirono con la nave 249 uomini, tra cui il Capitano Arduino Moreni, Comandante della Victoria, ed il Comandante militare, capitano di vascello Giovanni Grana.
L'elenco delle navi passeggeri affondate durante missioni di trasporto truppe è tragicamente lungo:
Sardegna, Viminale, Francesco Crispi, e Liguria del Lloyd Triestino, Caliteli, Esperia, Galilea (sulla quale morirono 995 alpini), Quirinale e Celio dell'Adriatica, Città di Agrigento, Città di Bastia, Citta di Tripoli, Firene, Catalani, Puccini, Aventino, Città di Catania della Tirrenia, più altre catturate dai tedeschi.

Alla fine della guerra erano poche le navi passeggeri rimaste in servizio, e su quelle poche si doveva contare per il riprendere il traffico civile, essenziale in quei primi mesi del dopoguerra.

CONCLUDIAMO CON LA MAI LOGORA CITAZIONE DI

PRIMO LEVI

“Tutti coloro che dimenticano il loro passato, sono condannati a riviverlo”

Carlo GATTI

Rapallo, 2 Maggio 2018

BIBLIOGRAFIA:

- STORIA DEI TRASPORTI ITALIANI:

F.Ogliari, A.Rastelli, G.Spazzapan, Alessandro Zenoni.

Volumi: III-V-VII

- - LA MARINA ITALIANA NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE:

Ufficio Storico della Marina Militare

- - IL BOMBARDAMENTO DI GENOVA - di Alberto Rosselli

- - GENOVA IN FIAMME (Edito dal Secolo XIX)

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KUWAIT - CRONACA DI UNA COLLISIONE

KUWAIT

CRONACA DI UNA COLLISIONE


Il Kuwait é un emirato sovrano che si affaccia sul golfo Persico ed é incastonato tra l'Arabia Saudita a sud e l'Iraq a nord.

Il nome è il diminutivo di una parola araba che significa “fortezza costruita vicino all'acqua”. L'antico nome della regione era Qurayn.

il Kuwait è uno stato di modeste dimensioni, poco meno del Veneto, con una popolazione di un milione e 300.000 abitanti a cui si sommano due milioni e mezzo di immigrati, prevalentemente da Filippine, Pakistan e India, fondato su un’immensa risorsa, il petrolio, a cui si affianca una fiorente attività commerciale ed un welfare avanzatissimo.

Nonostante le dimensioni fisiche e demografiche, i numeri raggiungono quote considerevoli quando si vanno ad analizzare valori come la ricchezza, i livelli di produzione, investimenti e sviluppo.

La scoperta di enormi giacimenti petroliferi ha luogo negli anni ’30 del XXI secolo e lungo i decenni successivi, fino ad oggi, questa materia prima ha trainato lo sviluppo del paese. Uno dei fattori che contribuisce alla fama di apertura e democraticità del Kuwait è la sua costituzione, introdotta negli anni ’60.



Kuwait City é la capitale del Kuwait. Una città che si estende per 24 chilometri, unico grande centro abitato del Paese, presenta una grande varietà di grattacieli. Il più alto misura 400 metri ma c’è già l’idea di realizzarne uno ancora più ardito.

Oggi il Kuwait è una nazione che, pur nel pieno rispetto delle proprie tradizioni culturali e religiose, si sta aprendo molto all’Occidente e, in particolare all’Italia. Qui tutto ciò che è italiano piace moltissimo, dalla cucina alla moda alle auto, soprattutto le fuoriserie a marchio Ferrari o Maserati.

Grazie all’associazione Italia-Kuwait c’è stata la possibilità di conoscere da vicino questo Paese che è riuscito a ricostruirsi in tempo record dall’invasione di vent’anni fa da parte dell’Iraq.

MA IL MONDO PETROLIFERO DEL GOLFO PERSICO E’ MOLTO MENO ATTRAENTE……




CRONACA DI UNA COLLISIONE


T/n FINA ITALIA

Dati nave:

 

Anno di Costruzione

Cantiere di Costruzione

N° di Costruzione

Armatore

Bandiera

1956

Ansaldo – Genova Sestri

1509

Compagnia Marittima Palermitana - Palermo

Italiana

Stazza Lorda (t)

Stazza Netta

(t)

Portata Lorda (t)

Nominativo Internazionale

Porto di Registro

20.736

12.196

31.546

ICPA

Palermo

 

 

 

 

 

 

 

 

Mina Al Ahmadi, 25 Febbraio 1965.

Segue il Rapportino firmato dagli ufficiali di guardia che erano in manovra durante la collisione.

- Con la petroliera FINA ITALIA ci troviamo alla fonda a circa 2 miglia dalla testata del South Pier in attesa di ormeggiare per la caricazione di crude oil.

- Alle 03.00 il 2° Ufficiale di coperta allerta l’equipaggio riferendo che la nostra nave é attesa al North Pier di Mina Al Ahmadi (Kuwait) per caricare al pontile (Pier) N.11.

- Il North Pier Control ci fornisce le seguenti istruzioni:

- “Salpate e avvicinatevi per l’imbarco del Pilota”.

- Alle 03.10 si inizia a salpare.

- Alle 03.24 si dà il Pronti in Macchina

- Alle 03.30 àncora salpata; si procede ad andatura di manovra per il North  Pier.

- Alle 03.42 il Nord Pier Control chiede la nostra posizione:

- ci troviamo a 1,8 mg a Sud del Pier N.11. In avvicinamento lento essendo la nostra nave a “turbonave”.

- Subito dopo il N.P.C ci informa:

- “La T/N giapponese TOJO MARU ha disormeggiato dal Pier N.11 e ha preso il largo in direzione Levante”.

- Alle 03.45 il Pilota portuale della petroliera in movimento ci chiede via radio-VHF: “Può la TOJO MARU passarvi di prora tra voi e la costa”?

- Si risponde immediatamente: “ciò non é possibile non essendoci più spazio sufficiente per tale manovra - Stiamo procedendo per l’imbarco del pilota.

- Ci viene risposto OK a conferma della ricezione della nostra risposta (in inglese). Per non generare equivoci si segnala con due fischi brevi che si sta accostando a sinistra per lasciare maggior spazio alla nave in uscita verso il largo.

- Dalla TOJO MARU vengono emessi due fischi brevi per segnalare che anch’essi accostano a sinistra.

- Alle 03.48 si ferma la macchina per l’imbarco del pilota che sta dirigendo verso di noi sulla dritta.

- Improvvisamente si riscontra che la TOJO MARU, anziché accostare a sinistra come ha segnalato, sta accostando a dritta tagliandoci decisamente la rotta.

- Si mette la macchina Indietro a tutta forza per fermare il leggero abbrivo che ancora abbiamo in avanti per evitare la collisione.

- Sono le 03.50. Si chiede alla macchina manovra rapida e massima potenza indietro.

- Alle 03.52 si dà fondo l’ancora di dritta che rimane a picco essendo la nave ferma.

- La TOJO MARU sta intanto sfilando di prora ormai a poche decine di metri di distanza da noi e si ha l’impressione che stia sempre accostando a dritta proiettando la sua poppa contro la nostra prora.

- Infatti alle 03.53 la petroliera TOJO MARU urta col fianco sinistro, all’altezza del suo cassero poppiero, contro la nostra prora. Visto il rapido spostamento della sua poppa, l’urto é molto violento.

- Alle 03.56 macchina ferma. Si rimane all’ancora sul punto del sinistro a 0.6 miglia dalla testata Sud sul Rilevamento 316°, con due lunghezze di catena all’acqua.

- A causa dell’oscurità non si é in grado di constatare l’entità del danno, sia nostro che della nave giapponese. Ci si mette in contatto VHF con il N.P.C per assicurarci che non vi siano danni irreparabili a bordo della nave giapponese e per prestare eventuale assistenza. Ci viene riferito che non vi sono vittime tra l’equipaggio della TOJO MARU.

- Da quanto precede risulta evidente che si é agito con la massima prudenza e in ottemperanza al Regolamento Internazionale per evitare la collisione, ma che i nostri sforzi sono stati resi vani dalla manovra incomprensibile della TOJO MARU che essendosi dapprima allontana verso il largo, mostrandoci chiaramente il verde e passando a dritta della nostra prora, ha in seguito accostato verso di noi, cioè alla sua dritta per passare tra noi e la costa tagliandoci la rotta e inoltre segnalando la manovra di accostata a sinistra mentre accostava a dritta.

- Si fanno pertanto le più ampie riserve nei confronti di chi spetta, per tutti i danni subiti, visibili ed invisibili, per il tempo perduto, per eventuali perdite di nolo, per tutte le spese in qualsiasi modo sostenute in relazione al fatto salvo sempre il diritto dei proprietari della nave e dei noleggiatori d’intraprendere tutte le azioni ritenute utili per la salvaguardia dei loro interessi. Ritenendo l’incidente avvenuto per imperizia ed assoluta imprudenza da parte della TOJO MARU, si declina ogni e qualsiasi responsabilità.

Seguono le firme dei testimoni…….. omissis…….

Ripresa da terra, la TOJO MARU é appoggiata sul fondale. Soltanto le sovrastrutture rimangono emerse.

DINAMICA DELLA COLLISIONE


A = FINA ITALIA - B = TOJO MARU


La linea della costa é parallela alla rotta della nave B (TOJO MARU) (a destra) nel disegno.

I DANNI

La T/n FINA ITALIA rimase 40 giorni nel porto di Mina Al Ahmadi, affiancata presso una banchina isolata per essere sottoposta ad una “riparazione provvisoria” per renderla NAVIGABILE nel trasferimento in ballast (zavorra) verso l’Italia.

Una ditta norvegese fu incaricata di rendere stagna la prora (completamente schiacciata) con casse di cemento usate da sempre nei sinistri navali di questo tipo.

Il 1° Ufficiale di Coperta, l’Allievo Ufficiale di Coperta, il Nostromo e un Marinaio e che si trovavano al posto di manovra a prora, ebbero un comportamento eroico, ma disubbidirono all’ordine esplicito del Comandante che aveva loro impartito, con il Sistema Interfonico di bordo:

ABBANDONATE IL POSTO DI MANOVRA A PRORA!

Con zelo sicuramente eccessivo, la squadra di prora condotta dal 1° Ufficiale, rimase a prora per tentare l’impossibile: allascando e frenando l’àncora per “fare testa” con l’intento di spegnere l’abbrivo residuo.

Se La FINA ITALIA si fosse trovata in posizione avanzata soltanto di poche decine di metri, sarebbe stata colpita in una cisterna vuota con grande rischio di esplosione non essendo “gas free”.

Il Nostromo fu ricoverato in ospedale e successivamente sbarcato e rimpatriato a causa delle conseguenze fisiche sofferte nell’urto e per i traumi da shock da spavento. Il resto del personale riuscì ad arretrare e scendere dal cassero di prora prima che tutta la nave fosse investita da una intensa pioggia di scintille provocata dalla collisione e dallo sfregamento delle lamiere tra le due cisterne. Quel fuoco d’artificio fuori programma illuminò a giorno la rada di Mina e pensai: “Adesso tocca a noi saltare per aria… ma non era ancora destino…!

Buona parte di quei 40 giorni di sosta fu dedicata alle interrogazioni e testimonianze in Tribunale per l’istruzione della causa.

Alcuni anni dopo fui informato che la sentenza del Tribunale del Kuwait scagionò completamente la FINA ITALIA ed il suo equipaggio, attribuendo tutte le responsabilità della collisione al Comandante della TOJO MARU.

La sera prima di salpare per l’Italia: destinazione Fincantieri Muggiano di Spezia, il gigantesco norvegese Mr. Johanssen, responsabile dei lavori, pensò bene di festeggiare il suo FINE LAVORI ubriacandosi a bordo della FINA ITALIA.

Nessuno lo mandò via… ma ad un certo momento della notte volle togliere il disturbo e, rollando e beccheggiando alla gran puta… cadde in mare dallo scalandrone che si ergeva ben 15 metri sul livello del mare.

Dioniso, dio "ibrido" dalla multiforme natura maschile e femminile, animalesca e divina, tragica e comica, ci mise la cosiddetta PEZZA…

mettendo nella gola del marinaio di guardia un urlo d’allarme terrificante!

Bastarono pochi minuti per formare due squadre di marinai. Due di loro si tuffarono in mare per imbragarlo, altri tre lo sollevarono in banchina e poi sull’ambulanza giunta nel frattempo per trasportarlo all’ospedale. Quell’ubriacone di due metri che lavorò giorno e notte con grande dedizione e professionalità sulla nostra prora, si sputtanò con l’unico baccanale … che si concesse in quei 40 giorni come premio dei risultati raggiunti!

Insomma: fece tutto da solo!

Il Comandante Johanssen fu salvato da due sobri marò-nuotatori italiani che non ebbero alcuna esitazione sul da farsi…

Durante il passaggio del Canale di Suez, prima di rientrare in Mediterraneo, il nostro Comandante ricevette dal norvegese una gradita lettera di ringraziamento dedicata all’equipaggio della Fina Italia

ALCUNE CONSIDERAZIONI

Sono passati 53 anni esatti dalla collisione che poteva volgere in tragedia qualora, come abbiamo già fatto notare, fosse stata la TOJO MARU (fully ladden) a colpire la nostra petroliera all’altezza di una cisterna vuota, ma sicuramente con sacche di gas al suo interno. Come si può vedere da questa nota riportata sotto: il lavaggio delle cisterne con petrolio greggio e l’immissione di Gas Inerte nelle stesse sarà applicato per legge soltanto 20 anni dopo…

La gestione dell’impianto di gas inerte deve essere affidato a personale-abilitato.
Con decreto ministeriale in data 11/ 06 / 1986 ( GU 178 del 02/ 08 / 1986 ) sono stati istituiti corsi di addestramento sul lavaggio delle cisterne con petrolio greggio che devono essere seguiti dal personale addetto alle gestione di questa operazione.

Fu GRAZIE alla perizia del nostro Comandante Domenico Puppo di Porto Maurizio (Imperia) se oggi possiamo raccontare questa storia…

Quel giovane Comandante di 36 anni, erede di una “grande scuola” di marineria ligure, prese le decisioni giuste con grande freddezza, in una fase di grande confusione generata dall’imperizia totale sia del Comandante giapponese e forse anche per la imprecisa gestione del traffico operata dal Pilota UK del porto di Mina.

Del nostro Comandante ricordo un altro episodio significativo che accadde nel Canale della Manica durante una violentissima burrasca in cui la visibilità era pressoché azzerata! Navigavamo per NE verso la Danimarca, avevamo il radar in avaria e non esistevano ancora gli schemi di separazione del traffico navale nei punti più rischiosi.

Oltre ad avere un marinaio di vedetta a prora, il resto dell’equipaggio era allertato in vari punti esterni del Ponte di Comando per ascoltare i segnali da nebbia delle navi in transito da tutte le direzioni.

Improvvisamente si sentì il FISCHIO di una nave in avvicinamento da proravia. Il Comandante chiese al personale presente sul Ponte e sulle alette di plancia la direzione di provenienza del segnale. Tutti rispondemmo all’unisono: “Ci attraversa da sinistra! Tocca a lei manovrare e passarci di poppa!”

Ma il Comandante diede l’ordine che nessuno si aspettava:

tutto il timone a dritta”

Aveva ragione lui! La nave proveniva dalla nostra dritta! E toccava a noi manovrare per evitare la collisione.

In seguito il Comandante mi spiegò che quel giorno sulla Manica, oltre ai piovaschi intensi, c’era un vento forte dalla costa di NE che dava una accelerazione al segnale da nebbia della nave spingendolo più avanti, tanto da farcelo percepire sulla nostra sinistra.

Il Comandante Puppo era un assiduo e tenace osservatore della direzione del vento e non si fece fregare! Noi si!

ROTTE D'INCROCIO TRA DUE UNITA' A MOTORE


A sinistra la FINA ITALIA

Quando due unità a motore hanno rotte d'incrocio quella che rileva l'altra sulla dritta deve lasciare a questa la rotta libera manovrando in modo deciso e tempestivo.

Quella lezione mi servì per tutta la vita.

E’ utile che il Comandante ascolti tutti i pareri,

ma la decisione finale spetta sempre e solo a lui!

Segnali sonori in condizioni di visibilità ridotta.

In un'area di visibilità ridotta o nei pressi di essa, sia di giorno che di notte, i segnali prescritti in questa Regola devono essere usati come segue:
a) Una nave a propulsione meccanica che ha abbrivo, deve emettere, ad intervalli non superiori a 2 minuti, un suono prolungato.

La personalità di quell’uomo magro e basso di statura, con i baffetti ben curati e due occhi neri, piccoli e penetranti, riusciva SEMPRE a trasmettere tranquillità e freddezza! Ma l’uomo aveva anche un’altra arma in dotazione: era molto “parsimonioso” nel dare confidenza al prossimo, ma riusciva altresì a comunicare lo stesso calore umano di quei padri di altri tempi, un po’ severi ma presenti, che sapevano insegnare per amore e non per esibizione, per amore del mare e della nave, non per mostrare una eccelsa preparazione a noi giovani che, se era il caso, lo capivamo da soli… No! Il Comandante Puppo era un vero MAESTRO di vita e di mare!

“PORCA DELLA PUTTANONA !!!!!”

Era la sua abituale espressione che usava nei momenti di tensione e, ancora oggi, mi risuona dentro quando mi ritrovo negli stessi frangenti e la uso come se lui fosse sempre al mio fianco.

Giunti a Spezia a velocità ridotta, terminai i miei 15 mesi d’imbarco e sbarcai per convolare a nozze con mia moglie Gun Oskarsson in una chiesa cattolica in Svezia. Era il 25 Aprile del 1965. Erano passati due mesi esatti dalla collisione.

Molti anni dopo, in una notte di tramontana, salii da Pilota su una cisterna che faceva il “costiero” ed era diretta agli Oli Minerali nell’avamporto di Genova. Quando al buio riconobbi la voce del Comandante Puppo, ci abbracciammo provando una emozione molto forte. Erano passati 25 anni da quel lungo imbarco ma, come per incanto, decine di ricordi riapparvero su quel piccolo Ponte di Comando: quelle storie di mare appartenevano ad entrambi.

Gli dedicai la manovra sulle ancore, mi fece i complimenti e gli dissi:

“Il mio maestro é sempre lei! Porca della Puttanona!"

CARLO GATTI

Rapallo, 13 Marzo 2018

 

 

 


OSSO DI SEPPIA

MARE

La casa delle mie estati lontane, t’era accanto, lo sai, là nel paese dove il sole cuoce e annuvolano l’aria le zanzare. Come allora oggi la tua presenza impietro, mare, ma non più degno mi credo del solenne ammonimento del tuo respiro.

EUGENIO MONTALE

OSSO DI SEPPIA

I RICORDI DI NONNO NUNZIO

La mia prima nave è rappresentata nella foto sopra: un osso di seppia. In seguito, con un bastoncino e un pezzo di carta per vela, divenne il mio primo veliero con il quale cominciavo a immaginare i mari infiniti, le isole meravigliose... altre genti... colori diversi... altri mondi!

Da allora, avevo già deciso della mia vita: avrei fatto il "Capitano di coperta"! Forse incoraggiato anche dalla mia nonna materna. Si chiamava Concetta ed era nata nel 1874, infatti portava ancora la gonna lunga, il fazzoletto in testa con i lembi riportati sopra e il grembiule lungo davanti. Lei era di Francavilla, ma ormai, non avendo più casa (distrutta dalla guerra), viveva con noi.

Oltre alle favole, mi raccontava storie di briganti e poi alcune chicche di quando a Francavilla, durante l'estate, c'era il Cenacolo di Michetti che era frequentato anche da D'Annunzio il quale, essendo molto in auge in quel periodo, faceva ancorare le navi della Marina davanti al paese.

Così, per qualche giorno, la cittadina era invasa dai cadetti che sfoggiavano le loro eleganti divise bianche. Il suo sogno era di vedermi un giorno al posto di quei giovani e, mentre le saltellavo sulle ginocchia, lei diceva: “pur(e) custu' duventarra' nu bell Ficial(e)....!!!" (Traduzione: “anche questo qui diventerà un bell'Ufficiale”). Chissa'! Forse anche i racconti della nonna hanno influito sulle mie scelte!


Nonna Concetta

Bastava che vedessi dov’erano i contadini che innaffiavano a forza di braccia gli orti con dei solchi d'acqua e subito facevo la mia nave con una foglia di canna, poi la trascinavo tra un solco e l'altro inseguito dai loro rimproveri. Le barchette con la foglia di canna le facevano i bambini più “grandi” di otto anni, allora io davo le 5/10 lire che 'vincevo' alla nonna giocando a carte ad un ragazzino che in gran segreto mi avrebbe insegnato a costruire la barchetta con la foglia di canna.

La barchetta fatta di foglie di canna

C’erano tanti bambini un po' più grandi di me che erano interessati a trarre profitto da questa mia passione.

In effetti la costruzione era piuttosto semplice: si doveva prendere una scatola di latta, togliere i fondi, piegare a metà da una parte il restante rettangolo, stringere quei due lembi per formare la prora e la parte posteriore, inchiodare il tutto attorno ad una tavoletta sagomata che formava la poppa... e la nave era fatta, ma aveva un certo prezzo!

Prima della guerra, mio nonno Nunzio era un imprenditore elettrico e, per quanto i superstiti della guerra avessero depredato già tutto, conservava ancora dei grossi rotoli di filo di rame e il prezzo, a seconda della stazza della nave, era calcolato in proporzione: a tanti centimetri di nave corrispondevano tanti metri di rame.

Così cominciò la mia passione per il mare, più crescevo e più aumentava la voglia di entrare in quel mondo e farne parte!

Era il 1946, avevo 6 anni e non avevo mai avuto un vestito nuovo tutto per me. Al massimo un paio di pantaloncini corti ricavati da una giacca della divisa di papà, per l’inverno, altrimenti un paio di mutandine di "percalle" per i mesi caldi, tutto era cucito rigorosamente da zia Bianca che faceva la sarta. Io desideravo da sempre un vestito da marinaio.... e, finalmente, il momento arrivò!

C'era stata la guerra! zia Silvana aveva 16 anni, zia Marinella ne aveva 12; a qualcuno mancava la Cresima, ad altri la Comunione così, visti i tempi di magra che correvano, i grandi decisero di fare tutto in una volta, una festa unica che si prestava ad aggiungere pure Nunzietto, che ero io, il più piccolo! Già ero veramente piccolo, ma avevo il mio caratterino e facevo valere le mie ragioni:

“se non mi fate il vestito da Marinaio, io non ci vado in chiesa!”.

E così, anche se cucito da zia Bianca, ho avuto finalmente la mia prima "divisa" ed ero fiero di indossarla!

Io sono al centro del gruppo con la divisa da ufficiale-marinaretto

Mi attendeva – però - una delle prime delusioni della mia giovane vita. Era usanza a quei tempi, soprattutto in campagna, che in occasione della Cresima, il padrino regalasse al cresimando l'orologio da polso, sebbene non fossi ancora in grado di leggerlo, e non vedevo l'ora d’indossarlo.

Finita la cerimonia, giunse il momento dei regali. Erano tutti assonnati, la mangiata era stata luculliana! La mia povera mamma aveva dovuto preparare e cucinare una infinità di conigli, in quel cucinino pieno di fumo, per quella banda famelica di parenti che si radunavano nelle grandi occasioni.


Dopo tanta attesa ricevetti 6 birilli di legno con un pallino e una penna stilografica! Ricordo solo che li scaraventai da qualche parte e piangendo andai a nascondermi. Ritornai allo scoperto solo a sera inoltrata e adesso posso capire l'imbarazzo dei miei genitori, ma andò proprio così.

 

Intanto crescevo, i pescatori erano i miei miti e cercavo sempre di stare con loro per rendermi utile almeno come mozzo-marinaretto... Avrei potuto pulire una sentina dove solo le mie piccole mani potevano arrivare, ma nessuno mi portava in barca! Dicevano: “che lo porti a fare? Che ti fa "cussu!” (quello lì).

Che umiliazione sentirmi escluso dal bordo e dal mare! Eppure io capivo tutto quello che dicevano i grandi, e sapevo anche come fare…!

Avevo 10/11 anni quando andammo ad abitare alla casa al mare ed ero veramente felice! Bastava che qualcuno lasciasse la barca nei dintorni e subito andavo ad armeggiare con i remi. Anche se un po' gracile, di forza ne avevo tanta, ero ormai in grado di remare per poter stendere e salpare le reti. Finalmente Zi' Rocco, un uomo anziano con una gamba di legno, cominciò a portarmi con sé per mettere le reti. Andavamo poco prima del tramonto e le ritiravamo all'alba, anche perché alle 7.20 passava l'auto per andare a scuola!

Per San Giuseppe, insieme alle rondini, arrivano le seppie per deporre le uova lungo il litorale e le reti venivano messe dove c'erano gli scogli o i sassi: il nostro posto favorito era proprio alla foce di quel fiumiciattolo Arielli dove, oltre a qualche scoglio, c'erano i ruderi di un ponte fatto saltare dai tedeschi.

Di mattina, mentre tiravo su le reti, Zi' Rocco ogni tanto guardava il fondo e diceva:

«Nunzie', guarda che bel mattone!»

Che era una specie di ordine: "va a prenderlo!".

Anche se il sole si era alzato da poco e la brezza di terra fosse ancora fresca, se volevo conservare l'imbarco, non avevo altra scelta. Spogliato completamente, altrimenti mamma se ne sarebbe accorta, mi tuffavo nell'acqua piuttosto fredda perché era mescolata con quella del fiume: ed ecco il mattone!” La cosa si ripeteva spesso durante quel tipo di pesca.

Poi crescendo ero sempre più richiesto anche per via della gratuità delle mie prestazioni d'opera!
Intanto Zio Giovanni, il papà di Tonino, il cugino che poi sarebbe diventato generale, stava ricostruendo le case al mare in località Pasquino. D’estate si rinforzavano i muri di cemento per difenderli dalle mareggiate invernali. A questo scopo lo zio aveva comprato un bel "moscone" di legno, un pattino, per invogliarci a dare una mano, magari un po’ piccola ed inesperta, ma molto svelta…

Avevo trovato lavoro! All'alba si partiva remando sulla rotta per Pasquino e dopo una giornata impegnativa, eravamo tutti contenti di poter remare e si ritornava a casa dove il moscone era gelosamente custodito e del quale, durante le pause di lavoro, ne avevo piena disponibilità.

Inoltre, dove andavamo a lavorare, c'era un tale "Balilla" affittuario di una casetta di Zio Giovanni, per usi non troppo puliti per quel tempo. Era un grossista di ferri vecchi, pezzi di motori usati; tutto ciò che serviva, lui ce lo aveva pronto.

Un bel giorno, lo zio mi fece provare una specie di canoa, tipo un vogatore seduto a poppa, rivolto verso prora ed un altro a prora con la faccia verso poppa. Aveva due galleggianti laterali che mi ricordavano le imbarcazioni polinesiane, in compensato foderato di lamierino sottilissimo, si remava con la doppia pagaia! Quel tipo di voga mi deve aver fatto un gran bene ai muscoli che si gonfiavano man mano… anche senza gli "anabolizzanti" di oggi…!

Poco distante da casa mia, abitava Antonio, un pescatore chiamato Lu Sord. Aveva 4 figli, la più grande aveva la mia età, quindi poteva essere mio padre!!! Bene, avevo 12-13 anni e il mio vero amico era proprio lui: 'Ndonio lu sord'. Chi era?

Avevo conosciuto il Sordo quando ero poco più di un bambino. Il padre 'Zì Luigi' era di Roseto degli Abruzzi, come i suoi avi, faceva il pescatore sulle paranze, quelle  tipiche barche a vela di quei tempi e di quei mari le quali, pescando la sciabica tipica dell'Adriatico, era arrivato fin  qui a Ortona.

Antonio (il Sordo), spingendosi all'interno per vendere il pescato, conobbe una ragazza di buona famiglia, che sposò e portò a vivere in una casetta vicino alla mia dove, nell’attesa del maschio che arrivò per ultimo, partorì quattro figlie. Quella famiglia attraversò periodi davvero brutti, perché lui era senza lavoro e senza i necessari e costosi attrezzi da pesca. Purtroppo non aveva scelta, quando c'erano i cefali, usava il tritolo!


Nunzio in primo piano e Lu Sord

Prima della guerra, i pescatori come Zi' Luigi, il padre di Antonio, dal mese di aprile in poi, pescavano con le sciabiche che erano reti molto alte, con dei piombi sotto e dei galleggianti sopra. Questo attrezzo veniva gettato al largo, e poco dopo iniziava il recupero da terra tramite i calamenti (cime robuste) che venivano tirate a riva dagli sciabicotti a forza di braccia.

I bracci laterali si avvicinavano lentamente verso riva, mentre il centro della rete contenente il sacco restava spostato verso il largo, sospeso da tanti galleggianti. Una volta che le due estremità della rete piano piano si avvicinavano a riva, i pesci impigliati nella rete sarebbero finiti nel sacco. Il quantitativo del pescato dipendeva dalla fortuna e dall’abilità con cui il pescatore capo barca aveva diretto l’operazione che poi si ripeteva in una zona poco distante.

Con quel faticoso modo di pescare, questa povera gente partiva da Roseto, pescava e vendeva il pescato lungo la costa, nelle campagne, ma anche nei paesini dell'interno che erano raggiungibili con i carretti. Il pescato consisteva in pesce povero, alici, sgombri, aguglie, cefali e raramente qualche pesce pregiato, come spigole, dentici ecc.

In quel modo riuscivano a sopravvivere e se era andata bene la stagione di pesca, portavano a casa qualche soldo. Di sera, tiravano a riva la barca, accendevano il fuoco e mangiavano il pesce arrosto, ed anche i prodotti della campagna che avevano avuto dai contadini in cambio del pescato. Dormivano nella barca e la mattina successiva ripartivano pregando San Tommaso!

Era una giornata di settembre meravigliosa!  La gente si augurava:
"Bisogna ancora seccare i fichi." Alludeva alle giornate in arrivo che dovevano essere come questa.

 

Ricordo il mare 'oleoso', quando i branchi di cefali nuotavano in superficie increspando il mare come fosse un refolo di vento: un allarme visivo che attirava il fiuto del Sordo il quale, con tutta fretta, si gettava su una cassetta di munizioni belliche tedesche nascosta sotto una folta siepe  e, dopo essersi guardato in giro con aria circospetta, estraeva le scatole di tritolo di diversa pezzatura, quindi sceglieva quelle adatte alla grandezza del branco e soprattutto all’altezza del fondale in quel tratto di mare. Dopo l’esplosione il mare diventava bianco di cefali morti che venivano con le pance a galla, ed erano così tanti da riempire la barca, ma anche in grado di appestare la spiaggia nei giorni successivi, quando il mare li spingeva sulla spiaggia dove finivano in pasto alle pulci di mare.

Fu così che, tra una vendita e l’altra di pesce fuori zona, 'Ndonio conobbe una ragazza di buona famiglia in un paesino dell'interno chiamato Canosa, si sposarono e si stabilirono in quella casetta sul mare, vicino alla mia, dove continuò a fare il pescatore.

Per me era un dio marino, un vero uomo “salato” che aveva imparato il mestiere dal padre sui trabaccoli, quei grossi barconi a vela che trasportavano merci in lungo e in largo per l'Adriatico. Da lui imparavo a rammendare la rete, a fare i nodi che servivano di più. Lo seguivo tutto il giorno come un segugio, al punto che mio padre ne era quasi geloso. Appena tornavo da scuola, mangiavo e correvo da lui, anche perché riuscivo quasi sempre a racimolare 15 Lire, con le quali Guerino, il figlio più piccolo, correva a comperare una "nazionale esportazione" per me ed una caramella per lui! Si approntavano le reti per la sera e poi tornavo a casa per studiare un po', ma pensavo sempre alla barca, alle reti, ai pesci…


Nel giugno del 1954 presi la licenza media a Francavilla. Andavo a scuola regolarmente con una bicicletta che, prima della guerra nonno Nunzio, aveva regalato alla zia Silvana. Era un po' più piccola delle normali e, siccome era stata recuperata dalle macerie, era anche un po' storta e per quanto si cercasse di regolarla, buttava sempre fuori la catena; immaginate le mani quando la mattina mi presentavo a scuola come il garzone di bottega del meccanico.


Era l’epoca di Coppi e Bartali… e Nunzio non nascondeva la sua simpatia

 

L'ISTITUTO NAUTICO

Finalmente potevo iscrivermi all'Istituto Tecnico Nautico di Ortona per diventare "Ufficiale della Marina Mercantile". A questo punto del racconto devo fare alcune precisazioni su Ortona. Per noi che abitavamo al Foro, era il posto dove si richiedeva un certificato dal Comune. Mamma vi si recava qualche volta il giovedì per il mercato, ma sempre per pochi minuti; io vi ero andato qualche volta nel mese di maggio per la festa di S. Tommaso, ma non di più.

Papà qualche volta, mi parlava di questo Istituto Nautico e mi diceva che in un cortile si vedeva, prima della guerra, un albero con un pennone per le esercitazioni.


Il vecchio Istituto Nautico

Infatti era proprio così: il vecchio Istituto Nautico si trovava dove attualmente c’è il Comune, mentre quello nuovo é l'edificio di fronte al castello che guarda sul porto!!!

La scuola di Ortona era da cinque anni la sezione distaccata dell’Istituto Nautico di Ancona e, mentre io ero una “recluta” agli esordi, i più anziani erano iscritti al 5° ed ultimo anno. Il primo giorno di scuola, lo ricordo perfettamente... Entrai dal portone verso il castello, non conoscevo nessuno. Poi riconobbi un ragazzo di Pescara, dove avevo frequentato la prima media, un certo Terrenzio che da allora fu il mio compagno di banco e ancora oggi viene a trovarmi! Anche altri due, forse tre, venivano da Pescara, uno di loro aveva il padre che navigava sui pescherecci atlantici della Genepesca e aspirava ad avere un figlio Capitano!

Terrenzio, scelse d’iscriversi al Nautico perché il fidanzato di una sua cugina, tal Ezio, aveva fatto il Nautico a Napoli era già un navigante e gli raccontava le sue avventure di mare con grande entusiasmo! Gli altri per la maggior parte erano di Ortona e molti facevano il Nautico perché era l'unico Istituto Superiore presente nel circondario e non avevano la possibilità di trasferirsi a Pescara! Io ero orgoglioso di fare il Nautico, perché ero già entrato da tempo nello spirito di un futuro Capitano di mare. Altro che Liceo... e per fare cosa? Il dottore, professore... non li calcolavo neanche!

I primi giorni, aspettavamo con ansia di misurarmi con le "Esercitazioni marinaresche" e pensavamo: “chissà, arrampicarsi sull’albero di una nave, funi, scale di corda, il famoso “marciapiede” ....

Finalmente arrivò il giorno fatidico: due ore di esercitazione marinaresca.

Suona la campanella e noi pensavamo di andare in un’aula attrezzata per questo scopo. Invece si presentò una persona anziana, con gli occhiali, calvo più o meno come mio padre, in mano aveva un quaderno con la copertina nera di un tempo, un po' sgualcito, ed un cavetto lungo non più di un metro.

Noi aspettavamo in piedi, entrò, salì sulla cattedra, ci guardò e disse: “Seduti!”

Subito dopo fece l'appello guardando ognuno di noi da sopra gli occhiali e facendo tra le varie domande l'albero genealogico di ognuno, eccetto quello di chi, come noi, veniva da fuori.

E cominciò: “Visto che non vi sono libri di testo, io vi detterò ogni volta un argomento previsto dal programma. Mi auguro che abbiate portato il quaderno, come per tempo era stata fatta richiesta. Scrivete: L'ANCORA.”

"L'ancora è quell'instrumento che, gittato in fondo al mare, trattiene la nave mediante cavi o catena. Le parti dell'ancora sono ..."

Ricordo che ci toccammo le ginocchia con una forza tale da farci male! Era una delle prime delusioni. Beh, forse avevamo troppa fretta, comunque dalla finestra vedevamo il porto, qualche nave che arrivava e facevamo tanti sogni...

Appena avevamo un po' di tempo, scendevamo in porto dove c'era quel che era rimasto di un cantiere navale e spesso, quando si temeva qualche interrogazione, non andavamo a scuola, grazie anche ai bei panini che la nonna preparava con la frittata, peperoni secchi, uova e qualche salsiccia di fegato. Qualche sigaretta non mancava mai e fino alle 14, l'ora della partenza dell'autobus, eravamo sempre lì al porto, alla ricerca di una barca di 5 o 6 mt. che Ezio avrebbe comprato appena sbarcato, per armarla con la vela. Dopo tante ricerche, ne trovammo una che poi comprò.


Il  Rimorchiatore di servizio alla draga

In quel periodo avevamo fatto amicizia con l'equipaggio del rimorchiatore che aveva il compito di trainare fuori dal porto le bettoline cariche di fango scavato da una grossa draga. "Don Mario", il Capitano, non disdegnava qualche buon fiaschetto di vino del nonno Alfredo ed era un buon motivo perché mi sentissi virtualmente arruolato…

Intanto in mare ero diventato, in un modo o nell’altro, “utile” a tutti e tutti mi offrivano ospitalità. Papà mi chiedeva solo: "hai studiato?"; poi, al ritorno da scuola: "sei stato interrogato?"; e la sera, prima che andasse a mettersi a letto: "a che ora devo chiamarti domattina?". Sì, perché non avevamo una sveglia. Ovvero, la sveglia c’era ed era bella grande, un regalo di nozze salvatosi dalla guerra, ma non funzionava più la suoneria, così il nonno, che dormiva poco, mi chiamava più o meno alle 04, perché di sera non riuscivo a studiare, faceva freddo, e appena mi mettevo a letto con il libro, mi addormentavo!

A scuola, eccetto le Esercitazioni Marinaresche dove imparavo a fare i nodi, le segnalazioni con le bandiere e tante altre cosette interessanti, le altre materie erano quelle che si studiavano alle scuole superiori e, tranne la matematica, del resto non me ne fregava proprio niente! Comunque alla fine dell'anno ero sempre uno di quei 5 o 6 “promossi a giugno”; non potevo rischiare di giocarmi l'estate per riparare a ottobre, Terrenzio invece, al rusch finale, restava fregato in qualche materia!!!

 

Con il Sordo, mare permettendo, andavo tutti i giorni a pesca, ed il pescato, anche se era buono, era difficile venderlo perché la gente aveva pochi soldi e molti facevano il baratto con olio, patate ed i prodotti della campagna.

Tutte le volte che andavamo a salpare le reti, il Sordo mi diceva di prendermi dei pesci, cosa che non ho mai fatto, al contrario, tornavo a casa e dicevo a mamma: "lu Sord 'a piat lu pesc(e) vall'accattà!" (il Sordo ha preso il pesce, va a comperarlo).

Erano brutti tempi per una famiglia numerosa come la sua, con moglie e 4 figli. D'estate gli pescavo le telline per venderle, andavamo al Riccio, ma lui non poteva tuffarsi a causa dei timpani perforati, ed io raccoglievo le cozze più grandi che poteva vendere ai ristoranti di Francavilla. Ogni tanto da casa prelevavo una bottiglia di olio e gliela portavo. All’epoca non bevevo vino, però aiutavo mio padre a produrlo, anche tanto, per cui rinunciavo alla parte che mi spettava come vendemmiatore e la regalavo al Sordo. Papà apprezzava molto il mio gesto!


LA MIA BARCA A VELA

A me piaceva la vela, ma la barca del Sordo ne era sprovvista, tuttavia, essendo stato promosso, papà mi avrebbe dato i soldi per comprare il necessario allo scopo. Intanto avevo adocchiato le belle ferze di tela per le lenzuola di Marinella che mi voleva tanto bene e non le sarebbe dispiaciuto avere un lenzuolo in meno e farmi contento!
Così, dopo che mamma le aveva stese sui sassi puliti, ogni tanto le bagnava per farle diventare più bianche. Fatto il conto dei metri necessari, le ferze sparirono e subito cominciò il taglio per una bella vela al terzo.

Il Sordo, ricordando gli insegnamenti di Zi' Luigi, preparò altre ferze, ma bisognava cucirle. Il pensiero volò subito a Ninetta, la sorella più piccola dell'altra sarta di nome Ginevra, che abitava vicino a noi e non disdegnava qualche complimento o attenzione... e cosi, la vela fu cucita!


Le vele, per essere conservate meglio, venivano pitturate con colori tipo la Terra di Siena, mentre i disegni servivano per essere individuati da lontano! Ricordo ancora dove avevamo steso la vela per pitturarla, e in poco tempo, senza fare il disegno prima, direttamente con il pennello, 'Ndoni(o) fece quel capolavoro di disegno! Ora mancava tutto il resto: i pennoni, le bigotte, le pulegge per il paranco, le landre, le femminelle, i ganci di ferro... e non c'era un negozio dove poter comperare quell’attrezzatura.

Era tanta la passione che nulla poteva fermarmi: facevo prima il disegno di ogni cosa, poi lo spiegavo al falegname o al fabbro e, con la mia presenza assidua e insistente, per lui era una vera rottura di scatole…, ma con le mie promesse “mantenute” di pesce regalato, riuscivo sempre nell'intento.

Ora mancavano i pennoni che si dovevano acquistare a Francavilla. Il problema consisteva nel come portarli a casa! Con quale mezzo?

L’unica speranza era sempre concentrata sul vino di Nonno. Quanti miracoli?!?

Per anni ho viaggiato con l'autobus della ditta "Forlini" che di questi mezzi ne aveva pochissimi, uno di questi era addirittura fornito di un rimorchio per il trasporto degli studenti e nei giorni di mercato veniva usato anche dai contadini con merce al seguito da vendere in giro. I dipendenti di Forlini erano brave persone ed io avevo già da tempo sondato il terreno circa la possibilità di trasportare i due travetti di legno della barca a vela da Fancavilla, uno dei quali misurava 6,5 mt.

Uno di questi si chiamava Vicenzo ed era molto sensibile al vino…:

"ma quess' n(e) l(e) pozz fa'. Mi ci joc lu post..."

(ma questo non lo posso fare, mi gioco il posto).

 

E io di rimando: “Ma daj Vince' chi ci ved, j aspett a Viscarella, (l’ultima fermata all'uscita di Fancavilla, io aspetto sul muretto della fermata i travetti hanno già una cima legata. Tu vai sul rimorchio un momento... Leghi... ed è fatto!”

E così fu. Non mi sembrava vero... Ora mancava solo il lavoro per sagomare quei travetti quadrati. E dopo tanto la barca fu pronta...

 

Furono sufficienti poche lezioni da velista e... via! Che emozione!

Si trattava della stessa felicità che provai qualche anno dopo nel fare la mia Prima Guardia da solo sul Ponte di Comando con il grado di Terzo Ufficiale di coperta. Ero io che decidevo se accostare, controllare la posizione della nave con il sole, contattare altre navi ecc.. ecc..

Ma la barca serviva per mettere le reti e, purtroppo, la vela era ingombrante e impediva certi movimenti, insomma dava fastidio. Allora la sera, prima di calare le reti in mare, si doveva disalberare e creare più spazio possibile. All'alba si salpavano le reti e dopo una accurata pulizia dello scafo con rimontaggio dell’albero e della vela, la barca diventava mia per tutto il resto del giorno.

Mi ero attrezzato anche per una rete a strascico, allora veniva pure il Sordo, ma i risultati erano scarsi. Allora pescavo gli sgombri alla traina. Che meraviglia!

A volte ne prendevo una cassetta in poche ore! 'Ndonio, guardava da terra e se facevo qualcosa di sbagliato, quando venivo a riva, mi rimproverava! Comunque, quando serviva, andavo sempre ad aiutare Zio Giovanni a Pasquino, e molte volte caricavo la barca di sassi per metterli nel cemento, purtroppo da quelle parti non ce n'erano.

A Ottobre, ricominciava la scuola, l'unica materia specifica era sempre e solo Esercitazioni Marinaresche, ossia segnalazioni con bandiere, l’alfabeto Morse ecc… Il numero di studenti in classe era più o meno invariato, perché ogni anno 7 o 8 venivano respinti ed erano rimpiazzati dai ripetenti della classe superiore. Anche la vita era sempre la stessa: Terrenzio, il porto e le barche. D'inverno l’andazzo era un po' più duro perché tirava vento e faceva freddo.

Mia sorella Marinella aveva avuto il posto da insegnante a Montenerodomo, un paesino di montagna e, siccome era disdicevole che una ragazza vivesse da sola, mamma era dovuta andare con lei e siamo rimasti io e papà. Il menù era sempre lo stesso: “pasta con aglio, olio e rape”. La mattina ricoprivo il letto, pulivo per terra e su un diario che ho ritrovato tempo addietro avevo scritto:

“Solo ora mi rendo conto di tutto quello che faceva mamma…!”

Comunque fuori con gli amici ero sempre allegro, pieno di spirito, ma dentro di me sono stato sempre un po' triste! Non ho mai capito il perché... come se mi mancasse qualcosa. Ma ora non divaghiamo!


Due amici sul porto, Nunzio (di fronte) e Terrenzio

Arriviamo a giugno e, come al solito, sono stato promosso: la barca, il mare, qualche ragazzina che cominciava a farmi pensare...
Arriva ottobre: si riapre la scuola con l'allegria di sempre, i compagni, Terrenzio e la solita stretta di mano con la gamba sinistra alzata e: "sempre amici, fra', anche in tempo di guerra”.

LE PRIME AVVENTURE MARINARESCHE…

Poco prima di Ferragosto Antonio (il Sordo) mi chiede:

"Vogliamo andare qualche giorno a Roseto in occasione delle feste patronali?" Ricordo che a Roseto degli Abruzzi, viveva il padre di Antonio (Zì Luigi) che pur avendo una bella età stava ancora bene ed aveva spazio per ospitarci.

Anche se allora usufruivo dei biglietti gratis, per via di papà ferroviere, risposi che ci sarei andato soltanto in barca a vela!

Messo un paio di scarpe in una valigetta, indossai un paio di pantaloni, una maglietta e partimmo con un bel vento di scirocco che ci consentiva una buona andatura anche solo con il fiocco. Era troppo bello, infatti, dopo il traverso di Pescara, si ruppe la femminella superiore del timone.  Ci arrangiammo a governare con un remo messo il più possibile a poppa e riuscimmo ad approdare a Montesilvano. Ci serviva un piccolo succhiello per forare il dritto di poppa (dov'era la femminella), inserirvi qualche passata di filo di ferro che avevamo a bordo e ripristinare la sede per l'agugliotto del timone.

Nell’attesa dell'apertura pomeridiana del negozio di ferramenta, ci sistemammo all'ombra di una bellissima pineta e pianificammo il da farsi. Acquistato l'attrezzo necessario, ed effettuata la riparazione provvisoria, riprendemmo la navigazione per Roseto dove arrivammo giusto in tempo prima che il vento calasse del tutto.

Arrivati da Zì Luigi, trovammo Maria la marinara, così la chiamavano qui; era una sorella di Antonio che, prima della guerra, aveva sposato un certo 'Tosetto' di Padova il quale, dopo essere stato in sanatorio per via della tubercolosi, morì prematuramente.

La marinara aveva avuto la nostra stessa idea: venire a trovare il padre, insieme ad una figlia in occasione delle feste.

Si proponeva il problema di sistemarci per la notte, visto che la barca era tutta bagnata all'intern

ma quando finirono i fuochi artificiali, pensammo di metterci sulla parte asciutta del fiocco, sotto il muretto del lungomare di Roseto per essere ridossati dal vento fresco di terra.

Non ho mai invidiato Antonio come quella notte, perché mentre lui dormiva beatamente nel suo letto, io non riuscivo a prender sonno per il rumore delle fragorose pisciate, forzatamente trattenute dei passanti, frutto di birra e noccioline, allegramente assaporate nelle bettole dei dintorni, si trattava di piccoli torrentelli che scrosciavano da un lato e dall'altro senza soluzione di continuità. Il fenomeno idraulico si ripeté anche la notte successiva.

Dovevamo rientrare, Antonio era stato chiamato per un lavoro urgente da eseguire il giorno dopo.

Nel frattempo il mare era ingrossato. Antonio era dell'avviso di lasciare la barca e tornare in treno, ma io non avrei mai accettato quella proposta, ero troppo geloso della barca, anche se i suoi parenti ne avrebbero avuto cura.

Alla fine, per farmi contento, Antonio decise di tornare con la barca. Il mare era un bel po’ mosso, soprattutto vicino alla spiaggia dove le onde frangevano sulle secche, ed era difficile portarsi al largo. Anche se Antonio era davvero imbattibile in queste manovre di prendere il largo contro corrente, un'onda “anomala” ci sovrastò a tal punto da riempirci lo scafo di mare e costringerci a tornare a riva.

Aggottammo l'acqua e tentammo subito una seconda volta. Con la forza della disperazione applicata ai remi, riuscimmo a superare l’ostacolo.

Al largo l'onda era più lunga e maneggevole, con qualche frangente che ogni tanto c’investiva per tenerci sotto pressione… aiutato dal vento che non aveva voglia di scherzare. Arrivati sulla rotta fissata, terzaruolammo e con la tramontana al gran lasco cominciammo a volare sull’acqua…

All'arrivo a Ortona, il problema si ripresentava nel modo inverso: dovevamo evitare di farci portare a tutta velocità dal frangente sulla secca, col pericolo di rovesciarci oppure addirittura di spaccarci lo scafo e perdere la pelle.

Iniziammo a rassettare tutto per tempo e, aspettando l'istante giusto per sorpassare la secca, rientrammo felicemente accolti dagli applausi dei parenti ed amici che seguivano con trepidazione il nostro rientro fin dalla partenza da Roseto.

L'unica “vittima malconcia” del viaggio era stata la valigia di puro cartone pressato che alla fine si gonfiò tutta e cambiò di colore. Tale perdita fu ampiamente pagata dal bellissimo ricordo che conservo di quella mia prima crociera.

Una bella inquadratura del MIRANDA P.

Da Sinistra: La moglie del Sordo, il figlio (Guerino che mi ha spedito la foto), il sottoscritto, una mia amica, la figlia del Sordo, dietro il proprietario del peschereccio con suo figlio arrampicato.



Nella foto da sinistra: un ragazzino che non conoscevo, la figlia di Antonio, la MAMMA mia raggiante di gioia con la valigia di cartone, il bambino Guerino, figlio di Antonio (che mi ha mandato la foto), la testa di Olga, la moglie di Antonio, Antonio in canottiera e costume, una bambina in primo piano, ed infine si scorga poco del viso di zio Augusto, un fratello di mamma.


Il Sordo e sua moglie OLGA

 

LA MIA PiU’ GRANDE DELUSIONE….

Tempo di scuola! L’anno della scelta d’indirizzo: Coperta o Macchina. Naturalmente io avevo deciso per la Coperta già dalla mia prima infanzia.

Entriamo a scuola e trovata l’aula vedo scritto: 3° Corso Macchinisti. Giro per cercare altrove, poi un compagno mi dice: "Cate' a ddo' cazz ve'.." (Catè.., dove c...Vai?) :
"Come?”  “ne le vid ca e' maccnist, quess?!” (Non lo vedi che è la sez. macchinisti quella?).

Quella destinata ai CAPITANI non esisteva!

E' inutile andare avanti nel racconto! Quel giorno fu in assoluto

IL GIORNO PIÙ BRUTTO DELLA MIA VITA... LA DELUSIONE PIÙ GRANDE che mi avrebbe segnato per tutta la vita... avevo solo 16 anni, e mi stava crollando in un attimo tutto il mio mondo: i sogni di un adolescente, le prime letture... Non avevo più niente... Non sono entrato. "Catè.. Catè..!" Non mi sono voltato... piangevo... Sono uscito e sono andato sul Castello, non guardavo l'orizzonte infinito che ammiravo sempre da lì, ma fissavo il dirupo sempre più intensamente. Fui distratto da un uomo che si avvicinava, ed alzando gli occhi, ho rivisto "l'orizzonte...". Ho avuto sempre tanta volonta':

NON FA NIENTE... NON FARÒ IL COMANDATE... FARÒ IL MOZZO... IN ULTIMO DIVENTERÒ UN BRAVO NOSTROMO, MA VIVRÒ SUL MARE.

Tornai a casa un po’ prima degli altri per non incontrarli... A casa più o meno le solite domande... subito andai sui massi che erano dei cubi di cemento 4 mt x 4, metà interrati, costruiti a difesa della ferrovia: il mio rifugio... passeggiando lì sopra studiavo, scrivevo tutte le mie date importanti, dove sognavo, dove pensavo. Erano i miei confessori!

I Massi di Ortona

Per tre o quattro giorni, non andai a scuola, ma non avevo il coraggio di dirlo a mio padre e dargli un dispiacere così grande.
Ogni tanto andavo a scuola, ma non andavo mai alle interrogazioni, il più delle volte ero sul rimorchiatore della draga a buttare fuori del porto il fango e Don Mario mi faceva fare il timoniere.

Intanto avevo cominciato a fare i documenti per il libretto di navigazione, dopo di che me ne sarei andato a navigare da mozzo!

Ero quasi alla fine quando il Nostromo del Porto di Pescara, mi guardò e chiese: “Quanti anni hai?”
E io risposi: “17” aumentando un po'. “Mbeh, ci vuole il consenso di tuo padre!” Infatti allora si era maggiorenni a 21 anni.  Altra delusione...che fare? E cosi’, alla solita domanda di papà al ritorno da scuola: "sei stato interrogato?". Non ce l'ho più fatta e gli ho detto che a scuola non ci sarei più andato e che volevo imbarcarmi da mozzo.

Mio padre era rimasto impietrito...
Non dimenticherò mai il dolore che ho provato nel dargli questo dispiacere, che era ancora più grande di quello che provavo io stesso nel momento che ero costretto a rinunciare al mio sogno di diventare Capitano.

Comunque, ricominciamo da quel brutto giorno, il mio pensiero fisso era questo:

"O frequento la sezione Capitani, oppure a scuola non ci vado più".

Ora, la sezione Capitani era iniziata quell'anno nella sede di Ortona, ma dalla prima classe, il che non aveva molto senso poiché i primi due anni sono comuni per tutti gli indirizzi (Capitani, Macchinisti e Costruttori Navali). Avrebbero dovuto iniziare dal terzo anno! Ma l’Italia è stata sempre così!

Quindi la Sez. Capitani era ad Ancona. Il nonno cercò di calmarmi e mi disse che sarebbe andato ad Ancona per informarsi, cosa che fece il giorno dopo. Il lettore può immaginare il mio stato d’animo finché il nonno tornò a casa spiegando la situazione.

L'unica prospettiva possibile era l’iscrizione al "Collegio Anconetano". Il nonno aveva portato con sé il foglio per la domanda dove erano scritte tutte le condizioni da rispettare, le ore libere, quando si poteva tornare a casa, ecc. Io avrei accettato tutto, pure il carcere... ma quello che avevo letto in fondo mi lasciava un po’ sgomento: il costo era di Lire 18.000 + 2.000 per le spese. A quel tempo la pensione di papà era ancora quella provvisoria del 1951: Lire 25.000! Comunque papà non mi disse di no: "tu vacci ugualmente, poi vediamo un po', ti sarà sempre utile!"

IL CUTTER

Dopo qualche tempo, mamma, che fino ad ora non ho mai nominato, ma che cercava di starmi vicino il più possibile, anche se io con i miei modi "gentili" la allontanavo, mi disse:

"vid ca m'à dett padret(e) ca è quas sicur ca ti ci mann(e)!”

(vedi che papà mi a detto che è quasi sicuro che ti ci manda!)" E così cominciai a sperare, andai anche qualche giorno in più a scuola. Con gli altri ero sempre uguale: allegro e scherzoso. La maggior parte dei giorni stavo giù al porto dove, tra l'altro, in mezzo alle canne, quasi affondata nella sabbia, c'era un cutter (così si chiamavano una volta quelle barche con la vela marconi, deriva ecc.), pieno di acqua e per quanto non fosse mio, spesso lo pulivo.

Passò l'inverno: le reti, il Sordo, il mare e Terrenzio che ultimamente non ce la faceva a seguire a scuola... le risate varie ecc. Si chiuse la scuola: e fu respinto!

Estate come al solito, ma ero quasi sicuro di andare ad Ancona e invece, qualche giorno prima che si chiudessero le iscrizioni, papà mi venne vicino. Ero seduto poco lontano da casa sui sassi e, mentre pensavo, rompevo i sassi con un pugno: la mia specialità. Non sapeva come cominciare, credo che un dolore così non lo avesse mai provato e mi dispiaceva che fosse per causa mia. Mi disse che ad Ancona non sarei potuto andare perché i soldi non bastavano, cosa di cui io mi rendevo perfettamente conto.

Gli dissi solo: "Va bbon pà"... (Va bene Pà). Avrei voluto abbracciarlo per non farlo sentire in colpa... Lui mi avrebbe abbracciato, come per farsi perdonare, ma non eravamo capaci, non eravamo abituati. E così sembrava che il cuore volesse frantumarsi a entrambi! Sarebbe bastato che si fosse seduto vicino a me, un braccio sulla spalla... E invece lui tornò verso casa... e io verso i massi! Forse questi modi servivano per diventare più uomini.


Libretto della Pensione

Ecco la copia del libretto della pensione di papà da cui si evince che il promesso aggiornamento della pensione per Settembre, per cui mamma mi aveva detto che sarei potuto andare ad Ancona, è avvenuto al marzo successivo, troppo tardi per me e per la mia sognata scuola!

Sui massi scrissi la data... La stessa cosa che feci su un libro che mi portavo dietro, con l’aggiunta: "addio sogni di gloria!" Allora, dovevo decidere:

1) partire come mozzo, ma papà non mi avrebbe dato il consenso;

2) aspettare che arrivasse la sezione 3° Capitani ad Ortona ed avrei dovuto perdere un altro anno;

3) continuare la Sez. Macchinisti e, dopo il Diploma, imbarcarmi da mozzo oppure prendere anche l'altro diploma: quello a cui agognavo da sempre: Capitano di L.C. Decisi per la terza soluzione con un qualcosa dentro che non mi avrebbe più abbandonato!

Comunque a scuola andavo discretamente ed eccellevo nelle materie tecniche. Ero ritornato il Catena di prima con Terrenzio, e ci vorrebbe un romanzo per raccontare quegli anni: una classe di amici! Pensate che quando gli amici partirono per il militare, sono andato ad accompagnarli fino a Taranto! Sempre promosso a Giugno, anche agli Esami di Stato! Ma ora che fare?

Nessuno della mia famiglia mi disse di imbarcarmi. Io avevo già deciso da tempo: sarei tornato a scuola. Gli insegnanti dell'altro corso mi avevano consigliato fare un “recupero”: dare l'esame a settembre di 3a e 4a - frequentare la 5a e io per tutta risposta dissi:

“Cazzo! ho fatto tutti gli anni da Macchinista di cui non me ne fregava niente, e devo fare così affrettato quello che mi interessa? Riprendo a studiare dalla 4a!”

C’era solo un problema: incombeva il servizio militare. Avevo già avuto il rinvio e ora sarei dovuto partire. Per ovviare, mi sarei dovuto iscrivere all'Università per posticiparlo. Nonno non disse una parola, pagò anche quelle tasse, anzi, penso che fosse contento, vedendo che in qualsiasi maniera sarei arrivato dove volevo.

Mi sono diplomato il 27/7/60. Il 29/7, da Marinella è nato mio nipote Vanni "il piccunetto". La gioia raggiunse il massimo grado. Ma per me la gioia è sempre durata poco. Sembrava che tutto fosse andato bene, ma poi subentrò la setticemia! Mia sorella morì il 5/8/60! Non aggiungo altro... se non una (grossa imprecazione). Scusate!

Intanto si è riaperta la scuola, con i ragazzi di 16/17 anni. Alcuni miei compagni erano già imbarcati! È stata dura... dura... Comunque, quando andavo a Roma (e capitava spesso, o per l'Università o per qualche ragazza), giravo sempre per i mercatini di libri usati a Porta Portese, trovavo qualche vecchio testo di navigazione o di astronomia e quindi avevo modo di approfondire quelle quattro cose che bisognava sapere a scuola! Avevamo il professore di Navigazione e Astronomia, un napoletano, anziano per di più, e al mattino arrivava e diceva: "ne Cate' ogg(i) a tenimm a fa ..., u ssai ? " ( ne Catè, oggi dovremmo fare..., lo sai?) eh professo'... " sc(i)pijegal a chist quattr f(i)ss", (spiegalo a questi 4 fessi..), lui si sedeva al posto mio,... e cosi non è che avessi qualcosa di nuovo da imparare! Comunque, facevo qualche ricerca per conto mio, cercavo di realizzare qualche strumento con le mie mani. Il terrazzino che avevamo sul tetto era il mio regno!

Intanto la mia vita proseguiva intorno al mare: reti, barche, pronto intervento per tutto quello che riguardava il mio mondo. A primavera, iniziai la manutenzione del cutter con Renato e a fine maggio era pronto! Iniziai l’attività velica con tutte le sue varianti ed applicazioni.


Nunzio sull’albero della petroliera VOLERE

A fine anno scolastico mi meritai una media stratosferica; partecipai al concorso della Lega Navale Italiana, a livello nazionale per alunni IV° Corso Nautici italiani, e il mese di Luglio, mi arrivò la comunicazione: Viaggio premio Flotta Lauro Napoli che aveva navi passeggeri in tutto il mondo! Mamma, sempre previdente.."micc(i) cacche maj de lan(a).. 'nz pò mai sapè, t(e) mann a dò fa lu fredd ..?!!!"

(Trad. 'mettici qualche maglia di lana, non si può mai sapere, possono mandarti dove fa freddo'). Infatti mamma aveva ragione! Grazie alle potenti raccomandazioni che avevo, quando arrivai a Napoli, mi dissero:

"Allora vai ad Augusta (Sicilia), imbarchi sulla petroliera 'VOLERE', andrete a Mina al Ahmadi-Golfo Persico, cioè all’inferno, e ritorno ad Augusta!

Ho compiuto il mio primo viaggio con tanto interesse, e avrei rifatto un altro viaggio, ma non fu possibile per l’imminente riapertura della scuola! Ebbi delle ottime referenze da parte del Com.te il quale mi disse: “appena prende il Diploma, può imbarcare con Lauro!”

Si riapre la scuola: iscrizione all’Università - facoltà Ecomomia e Commercio - Roma per ottenere il rinvio del Servizio Militare.

Ogni tanto tornava a casa qualche mio compagno di scuola della sezione Macchinisti con il portafoglio pieno, mentre io chiedevo ancora a mamma 15 lire per una sigaretta “nazionale” e la caramella per Guerino! Racconti... soldi, America... Africa ... Donne... Commento nei miei riguardi: “ma chi cazz te la fatt fa' a riji a la scol!” (Trad. ' ma chi c... te lo ha fatto fare a tornare a scuola!!').

Immaginate come mordevo il 'morso'!!! Comunque l'anno scolastico era finito... Gli Esami di Stato duravano un mese... Finalmente il 26/7/62 avevo ottenuto il titolo di "ALLIEVO CAPITANO DI LUNGO CORSO", in effetti era stato un LUNGO perCORSO, avevo “sprecato” tre anni di tempo prezioso, con tanta amarezza e tanto dolore... nel veder tramontare a quella eta’ tutti i miei sogni...!

 

SOLO UNA PASSIONE ED UNA VOLONTÀ SENZA FINE, HANNO FATTO SÌ CHE NON MI PERDESSI… E CHE RIUSCISSI A RAGGIUNGERE QUELLO CHE AVEVO SEMPRE SOGNATO.

*****

 

QUESTA STORIA AUTOBIOGRAFICA HA SOLO UN INSEGNAMENTO:

NELLA VITA OCCORRE SEMPRE AVERE UNO SCOPO!

Ai miei nipoti

Nonno Nunzio

Prima di chiudere questo racconto autobiografico, vorrei ritornare per un attimo al suo titolo:

OSSO DI SEPPIA

poiché racchiude in sé un diario di ricordi legati alla mia prima gioventù, ai miei amici e alle prime lotte d’astuzia per pescare quelle prede estremamente intelligenti che, una volta catturate mi rendevano fiero agli occhi dei miei genitori quando in compagnia di parenti e vicini di casa li cucinavamo alla griglia…

La seppia è un decapode della famiglia dei cefalopodi. Corpo ovale e schiacciato, dotato all’interno di un telaio con sfumature rosa (il famoso “osso di seppia”). Il tronco è circondato da una sorta di gonna che ha la funzione di una pinna.

 

I due tentacoli più lunghi sono anche più larghi all’estremità, con quattro file di ventose.

Sul capo intorno alla bocca, la seppia possiede 8 tentacoli di cui due più lunghi, flessibili, utilizzati per acchiappare la preda. Al centro dei tentacoli c’è la bocca, in essa è presente con un dente molto affilato, simile al becco di un pappagallo, con cui riesce a cibarsi.

Sotto la bocca possiede un sifone, questo viene utilizzato per nuotare in verso opposto, con una velocità fulminea se si sente minacciata. Il mantello è particolare, la seppia come gli altri cefalopodi ha un’incredibile capacità nel mimetizzarsi, infatti riesce ad assumere la colorazione di ciò che sta intorno in pochi istanti.

Il colore del corpo varia dal grigio zebrato al verde fino al bruno, poiché la seppia ha capacità mimetiche. Vive su fondali sabbiosi o tra le alghe e gli scogli. La sua vescica è più sviluppata di quella degli altri cefalopodi.

Lo strato d’acqua dove vivono le seppie è il più vicino al fondo o nelle pareti rocciose sommerse, la profondità a cui vivono varia da un metro a oltre 100 metri. Questi cefalopodi possono raggiungere la lunghezza massima di 30/35 cm. In genere le seppie si cibano di piccoli crostacei, i granchi e i gamberi sono il loro pasto principale insieme a pesci ma di piccole dimensioni.

In Mediterraneo, la pesca professionale alle seppie avveniva con le reti e le nasse. Invece per noi sprovvisti totalmente di mezzi, nella pesca da riva o dalla barca la tecnica per catturarle era tutt’altro…



Come si riproducono le seppie

La riproduzione avviene all’inizio della primavera. I maschi, riconoscibili dalla banda bianca presente nella pinna che circonda il tronco, danno inizio al corteggiamento assumendo una colorazione del mantello zebrata. Tramite questa “veste”, le seppie di sesso femminile capiscono le intenzioni di accoppiamento. A loro volta le femmine fanno intendere di essere disposte ad accoppiarsi.

Concluso il “rito di corteggiamento” avviene l’accoppiamento vero e proprio. Le due seppie si uniscono muso contro muso e intrecciano i tentacoli. Il maschio inserisce il quarto tentacolo all’interno della seppia femmina e trasferisce il seme nelle ovaie.

Dopo la fecondazione, la femmina ha un compito, quello di dare una protezione alle uova prima di deporle, tutto ciò avviene internamente. Terminato il processo di protezione delle uova, è il momento di deporle. La femmina sceglierà un posto sicuro, pulito, dove l’acqua circola in modo continuo, al fine di garantirne la schiusa.

Il periodo migliore per la pesca alle seppie è la primavera insieme all’autunno.

“Questi erano i giorni nei quali venivano a terra le seppie per deporre le uova e noi le prendevamo con le nasse, oppure con la fiocina.  Occorreva fare un fascetto di viti, o meglio di alloro (perché più profumato), all’interno del quale veniva messo un mattone per tenerlo fermo sulla secca. Al mattino si andava cautamente con la fiocina (anche senza barca), si spargevano delle gocce di olio sull’acqua, in modo da togliere l’increspatura del vento.

Con un po’ di pratica, si riusciva a distinguere la sagoma della seppia che era perfettamente mimetizzata nella sabbia, in prossimità della ‘fascina’, ed era pronta per essere infiocinata.

Un altro metodo molto valido era quello di trascinare lentamente sugli scogli una seppia femmina legata nella parte posteriore, questa manovra faceva partire dal fondo, come “la freccia di Cupido” il maschio ‘ingrifato’ che era pronto per lo stupro… Era il momento d’impedire quella “violenza gratuita”…!

Il suo impeto sessuale incontrollato lo spingeva ad attaccarsi alla femmina come una ventosa! Ma in quella circostanza lo attendeva soltanto una cattura ingloriosa…senza neppure il coppo…!

Quando poi s’aveva l’opportunità di usare le nasse approfittando del loro fanatico “intimo gaudio”, si lasciava una femmina all’interno come esca.

Con il mio amico il Sordo, avevamo sperimentato anche un altro trucco: si metteva in qualche nassa dei pezzi di specchio che riflettevano l’immagine della seppia stessa.

L’inganno ha sempre dato buoni frutti.

A proposito della loro prolificità, alla fine della primavera, le nasse diventavano nere dalle tante uova che le seppie depositavano.

Era bello prenderne una quando era quasi finito il tempo della gestazione, bastava schiacciarlo un po’ con delicatezza e subito usciva la seppietta che per prima cosa, spruzzava una piccola goccia di nero”.


Un altro sistema di cattura, nel caso non disponessimo di una seppia compiacente era il seguente: si trainava a lento moto, (ad una certa altezza dal fondale), una sagoma di legno pitturata di bianco da sembrare il ventre di una seppia, alla quale avevamo fissato degli ami ai lati ed nella parte posteriore, in modo da poter braccare il maschio, che accecato dal desiderio, partiva come un razzo dal fondo per compiere l’atto peccaminoso…

Secondo la mia modesta esperienza, acquisita in quel periodo della mia gioventù, sono ancora convinto che la seppia sia la specie più “vogliosa di sesso” del creato. Il maschio si riconosce dal colore bianco che definisce l’orlo della corolla con la quale si sposta a ‘lento moto’ ed una colorazione striata del dorso, mentre la femmina presenta delle macchie color rosa nel ventre ed un colore piuttosto uniforme del dorso. Di solito la femmina è più grande del maschio”.

ALBUM FOTOGRAFICO

di alcuni siti citati nel racconto

Porto di ORTONA

L'Adriatico è lo sfondo onnipresente ed il polo su cui gira nella Storia la vita dell'intera città, che non ha mai abbandonato la sua vocazione marinara. La quotidianità è scandita dalle partenze e dai ritorni dei pescherecci, e il mercato ittico è uno dei più animati del Centro Italia. L'Istituto nautico, che dal 1919 cura la formazione di capitani e macchinisti, è un punto di riferimento a livello nazionale. Sul litorale si vedono ancora i trabocchi, le ingegnose strutture di legno e corda che danno il nome alla costa tra Ortona e Vasto: "macchine da pesca" vecchie fino a quattro secoli, ancorate agli scogli da una passerella ma non fondate, per meglio reggere all'urto delle onde. Il rapporto col mare si alimenta di sapienza antica e abilità empirica, ma ha in sé anche valenze simboliche profonde.

ORTONA vista dal mare

Il CASTELLO ARAGONESE

La città laica ha il suo simbolo nel Castello Aragonese, che fu fatto costruire da re Alfonso e rimanda ai fasti quattrocenteschi, all'Ortona porto franco in cui sbarcavano schiere di mercanti diretti alla fiere di Lanciano; benché dimezzato dal tempo - rimangono solo due torri e un tratto della cinta muraria - ci appare ancora nobile e grandioso. Esempi insigni di architettura civile sono poi le dimore patrizie di Corso Matteotti, la via su cui si innestano i due rioni storici: Terravecchia, il più antico, si sviluppò a partire dal porto sull'area dell'Ortona frentana e romana; Terranova nacque nel XII secolo e si definì centro storico di Ortona.

Il Comune ed il Castello si guardano...

Il Castello vigila sulla città

San Tommaso

Il monumento che più rispecchia la vicenda della città è la Cattedrale, risalente al XII secolo e più volte rimaneggiata prima di essere ricostruita nel dopoguerra; qui si custodiscono le reliquie di San Tommaso, esposte ai fedeli durante la grande Festa del Perdono, in cui la concessione dell'indulgenza plenaria è accompagnata da processioni solenni e cortei storici. Tra gli elementi medievali superstiti della chiesa ci sono il magnifico portale gotico di Nicola Mancino e quello più antico che si apre sul prospetto sinistro; nella decorazione interna emergono gli stucchi di Vincenzo Perez nella Cappella del Sacramento e i dipinti di Tommaso Cascella, che realizzò inoltre per la Cattedrale alcune maioliche e i disegni delle vetrate; al padre Basilio si deve invece la grande tela che raffigura l'Incredulità del Santo.


Vista parziale delle spiagge di Ortona

Rapallo, 1 ottobre 2018

MARE NOSTRUM - RAPALLO


INCENDIO A BORDO DELLA S/S HOMERIC

INCENDIO  A BORDO DELLA S/S HOMERIC

S/S HOMERIC in navigazione durante la sua fulgida carriera di nave passeggeri

La notte del 1 luglio 1973, ci fu una bruttissima sorpresa. Eravamo in navigazione da New York verso i Caraibi, con destinazione Port au Prince (Haiti); all’altezza di Cape Hatteras, il mare era calmo, ma c’era una nebbia fitta, che riduceva a zero la visibilità. Il comandante era con noi sul ponte di comando ed eravamo concentrati davanti ai radar perché la zona era percorsa da pescherecci e motobarche. Il silenzio era interrotto ogni due minuti dalla sirena della nave, che segnalava la nostra presenza in mare in navigazione con nebbia. Improvvisamente suonò sul ponte di comando l’allarme incendio.

Erano le 03.55 del 1 luglio 1973, la spia dell’avvisatore elettrico segnalava un allarme incendio.

Evito di descrivere le varie fasi delle operazioni di spegnimento per non entrare in un mare di tecnicismi... La cucina fu distrutta completamente e si dovette invertire la rotta e tornare indietro per mettere la nave in sicurezza.

L’equipaggio era tutto italiano, eccetto i cinesi in lavanderia.

il Comandante si chiamava Alberto MAROSSA di LA SPEZIA e il Comandante in Seconda era Lorenzo ANTOLA (Lolly) di CAMOGLI  (entrambi deceduti).

La notizia dell’incendio venne trasmessa da tutte le TV americane. Ricordo la bellissima intervista rilasciata dal primo passeggero americano che scese dalla nave: se l’HOMERIC ripartirà nei prossimi giorni, sarò il primo passeggero a salire a bordo”.

Queste parole ci fecero sentire orgogliosi di quanto avevamo fatto. Non vi fu alcun ferito a bordo e la nave ritornò a New York con i propri mezzi. Avevamo dimostrato a tutta l’America cosa sanno fare gli ITALIANI!

Ancora oggi, il segreto del successo ottenuto, si può spiegare soltanto con l’amore che tutto l’equipaggio sentiva per quella nave che mentre andava a fuoco piangeva dalla disperazione triplicando la forza di contrasto al fuoco.

Purtroppo, a causa dei danni subiti dal calore sprigionato dalle fiamme, la nave ebbe danni irreparabili al ponte superiore che si era completamente deformato.

Dopo diverse perizie ed indagini, l’armatore decise di vendere la S/S HOMERIC ad un Cantiere di demolizione di Taiwan.

Soffrimmo tutti per quella inevitabile decisione!

Allora io ero Primo Ufficiale addetto alla sicurezza. L’HOMERIC era una nave molto lussuosa; tutto era prezioso su quella nave: l’arredamento era di tipo “classico”, i saloni erano ricchi di opere d’arte: quadri e sculture famose, arazzi e broccati sopraffini. Tanta ricchezza d’arte non l’ho mai più vista a bordo delle nuove navi. Era finita un’epoca! Dalle belle navi si passò alle FUN SHIPS.

"S/S HOMERIC in disarmo, sbandata e senza lance di salvataggio. A questo punto affiorano alcuni ricordi: "All'inizio si parlava di disarmo e demolizione a La Spezia, alla fine arrivò  con grande sorpresa l'ultimo ordine: trasferimento della nave a TAIWAN per essere demolita. Ricordo che il comandante Antola preparò la nave per il viaggio e tutto andò bene. La nave partì con 50 persone d'equipaggio e due sole lance di salvataggio. Passò dal Canale di Panama.  Al ritorno raccontava che la cosa triste e impressionante fu quando arrivati a Taiwan, il Pilota disse: AVANTI TUTTA... verso la spiaggia!"

C.S.L.C. Mario Terenzio PALOMBO

 

INFORMAZIONI STORICHE

S/S HOMERIC
In origine si chiamava MARIPOSA. una nave da 18.017 tonnellate lorda, lunghezza 192,63 mt x 24,20 mt con una velocità di 22 nodi. Poteva trasportare 475 passeggeri in prima classe e 229 passeggeri in classe economica. Costruito dal cantiere navale Betlemme Shipbuilding Corporation a Quincy, per la Società di Navigazione Matson di Los Angeles. Varata il 18 luglio 1931. La nave fu utilizzata sulle rotte San Francisco - Honolulu - Sydney e nel 1941 entrò in servizio come trasporto della US Navy. Alla fine della guerra fu posta in disarmo ad Alameda nel 1953 fu venduta e rinominata HOMERIC e passò sotto la bandiera di Panama. Fu completamente ristrutturata e con sistemazione per 147 passeggeri di prima classe e 1.096 passeggeri di classe turistica. Iniziò regolarmente la linea tra Southampton - New York con partenze nel 1955 e Le Havre - partenze di Montreal nel 1957. Dal 1963 è stato utilizzata come nave da crociera e nel 1973 dopo un grave incendio fu ritenuto antieconomico ripararla e fu venduta per la demolizione a Taiwan.

 

Ringrazio il Comandante C.S.L.C. Mario Terenzio Palombo per il contributo di esperienza e conoscenza offerto al sito di Mare Nostrum Rapallo. Anni fa Mario fece per Mare Nostrum una brillantissima conferenza sulle navi della Costa Crociere con la quale svolse gran parte della sua eccellente carriera che qui sintetizzo:

Sono nato a Savona il 30 agosto 1942, da famiglia di tradizioni marinare: mio padre Francesco, autentico “lupo di mare” era originario di Porto Santo Stefano (Monte Argentario), mia madre Renata Mattera, era dell’Isola del Giglio. La mia famiglia nel 1935, per esigenze di lavoro, si trasferì in Liguria, nella pittoresca cittadina di Camogli. Mio nonno Biagio, già armatore del pinco-goletta ”Nettuno”, comandato da mio padre, si  mise in società con una famiglia camogliese ed iniziò i trasporti e la vendita a Camogli e Santa Margherita Ligure, di carbone e legna proveniente dalla Sardegna. Mi sono diplomato nel 1963 all’Istituto Nautico “Cristoforo Colombo” di Camogli. Dopo 9 anni di esperienze su navi da carico e petroliere, nel 1972 iniziai la mia carriera su navi passeggeri con la società di navigazione Home Lines imbarcando sulla T/n HOMERIC con il grado di Primo Ufficiale e, subito dopo, sulla T/n DORIC. Raggiunsi il grado di Com.te in 2nda, nel 1979 sulla T/n OCEANIC e, il mio primo comando nel 1982 sulla M/N ATLANTIC, di cui avevo seguito l’allestimento, in Francia, da Com.te in 2nda.

Seguii anche l’allestimento in Germania della nuova M/N HOMERIC. Nel novembre del 1988  questa società fu venduta e venni, nello stesso mese, assunto dalla società Costa Crociere, imbarcando da Com.te in 2nda sulla T/n EUGENIO COSTA e, pochi mesi dopo, ripresi il grado di comandante  sulla CARLA COSTA.

Con la società COSTA CROCIERE ho maturato sempre più la mia esperienza professionale partecipando a vari allestimenti di nuove navi, con l’affidamento del comando di navi prestigiose.

Con la Costa Crociere ho comandato : CARLA COSTA – COSTA ROMANTICA- COSTA CLASSICA- COSTA VICTORIA- COSTA ALLEGRA - COSTA ATLANTICA- COSTA MEDITERRANEA – COSTA FORTUNA

Allestimenti : COSTA ROMANTICA – COSTA VICTORIA – COSTA FORTUNA

Sono Rimasto a ruolo con la Costa Crociere sino al giugno 2007, ritirandomi in pensione

ALCUNE INFORMAZIONI TECNICHE

Sulle navi devono essere fatti conoscere alle persone imbarcate, a mezzo di cartelli stampati con grossi caratteri, i segnali di allarme per i seguenti casi di emergenza:

a) "uomo in mare": uno squillo di sirena oppure un colpo lungo di fischio quando manchi la sirena;

b) "incendio grave a bordo": due squilli lunghi di sirena.

c) "allarme generale": una successione di non meno di sette colpi brevi di fischio o squilli brevi di sirena, seguiti da uno lungo, insieme con il suono della suoneria di allarme e degli altri apparecchi sonori eventualmente esistenti nei vari locali.

d) "abbandono nave": Ordine del Comandante per altoparlante, seguito  dal suono continuo dei campanelli di allarme fino a quando l'abbandono  della nave non é completato.

I naviganti sanno molto bene che tra tutte le emergenze che possono accadere a bordo, l’INCENDIO GRAVE é il più temuto sia perché incide sulla respirazione delle persone coinvolte, sia perché esso va domato con l’organizzazione e la capacità dell’equipaggio di gestire e coordinare tutte le procedure del caso le quali variano sempre in base a tanti fattori, non escluso quello meteo.

Sul sito di Mare Nostrum, abbiamo dedicato l’intera Sezione Navi e Marinai-Salvataggi e Disastri al racconto di molti incendi esplosi su navi italiane con l’intento di sensibilizzare sia gli equipaggi che i passeggeri.

Niente e nessuno, come la Storia Navale, può INSEGNARE quanto sia importante l’esercitazione e la disciplina per riuscire a neutralizzare un INCENDIO a bordo di qualsiasi tipo di nave.

A cura del Com.te Carlo Gatti

Webmaster del Sito: Mare Nostrum Rapallo

 

 

 


Il FERROVIERE CHE GUARDAVA VERSO IL MARE…

 

Il FERROVIERE CHE GUARDAVA VERSO IL

MARE…

 


Dai miei ricordi d’infanzia emerge, sempre più spesso, l’inseparabile visione dei miei primi eroi, tutti ferrovieri: macchinisti e fuochisti del treno, che mentre noi, giovani viaggiatori dell’Adriatico, si leggeva, si discorreva e poi ci si appisolava in uno scompartimento, loro ci portavano a destinazione.

Il macchinista era davanti ai comandi, attento ai segnali, il fuochista di spalle a impalare carbone.

Due uomini che arrivavano a fine corsa “neri” ed esausti, muniti di gamella del pranzo e della cena da riscaldare, poi al dormitorio. Le percorrenze erano lunghe a causa della scarsa velocità, ed il viaggio poteva durare anche due giorni. Dormire di giorno, lavorare di notte.

A quei tempi la sicurezza e l’efficienza dei treni dipendeva da queste due persone spesso rappresentate con maschere affumicate.

Non possiamo di sicuro dimenticare i capistazione ed i casellanti che avevano da svolgere anch’essi compiti assai complicati, ma sui MACCHINISTI gravava tutto il peso del viaggio: responsabilità e fatica, due articoli molto rari e difficili da gestire con competenza e raziocinio navigando a vista come le navi quando i ponti di comando erano vuoti di strumenti e di sistemi d’allarme in caso di emergenza.




Rifornimento d’acqua per la caldaia


Le vampate di fuoco che uscivano dallo sportello quasi sempre aperto del focolaio, producevano un caldo che d’estate diventava insopportabile e, d’inverno addirittura pericoloso quando, per sporgersi al freddo, si rischiava una polmonite. Vento e acqua piovana entravano dappertutto … quello era il modo di navigare sulle rotaie, proprio come su certe carrette dei mari in voga in quei decenni eroici e gloriosi quando gli uomini erano o dovevano essere d’acciaio!

Questa non é facile retorica, se pensiamo che quei due uomini erano sempre neri e sporchi di fuliggine nonostante il berretto e gli appositi occhiali.

La polvere di carbone entrava comunque negli occhi e spesso provocava irritazioni e malattie della vista. Il fumo e le particelle entravano, in gran quantità, anche in bocca, nel naso e nei polmoni.
Il macchinista era perennemente con gli occhi sulla linea sia per rispettare i semafori e le bandierine ma, soprattutto, per vedere in tempo eventuali ostacoli sulle rotaie come persone imprudenti, oppure animali vaganti che potevano creare incidenti gravissimi con morti e addirittura stragi.

Per questi motivi, la leva della rapida (il freno di emergenza) doveva sempre essere pronto all’uso.



“Bigliettiiiii!!”, la voce del conduttore che a volte ti svegliava e ti riportava alla realtà. E poi, ancora tante le figure, ormai scomparse, che consentivano a quel mondo di correre in sicurezza sui binari: casellanti, guardialinee, deviatori e verificatori. Il guardia-valige, addetto al deposito bagagli del personale viaggiante nei dormitori, il chiamatore, figura che vedevi sfrecciare in bicicletta per le strade della città, quando il telefono non era diffuso nelle case, per correre “a chiamare” in servizio un macchinista o un fuochista da rimpiazzare all’ultimo momento.

Vagone ferroviario del primo dopoguerra. La "Garitta del frenatore" é a destra nella foto.

Mio padre faceva il frenatore, una figura che non esiste più da quando anche i treni merci furono dotati di freni ad aria compressa. Lavoro duro, condannato a stare in una garitta di un metro quadrato dell'ultimo vagone, per frenare il treno all'arrivo di una stazione azionando una vite senza fine che stringeva il freno metallico sulle ruote.

Papà faceva servizio a Pescara ed ogni giorno, a qualunque ora, d'estate e d'inverno, raggiungeva quel posto in bicicletta, una 'Ganna' (che nessuno poteva toccare), con la sua classica valigetta quadrata di fibra scura, che conteneva il suo pranzo.

Siccome era scomodo portarla in bicicletta, papà mi avvisava a che ora sarebbe passato il suo treno davanti casa  nostra al ritorno, ed io dovevo aspettarlo un po’ più avanti, dove c'era una siepe sulla quale la buttava, senza che subisse il minimo danno.

Qualche problema lo avevo io per raccoglierlo tra gli spini, ma mi ero attrezzato di una bella canna munita di uncino che si prestava perfettamente al recupero.

Manutentore



Aggiungiamo due disegni che ci aiutano a comprendere il funzionamento di un locomotore con le sue componenti meccaniche.


Rimini 1973

Anni fa, nella villa comunale dedicarono un “monumento” al ferroviere, una bellissima locomotiva a vapore de lontano 1916, molto ammirata dagli adulti in cui suscitava ricordi, e dai bambini che la toccavano con aria di stupore. Oggi, quel “monumento”, ha trovato una nuova collocazione nell’ambito della villa ristrutturata, è più nascosto, per vederlo ci devi sbattere il muso sopra, ora è solo una vecchia locomotiva su un tratto di binario morto.

Traverse

Quando ero piccolo, forse avevo 5 o 6 anni, papà aveva diritto ogni anno ad un certo quantitativo di carbone per poterci riscaldare d'inverno, ma oltre a quel combustibile, poteva disporre anche di un certo numero di quelle vecchie traverse (traversine in gergo) di faggio (oppure quercia, rovere, pino) su cui poggiavano i binari. Quel legno forte ma ormai consumato, aveva un particolare odore di catrame ed era molto pregiato per il potere calorifico che emanava.

Il dopoguerra fu molto duro per tutti, e tanti bambini come me non avevano di che mettere al fuoco, ed allora io li aiutavo a cercare tra le rotaie della ferrovia, i pezzetti di carbone che cadevano dal tender del treno mentre il fuochista riforniva il forno della locomotiva.

L’incoscienza dei bambini! Il centro del nostro mondo era il treno, e i suoi binari la nostra Via Pal. Mia madre era sempre in pensiero, conosceva benissimo gli orari del passaggio dei treni ed ogni volta mi sorprendeva tra le rotaie con gli altri bambini, sebbene noi facessimo molta attenzione all’avvicinarsi del treno ed avessimo un nostro sistema di allarme per toglierci in tempo dal pericolo.

Quanti sculaccioni ho preso da mamma!

E tornando alle traverse, ricordo lo sforzo immane che facevano due uomini robusti per farle a pezzi con quelle grandi seghe munite di lunghi manici di legno ad ogni lato per poter lavorare in coppia. Su questi legni c’era un marchio, ricordava la testa di una puntina da disegno, sulla quale era stato impresso l'anno di 'nascita'.

Una volta fatta a pezzi, ciò che restava della traversa la spaccavano con la scure, ma spesso non ci riuscivano per via delle venature, ed allora ricorrevano alle zeppe o scalpelli, veri e propri cunei che penetravano sotto i colpi della mazza, una sorta di grosso martello con manico lungo che era adattissimo a ridurla in piccoli pezzi.

Ma questi miei ricordi s’intrecciano con quelli di un altro personaggio delle ferrovie: il cantoniere che ogni mattina passava con la sua bici e teneva in ordine la strada quale dipendente ANAS.

La Ferrovia Adriatica, fu costruita da queste parti, nel 1863 e ad un intervallo di un paio di chilometri veniva costruito un Casello ferroviario che era abitato da personale dipendente dalle ferrovie, responsabile della manutenzione e dal controllo della linea. Erano dislocati di solito anche in prossimità di punti che richiedono maggiore sorveglianza, come ponti, passaggi a livello, ecc.

L'addetto responsabile di quella struttura era il casellante che aveva il compito di controllare tutta la porzione di linea di propria competenza, prevenendo così incendi che potevano scaturire dalle scintille delle locomotive a vapore e tenendo sempre libera la sede ferroviaria da erbacce infestanti.

Da bambino mi piaceva guardare le persone che lavoravano lungo la ferrovia che passava accanto a casa nostra.

Ricordo in particolare il casellante che insieme agli operai formavano la Squadra che assicurava la buona manutenzione della ferrovia. Era formata da sette/otto uomini che agli ordini del caposquadra svolgevano diverse mansioni come rincalzare il pietrisco sotto i binari o cambiare le traversine.

A volte il loro lavoro era molto impegnativo, capitava infatti che dovessero sostituire un pezzo di binario e, per sollevarlo e spostarlo, dovevano agire in coppia con delle pinze molto speciali adatte ad imbragarlo, molto lentamente al ritmo di comandi vocali molto secchi: " in.. (pausa).. aria.."


Per sostituire una traversina di legno ormai al limite dello spessore usavano una specie di grossa fiocina che un uomo cercava di immergere nel pietrisco mentre altri due la tiravano per mezzo di una catena provvista di un’impugnatura di legno.

Quando la squadra lavorava sui binari venivano poste a qualche centinaio di metri due bandiere rosse per segnalare il pericolo, ed era il caposquadra ad avvisare gli operai quando era il momento di sgombrare i binari per il sopraggiungere del treno.

Un'altra figura che li seguiva sempre era quella di un operaio invalido che, infilato il moncone rimastogli nel manico di un secchio di stagno pieno d'acqua, con un maniere, sorta di mestolo metallico, dissetava gli operai esausti sotto il sole cocente d'estate.


Castello di Chillon

Giorni fa ho visto un documentario in TV, si trattava di un turista inglese che si sposta da un continente all’altro con una pubblicazione turistica dei primi del ‘900, a caccia di fatti inediti e di persone curiose  un po’ speciali.

In questa puntata la sua meta era il lago di Ginevra e dintorni, più precisamente il famoso Castello di Chillon che ci ha illustrato dalla torre di guardia più alta, il belvedere, fino alle umide segrete sotto il livello del lago.

L’inglese si é poi soffermato sulla descrizione della ferrovia che fu costruita a pochi metri dal lago togliendo spazio vitale al padrone di un terreno, lungo 3 chilometri, su cui la vittima di questa intrusione, coltivava una vigna che produceva un vino speciale: il glorioso e ben pubblicizzato Chasselas.

Essendo quel vino nel frattempo diventato famoso, e non potendo quel signore “pretendere” la sua proprietà dallo Stato… scelse la via del silenzio accontentandosi di ridurre l’estensione della vigna in larghezza e lunghezza. Nel programma TV é poi apparso il figlio del famoso vignaiolo il quale, imperterrito, continua a coltivarla lungo una striscia ridotta al minimo che corre a pochi metri dal lago. L’attuale produzione non é più paragonabile a quella del padre, ma la sua perseveranza ha salvato il vitigno e conservato il nome di quel vino pregiato che ha portato più lustro alla Svizzera di quel tratto di ferrovia…

Una bella storia, che ci ha consentito, tra l’altro, di capire che il famoso Castello era stato costruito dai Savoia per controllare la strada romana che passa tuttora dietro Chillon e portava le Legioni romane in Francia e Germania quindi, le Chateaux non aveva la funzione di controllare il LAGO, come tutti credono ancora, ma era una vera FORTEZZA con tanto di segrete e tante storie vere di condannati terrestri e non di pirati lacustri!

L’intermezzo ginevrino con l’intervista al vignaiolo “mezzo abusivo” del Lago Lemano, mi ha fatto venire in mente un personaggio che conobbi da ragazzino ad Ortona. La guerra era finita da poco lasciando miseria, macerie e quasi nulla per poterla ricostruire in breve tempo dalle fondamenta. Ma si doveva ripartire al più presto per vincere la fame per sopravvivere…

Come dicevo poc’anzi, il mio mondo girava intorno a quel che rimaneva della ferrovia e ai suoi instancabili e valorosi personaggi. Tra questi c'era un'altra figura caratteristica: quella del 'Sorvegliante' il quale camminava lungo la ferrovia per controllare lo stato dei binari che allora erano lunghi 15/20 mt. che poggiavano su delle piastre di ferro fissate con grossi bulloni su traversine di legno di quercia, imbevute di catrame ed immerse dentro un letto di pietrisco.

Il sorvegliante, per la verità, si chiamava tecnicamente il 'guardialinee'. Lo vedevo tutti i giorni: estate e inverno, e mi incuriosiva perché camminava lungo la rotaia, come un funambulo su un filo. Spesso camminava, da perfetto equilibrista, sul binario guardando attentamente i perni che univano le rotaie ed i bulloni che le tenevano legate alle traverse (che con le sollecitazioni del treno si allentavano). Aveva una specie di borsa a tracolla dove c'era, oltre al panino preparato dalla moglie, due petardi da mettere su binario prima di una eventuale interruzione per allertare il macchinista e far fermare il treno, una piccola tromba per emettere un suono per lo stesso scopo ed una bandiera rossa da segnalazione. Sempre a tracolla, incrociata con l'altra, aveva una lunga chiave di ferro dietro la schiena che serviva per riavvitare le grosse viti che univano i binari, ed i bulloni e relativo serracaviglie (o più propriamente chiavarda). Oltre tutto ciò, aveva in mano la classica lanterna con i vari colori da usare nelle gallerie.

Ogni giorno controllava la linea da Francavilla ad Ortona che misura esattamente 13 km e penso che tornasse indietro con qualche treno perché mai lo vidi camminare nel senso contrario.

L'ho visto tutti i giorni fino agli anni ‘50/’60. Ricordo che con il vento al traverso rollava e beccheggiava sotto i suoi “ferri” come un bragozzo che rientrava in porto fuggendo dalla burrasca in arrivo.

Lo chiamavamo lo STORTO, ma storto non era, bassotto sì, ma il suo fisico era forte, tarchiato e ben proporzionato. Forse si chiamava STORTO di cognome …

Casa nostra era situata a pochi metri dalla ferrovia e spesso papà, (ex ferroviere), specie con il caldo d'estate, offriva qualcosa da bere a questa persona che faceva quel lavoro così particolare ed importante che pochi altri conoscevano.

Da bambini, cercavamo di non farci vedere dallo Storto per un motivo molto semplice: ad una certa distanza dalla stazione, da entrambi i lati, c'era un piccolo traliccio sul quale era applicato un braccio pitturato di bianco e di rosso, con dei catarifrangenti, che a seconda di come era posizionato indicava al macchinista del treno se fermarsi prima di arrivare alla stazione, oppure no.

Se il braccio era a 90º rispetto al palo che lo sorreggeva, indicava lo STOP; se ruotava verso il basso di 45º, indicava il Via Libera. Questo braccio veniva mosso con delle leve opportunamente fulcrate con dei grossi contrappesi, direttamente dalla stazione, per mezzo di cavetti d'acciaio che erano sorretti da paletti a circa venti metri di distanza, e per limitarne l'attrito, scorrevano nella gola della ruotina metallica in una puleggia.

Non é difficile immaginare che noi bambini davamo la caccia a quei cuscinetti a sfera svedesi che erano le GOODYEAR delle nostre cariole da corsa con le quali gareggiavamo lungo una strada in discesa del paese.

Avendo la coscienza sporca, il guardialinee era l’uomo burbero e misterioso da tenerci a distanza di sicurezza…


M/ ESPERIA

Di quel brav’uomo si raccontavano tante storie, anche un po’ strane per noi ragazzini che allora non capivamo... Si diceva che durante le brevi soste tra un controllo e l’altro della linea, trovasse il tempo per accudire alcune vigne che producevano un vino bianco eccezionale che nessuno, si dice, avesse mai assaggiato…

Poi, un giorno mio padre ci svelò alcuni arcani misteri:  “Rocco Storto” era il suo vero nome e cognome, aveva un figlio di nome Franco che era imbarcato come ufficiale sulla M/n ESPERIA, una famosa ed elegante nave passeggeri di linea della Società Adriatica di Navigazione.

Lo Storto, nella sua professione di grande camminatore solitario al servizio delle FFSS, aveva sviluppato una sua particolare spiritualità che concentrava sul figlio navigante. Conosceva i suoi turni di guardia a bordo e, sapendo che anche il figlio era solo con sé stesso come tutti i marinai, aveva preso la strana abitudine di guardare verso il mare ogni dieci metri di rotaia cercando di immaginare suo figlio Franco su quella bella nave bianca viaggiare lungo l’Adriatico da Istambul verso Venezia e viceversa.

Era un modo come un altro per passare il tempo con suo figlio, per parlargli e aggiornarlo sui fatti della famiglia, del lavoro e del mare… in fondo navigavano insieme via terra e via mare lungo una linea di sabbia bagnata che la fantasia riduceva al parlarsi come in una stanza senza finestre dove il vento e gli spruzzi in inverno erano gli stessi che bagnavano i loro volti di guardia sulla rotta tracciata per entrambi.


Vigne e binari

E il vino? Già il vino era il loro segreto, l’oggetto di tante conversazioni che un giorno li avrebbe visti brindare insieme intorno a quella damigiana che era stata riempita con tanto orgoglio in una terra di nessuno, in uno spazio rubato ad un mondo ignaro di quel nettare che si nutre di salino, schiaffeggiato dai colpi di vento diffusi dal treno che passa… e accarezzato dall’odore di quella specie di bitume che gli antichi romani usavano per rendere stagne le anfore.

Da tempo i binari sono saldati, le traversine di legno sono state sostituite con quelle di cemento e la figura del “guardialinee” non esiste più. Lo “Storto” è stato sostituito da una apparecchiatura posta sotto alcuni locomotori che rilevano le più piccole anomalie, ma ogni tanto qualcosa non funziona e non registra sul display che un pezzo di rotaia é saltato, come nell'ultimo deragliamento dove ci sono stati tanti morti...

Anche quel romantico nettare é scomparso da quella zona insieme al suo custode, ma forse qualcuno, al contrario di quanto si vociferava in giro all’epoca lo aveva assaggiato e se n’era innamorato.

L’antico filosofo greco “dalle spalle larghe” (Platone) sosteneva che le idee del Supremo circolano liberamente nell’aria, l’uomo le cattura, le fa sue e se le vende….

Sta di fatto che un vino simile coltivato a terrazze sulle sponde del lago di Ginevra lungo i binari della ferrovia, ricorda ancora il gusto speciale ed il profumo del vinello dello STORTO di Ortona.

Anche i due nomi col marchio DOC dicono qualcosa:

Chasselas é il suo nome sul lago Lemano

Coccocciolà si chiama ad Ortona sul nostro mare Adriatico.

Se siete appassionati della materia potete leggere nel quadretto fotografico riportato qui sotto alcune curiose coincidenze, tra cui la parentela tra lo Chasselas e la Cococciolà.

I misteri sono quasi sempre inspiegabili: nascono, muoiono e risorgono con molta facilità… ma trattandosi questa volta di un vino molto speciale, siamo portati a pensare che Rocco, prima di lasciare questo mondo,  abbia provveduto a consegnare in buone mani la formula magica del suo vitigno.

Noi sappiamo di certo che i suoi segreti non erano finiti nelle segrete stanze degli industriali del vino e di certi enologi che usano le polveri che non sanno di salino, né di vento e non profumano di rude catrame vegetale… ma ce lo vendono come vino “navigato” e noi “abbocchiamo” perché abbiamo perso la memoria e la fantasia dell’improvvisazione e dell’arrangiarsi con quel poco che si aveva e che mai più ritornerà. Il mondo va avanti così, senza ricordi e neppure rimpianti. Ma in quale direzione?

Noi vogliamo credere che le vigne di Rocco Storto siano ancora vive, magari segretamente, nella sua terra e possano allietare le serate dei suoi estimatori di oggi affinché il suo ricordo rimanga lungo il MARE ADRIATICO per sempre!


Le persone di una certa età ricordano il PERGOLONE come un vino bianco da tavola squisito! Lungi da noi l’idea di metterla in politica, tuttavia, con grande rammarico, dobbiamo informare il lettore che questo genuino, popolare ed apprezzatissimo vitigno ortonese, non viene più coltivato su grande scala in quanto gli é stato preferito un gran numero di vini scadenti ma molto più pubblicizzati…

ALBUM FOTOGRAFICO

 


Capotreno


Casellante


Macchinista


Una fase della lubrificazione


Ferrovie abbandonate


Incidente accaduto nella notte del 25 febbraio 1956

FINE

Per gli appassionati del mondo ferroviario segnalo il seguente LINK relativo al Museo del Treno di Montesilvano (Pescara):

https://www.tripadvisor.it/Attraction_Review-g194834-d10375627-Reviews-Museo_del_Treno-Montesilvano_Province_of_Pescara_Abruzzo.html

Nunzio CATENA - Carlo GATTI

Rapallo/Ortona, 18 Agosto 2018


23.10.1971 - INCENDIO SULLA ANNA C.

23.10.71

INCENDIO

a bordo della nave passeggeri

ANNA C.”

(Ex Southern Prince)

LA ANNA C. FU LA PRIMA NAVE PASSEGGERI

DELL’ARMAMENTO COSTA

SOUTHERN PRINCE - Fece una brillante carriera durante la Seconda guerra mondiale. Partecipò allo Sbarco in Normandia

ANNA C. A Genova, Ponte dei Mille Levante n.3

Anna C. (ex-Southern Prince - Prince Line)

Breve Storia della Southern Prince

- 1929: Varo

- 1940: Requisita dalla Marina Reale Britannica e ribatezzata HMS Southern Prince

- 1941: Silurata da un U.Boot tedesco

- 1944: Partecipa allo Sbarco in Normandia

- 1946: Viene restituita alla Prince line

- 1947: Viene acquistata dalla Costa Crociere

- 1971: Subisce un grave incendio a Genova

- 1972: Viene demolita presso i Cantieri Lotti di La Spezia

La ANNA C. fu acquistata nel 1947, entrò in linea per Rio de Janeiro e Buenos Aires l’anno successivo, dopo aver compiuto importanti lavori strutturali. La prima nave passeggeri della Flotta Costa iniziò il servizio di linea da Genova per Buenos Aires il 31 marzo 1948. Innovativa e pionieristica, era dotata di aria condizionata in tutti gli alloggi per i passeggeri. Con Anna C. inizia un sodalizio professionale con l’architetto Giovanni Zoncada e per trent’anni gli interni delle navi Costa porteranno la sua firma. Tre anni dopo sostituì i motori principali e la nave raggiunse i 20 nodi di velocità. Nel 1959 aumentò la capacità-passeggeri e portò la propria stazza a 12.030 grt. Per quasi tutti gli anni ’60, la Anna C. trascorse i mesi invernali ai Caraibi e quelli estivi nel Mediterraneo. Fu demolita a La Spezia nel 1972.

ANNA C. (ex Southern Prince)

Varo....................U.K. 1929

1a - Stazza Lorda........10.917 tonn.

2a - Stazza Lorda........12.030 tonn.

1a Lunghezza.............157.3   mt.

2a Lunghezza.............159.7   mt.

Armatore....................COSTA LINE

ZONA INCENDIO

Porto di Genova – Calata Sanità – La nave, ormeggiata di punta

(due ancore-poppa a terra), era in disarmo nell’attesa di essere                   trasferita a La Spezia per la demolizione, oppure d’essere venduta ad Armatori Greci per l’impiego in Mediterraneo.

I FATTI

La prima nuvola di fumo nero si sprigionò dalla Anna C. alle 13.05.

Scattò immediatamente il segnale d’allarme e dopo qualche minuto

giunsero in banchina, sotto la poppa della nave, le prime autobotti dei Vigili del fuoco e le Autorità Marittima e Portuale.

Via mare, arrivarono prontamente le lance dei VVFF e due potenti rimorchiatori. Dal cielo comparve l’elicottero del maggiore Enrico che compì numerose evoluzioni di ricognizione.

I PERICOLI

- La nave era vecchia ed in quell’occasione aveva un equipaggio ridotto.

- A calata Sanità vi erano numerosi depositi di carburante a distanza ravvicinata.

- Un’altra nave passeggeri, la Galaxy Queen era ormeggiata, anch’essa di punta, ad una decina di metri soltanto, dalla Anna C.

LE OPERAZIONI DI SOCCORSO

Alle 13.15 iniziarono le prime operazioni di raffreddamento delle lamiere. A bordo del rimorchiatore d'altura TORREGRANDE, il generale Luigi Gatti, Presidente del Consorzio Autonomo del porto del porto, riuniva a rapporto il Comandante della ANNA C. Cap. Stuparich, il colonnello L.Fignone, dirigente dell'Ufficio Marittimo del Cap, il colonnello A. Sala, l'ing. Capuccini, comandante dei VVFF.

Ne scaturiva l’ordine di spostare la Galaxy Queen.

La prima squadra dei VVFF localizzò l’incendio nella zona poppiera, dove lingue di fuoco fuoriuscivano dagli oblò d’ambedue le murate della nave.

- Verso le 14.00, per effetto delle circa 400 tonnellate d’acqua imbarcate in funzione antincendio, la nave sbandò a dritta. Furono subito attivate le pompe d’esaurimento a grandi masse del Torregrande e si rallentò al minimo l’immissione d’acqua.

- Furono portati a terra e a bordo della GALAXY QUEEN dei cavi per frenare o trattenere la ANNA C. da uno sbandamento  fuori controllo, preludio di un possibile quanto tragico affondamento in porto.

- Nel frattempo le temperature e le emissioni di gas a bordo e nei dintorni raggiunsero limiti insopportabili.

- Verso le 15.00 fu ricoverato un vigile del fuoco, svenuto e con sintomi d’asfissia: guarirà in sette giorni.

“Muoversi dentro una nave in fiamme, dove il pavimento scotta sotto i piedi, le pareti sono roventi e l’aria in circolazione, satura di gas d’ogni genere, può uccidere in pochi minuti l’uomo più robusto”.

Commentò sottovoce un anziano volontario del pronto soccorso.

Erano cinquanta i vigili del fuoco impegnati sull’Anna C. Salivano a bordo a due per volta con l’autoprotettore sulle spalle. Uno aveva il compito di gettare la schiuma e l’acqua sulle fiamme, l’altro con il compito di gettare acqua sul compagno. Le squadre si alternavano con ritmi di mezz’ora e ad ogni rientro si faceva il punto della situazione a bordo del Torregrande.

L’incendio era scoppiato nel ripostiglio della biancheria e si propagò poi verso le cabine equipaggio e quelle dei passeggeri sui Ponti B-A fino agli alloggi del Ponte C e del Ponte passeggiata, dove andarono distrutti il cinema e la Chiesa.

Alle 17.00 la nave era  passata da 12° a 6° di sbandamento.

All’interno della nave si registrarono cedimenti di pavimenti al Ponte/A, mentre i vigili lottarono ancora un paio d’ore contro gli ultimi focolai d’incendio.

Alle 19.00 il generale Luigi Gatti dichiarò che l’incendio sulla Anna C. poteva considerarsi domato.

I PROTAGONISTI

Come partecipanti e testimoni dell’opera di soccorso alla nave, portiamo sempre vivo nella memoria il coraggio e l’efficienza di tutti gli addetti alla sicurezza del nostro porto.

*L’autore di questo articolo era, in quella drammatica occasione, il comandante del M/r Torregrande.

ALBUM FOTOGRAFICO

ANNA C.


Carlo GATTI

Rapallo, 23 Gennaio 2018